pentire (pentere [per metaplasmo di coniugazione: cfr. Parodi, Lingua 252]: pass. rem. I singol. pente'mi; partic. pass. pentuto; nel Fiore: fut. II singol. te ne penterai; imperf. cong. I singol. me ne pentesse)
Ricorre una sola volta nella Vita Nuova e nelle Rime, e può quindi considerarsi vocabolo proprio della Commedia e del Fiore. Le forme intransitive pronominali sono le uniche usate nei tempi dell'indicativo e del congiuntivo, con la sola eccezione di sarà... pentuta (Fiore LIX 4); invece, nelle forme nominali del verbo la particella pronominale manca sempre.
Nella sua accezione più comprensiva vale " provare rimorso " di una colpa commessa: Rime CIV 90 s'io ebbi colpa, / più lune ha volto il sol poi che fu spenta, / se colpa muore perché l'uom si penta; Pd IX 45. Non sempre il rimorso è determinato da azioni effettivamente compiute o che oggettivamente costituiscano una colpa: anche il gentil pensero (Vn XXXVIII 8 1) per la donna pietosa (cfr. XXXV 4) può apparire alla coscienza morale di D. un desiderio malvagio e vana tentazione (XXXIX 6) perché lo distrae dall'amore per Beatrice morta; a questo stato d'animo contraddittorio, turbato e sgomento si collega l'esempio di Vn XXXIX 2 lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio a cui sì vilmente s'avea lasciato possedere.
Più frequentemente ricorre in senso religioso, con riferimento al dolore che, per amore di Dio, si prova dei peccati commessi: If XXVII 83 ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe, / e pentuto e confesso mi rendei, mi feci frate; Pg V 55 (v. oltre); XXII 44 Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali / poteano le mani a spendere, e pente' mi / così di quel come de li altri mali, della prodigalità come degli altri miei peccati.
Il pentimento è condizione necessaria perché l'assoluzione impartita con il sacramento della penitenza sia valida (If XXVII 118-120 assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente) ma, purché sia vivo e sincero, è sufficiente per far ottenere il perdono di Dio, e quindi la salvezza, anche se l'assoluzione sacramentale non c'è stata; lo hanno sperimentato i negligenti morti per forza, i quali furono, sì, peccatori infino a l'ultima ora, ma, come dice a D. uno di loro, quivi lume del ciel ne fece accorti / sì che, pentendo e perdonando, fora / di vita uscimmo a Dio pacificati (Pg V 55). La problematica dottrinaria e teologica espressa dal verbo si collega quindi direttamente al tema della salvezza.
In questo ambito concettuale aquistano particolare rilievo tre esempi, due dell'Inferno e uno del Paradiso. Esponendo a D. la topografia morale dell'Inferno, Virgilio gli chiarisce come nel secondo / giron convien che sanza pro si penta / qualunque priva sé del vostro mondo (If XI 42), e concetto analogo è ripreso in XX 120 vedi Asdente, / ch'avere inteso al cuoio e a lo spago / ora vorrebbe, ma tardi si pente. Se i dannati potessero pentirsi o no era argomento discusso da s. Tommaso, il quale aveva distinto tra un pentimento determinato dall'odio per il peccato in sé e per sé e un pentimento accidentale provocato dalla disperazione per la pena inflitta, per concludere che i dannati potevano conoscere la seconda forma di pentimento ma non la prima, permanendo in loro intatta la volontà di peccare (cfr. Sum. theol. Suppl. 98 2c " Mali... non poenitebunt, per se loquendo, de peccatis: quia voluntas malitiae peccati in eis remanet. Poenitebunt autem per accidens: inquantum affiigentur de poena quam pro peccato sustinent ").
Com'è evidente, nei due passi dell'Inferno citati D., pur senza affrontare in modo sistematico il problema teologico, allude soltanto a un pentimento motivato dalla gravità delle pene inflitte ai dannati; più che " provare rimorso " il verbo varrà pertanto " dolersi di aver agito in un determinato modo ".
Un problema teologico opposto è affrontato in Pd IX 103 Non però qui [in Paradiso] si pente, ma si ride, / non de la colpa, ch'a mente non torna, / ma del valor ch'ordinò e provide. In cielo, osserva Folchetto, non " si prova dolore " delle colpe commesse, perché la loro memoria è stata cancellata dall'acqua del Lete, ma si gode (si ride) della disposizione divina che ha permesso il male traendone il bene della penitenza.
In due esempi p. si collega alla concezione dantesca dell'Antipurgatorio, dove sostano per un periodo di tempo più o meno lungo i negligenti che tardarono a pentirsi: Pg III 137 quale in contumacia more / di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta, / star li convien da questa ripa in fore, / per ognun tempo ch'elli è stato, trenta / in sua presunzion; e così XI 128.
Usato in funzione di sostantivo l'infinito penter vale " pentimento "; se ne hanno esempi in Pg XVII 132, XXII 48, XXXI 85. Un caso eccezionale di uso transitivo del verbo ricorre in If XIV 138 Letè vedrai... / là dove vanno l'anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa. Il participio, usato con valore passivo, è riferito alla colpa di cui ci si pente invece che alla persona che si pente, e acquista un significato vicino a quello di " redenta dal pentimento ".
In un secondo gruppo di esempi vale " rimpiangere " di aver fatto o di non aver fatto qualcosa. Con quest'accezione è riferito per traslato alla natura, la quale d'elefanti e di balene / non si pente (If XXXI 53), cioè " non esita a produrne ancora ". È poi l'accezione normale per il Fiore: LIX 4 Se quella cu' richiedi ti rifiuta / ... dello scondir [del suo rifiuto] sarà tosto pentuta; e così LXX 14, LXXXIII 11; con intonazione minacciosa: LXXXV 4 sed i' potrò, tu te ne penterai.