percezione
Atto cognitivo mediato dai sensi con cui si avverte la realtà di un determinato oggetto, e che implica un processo di organizzazione e interpretazione. L’insieme dei processi organici e mentali coinvolti nell’attività percettiva può essere analizzato considerandone, di volta in volta, le componenti fisiche, fisiologiche, cognitive o affettive.
Il concetto di p. assume un ruolo di primo piano nella riflessione gnoseologica dell’età moderna, in cui viene inteso in un’accezione estremamente ampia e generale come «tutto ciò che può essere presente nella mente», ricomprendendo quindi tanto le sensazioni, o idee semplici, quanto le immaginazioni e le idee complesse. A questo significato si accompagna e talvolta si intreccia quello più ristretto, già introdotto dagli stoici con la nozione di κατάληψις (rappresentazione catalettica), di p. come esperienza conoscitiva di un oggetto determinato, fisico o mentale, e come tale distinto dalla sensazione. In questa duplice accezione il concetto di p. è utilizzato da Cartesio per designare tutti gli atti conoscitivi in quanto passivi rispetto all’oggetto, in contrapposizione agli atti della volontà, che hanno invece un carattere attivo. Egli distingue due tipi di p.: quelle che hanno per causa l’anima – le p. dei nostri atti volitivi e immaginativi e dei pensieri che ne derivano – e quelle che hanno per causa il corpo. Tra queste ultime si distinguono quelle provocate dai corpi esterni, quelle provocate dal nostro corpo, e quelle provocate dall’anima. Nel primo caso «riportiamo la p. a cose fuori di noi», nel secondo abbiamo sensazioni come fame, dolore, sete, ecc., nel terzo infine, proviamo sentimenti come gioia, collera, ecc. Sulla stessa linea di pensiero Locke considera la p. come la prima e più importante facoltà della mente che si esercita sulle idee. Essa è un momento della riflessione che consiste nel comprendere e unificare una molteplicità di sensazioni riferendole a un oggetto distinto dal soggetto percipiente. Leibniz, dal canto suo, opera una distinzione tra p. (intesa nel senso cartesiano di ‘idea’, ossia come «qualcosa che è nella mente») e «appercezione», intendendo quest’ultima come «coscienza, o conoscenza riflessa, di tale stato interno». Mentre ogni monade è dotata di p., nel senso che i rapporti tra le due sue diverse affezioni, o il suo stato interno, corrispondono a ciò che è percepito, solo le monadi di tipo superiore pervengono a una forma di attività rappresentativa analoga a quella della nostra coscienza. Tra p. chiare e distinte e p. oscure e confuse vi sono, secondo Leibniz, infiniti gradi intermedi. Egli introduce al riguardo il concetto di petites perceptions, per indicare la sfera oscura che resta al di sotto del livello della coscienza. L’identificazione tra p. e attività conoscitiva trova la sua formulazione più coerente nel pensiero di Berkeley e di Hume. Il primo arriva a dissolvere la realtà stessa nella p., affermando il nuovo principio gnoseologico secondo cui l’esistenza delle cose consiste unicamente nel loro essere percepite, riassunto nella celebre formula esse est percipi. Hume, dal canto suo, assume la p., intesa come «tutto ciò che può essere presente alla mente, sia che esercitiamo i nostri sensi, sia che siamo mossi dalla passione o che esercitiamo il pensiero e la riflessione», quale fondamento primario del rapporto dell’uomo con la realtà. Le p. sono alla base di tutte le nostre conoscenze: niente è realmente presente alla mente al di fuori delle sue p., e gli oggetti esterni sono conosciuti soltanto attraverso le p. cui danno luogo.
Nella riflessione filosofica successiva resta sostanzialmente inalterata l’idea della p. come atto con cui la coscienza o mente coglie un oggetto attraverso un complesso di datità elementari, ossia le sensazioni. Con la distinzione tra p. e sensazione teorizzata esplicitamente dalla scuola scozzese (soprattutto da Reid) si sviluppa però anche l’idea della p. come attività complessa, che include sia una pluralità di sensazioni presenti e passate, sia il riferimento all’oggetto, e che implica quindi sempre un atto di giudizio. In partic., Kant identifica la p. con l’intuizione, che è il risultato dell’attività giudicante esercitata sul molteplice sensibile. La tesi kantiana secondo cui la p. si configura come una elaborazione dei dati sensoriali operata dalla coscienza secondo forme a priori sarà portata agli estremi dall’idealismo hegeliano, che, abbandonando ogni riferimento al materiale sensibile esterno, considera la p. e il suo oggetto come un prodotto della coscienza o del pensiero. L’idea del carattere attivo della p. insita nell’interpretazione kantiana diventerà successivamente uno dei motivi fondamentali dell’approccio fenomenologico con l’introduzione del concetto di intenzionalità, sia pure variamente interpretato. Così Brentano identifica la p. stessa con il giudizio o con la credenza, mentre Husserl distingue la p. dagli altri atti intenzionali della coscienza per il fatto che essa permette di ‘afferrare’ l’oggetto. L’approccio fenomenologico implica l’abbandono del modello sensista in base al quale la p. è spiegabile come semplice somma di sensazioni elementari, e in questo senso prepara la strada alla nuova concezione della p. proposta nell’ambito della psicologia dai teorici della Gestalttheorie (o «teoria della forma»). Sul piano strettamente filosofico, d’altro canto, l’interpretazione fenomenologica della p. sarà sviluppata da Merleau-Ponty, che nella sua Phénoménologie de la perception (1945; trad. it. Fenomenologia della percezione) focalizzerà l’attenzione sul ruolo che il corpo svolge nel condizionare la nostra p. della realtà.
Al principio del 20° sec. i fondatori della teoria gestaltica (Ch. von Ehrenfels, W. Köhler, K. Koffka, K. Lewin e M. Wertheimer) respinsero decisamente la concezione elementaristica della p. come semplice somma delle parti, e sostennero che ciò che percepiamo è in realtà il risultato di un’interazione e di un’organizzazione globale delle varie parti. La p. è in realtà un processo mentale attivo nel quale le sensazioni vengono integrate con idee, ricordi ed emozioni che fanno parte della storia personale di colui che ‘percepisce’; in partic. la p. visiva si orienterebbe verso forme e oggetti semplici, coerenti e dotati di un preciso significato. Questo significa che esistono alcune forme standard che la nostra mente tende a percepire nell’ambiente, qualunque sia il dato fisico oggettivo, sia perché quest’ultimo è ambiguo e può essere interpretato in vari modi, sia perché tali forme sono quelle più frequenti da incontrare nell’esperienza. Se l’approccio gestaltico privilegia le componenti oggettive del processo percettivo, sui fattori o sulle condizioni soggettive della p. insiste invece il cosiddetto funzionalismo percettivo, sviluppato in partic. da G.W. Allport, che sottolinea l’importanza delle disposizioni, dei bisogni e delle finalità del soggetto come elementi essenziali nel processo percettivo. Un approccio analogo è sviluppato dalla scuola transazionalista, ispirata da Dewey, secondo cui la p. non deve essere considerata come semplice reazione a stimoli esterni, bensì come un processo essenzialmente attivo, attraverso cui il soggetto struttura, o addirittura crea l’Universo delle proprie esperienze. Analogamente, l’approccio ‘ecologico’ proposto dallo psicologo americano J.J. Gibson mette in luce come l’osservatore ‘catturi’ direttamente l’informazione quale è data nel proprio ambiente e in funzione delle azioni che deve compiere. Non vi sono, quindi, stadi successivi di analisi che conducono al ‘percetto’ finale, a partire da elementi separati, elaborati separatamente e poi ricomposti in unità superiori. Le teorie contemporanee di orientamento cognitivista si caratterizzano per il superamento della distinzione tra processi percettivi e intellettivi e per il riferimento al computer come metafora del funzionamento della mente umana.