Percezione visiva e arte
Lo studioso del cervello si domanda se vi siano meccanismi nervosi alla base delle reazioni che si hanno davanti all’opera d’arte tali da spiegare l’universalità o, almeno, il largo consenso su ciò che è attraente e bello. Le tecnologie di imaging cerebrale ci mostrano che, davanti a un quadro che ci attrae, regioni specifiche del cervello si attivano e che quindi il bello ha un suo equivalente oggettivo a livello del sistema nervoso. E perché un segno è più significativo di un altro, come gli schizzi di poche linee da cui scaturiscono le magnifiche donne di Henri Matisse? È indubbio che il cervello possiede strutture più specializzate per certi segni o accumuli di essi piuttosto che per certi altri e le neuroscienze e la teoria della Gestalt ce lo assicurano ampiamente. La percezione è in parte un processo top-down, cioè basato su regole cerebrali innate o acquisite che guidano la nostra visione. E quando le entrate dal mondo esterno si armonizzano con le proprietà cerebrali, allora il circuito entra in risonanza, rispondendo ottimamente in termini di impulsi nervosi, di mediatori chimici e di sostanze ormonali, e anche le connessioni con i centri emotivi si attivano facendo nascere così l’esperienza che si ha dinanzi all’opera d’arte, sia essa opera del creatore della natura o del lavoro dell’uomo (Maffei 2007). David Hume scriveva nel saggio Of the standard of taste (1757) che la bellezza delle cose esiste nella mente di colui che le contempla; nell’arte e anche nell’esperienza dell’arte c’è il respiro della libertà cerebrale, del momento in cui il razionale cede all’emotivo, a quel pizzico di follia che fa l’uomo così differente dal computer, lo rende creativo e umanamente grande. L’artista diviene così un raffinato neurologo che sa trovare gli stimoli adeguati per eccitare il cervello e l’arte è una droga buona alla quale è fisiologico, e forse anche terapeutico, assuefarsi. Noi crediamo che anche la storia andrebbe insegnata più come storia dell’arte che come storia delle guerre. L’arte rientra a pieno titolo nelle dottrine biologiche e neurologiche e, come scriveva il biologo francese François Jacob, «in quelle scienze che non spiegano l’ignoto con il noto e il visibile, ma con l’invisibile e con il ricorso a strutture nascoste […] ed evolvono con l’evoluzione dell’invisibile» (cit. in Maffei, Fiorentini 20082, p. XVI), e noi diremmo con quel metodo conoscitivo che è il sogno.
Questa trattazione prende in considerazione aspetti della neurofisiologia e della psicologia del vedere che riteniamo importanti sia per l’artista sia per chi guarda l’opera d’arte, per es. i colori, le loro interazioni come il contrasto simultaneo o successivo, i contorni e il mistero di come pochi segni generino la percezione di forme complesse, le interazioni di contrasto chiaro-scuro e la meraviglia dello sfumato o della profondità, che può venir fuori da una variazione del colore o del chiaro scuro o da interazioni tra le forme. Sono, questi, problemi che la fisica non sa risolvere e che entrano spesso nel dominio neurologico dell’illusione, e l’arte è il regno dell’illusione.
In questo saggio ci si soffermerà solo su alcuni esempi che, a nostro avviso, forniscono indicazioni salienti dei tipi di stimoli visivi che, oltre a diventare percezione visiva, diventano emozione ed esperienza artistica (Maffei, Fiorentini 1995, 20082).
Il sistema visivo
L’occhio umano ha un sistema ottico di notevole potenza, con una distanza focale di circa 22 mm che consente di mettere a fuoco sul fondo del bulbo oculare l’immagine di un punto luminoso lontano, per es. una stella. Per un punto luminoso più vicino la potenza del sistema ottico si modifica mediante il processo di accomodazione (la lente interna all’occhio, il cristallino, aumenta di curvatura). La parete posteriore del fondo del bulbo oculare è rivestita internamente da una sottile membrana nervosa, la retina, sulla quale si formano le immagini reali, rimpicciolite e capovolte, degli oggetti esterni. La retina contiene le cellule nervose sensibili alle radiazioni luminose, i fotorecettori, che sono di due tipi, i coni e i bastoncelli. I fotorecettori contengono una sostanza (pigmento) capace di assorbire alcune radiazioni dello spettro così da generare una risposta, da parte del recettore, destinata a stimolare le cellule successive della retina. I bastoncelli contengono tutti lo stesso tipo di pigmento, mentre per i coni esistono tre pigmenti diversi, e ogni cono ne contiene solo uno. I coni sono responsabili della visione diurna, a livelli di illuminazione abbastanza elevati; i bastoncelli sono responsabili della visione notturna, a bassi livelli di illuminazione. Più internamente sono presenti altri strati di cellule e, attraverso essi, i fotorecettori sono collegati con le cellule dello strato più interno della retina, le cellule gangliari. Da queste partono le fibre nervose il cui insieme costituisce il nervo ottico, lungo il quale i segnali nervosi generati nelle cellule gangliari vengono trasmessi verso le stazioni successive del sistema visivo, situate nel cervello, fino a raggiungere la regione visiva della corteccia cerebrale, nella parte posteriore del cervello (fig. 1). In questi successivi passaggi, le informazioni provenienti dalle aree della retina dove si forma l’immagine della metà sinistra del campo visivo e da quelle dove si forma l’immagine della metà destra del campo si suddividono in modo che le informazioni provenienti dalla metà sinistra del campo visivo siano ricevute dall’emisfero destro del cervello e quelle provenienti dalla metà destra del campo visivo dall’emisfero sinistro.
Le connessioni dalla retina alla corteccia visiva sono spazialmente ordinate, cioè nella corteccia viene rappresentata la retina rispettando l’ordine spaziale della retina stessa, cosicché a ogni punto dello spazio esterno corrisponde una piccola e ben determinata porzione della corteccia visiva. Le connessioni però non rispettano la scala delle distanze, perché nella retina vi è una zona centrale, la fovea, che ha un diametro inferiore al mezzo millimetro (corrispondente a un angolo visivo di un grado), ma ha una densità molto elevata di fotorecettori, che qui sono esclusivamente coni; la densità dei fotorecettori diminuisce dalla fovea verso la periferia della retina. Alla fovea è dedicata una regione molto ampia della corteccia visiva, mentre per le aree a distanza crescente dalla fovea il fattore di ingrandimento tra retina e corteccia diminuisce. Per queste sue proprietà la fovea è la regione della retina dove è massima la capacità di distinguere i minimi dettagli degli oggetti, cioè è massima l’acuità visiva. È perciò quella che consente di vedere anche oggetti di ridotte dimensioni (per es., leggere lettere molto piccole), mentre nelle immagini che si formano a distanza crescente dalla fovea i dettagli di piccole dimensioni non sono riconoscibili. La fovea consente anche la miglior nitidezza nella visione di contorni tra aree del campo visivo adiacenti, di diversa luminosità. Quando si guarda un oggetto, perciò, si orienta l’occhio in modo che la sua immagine sia centrata sulla fovea. I movimenti degli occhi che consentono di fissare una certa area del campo visivo, e poi di spostare lo sguardo su un’altra area, sono in particolare quelli che si compiono per osservare oggetti di ampie dimensioni esplorandone successivamente le varie parti, come quando si esamina un dipinto o un’altra opera d’arte.
Il contenuto dell’oggetto, i dettagli più o meno fini, il diverso chiarore delle varie zone vengono codificati nella retina e poi nella corteccia visiva in termini di impulsi nervosi. Le modalità con cui questi messaggi sono decodificati per essere tradotti in termini di sensazione visiva non sono note. Occorre sapere però che vi sono vari aspetti in cui la risposta visiva a uno stimolo luminoso in un certo senso non rispetta quanto ci si potrebbe attendere semplicemente in base alle proprietà fisiche dello stimolo: un esempio notevole è quello che riguarda i fenomeni di contrasto.
La forma
Due sono le proprietà del nostro sistema visivo che ci permettono di vedere nitidamente la forma di un oggetto e di rappresentarla nella pittura: una è quella che determina l’accentuazione delle differenze di luminosità tra zone adiacenti dell’immagine, esaltandone il contrasto, l’altra è quella che ci consente la visione nitida dei dettagli di un’immagine.
Il contrasto chiaro-scuro
Quanto chiaro o quanto scuro vediamo in una regione del campo visivo non dipende soltanto dall’intensità dello stimolo fisico relativo a quella regione, ma dipende anche dal contesto, ossia dalla presenza nelle aree vicine di zone di maggiore o minore intensità fisica dello stimolo. Così, per es., due aree che fisicamente si presentano uguali possono invece apparire diverse, una più chiara e una più scura, se sono circondate da uno sfondo differente, rispettivamente più scuro oppure più chiaro (fig. 2).
Questi fenomeni di contrasto, di notevole importanza nell’arte, trovano una loro spiegazione nelle proprietà dei neuroni della retina, le cellule gangliari. Ogni cellula gangliare è sensibile solo a un’area limitata del campo visivo, di forma approssimativamente circolare, di cui codifica l’informazione in termini di impulsi nervosi. Di queste cellule alcune rispondono preferenzialmente a uno stimolo chiaro su fondo scuro, altre invece a uno stimolo scuro su fondo chiaro; cellule con queste proprietà si trovano anche in successive stazioni del sistema visivo.
Gli effetti di contrasto tra zone chiare e zone scure sono largamente usati nella pittura. Nel suo Trattato della pittura Leonardo da Vinci mostra di essere ben consapevole di come si possano sfruttare gli effetti di contrasto accostando nel quadro zone chiare e zone scure: «Ora attendi, che se tu vuoi fare un’eccellente oscurità, dàlle per paragone un’eccellente bianchezza, e così l’eccellente bianchezza farai con la massima oscurità» (Bibl. Vat., ms. Urb. lat. 1270, parte II, cap. 186). Ma, soprattutto, sono gli effetti di contrasto quelli che consentono di ‘dipingere la luce’. È chiaro che un dipinto, ottenuto stendendo sostanze coloranti su una tavola o una tela, non può in nessun caso dare luogo a una vera sorgente primaria di luce. Tuttavia, sfruttando effetti di contrasto è possibile creare la percezione illusoria di una sorgente luminosa: il Sole, la Luna, una fiamma. Spesso ciò è facilitato dall’uso di tinte di colore giallo, perché queste tendono ad apparire particolarmente luminose.
La forma creata dalle ombre
Mentre l’accostamento tra aree chiare e aree scure nel campo visivo contribuisce a esaltare la differenza di luminosità, un passaggio graduale tra zone più chiare e zone più scure può creare l’illusione di una forma solida. Questo è dovuto a proprietà del sistema visivo acquisite in base all’esperienza della percezione di corpi solidi sulla cui superficie si creano variazioni più o meno graduali di luce, in relazione alla posizione della sorgente che li illumina. Se si guarda un corpo di forma sferica, per es. un frutto, illuminato da una sorgente posta in alto, la parte più alta della sfera sembra più luminosa di quella inferiore. Al contrario, se si guarda una superficie sferica ma concava, per es. una tazza, illuminata dall’alto, la parte inferiore appare più luminosa di quella superiore.
L’esperienza di queste ombreggiature che si formano sulla superficie di corpi solidi illuminati da una sorgente posta in una data posizione genera una percezione illusoria di solidità quando si guardano opportune ombreggiature nelle figure piane. Per es., un disco circolare, in cui la luminosità varia gradualmente dall’alto verso il basso, può apparire come una semisfera convessa se la luminosità è massima in alto e diminuisce verso il basso (fig. 3A), come una semisfera concava nel caso contrario (fig. 3B). Questa illusione è molto stabile, mentre quella generata da ombreggiature che variano da destra a sinistra o viceversa, anziché dall’alto al basso, lo è assai meno (fig. 3C). Si ritiene che questo sia dovuto al fatto che l’illuminazione dall’alto è quella prevalente, in visione naturale diurna all’aperto, essendo quella dovuta al Sole. Ombre variamente sfumate contribuiscono, spesso, a simulare nel quadro lo sporgere e l’incavarsi dei diversi lineamenti di un volto. Leonardo, che nel suo Trattato della pittura (parte II, capp. 732-733) descrive una regola per graduare luci e ombre su corpi illuminati illustrandola con il profilo di un volto, offre poi nei suoi quadri numerosi esempi di ombreggiature su volti e corpi: così, per es., nel volto della Monna Lisa (1503-1506) e nei volti e corpi nudi dei fanciulli nella Vergine delle rocce (1483-1486). E simili ombreggiature saranno presenti in tutta la pittura tendenzialmente figurativa dei secoli successivi.
La nitidezza dei dettagli e dei contorni
Quanto siano fini i dettagli più piccoli che ci è consentito di vedere e quanto nitidi ci appaiono i contorni tra aree di diversa luminosità dipende, come si è detto, dall’acuità visiva. Quest’ultima, che è valutata dalla minima distanza tra due punti oggetto che consente di vederli separati, dipende dalla densità dei fotorecettori nella retina e dalle successive proprietà del sistema visivo nelle sue componenti centrali, ma innanzitutto dalle proprietà del sistema ottico dell’occhio, che permettono di mettere a fuoco sulla retina le immagini di oggetti lontani. Essa è compromessa in presenza di difetti quali la miopia, l’ipermetropia, l’astigmatismo, i quali deteriorano la qualità delle immagini retiniche e la loro messa a fuoco, e rendono meno nitidi i contorni degli oggetti. Anche la cataratta, una certa opacità della lente interna dell’occhio che spesso si verifica in età avanzata, può compromettere la nitidezza della visione. La presbiopia, infine, causata dalla diminuzione del potere di accomodazione, diminuisce la possibilità di mettere a fuoco oggetti che si trovano a distanza ravvicinata.
Anche in condizioni normali e in assenza di difetti, però, le dimensioni minime dei dettagli di un oggetto che possiamo distinguere in visione foveale dipendono dalla distanza da cui osserviamo quell’oggetto, perché al crescere della distanza diminuiscono le dimensioni dell’immagine dell’oggetto sulla retina.
Nella pittura l’artista può scegliere tra una rappresentazione con ricchezza di dettagli, così come sarebbero visibili a occhio nudo, e una più sfumata dai contorni meno netti. Inoltre, nel lavoro di uno stesso pittore, la rappresentazione può modificarsi o per una diversa scelta pittorica, oppure in conseguenza di difetti visivi o altre alterazioni dovute all’avanzare dell’età. Di Tiziano e di Rembrandt, per es., entrambi vissuti a lungo, si conservano opere di età giovanile e altre dipinte in età avanzata che differiscono notevolmente per la nitidezza dei contorni e per la ricchezza dei dettagli: le rispettive opere senili presentano contorni notevolmente sfumati se confrontati alle nitide figure delle opere giovanili. Di Claude Monet si hanno quadri che rappresentano la stessa scena (L’allée des rosiers e La maison dans les roses, entrambi conservati nel Musée Marmottan di Parigi), ma dipinti rispettivamente prima e dopo l’asportazione della cataratta cui il pittore fu sottoposto nel 1923: si può notare che nel dipinto eseguito dopo l’operazione i colori di corta lunghezza d’onda, che corrispondono al verde, al blu e al viola, sono più evidenti; è d’altronde noto che la cataratta taglia maggiormente questi colori.
Si può affermare che ogni quadro sia stato creato per una distanza ottimale di osservazione, suggerita sia dalla grandezza del dipinto sia dalla grana pittorica. Per molti quadri la grana è così fine che essa non disturba anche in una visione ravvicinata, per altri casi invece variare la distanza di osservazione può dar luogo a effetti inattesi. Questo accade, per es., in alcuni dipinti impressionistici dove i dettagli che creano particolari effetti di sfarfallio delle luci e dei colori, e una certa sfumatura dei contorni, tipici di questa pittura, svaniscono se visti a una distanza relativamente grande: i contorni appaiono più netti e le forme si stagliano con chiarezza. È possibile che questo fenomeno percettivo risulti da un processo di compensazione nell’elaborazione dell’immagine visiva, tale da rendere netti i contorni delle figure che al crescere della distanza di osservazione tenderebbero a diventare meno nitidi.
Il linguaggio del segno
Spesso i contorni di aree di luminosità diversa dallo sfondo vengono rinforzati, nella loro rappresentazione pittorica, da linee scure, più o meno sottili, che fanno risaltare una forma da essi racchiusa. Nei disegni e nelle rappresentazioni grafiche la raffigurazione delle figure e delle forme può essere affidata alle sole linee di contorno. Alcune immagini preistoriche (per es., quelle ritrovate nella grotta di Lascaux, risalenti a 30.000 anni a.C.) e alcune pitture parietali egiziane, del II millennio a.C., contengono forme di animali e di uomini rappresentate solo mediante linee più o meno sottili. Queste linee di contorno rappresentano segnali molto efficaci per il cervello; nella corteccia cerebrale dei mammiferi una gran parte delle cellule risponde preferenzialmente a stimoli costituiti da linee o bordi di particolare orientamento: alcune cellule rispondono a linee orizzontali, altre a linee verticali, altre ancora a singoli orientamenti obliqui. In questo i neuroni della corteccia differiscono dalle cellule della retina che, come abbiamo visto, hanno invece campi recettivi di forma circolare. Queste risposte della corteccia visiva ai contorni degli oggetti, più che a loro altri attributi, testimoniano come il cervello può in un certo senso simbolizzare la risposta agli stimoli esterni, proveniente dall’occhio.
La possibilità di trasmettere l’informazione figurativa con i contorni, quella che possiamo chiamare il linguaggio del segno, trova spazio con gradi diversi anche nelle opere d’arte. Vi sono periodi in cui i contorni delle figure hanno un ruolo dominante, altri in cui invece prevalgono rappresentazioni più continue, senza demarcazione netta tra aree di diverso chiarore o differente colore. In genere, i primi si propongono soprattutto di esprimere avvenimenti o di evocare un contenuto spirituale: così, per es., nei mosaici ravennati del 5°-6° sec. e nei crocifissi di scuola toscana del 13° sec., come quello esposto alla Galleria degli Uffizi, dove il corpo del Cristo è delimitato da linee di contorno scure che, si potrebbe dire, ne disegnano la figura ma che, tuttavia, non ne alterano la solidità e l’imponenza. In dipinti di pochi decenni più tardi, invece, nelle immagini sacre di Duccio di Buoninsegna o di Cimabue, e più ancora in quelle di Giotto, il segno non è più dominante ed è presente soltanto in parti molto limitate del quadro. Successivamente, nella pittura del Rinascimento i segni di contorno sono praticamente assenti, mentre la rappresentazione del confine tra aree di luminosità o di colori diversi diventa più realistica e molto vicina a ciò che viene percepito nella visione reale. Questo si accentua ancor più nella pittura impressionistica, dove vengono del tutto a mancare le linee nette di contorno, che tornano, invece, a dominare nelle scuole successive di pittura, più intellettualistiche, come, per es., l’astrattismo e il cubismo, le quali si propongono di rappresentare prevalentemente simboli e concetti.
Percezione della distanzae sua rappresentazione pittorica
Noi viviamo e ci muoviamo in un mondo tridimensionale, in cui persone, oggetti e sfondi ci appaiono a distanze diverse da noi. Questo si verifica nonostante le immagini visive si formino sulla superficie della retina, che è a due dimensioni. La percezione della distanza segue due leggi diverse: per oggetti che si trovano a distanza non molto grande da noi vale la legge della costanza della grandezza, ossia vediamo cambiare la distanza dell’oggetto da noi quando esso si allontana o si avvicina, ma la sua grandezza apparente rimane praticamente invariata. Invece, oggetti posti a distanze maggiori da noi (oltre una decina di metri) ci sembrano divenire più piccoli via via che si allontanano. In questo secondo caso vengono rispettate le leggi secondo cui, al crescere della distanza, diminuisce la grandezza dell’immagine sulla retina, perché diminuisce l’angolo sotto cui si vede l’oggetto (legge della costanza dell’angolo). Anche la percezione della profondità di un oggetto, cioè del fatto che l’oggetto è solido e occupa un determinato volume, è presente da vicino, ma si attenua con il crescere della distanza, fino a scomparire del tutto quando si tratta di distanze relativamente grandi.
La percezione della profondità degli oggetti e della loro diversa distanza da noi (visione stereoscopica) si avvale in particolare di informazioni derivanti dalla visione binoculare: le immagini di due punti oggetto che si trovino uno più vicino e uno più lontano da noi hanno una distanza diversa sulla retina dell’occhio destro e su quella dell’occhio sinistro. Di conseguenza, i due oggetti sono in posizione relativa diversa (più o meno separati tra di loro) se visti con l’occhio destro o con quello sinistro (parallasse binoculare) e, guardando con entrambi gli occhi, ci appaiono invece a distanza diversa da noi. Questa differenza è vistosa se i due oggetti sono abbastanza vicini a noi, ma si attenua e poi addirittura scompare a distanze maggiori. La diversa distanza tra le immagini retiniche di due punti costituisce l’informazione necessaria per percepire la distanza dei due punti da noi, poiché i segnali nervosi prodotti dalle due coppie di punti immagine sulle due retine vengono ricevuti e confrontati da singole cellule nervose contenute nell’area visiva primaria della corteccia cerebrale, e in seguito elaborati da aree visive successive a questa, dando luogo alla visione stereoscopica binoculare (cfr. The visual neurosciences, 2004, pp. 779-92).
Un’altra fonte di informazione sulla diversa distanza di due oggetti da noi è quella che si ricava spostandoci lateralmente con la testa oppure con il corpo rispetto agli oggetti stessi (parallasse da movimento). Se per una determinata posizione di osservazione l’oggetto più vicino ci appare spostato verso destra rispetto a quello più lontano, e noi ci muoviamo spostandoci proprio a destra, quell’oggetto vicino ci appare spostarsi a sinistra rispetto all’altro.
La rappresentazione pittorica di una scena tridimensionale in un quadro non può, ovviamente, dare luogo né a parallasse binoculare né a parallasse da movimento. Vi sono però altri elementi che possono contribuire alla percezione della profondità e che possono essere utilizzati pittoricamente per simulare la terza dimensione. Già il fatto che oggetti abbastanza lontani ci appaiano più piccoli via via che aumenta la loro distanza da noi fa sì che, quanto più piccolo vediamo un oggetto di dimensioni note, tanto più ci appare lontano. Questo e altri fenomeni derivano dalle regole della prospettiva lineare, cioè si verificano se si suppone di proiettare su un piano frontale rispetto all’osservatore oggetti situati a varie distanze, utilizzando come centro di proiezione l’occhio dell’osservatore stesso. Accade così che oggetti che ne coprono parzialmente altri ci appaiono più vicini, oppure che appaia più vicina una figura attraverso cui ne traspare un’altra (fig. 4A). Inoltre, anche le ombre proiettate dagli oggetti possono essere spia della loro profondità (fig. 4B). Vi è poi un indizio di lontananza, detto prospettiva aerea, che entra in gioco nella visione di paesaggi, dove elementi distanti (colline, montagne e così via) sono visti attraverso uno strato esteso di atmosfera e possono apparire sfumati e azzurrini a causa dei fenomeni di diffusione dell’atmosfera stessa. Quanto più accentuato risulta questo loro aspetto, tanto più essi ci appaiono lontani.
La percezione della distanza degli oggetti e la percezione tridimensionale dello spazio che ci circonda dipendono, però, anche dalla maggiore o minore complessità di quanto ci sta innanzi e dal maggiore o minore numero degli oggetti presenti. A questo si può attribuire, l’illusione che ci fa apparire il disco del Sole o quello della Luna di diametro maggiore quando li vediamo in prossimità dell’orizzonte, perché qui sono di solito presenti molti riferimenti (case, alberi ecc.) che mancano invece quando si guarda in alto verso il cielo. La presenza di molti elementi a distanze apparenti diverse ha l’effetto di dilatare la scala delle distanze per cui a parità di angolo visivo, l’oggetto celeste ci appare più grande quando è più vicino all’orizzonte.
Arte antica
Opere figurative che contengono tracce delle regole prospettiche per la rappresentazione dello spazio si trovano per la prima volta nell’arte greca: in vasi dipinti della fine del 6° sec. a.C. e nel periodo greco classico si trovano tracce di scorci di figure umane. In opere di pittura romana, probabilmente ispirate in gran parte a quella greca, sono presenti esempi di rappresentazione spaziale. Fra questi, uno noto è quello di una pittura parietale (ca. 30 a.C.) rinvenuta in una stanza, detta Stanza delle maschere, della Domus Augustea sul Palatino, dove le strutture architettoniche sono rappresentate con effetti prospettici.
In seguito, nel periodo dell’arte bizantina, si attenuò grandemente sia la rappresentazione spaziale dei vari contenuti sia quella della solidità dei corpi, perché si preferì piuttosto sottolineare il contenuto spirituale delle scene e delle figure rappresentate.
Il Trecento
Nella pittura del Trecento cominciò a farsi evidente un interesse per la rappresentazione dello spazio tridimensionale. Già Duccio a Siena e poi Giotto a Firenze e a Padova, nella Cappella degli Scrovegni, mostrarono alcuni esempi di edifici visti dall’interno o dall’esterno, dove si rinvengono chiare evidenze di convergenza di linee che definiscono la profondità di soffitti o di pareti e gli edifici sono rappresentati in scorcio obliquo. Con i seguaci di Giotto, come i Lorenzetti, si sviluppò ulteriormente la rappresentazione tridimensionale dello spazio. Così nell’affresco del Buon Governo (1338-39) nel Palazzo comunale di Siena, Ambrogio Lorenzetti compose un’ampia scena dove si affiancano numerosi edifici, con pareti poste in obliquo, ma con un unico riferimento centrale. Nella Natività della Vergine (1335-1342) di Pietro Lorenzetti, conservata nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena, due scene affiancate mostrano piastrelle che si assottigliano progressivamente nel pavimento contribuendo in questo modo alla percezione spaziale dei due pannelli.
Nella pittura di questo periodo, tuttavia, non vi è indicazione di un sistema prospettico unitario, come quello che sarà invece sviluppato successivamente da Filippo Brunelleschi.
Rinascimento e oltre
Fu nella Firenze del Quattrocento che nacque e si sviluppò la prospettiva come regola per la rappresentazione dello spazio. Agli inizi di quel secolo, infatti, Brunelleschi propose una rigorosa rappresentazione prospettica basata sulla regola della proiezione centrale e ne fornì due esempi, secondo quanto ci è stato tramandato da suoi contemporanei. Si trattava di due pannelli di legno, ora perduti, rappresentanti, l’uno, il Battistero e, l’altro, piazza della Signoria, e destinati a essere osservati in modo da generare un forte senso di profondità tridimensionale (Kemp 1990). Successivamente la sua intuizione fu raccolta e sviluppata sia nella scultura, in particolare da Donatello, sia nella pittura, innanzitutto da Masaccio (per es., nel suo grande affresco, la Trinità, 1426-27, conservato nella basilica di Santa Maria Novella a Firenze), e poi da grandi pittori come Piero della Francesca, Paolo Uccello, Mantegna, Leonardo. Un primo esempio di testi scritti che descrivono le regole della prospettiva si ha con il De pictura di Leon Battista Alberti, del 1435, seguito poi da molti altri, tra cui Lorenzo Ghiberti e Leonardo. Sostanzialmente si tratta del principio di proiezione lineare che consiste nel proiettare i contorni di un oggetto solido su un piano interposto tra l’oggetto e l’occhio dell’osservatore. Leonardo suggeriva di utilizzare un vetro trasparente come superficie piana di proiezione, perché così è facile constatare che la proiezione prospettica copre esattamente l’oggetto solido reale. Però la coincidenza tra la scena reale e la sua rappresentazione prospettica, a rigore, si verifica soltanto quando si guarda con un occhio solo. Nel caso del grande quadro di Piero della Francesca la Flagellazione di Cristo (1444-1450, conservato a Urbino nella Galleria nazionale delle Marche), costruito con rigore prospettico, se si guarda la figura con un occhio solo, dalla direzione della striscia bianca sul pavimento, si noterà come aumenta grandemente il senso della profondità.
Vi sono tuttavia opere d’arte di questo periodo che, insieme alla rigorosa rappresentazione prospettica di strutture e particolari vari, contengono anche altri indizi pittorici, come quelli cui abbiamo accennato in precedenza, che contribuiscono notevolmente alla percezione della profondità della scena. Così, per es., nello Sposalizio della Vergine (1504, conservato nella Pinacoteca di Brera) di Raffaello al rigore prospettico si accompagnano la prospettiva aerea dello sfondo, le ombre dei personaggi in primo piano, la trasparenza attraverso la porta del tempio. Successivamente, tuttavia, Raffaello stesso e altri grandi pittori attenuarono in parte alcune esigenze delle regole prospettiche, inserendo nei loro quadri anche alcuni particolari visti da vari centri di proiezione, come se si supponesse che l’osservatore di un grande quadro potesse spostarsi a guardarne alcune parti da punti diversi.
Le regole della prospettiva presero comunque il sopravvento nelle opere di tutti i grandi pittori dei vari Paesi d’Europa, come, per es., Rembrandt, Diego Velázquez e numerosi altri.
Nel Seicento, poi, si realizzarono spesso scene dipinte che creavano effetti illusori di grande profondità, purché venissero guardate da un preciso punto di osservazione. Così, per es., la grande scena con architetture, angeli e santi, dipinta da Andrea Pozzo sulla volta della navata centrale della chiesa di Sant’Ignazio a Roma (Gloria di Sant’Ignazio, 1685-1694), crea in chi la guarda da un punto preciso indicato sul pavimento un’impressione di enorme profondità che si estende apparentemente ben al disopra del soffitto reale.
Altri indizi di profondità
Nella visione naturale, alla percezione della profondità contribuiscono gli indizi pittorici monoculari e binoculari, oltre alla parallasse da movimento. Nella visione di un quadro, invece, gli effetti della prospettiva e gli altri indizi pittorici sono in parte contraddetti proprio dall’assenza di parallasse binoculare e di movimento, la cui mancanza fa apparire la superficie del quadro come essa è in realtà, cioè una superficie piana dove la terza dimensione è solo illusoria. Vi sono alcune possibilità di attenuare la consapevolezza della superficie dipinta, così da dare al dipinto un’apparenza tridimensionale. Una di queste consiste nel guardare il quadro per riflessione su uno specchio che limiti la visione della cornice del quadro e della sua superficie. Nel Museo del Prado di Madrid, di fronte al grande dipinto di Velázquez intitolato Las meninas (1656) fu predisposto, a partire dal 1899, uno specchio in cui il visitatore potesse vedere il quadro per riflessione, contribuendo così notevolmente alla percezione della profondità della scena dipinta (presente in maniera discontinua per tutto il Novecento, lo specchio attualmente è stato rimosso).
È pure vero, d’altra parte, che sono proprio gli indizi di visione binoculare e di movimento che, rendendo evidente la superficie del quadro, permettono di evitare certe distorsioni percettive che si potrebbero verificare osservando il quadro da una posizione non frontale. Infatti, quando si guarda obliquamente una figura piana, l’immagine dovrebbe risultare deformata, come del resto avviene se si scatta una fotografia. Per es., un cerchio visto non frontalmente diventa un’ellisse. Percettivamente, però, queste distorsioni non sono presenti o sono molto attenuate: evidentemente si verifica un processo cerebrale di compensazione percettiva che contribuisce a mantenere costante la forma degli oggetti visti da angoli diversi.
Si può affermare che la prospettiva, pur con il suo ruolo essenziale per la rappresentazione pittorica dello spazio, non è sufficiente a dar ragione della nostra rappresentazione visiva dello spazio. Alle informazioni provenienti dalla retina ne accompagnano altri tipi che provengono da altre modalità sensoriali, o depositate in memoria. Tutto questo dà luogo a livello cerebrale a una concettualizzazione delle immagini, rendendole ampiamente indipendenti dalle variazioni del punto di vista, della distanza e anche da variabili dell’illuminazione. Si può quindi affermare che lo spazio cerebrale non è soltanto la codificazione di uno spazio fisico a tre dimensioni, ma ha anche alcune componenti che dipendono dal contesto e dalle proprie esperienze personali.
Il colore
Il colore è uno degli aspetti più attraenti di ciò che vediamo ed è anche uno degli elementi che rivestono un maggior ruolo nell’arte pittorica. I colori degli oggetti illuminati, e quindi anche quelli presenti in un quadro, dipendono dalle proprietà della sorgente di luce, cioè dalla sua composizione spettrale (ossia dalle radiazioni di diversa lunghezza d’onda che essa contiene, e dalle loro intensità relative), e dalle proprietà fisiche di assorbimento delle diverse componenti luminose da parte della superficie degli oggetti, quindi sostanzialmente da quali radiazioni sono riflesse oppure diffuse tra quelle in arrivo. Dal punto di vista fisiologico, i colori che noi vediamo sono essenzialmente il risultato dell’attività di strutture del nostro sistema visivo, presenti nell’occhio e nel cervello. Il colore, in ultima analisi, non è una proprietà intrinseca degli oggetti, bensì una qualità della nostra percezione: un oggetto non è rosso, verde o giallo di per sé, ma ci appare rosso, verde o giallo in opportune condizioni di illuminazione e, in un determinato contesto, la percezione del suo colore può essere influenzata dalla presenza di altri oggetti.
Questo era stato già intuito da Galileo Galilei che, nel cap. 48 di Il saggiatore (1623), scrisse: «io vo pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità». L’argomento fu ripreso estesamente quasi due secoli dopo nel saggio Zur Farbenlehre (1810) da Johann Wolfgang von Goethe. Quest’ultimo in forte contrasto con Isaac Newton e con la sua scuola, che considerava il colore una proprietà del raggio emesso dalla sorgente luminosa, sosteneva che il raggio è solo una condizione necessaria perché il soggetto possa vedere il colore. Goethe costruisce la sua teoria con ampio riferimento a fenomeni visivi di percezione del colore che non obbediscono esclusivamente alle leggi che derivano dalle proprietà fisiche degli stimoli luminosi.
La visione del colore
Il nostro occhio contiene tre tipi di coni che differiscono per le proprietà di assorbimento del pigmento in essi contenuto, così da essere sensibili rispettivamente a una gamma di radiazioni di lunghezze d’onda più corte (coni S, short), a una di lunghezze d’onda intermedie (coni M, medium) e a una di lunghezze d’onda medie e lunghe (coni L, long), tra quelle comprese nello spettro visibile, cioè tra 400 e 700 nanometri. Mediante l’eccitazione relativa di questi tre tipi di recettori da parte di una radiazione proveniente da superfici illuminate, è possibile percepire una gamma molto estesa di colori diversi, purché la radiazione sia sufficientemente intensa da suscitare una risposta dai coni. Radiazioni di intensità così bassa da stimolare solo i bastoncelli non danno origine a sensazioni di colore diverso, poiché i bastoncelli contengono tutti uno stesso tipo di pigmento: nella visione notturna non percepiamo alcun colore.
Se la radiazione che ci giunge da una superficie illuminata, perché da essa diffusa, contiene approssimativamente con la stessa intensità relativa le varie radiazioni dello spettro visibile, così da eccitare in uguali proporzioni tutti e tre i tipi di coni, questa superficie ci appare di un colore neutro, cioè bianco, grigio o nero, a seconda che la percentuale della radiazione totale diffusa dalla superficie sia alta (bianco), media (grigio) o bassa (nero). In un ambiente visivo complesso, in cui sono presenti oggetti che diffondono percentuali diverse della radiazione che li illumina, le sensazioni di grigio più o meno scuro e di nero risultano anche per effetto di contrasto dovuto alla presenza di altri oggetti aventi valori differenti in percentuale di luce diffusa.
Se, invece, la radiazione diffusa da un oggetto contiene percentuali differenti di componenti di diversa lunghezza d’onda, appartenenti a diverse porzioni dello spettro, i tre tipi di recettori vengono eccitati in proporzioni diverse, e questo dà luogo a una sensazione di colore che dipende dall’eccitazione relativa dei tre tipi di recettori. I colori della gamma dal rosso al verde, attraverso l’arancione e il giallo, sono il risultato dell’eccitazione prevalente, in varie proporzioni, dei due tipi di recettori L e M, sensibili alle radiazioni di lunghezze d’onda lunghe e medie, mentre quelli dell’azzurro e viola sono l’esito dell’eccitazione prevalente del terzo tipo di recettori, i coni S.
I colori, però, possono essere saturi, cioè possono essere simili a quelli prodotti da una radiazione contenente solo una ristretta banda di lunghezze d’onda, e allora essere di una tinta che dipende dalla lunghezza d’onda e che può apparire di gradazioni molto diverse, che variano nella gamma che va dal viola al blu, al verde, al giallo, all’arancione, al rosso. Tuttavia, se la radiazione diffusa dalla superficie copre una banda spettrale abbastanza larga, sia pure con prevalenza di una certa regione dello spettro, allora il colore risultante non è saturo, ma può apparire come se contenesse del bianco. Così, per es., una superficie che ci appare rosa o celeste ha un colore non saturo, equivalente a un rosso o un blu mescolato con bianco. Inoltre, quando sono presenti in un ambiente complesso, gli oggetti colorati possono subire effetti di contrasto tra chiaro e scuro. Questi danno luogo a colori come il marrone, il grigio-verde o il carta da zucchero, che corrispondono rispettivamente a un arancione o giallo, a un verde o a un azzurro, più o meno saturi, scuriti per effetti di contrasto. Per ottenere queste tinte i pittori usano mescolare un colore chiaro con il nero.
In generale, dunque, i colori degli oggetti possono differire per tinta e per saturazione. Inoltre, possono apparire più luminosi o più scuri a seconda della maggiore o minore intensità della sorgente che li illumina e della percentuale di radiazione diffusa dalla superficie dell’oggetto. La luminosità del colore di un oggetto viene valutata in base alla quantità di luce proveniente da esso in rapporto a quella proveniente da un oggetto con la stessa illuminazione, ma che appare bianco. Quindi i colori degli oggetti possono essere classificati complessivamente mediante tre variabili: tinta, saturazione e luminosità.
L’albero dei colori (fig. 5) presenta un insieme di campioni di colore che differiscono per l’una o l’altra di queste tre variabili. L’asse centrale è formato da un insieme di campioni neutri variabili per luminosità dal nero al bianco; da questo si staccano spicchi, ognuno dei quali è formato da campioni di una stessa tinta, e per ogni tinta esistono varie gradazioni di saturazione, a seconda che le porzioni in cui è suddiviso lo spicchio siano più o meno lontane dall’asse dei colori neutri. Anche la luminosità dei vari spicchi varia, e cresce dal basso verso l’alto. Nell’albero compare inoltre una tinta, il porpora, che non corrisponde ad alcun colore dello spettro. Si tratta di un rosso violaceo, che si può ottenere mescolando radiazioni di lunghezze d’onda corrispondenti rispettivamente alle due regioni estreme dello spettro, quella del rosso e quella del viola. A seconda della proporzione esistente fra le due componenti, si può ottenere una gamma di colori porpora, da quelli più violacei a quelli più vicini al rosso.
La presenza nella retina di tre tipi di coni che presentano sensibilità spettrali diverse è alla base della possibilità di riprodurre, mediante tre sorgenti di luce che emettano radiazioni in altrettante regioni dello spettro visibile di lunghezze d’onda lunghe, medie e corte, qualunque altra tinta, attraverso una combinazione delle tre luci secondo proporzioni opportune.
A livelli successivi della retina, però, le risposte generate nei tre tipi di coni vengono combinate in modo diverso così da dar luogo a tre tipi di cellule gangliari con differenti proprietà. Vi è una classe di cellule gangliari che riceve stimoli dello stesso segno (eccitatori oppure inibitori) da coni L e M, e quindi non porta informazioni sulla qualità cromatica dello stimolo luminoso, ma soltanto sulla sua intensità relativa (più chiaro o più scuro). Le altre due classi di cellule gangliari hanno invece proprietà che rendono conto del fenomeno della cosiddetta opponenza cromatica, per il quale rosso e verde, blu e giallo generano sensazioni che a due a due si cancellano l’una con l’altra. Per es., il rosso contenuto in un arancione si può cancellare aggiungendo del verde, trasformando così l’arancione in un giallo. Rosso e verde sono dunque colori opponenti; in maniera analoga lo sono il blu e il giallo. I colori opponenti sono complementari, ossia, se vengono combinati in proporzioni opportune, danno luogo a un colore neutro, vale a dire a una sensazione acromatica. Una classe molto numerosa di cellule gangliari è formata da cellule che ricevono stimoli di segno opposto da coni L e coni M, e quindi possono generare una risposta opponente rosso-verde. Le altre cellule, che sono molto meno numerose, ricevono uno stimolo eccitatorio da entrambi i coni L e M e uno stimolo inibitorio da coni S (o viceversa), e quindi generano una risposta opponente per il blu-giallo. Complessivamente quindi la specificità di queste tre classi di cellule gangliari per il rosso-verde, il giallo-blu e il chiaro-scuro rispetta la trivalenza della visione cromatica.
Anche nelle successive stazioni del sistema visivo (corpo genicolato laterale e corteccia visiva primaria) sono presenti cellule con proprietà relative corrispondenti a queste tre classi di cellule gangliari retiniche. Dunque, in questi primi stadi del sistema visivo le informazioni relative al colore e quelle relative alla luminosità degli stimoli si mantengono abbastanza separate. Nelle stazioni successive, cioè nelle aree cerebrali successive a quelle primarie, vi è un progressivo aumento della presenza simultanea, nella stessa area, di attività neurali relative alle qualità cromatiche dello stimolo e alla sua forma. Tuttavia, vi sono aree cerebrali particolarmente responsabili delle sensazioni del colore, com’è dimostrato dal fatto che determinate lesioni cerebrali possono provocare nel paziente una totale perdita di sensibilità al colore (acromatopsia corticale), mentre la capacità di percepire le forme degli oggetti non viene sostanzialmente alterata (cfr. The visual neurosciences, 2004, pp. 1003-16). In alcuni casi la lesione è limitata a uno dei due emisferi cerebrali, e quindi l’acromatopsia si verifica soltanto nel semicampo visivo relativo a quell’emisfero (fig. 6). Talora, lesioni limitate a particolari aree dell’emisfero sinistro possono compromettere la capacità di chiamare correttamente con il loro nome i colori, nonostante la loro visione sia inalterata.
Il contrasto cromatico
La presenza di vie neurali con proprietà cromatiche opponenti è alla base dei fenomeni di contrasto cromatico, ben noti ai pittori. Per illustrarli si può iniziare con un esempio di contrasto cromatico successivo, cioè un contrasto che si manifesta dopo che si è fissata abbastanza a lungo un’area di un certo colore (fig. 7). Se successivamente si passa a osservare un fondo grigio uniforme, si noterà che l’area dove si trovava un colore dà luogo poi sul fondo grigio all’impressione di una tinta virata verso il colore complementare a quello che si era fissato (giallo per l’azzurro, e viceversa; rosa per il verde, e viceversa). Ma gli effetti di contrasto cromatico che interessano la pittura sono piuttosto quelli di contrasto simultaneo: un’area che vista su uno sfondo neutro apparirebbe di un certo colore, appare di colore diverso se vista invece su uno sfondo colorato. E questi effetti di contrasto sono particolarmente vistosi quando intervengono tra colori complementari, tanto che accostamenti di tinte complementari in aree contigue di un quadro possono dar luogo a un particolare risalto cromatico. Nella Madonna del parto (1460 ca.) Piero della Francesca si è servito in maniera assai efficace del contrasto tra un verde e un rosso violaceo per le figure dei due angeli che sorreggono la tenda ai lati della Madonna, e del contrasto blu-giallo per l’abito della Madonna. Si noti inoltre che i colori delle vesti, dei calzari e delle ali dei due angeli sono tra loro alternati e ciò contribuisce ad arricchire l’immagine complessiva di un altro effetto di contrasto.
È dunque possibile per un pittore arricchire i colori della propria tavolozza giocando con gli effetti dei loro reciproci rapporti di contrasto, come disse Henri Matisse: «Uso i colori più semplici. Non sono io a trasformarli, se ne incaricano i rapporti» (Écrits et propos sur l’art, 1972; trad. it. 2003, p. 158).
Un altro fenomeno di contrasto cromatico è quello delle ombre colorate, per cui, in un ambiente illuminato con luce di un certo colore, le zone di ombra tendono ad assumere un colore complementare. Così, nella luce rosata di un tramonto le ombre possono apparire verdastre, mentre nella luce gialla del Sole diurno esse tendono ad assumere colori tra l’azzurro e il violaceo. Vi sono numerosi esempi nella pittura in cui il colore dell’ombra contribuisce a creare contrasto. Così, nel quadro Meule, soleil dans la brume (1890-91), di Monet, in cui il cielo e le altre parti illuminate hanno il colore giallo arancio dell’ora del tramonto, le ombre dei grandi mucchi di fieno hanno un colore azzurrino, complementare a quello del cielo.
Un altro effetto di contrasto di notevole efficacia pittorica è quello che si crea tra tinte calde e tinte fredde, per es. tra rosso e blu. Se nel Medioevo e nel Rinascimento stava a indicare dualità tra ciò che è materiale e ciò che trascende la materia, in seguito è stato largamente usato dagli impressionisti per contrapporre alla tonalità azzurra dell’atmosfera, e alle sue zone d’ombra, la tonalità calda delle aree illuminate dal Sole. Così accade nell’opera di Monet Impression, soleil levant (1873).
Vi sono inoltre anche esempi di un tipo di contrasto cromatico che può essere definito contrasto di quantità e che si verifica quando in un quadro occupato in gran parte da aree di colore quasi uniforme vi è una piccola area di colore assai diverso, che di conseguenza risalta con grande intensità.
Forma e colore
Un contrasto puramente cromatico tra aree che differiscono per colore, ma hanno la stessa luminosità, non consente, però, di raggiungere la stessa capacità di risolvere i dettagli fini che si ottiene con dettagli in bianco e nero: l’acuità visiva cromatica è tre o quattro volte inferiore all’acuità per bianco e nero, per cui i contorni tra aree che differiscono solo per il colore sono meno nitidi di quelli tra aree di luminosità diversa. Per questa ragione un contrasto puramente cromatico, senza differenza di luminosità, è relativamente meno efficace, nella rappresentazione della forma, che non il contrasto tra zone chiare e zone scure.
Tuttavia, la minore capacità di risoluzione di dettagli che differiscono solo per il colore, rispetto a quella per il bianco e nero, è quella che consente di creare una percezione di colore in un’area costituita da un insieme di piccoli elementi di colore diverso che vengono fusi dal nostro sistema visivo, come avviene, per es., nella televisione a colori. Su questa proprietà del nostro sistema visivo si basava la tecnica neoimpressionistica di pointillisme, sviluppatasi nella seconda metà dell’Ottocento, che si proponeva di dipingere mediante piccolissime macchie di colori puri vicinissime tra loro. I colori delle varie parti del quadro erano così il risultato dell’integrazione visiva dei colori delle macchioline da parte dell’occhio dell’osservatore.
Georges Seurat, esponente del movimento puntinista, cercò di dare una base scientifica a questo metodo con cui realizzò una prima grande opera, Une dimanche d’été à la Grande Jatte (1884-1886), per la quale compì molti studi preparatori. In opere successive le singole pennellate di colori diversi si rimpicciolirono ulteriormente, divenendo un insieme di punti ordinati.
Questa tecnica, tuttavia, mostrò presto i suoi limiti, perché i colori del quadro apparivano desaturati, quasi fossero velati di grigio. L’allievo di Seurat, Paul Signac, criticò questo metodo osservando che i colori complementari, se sono giustapposti su una zona sufficientemente ampia, si esaltano a vicenda per effetto di contrasto, se invece vengono fusi, anche otticamente, si spengono reciprocamente, neutralizzandosi. E Signac sviluppò allora la tecnica del divisionismo, dove le singole macchie di colore sono più grandi, così da non essere fuse dall’occhio e da poter creare invece effetti locali di contrasto cromatico tali da esaltare le tinte. D’altra parte il divisionismo rende meno nitidi i contorni delle forme che appaiono più statiche e schematiche a confronto di quelle dell’impressionismo.
La questione forma-colore, che ha a lungo interessato i pittori dal Rinascimento in poi, deriva dalla diversa capacità di trasmettere un messaggio sulla forma, e quindi sulla profondità e sulla distanza, da parte del contrasto tra chiaro e scuro rispetto al colore.
In molti pittori del Cinquecento e Seicento, tra cui Caravaggio e Rembrandt, vi è stata una prevalenza dell’uso del contrasto tra chiaro e scuro, rispetto al contrasto di solo colore. Bisogna arrivare all’impressionismo per ritrovare un ruolo prevalente del colore e del contrasto cromatico. Si veda, per es., il dipinto Londres, le Parlement. Trouée de soleil dans le brouillard (1904, conservato al Musée d’Orsay di Parigi) di Monet, dove prevale largamente il contrasto cromatico. E già Paul Cézanne, come ha scritto Matisse, aveva creato volumi solo di colore. Poi, con Matisse stesso e con i Fauves, si arrivò agli inizi del Novecento a un’esaltazione dei colori puri e alla definizione delle forme soltanto mediante questi. Il colore diventa un messaggio di per sé, così che eliminarlo dai quadri dei pittori di questo movimento significa impoverirne sostanzialmente il messaggio nonché la ricchezza estetica. Matisse dipinse la prima versione della sua Danse (1909, ora conservato a New York nel Museum of Modern Art) con tre soli colori, e la descrive così: «Per il cielo un bel blu, il più blu dei blu […], e lo stesso vale per il verde della terra, per il vermiglione vibrante dei corpi» (cit. in G.C. Argan, L’arte moderna 1770/1970, 1970, p. 314).
Successivamente, con l’avvento della pittura astratta, scomparve la rappresentazione della forma come tale, e il contenuto del quadro poté essere rappresentato dal solo colore. Così è in Vasilij V. Kandinskij e in altri pittori più recenti, per es. Mark Rothko. Per quest’ultimo il colore assume un significato simbolico e i suoi quadri possono essere fatti di solo colore; Kandinskij, in Über das Geistige in der Kunst (1912; trad. it. 1940), sottolinea gli aspetti psicologici del colore. Tuttavia, il motivo perché il messaggio dato dal colore sia psicologicamente così importante è per ora impossibile spiegarlo dal punto di vista delle scienze della visione. Ha scritto Matisse: «Il colore contribuisce a esprimere la luce, non in quanto fenomeno fisico, ma la sola luce che effettivamente esiste, quella del cervello dell’artista» (Écrits et propos sur l’art, 1972; trad. it. 2003, p. 156).
Bibliografia
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