Pensiero
Il termine pensiero indica in primo luogo la facoltà del pensare, cioè l'attività psichica mediante la quale l'uomo acquista coscienza di sé e della realtà che egli considera esterna a sé stesso, e in secondo luogo definisce ciascuno degli atti del pensare, ciascuna delle rappresentazioni che nascono nella mente dell'uomo.
La parola pensiero designa una delle nozioni in apparenza più familiari, ma nello stesso tempo più discusse e controverse, dell'intera cultura occidentale. Non a caso è stato detto che una storia sistematica dei significati di tale nozione si identificherebbe, per più versi, con la storia di questa stessa cultura. La diffusa definizione di pensiero come complesso delle elaborazioni cognitive e riflessive prodotte dall'uomo è, certo, una prima plausibile caratterizzazione. Bisogna tuttavia comprendere che, nonostante la sua apparente generalità, questa definizione appare già fortemente selettiva e anche opinabile. In particolare, essa sembra negare capacità pensanti a esseri non umani, a cominciare dagli animali, mentre l'etologia moderna ha evidenziato in quale misura certi animali mostrino di possedere considerevoli capacità di pensiero. In secondo luogo, si dà per scontato che il pensiero sia una 'cosa' che si può definire e delimitare in modo rigoroso, attribuendola alle cosiddette funzioni psichiche superiori, proprie essenzialmente dell'essere umano. E se invece esso fosse una sorta di attività coincidente con processi naturali, di cui l'uomo coglie solo una piccola parte (quella che lo riguarda in quanto essere cosciente), generalizzandone poi antropocentricamente la portata? O se, all'opposto, 'pensiero' fosse solo un particolare termine o costrutto teorico - parziale e rivedibile come tutti i costrutti teorici - con il quale si designa unicamente una determinata classe di atti o di eventi?
In realtà, alle origini della nostra cultura, il pensiero era concepito proprio come una componente della natura vivente, così pervasiva da rendere inimmaginabile non solo una sua attribuzione in esclusiva all'uomo, ma anche una sua differenza rispetto alle cose e alle vicende che oggi consideriamo non pensiero ma piuttosto oggetti del pensiero. Da questo punto di vista, la prima grande rivoluzione venne compiuta quando i sofisti greci (5°-4° secolo a.C.) separarono l'atto del pensiero (legato non più alla natura ma semmai alla pratica del linguaggio) dalle cose pensate, e attribuirono tale pensiero agli uomini. Ma questa stessa svolta epocale contribuì, insieme ad altre, a generare nuovi cruciali interrogativi. Che cosa produce il pensiero? Un ente dichiaratamente metafisico, come per es. l'anima, oppure qualcosa di non propriamente metafisico e tuttavia autonomo dal corpo, come per es. la psiche, la mente, lo spirito? O invece il pensiero, pur distinto dalle cose materiali, va concepito come null'altro che il prodotto di uno o più organi corporei, a cominciare dall'apparato neurocerebrale?
Attraverso un cammino estremamente travagliato e complesso, il sapere moderno (a partire almeno dall'Illuminismo) è giunto alla conclusione che il pensiero può essere esaminato senza ricorrere a referenti oltremondani. Assai meno univoco, invece, l'atteggiamento assunto nei confronti dei concetti di psiche, mente e spirito. Da un lato essi parevano esprimere una differenza, per alcuni difficilmente negabile, tra gli atti di pensiero strettamente intesi e i processi di tipo neurocerebrale, endocrinologico e simili. Dall'altro, però, altrettanto forte era, in altri, il proposito di eliminare anche i concetti appena indicati e di ricondurre il pensiero unicamente all'attività di determinate funzioni o specifici organi corporei. Dietro quest'ultimo orientamento operavano, oltre ad alcune evidenze empiriche, anche forti motivazioni epistemologiche e psicoantropologiche. Ricondurre e ridurre il pensiero a una dinamica solo corporea significava abolire ogni residuo riferimento extrascientifico, semplificare lo studio dell'uomo, riportare la sua dimensione forse più enigmatica entro un orizzonte di indagini rigorosamente sperimentali. Del resto, le riserve dei critici di tale orientamento apparivano tutt'altro che irrilevanti. La maggiore preoccupazione era che l'identificazione del pensiero con l'attività neurocerebrale diminuisse, o addirittura cancellasse, molte importanti componenti e modalità del pensiero stesso: i suoi aspetti simbolico-culturali, il suo radicamento storico-sociale, la sua fisionomia soggettivo-personale.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento, nel dibattito sulla natura del pensiero è entrato un nuovo interlocutore: il sapere computazionale e la cosiddetta intelligenza artificiale (v. intelligenza). La nuova tesi avanzata sul tema che ci interessa era che il pensiero non è né corporeità né, tanto meno, cultura: è, invece, forma, calcolo, artificio. Intuita già nel Seicento (Th. Hobbes aveva esplicitamente definito il pensiero come, appunto, un 'calcolo'), questa tesi era stata sviluppata dalla riflessione logico-matematica del secondo Ottocento e del primo Novecento. Ora, però, essa ritornava rafforzata sia da nuove ricerche teoretiche sia, e soprattutto, da molte sorprendenti applicazioni tecnologiche. Opportunamente analizzato, il pensiero si configurava come una serie di operazioni certo complesse, ma tutte formali o formalizzabili. Ciò implicava che, almeno in linea di principio, esse erano riproducibili da parte di apparati capaci (e lo erano) di obbedire a opportune regole elaborate dall'uomo. L'ulteriore, e ancora più rivoluzionaria, conseguenza era che atti o comportamenti umani, nella misura in cui obbedivano a determinate 'istruzioni' (formalizzabili) del pensiero potevano, sempre in linea di principio, essere riprodotti (il termine tecnico è 'simulati') da parte di macchine o di 'sistemi esperti' dotati di idonei programmi. Nonostante alcune grandi scoperte sulla natura e il funzionamento del pensiero, le conoscenze attuali a questo proposito sono in verità meno sviluppate di quanto si creda comunemente. Anche alcuni principi teorici generali delle scienze, in vario modo coinvolte con tali studi, sono stati oggetto di vivaci dibattiti.
Particolarmente discussa è stata proprio l'interpretazione in chiave computazionale del pensiero. Già negli anni Settanta un filosofo della mente come H. Dreyfus e un brillante costruttore di computer 'pensanti' come J. Weizenbaum avevano espresso perplessità radicali sulla legittimità di attribuire un vero e proprio pensiero (o una vera e propria intelligenza) alle macchine. Per essi, il primo compito di un sapere scientifico conscio dei propri limiti non meno che delle proprie possibilità era di dire con molta chiarezza, per impiegare il titolo dell'opera più nota di Dreyfus, Che cosa i computer non possono fare (1972). A questo proposito, uno dei principali assunti dello studioso americano era che i computer, anche quando eseguono operazioni assai sofisticate, non pensano: non pensano, se attribuiamo al pensiero non solo e non tanto la capacità di eseguire specifiche operazioni precodificate da determinati programmi, quanto la capacità di riflettere, giudicare e decidere in rapporto a diversi criteri di opportunità, anche etica, il complesso di azioni da compiere.
Negli anni Ottanta, ulteriori perplessità sulla legittimità di attribuire alle macchine la capacità di pensare sono state espresse da altri importanti studiosi, a cominciare dal filosofo americano del linguaggio e della mente J. Searle. Tra le loro principali tesi vi è un'interpretazione del pensiero assai diversa da quella sostenuta dai seguaci del computazionalismo e dagli alfieri dell'intelligenza artificiale. Il pensiero, per essi, non è qualcosa da poter ridurre a una mera serie di atti formalizzabili. Per riprendere un noto assunto di Searle, la capacità puramente formale delle macchine esprime al massimo quella che si potrebbe chiamare la sintassi del pensiero. Ma il pensiero umano non si arresta a questo. Esso include anche una semantica: è, cioè, in grado di cogliere, differenziare ed elaborare secondo i propri interessi e valori i significati degli atti che compie e delle cose cui si riferisce. Ora, tale facoltà - unita a quelle, altrettanto rilevanti, di valutare le situazioni di vita in tutta la loro complessità esistenziale, di produrre pensieri caratterizzati da affetti ed emozioni, di operare in rapporto a fini volutamente ambigui, o magari di concepire inganni e menzogne - può appartenere solo a un ente costituito come un essere umano. Gli ingranaggi del computer anche più sofisticato non sono capaci di svolgere questo genere di attività pensante. Se una macchina non fa 'veracemente' ciò per cui è programmata - ha scritto il filosofo H. Putnam -, non vuol dire che intende mentire: vuol dire semplicemente che è guasta.
Parallelamente a questa fase di crisi di un'interpretazione computazionale del pensiero, è invece fortemente cresciuta un'altra interpretazione di tipo biologico, in senso lato. Il suo principio ispiratore è che la comprensione dell'essere e dell'agire del pensiero può arrivare solo da un'indagine biogenetica e biofisica dell'ente che realmente pensa, ossia dell'essere umano. Entro questa prospettiva una particolare risonanza ha avuto, più forse per la radicalità dei suoi obiettivi che per i risultati raggiunti, l'opera della sociobiologia. È vero che l'obiettivo del suo esponente più autorevole, lo scienziato americano E. Wilson, non era primariamente lo studio del pensiero in quanto tale; tuttavia, in vari suoi libri, al pensiero e a varie sue caratteristiche si fanno riferimenti assai sostanziosi. Per Wilson il pensiero e l'intera vita cosiddetta superiore dell'essere umano vanno ricondotti all'azione del corredo genico dell'essere umano stesso. Tutte le elaborazioni psichiche, anche quelle più complesse, sono solo altrettanti prodotti di determinati geni. Perfino il pensiero morale, e quanto vi si correla in sede simbolica, progettuale, esistenziale, può e deve essere colto in ben precisi sistemi geneticamente organizzati, dei quali prima la neurofisiologia e poi, con maggior rigore, la biogenetica forniranno l'identikit preciso nonché le leggi del loro agire (leggi neodarwiniane, sostiene Wilson, in rapporto alle quali i geni perseguono soprattutto il loro adattamento e la loro sopravvivenza nell'ambiente dato).
Non è ovviamente possibile soffermarsi sull'opera di quanti hanno cercato di cogliere la natura e il funzionamento del pensiero attraverso indagini di tipo biologico. Si tratta, tra l'altro, di ricerche ancora aperte e, nei casi più significativi, difficilmente riassumibili in un linguaggio non specialistico. D'altronde, le odierne indagini sul pensiero sono ben lungi dall'esaurirsi nelle due direttrici, quella computazionale e quella biologica, cui abbiamo finora accennato. Esaminando il contributo di altri studiosi, una delle cose che colpiscono è la persistenza, nelle indagini che ci interessano, di autori e temi appartenenti a un più o meno remoto passato: da R. Descartes a J. Locke alla celebre querelle sulla natura innata o acquisita delle strutture fondanti del pensiero. Da questo punto di vista, particolarmente significativa appare la ripresa di una prospettiva innatistico-cartesiana.
Nel 1966, N. Chomsky, uno dei maggiori studiosi prima del linguaggio e poi della mente, intitolava emblematicamente Linguistica cartesiana una delle sue più rilevanti opere storico-teoriche. A partire dagli anni Settanta, Chomsky ha ulteriormente sviluppato una filosofia del mentale d'ispirazione innatistica, al cui interno il pensiero opera in sede generale secondo modalità non riconducibili a esperienze esterne, ma connesse con la struttura psicofisica e biogenetica dell'essere umano. Neocartesiano si è definito anche J. Fodor, un altro dei più autorevoli punti di riferimento delle indagini sulla mente e sul pensiero. In un suo importante testo del 1975 egli sosteneva con forza l'esistenza di un vero e proprio 'linguaggio del pensiero': un linguaggio interiore, correlato con l'essere stesso del soggetto umano, attraverso il quale si svolgono le operazioni della mente in quanto elabora dei processi che compongono, appunto, il pensiero. Nel 1983, in un'altra opera assai ambiziosa, Fodor interpretava il pensiero (richiamandosi direttamente a Descartes) come un sistema strutturato secondo 'moduli', da un lato innati e non ulteriormente scomponibili, dall'altro capaci di aggregarsi in maniere molteplici e mutevoli. Nel saggio citato e in altri successivi Fodor, e con lui molti altri filosofi della mente, hanno avanzato proposte variamente interessanti sulla natura del linguaggio del pensiero, sulle rappresentazioni elaborate dal pensiero medesimo, e sui rapporti tra quest'ultimo e la realtà esterna. L'impressione d'assieme è che l'interpretazione del pensiero cui ci stiamo riferendo tenda più a delineare modelli astratti sempre più sofisticati che non a interrogare il pensiero stesso entro un più concreto e diretto orizzonte psicoantropologico.
Dinanzi a questo orientamento non è mancato qualche studioso che ha riproposto l'attualità di alcune concezioni di J. Piaget. Considerato uno dei padri fondatori di una psicologia realmente scientifica, il grande scienziato svizzero ha dedicato una parte cospicua della sua vasta produzione proprio a una psicologia del pensiero. Attraverso un lavoro insieme teorico e sperimentale, egli ha cercato di definire con nuova precisione i caratteri peculiari e i processi evolutivi di molte strutture del pensiero (soprattutto del pensiero cognitivo). Uno degli aspetti più interessanti della sua opera consiste nello sforzo di mediare organicamente una prospettiva di tipo innatistico con una prospettiva di tipo esternalistico. In effetti, anche Piaget è convinto che certi tipi strutturali dell'agire pensante sono inscritti nelle strutture psicofisiche archetipiche dell'essere umano, e che la loro evoluzione obbedisce a leggi appartenenti a tali strutture. D'altra parte, egli sottolinea anche da un lato la relazione che collega tra loro tali principi in un insieme relativamente unitario, dall'altro la crucialità dell'interazione tra quegli stessi principi e l'ambiente esterno. Da tutto ciò deriva che uno studio serio del pensiero deve anzitutto considerare le funzioni pensanti entro un più ampio sistema psichico, e poi cogliere i processi dinamici di quest'ultimo in rapporto a una realtà esterna che gioca pur essa un ruolo assai importante. Gli innegabili meriti di Piaget non cancellano gli aspetti più discutibili, e discussi, del suo lavoro.
Per quanto riguarda la questione del pensiero, si sono rilevati nello psicologo svizzero il privilegio accordato agli aspetti cognitivi rispetto ad altre componenti non meno importanti (la fantasia, l'immaginazione ecc.), la tendenza a parlarne come di una sorta di universale relativamente indipendente dai pensieri irriducibilmente diversi dei singoli individui, la correlativa ambizione di stabilire in modo spesso un po' rigido modi, tempi e leggi dell'evoluzione del pensiero medesimo, con un'inadeguata attenzione per le possibili azioni (stimolanti o limitanti) dei contesti esterni sulla dinamica interna del pensiero. Sotto un certo profilo, è proprio da una presa di distanza critica sia dal piagetismo sia (e soprattutto) dagli indirizzi descritti in precedenza che si è andata sviluppando nel sapere contemporaneo un'immagine del pensiero sotto vari profili più aperta e convincente. Il suo primo principio è che il pensiero, ben lungi dall'essere una cosa - tanto meno una cosa universale e dal significato univoco - è un costrutto teorico-linguistico.
Se ciò è vero, allora le domande riguardanti il pensiero sono non tanto domande ontologico-oggettive, del tipo "Che cosa è il pensiero?", quanto domande ermeneutiche o, per alcuni, ermeneutico-pragmatiche, del tipo "Quali sono i significati del termine-concetto pensiero e a quali funzioni teoriche e pratiche rispondono?". Non sfugga, di questa formulazione, la forma plurale. Essa esprime un secondo principio di carattere generale, secondo il quale ciò che la mente umana produce in ogni ambito di riflessione (ivi compreso quello del pensiero) è una serie di interrogativi fortemente differenziati e correlati, almeno inizialmente, con problemi particolari. La stessa cosa potrebbe essere riespressa così: gli uomini si pongono determinate domande, nel nostro caso sul pensiero, spesso in modi apparentemente generalissimi, ma che in realtà sono sempre prodotti e delimitati da congiunture teoriche di carattere storicamente determinato, di frequente assai diverse tra loro. Ciò non implica che le domande/risposte su una certa questione enunciate in un periodo x risultino necessariamente incomprensibili a individui vissuti in un periodo y (anche se ciò può accadere). Implica piuttosto che tutte le domande/risposte enunciate dagli esseri umani includono, in misura e maniera diverse, presupposti e fini peculiari che è necessario cogliere quando le si vogliano comprendere in modo appropriato.
Ritornando, sulla scorta di questo principio, al problema che ci interessa, ciò che dobbiamo chiederci è essenzialmente il senso e l'uso del costrutto pensiero nell'ambito della cultura contemporanea. Orbene, il primo interrogativo che viene usualmente sollevato al riguardo è che cos'è (o a che cosa 'serve') il pensiero in rapporto al corpo. La crucialità di tale domanda è provata dal fatto che, in una certa sua versione, essa ha attraversato, prima del nostro tempo, anche l'intera modernità, dall'età di Descartes in poi. Naturalmente oggi tale domanda ha assunto un carattere e un contenuto correlati con tutto quanto sappiamo sul corpo. Ma la risposta che le viene di solito data non è, né forse può essere, univoca. Per un verso una parte del sapere scientifico odierno, come si è già accennato all'inizio, ha enunciato il principio che il cosiddetto pensiero è, o almeno sarà un giorno, identificabile con il cosiddetto corpo, o più precisamente con l'apparato neurocerebrale. Per un altro verso, però, un'altra parte del sapere di oggi, soprattutto (ma non soltanto) del sapere filosofico, ha prospettato la tesi che il pensiero, pur avendo vincoli inderogabili con l'apparato neurocerebrale (e probabilmente con altri apparati corporei), non si può identificare completamente con il corpo. Più esattamente, vi sono numerose domande relative al pensiero alle quali le bioscienze e/o le neuroscienze non possono rispondere in modo soddisfacente. È il caso, per es., delle domande sulla 'giustezza' di un certo pensiero e sul suo senso simbolico, o sul rapporto che esso ha con l'esistenza di un individuo.
Uno dei quesiti generali che sembra derivare direttamente da quanto si è detto riguarda la natura per così dire metanaturale del pensiero: cioè la natura di quella parte del pensiero stesso che, nell'opinione di molti, oltrepassa le possibilità cognitive delle bioscienze e delle neuroscienze. La risposta è che tale parte non è affatto metanaturale, se con tale termine si allude a una qualche dimensione o provenienza metafisica. Essa è, assai più semplicemente, caratterizzabile con i termini culturale e sociale. In effetti, per riprendere le domande indicate sopra, è chiaro che la giustezza, il senso simbolico di un pensiero nonché il suo rapporto con l'esistenza di un individuo rimandano a un territorio per l'appunto socioculturale che appare popolato di significati e valori. Se si riflette bene, non si tarderà a riconoscere che un pensiero completamente privo di un qualche senso e di un qualche valore (anche, si badi, nelle accezioni più inedite e insolite dei due termini, ivi incluse le accezioni negative: il senso come una più o meno intenzionale insensatezza, il valore come un certo determinato disvalore) non è un vero pensiero: è qualcosa di altro.
In realtà, un ulteriore esame del tema in questione ci conduce a scoprire che le due determinazioni 'territoriali' di cui sopra non bastano a localizzare adeguatamente il pensiero. Il terzo interrogativo generale su di esso riguarda precisamente il problema di una sua ulteriore localizzazione. La risposta a tale riguardo non sembra troppo difficile. Finora si è parlato del pensiero come di una sorta di entità autonoma e autosufficiente (fatti salvi, ovviamente, i suoi indispensabili rapporti con la corporeità). Ma a ben guardare un pensiero siffatto non esiste: è solo una figura astratta. Affinché diventi concreta occorre 'incarnarla' in un soggetto che le dia non soltanto un'adeguata struttura psicofisica, ma anche una serie di ulteriori caratterizzazioni senza le quali il pensiero non è vero pensiero. Tra queste caratterizzazioni figurano la capacità di cogliere le strategie tramite le quali l'ente-che-pensa organizza non tanto il pensiero in generale quanto il proprio pensiero, l'ulteriore capacità di definire il 'ciò' a cui si pensa in relazione con altre istanze dell'ente pensante, la tendenza a differenziare l'oggetto di un certo pensiero da modalità del pensiero (dal sogno a occhi aperti alla fantasia) che di solito vengono distinte dal pensiero in senso stretto, infine l'esigenza di organizzare il pensiero secondo determinati principi categoriali. Naturalmente vi sarebbero numerose altre 'proprietà' del pensiero da menzionare. Ma qui il proposito principale non è tanto di dare una mappa esauriente dell'attività pensante, quanto di evidenziare due aspetti di tale attività che sembrano avere un rilievo cruciale ma, oggi, alquanto trascurato. Alludiamo a quelle che si potrebbero chiamare le dimensioni particolare-soggettiva e intenzionale del pensiero.
Da un lato bisogna sottolineare, o ripetere, che il pensiero è sempre il pensiero di un soggetto, il quale lo determina in modi che, fino a un certo punto, sono i suoi propri modi. Dall'altro va detto che pochi pensieri sono pensieri privi di qualsiasi, pur labile, oggetto. È quanto dire che il pensiero, in ciò non diversamente dalla coscienza secondo la nota interpretazione datane da E. Husserl, è (quasi) sempre pensiero intenzionale, pensiero di qualcosa. Tutto questo induce ad attribuire un particolare peso, insieme formativo e delimitativo, al ruolo del soggetto in rapporto alla produzione del pensiero. Quando si parla del pensiero in sé si compie una generalizzazione certo legittima, e in alcuni casi perfino preziosa. Resta tuttavia un fatto cui si è già accennato sopra, ossia che questo tipo di pensiero è essenzialmente un'astrazione concettuale: ciò che veramente esiste è il complesso dei singoli pensieri elaborati dai soggetti concreti. La principale conseguenza di questo è che, fatti salvi i diritti di quanti studiano il pensiero nella sua dimensione di pensiero generale puro, ad altri studiosi è aperto l'amplissimo campo dei pensieri particolari-impuri: particolari perché elaborati da individui particolari, impuri perché colti nel loro agire in relazione a contenuti e obiettivi che complicano l'asettica architettura attribuita alla funzione pensante da vari indirizzi filosofici, a partire da quello kantiano e neokantiano.
È perfino superfluo aggiungere che ogni indagine sui pensieri particolari-impuri non può non implicare una sorta di idea di partenza (di 'precomprensione', come direbbero gli studiosi di ispirazione ermeneutica) intorno a ciò che il pensiero in sé può essere o esprimere. Come si potrebbero, altrimenti, individuare, cogliere e giudicare i pensieri particolari-impuri in questione? Si tratta solo di evitare l'entificazione di tale pensiero in sé. Certo, questa operazione, così spesso tentata nel corso della tradizione intellettuale d'Occidente, poteva risolvere molti problemi teorici e anche pratici, a cominciare dall'esigenza di evitare la babele dei tanti pensieri diversi attraverso una loro determinazione, selezione e organizzazione realizzata con il modello fornito precisamente da un (presunto) Pensiero in sé. D'altra parte l'entificazione di tale Pensiero rischiava (e rischia), tra l'altro, di incoraggiare una concezione statica e rigida della concreta esperienza del pensare. La tesi che il pensiero sia, al contrario, una macrofunzione mobile, dinamica, metamorfica si è sviluppata in vari momenti della storia della filosofia proprio allo scopo di evitare i pericoli dell'altra teoria.
Per parafrasare una celebre espressione del filosofo americano N. Goodman (per il quale mind is minding: cioè il presunto ente-mente si risolve nei vari atti che consideriamo mentali), si potrebbe dire che 'il pensiero è il pensare': ossia che quanto attribuiamo, spesso in modo un po' forzato (e comunque congetturale), a un certo ente metafisico è in realtà la gamma infinitamente ricca e, soprattutto, aperta a sempre nuove possibilità delle nostre funzioni/esperienze pensanti. Proprio in relazione a questa interpretazione del pensiero si è profilata la tendenza ad allargare il concetto e la pratica tradizionale dell'attività pensante. Essa è stata in qualche modo liberata da un legame troppo stretto con l'attività del Logos (o della Ratio, o dello Spirito ecc.), e la si è voluta correlare anche con altre possibili sorgenti e connessioni. Si è parlato così del pensiero dei sogni, del pensiero dell'inconscio, del pensiero del corpo, del pensiero dell'immaginario, del pensiero delle emozioni. In ognuno di questi casi il ricorso al concetto che ci interessa è servito, da un lato, a sottolineare la capacità di determinate funzioni dell'essere umano di produrre, a loro modo, sensi relativamente autorganizzati e almeno potenzialmente comunicabili (che sembra, almeno in prima approssimazione, una possibile definizione della cosiddetta attività pensante) e, dall'altro, a suggerire che tale produzione può essere attribuita a matrici assai più articolate e diversificate rispetto a quella solitamente riconosciuta dalla tradizione come l'unica 'ufficialmente' cogitante - cioè (a seconda delle opzioni teoriche di fondo) la mente o il cervello. Ne è derivato il proposito di esplorare analiticamente tali matrici, e poi di esaminare le possibili incidenze di questo pensiero 'non psicocerebrale' sul pensiero nell'accezione più usuale del termine.
Da questa linea di ricerca - oltre che dalle indagini sulle origini biofisiche del pensiero, sulle sue proprietà e possibilità in ambito formale, sulle sue relazioni con il contesto socioculturale e sulle peculiarità del pensiero medesimo considerato nella sua riflessività in ambito individuale-soggettivo -, da tutto ciò il sapere contemporaneo si attende ancora nuovi lumi e nuove prospettive interpretative intorno a ciò che chiamiamo pensiero.
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