Percorsi introduttivi - L'immaginario cinematografico: forme e meccanismi
L'immaginario cinematografico: forme e meccanismi
Nel suo celebre saggio Le cinéma, ou l'homme imaginaire (1956) E. Morin afferma con radicale determinazione il legame strutturale tra cinema e immaginario, individuando nell'antropologia l'orizzonte di pertinenza di un discorso sul cinema, il suo statuto e il suo spettatore. Morin non rileva soltanto "la realtà semi-immaginaria dell'uomo", ma descrive il cinema come un meccanismo complesso che riattiva, in forme nuove, strutture e processi profondi della psiche, istituendo un rapporto con la stessa filogenesi dell'umanità e in particolare con la dimensione della magia. La sua idea di cinema presuppone una riflessione sull'immaginario che viene precisata ulteriormente nella prefazione all'edizione del 1977. Morin insiste sul carattere centrale della rappresentazione e dell'immagine nella conoscenza. Sono le immagini che occupano la soggettività e le immagini sono 'non-realtà', "rinviano a una realtà sconosciuta" (trad. it. 1982, p. X): non sono soltanto "l'elemento intermedio tra reale e immaginario", ma anche "l'atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell'immaginario" (p. XI). L'immaginario è dunque radicato nell'immagine, formato da immagini, separato dal reale, ma a esso correlato e complementare. Il cinema d'altronde è uno spettacolo immaginario, che implica una percezione realizzata in stato di doppia coscienza: "l'illusione di realtà è inseparabile dalla coscienza che si tratta effettivamente di un'illusione" (p. XII). Tutto il saggio di Morin insiste sulla presenza di intensità affettive ed emozionali nel cinema, che ne costituiscono la forza e garantiscono la capacità di coinvolgere la psiche degli spettatori. Nella sua analisi egli riprende direttamente e indirettamente aspetti teorici e di riflessione elaborati intorno al concetto di immaginario nella filosofia e nella psicoanalisi, nella psicologia e nelle scienze antropologiche.
Nell'idea di Morin del carattere di non realtà dell'immagine c'è una precisa suggestione di uno degli studi più sistematici dedicati all'immaginario nel Novecento, L'imaginaire di J.-P. Sartre (1940). La costituzione dell'immaginario è per Sartre "lo scivolare del mondo in seno al nulla e l'emergenza della realtà umana in questo stesso nulla" (trad. it. 1948, p. 272): il superamento del mondo verso l'immaginario "passa attraverso il nulla". L'immaginario è un "oggetto in immagine" (p. 270) prodotto dall'immaginazione e dunque distinto dall'oggetto reale. L'immaginario naturalmente non è privo di rapporti con il reale, ma nel suo funzionamento implica la nullificazione del mondo. L'immagine, inoltre, non è disgiunta dalla coscienza ma è un "certo tipo di coscienza […] è un atto, non una cosa". E l'immaginario non è una percezione ma un "altrove perpetuo", "una negazione d'essere al mondo" (p. 284). Le immagini sono poi naturalmente il fondamento dell'arte e l'opera è rappresentazione di un immaginario, che non si configura come una "realizzazione dell'immaginario", ma semmai come "una sua oggettivazione". E l'opera non ripropone il reale, ma l'immaginario. Come nota J. Kristeva in uno studio (1997) dedicato anche a L'imaginaire, Sartre tende a ricondurre l'immaginario al processo del pensiero, ad attribuirgli una rilevanza coscienziale forte, invece di costituirlo come un'attività meno importante, legata alla fantasia. Ma, scrive ancora la Kristeva, "l'immagine cinematografica, integrando il movimento, ha contribuito a ridurre la coscienza di nientificazione che Sartre attribuisce all'immagine". E "l'immaginario mediatico sta per divenire non soltanto la realtà della coscienza, ma la Sola Realtà Oggettiva" (p. 262).
La diffusione sistematica del cinema cambia quindi la condizione storica dell'intersoggettività e dell'immaginario e modifica il rapporto tra l'immaginario e il reale. L'avvento del cinema costituisce non solo un allargamento quantitativo della visibilità sociale dell'immaginario, ma anche una svolta, una trasformazione radicale. Il cinema disloca dentro l'orizzonte sociale la rilevanza dell'immaginario, palesa con la sua forza l'esistenza di mondi fittizi, costituiti da immagini prodotte/riprodotte, potenzia un processo storico di modificazione delle strutture e del funzionamento sociale dell'immaginario. Il cinema non si somma soltanto all'immaginario esistente. Lo aggredisce e lo stravolge, ne modifica le coordinate, lo proietta sulla socialità. Con il cinema l'immaginario diventa più visibile e materiale, diffuso e ingombrante, quasi tangibile. Il Novecento ha infatti conosciuto un allargamento e un arricchimento dell'immaginario in relazione alla moltiplicazione delle forme di produzione sociale e mediatica di immagini e di finzioni. Non solo gli oggetti diffusi nel tessuto urbano e nella società formata hanno una duplice valenza, di oggetti d'uso e di oggetti immaginari, ma anche la produzione e la diffusione incessante di immagini, di racconti, di rappresentazioni sostitutive investono il soggetto sociale, garantendo una proliferazione dell'immaginario. La moltiplicazione della produzione d'immaginario risponde intenzionalmente non tanto alla volontà di rappresentare e di raccontare dei soggetti, quanto alla presenza di un forte bisogno di intrattenimento e di finzione dei gruppi sociali. E mentre da un lato gli oggetti si caricano di rilevanza immaginaria dall'altro l'invenzione delle finzioni, delle rappresentazioni, delle duplicazioni del visibile moltiplica la presenza quantitativa dell'immaginario nell'orizzonte sociale, e invade, alterandola, la stessa economia psichica dei soggetti. Il rapporto percezione/immaginazione e configurazioni fenomeniche/configurazioni immaginarie tende a spostarsi a favore del secondo polo dinamico, e la stessa relazione reale/immaginario diventa più complessa: non solo il reale è presente nell'immaginario, ma l'immaginario si espande nel reale, non si limita a duplicarlo ma lo invade e lo trasforma. L'indebolimento se non la perdita del reale ‒ che il Novecento sembra conoscere ‒ è legato all'invenzione di immagini, di rappresentazioni che, oltre a duplicare il reale, si intrecciano con i fenomeni e finiscono per affermarsi come una presenza complementare. Le immagini, le finzioni, le rappresentazioni occupano il nostro immaginario non meno del mondo dei fenomeni, sino a diventare mondo oggettivo, dislocandosi nel tessuto intersoggettivo e ribaltandosi sugli eventi e sugli oggetti sociali. E gli stessi oggetti finiscono per perdere la loro naturalità e diventano oggetti-segni, carichi di codici e di significazioni sovrapposte.
Già F.W. Nietzsche nella sua interpretazione della crisi della metafisica e della cosa in sé offerta in Götzen-Dämmerung (1889) aveva individuato con la forza suggestiva di un grande aforisma il processo epocale in via di realizzazione: "Come il mondo vero finì per diventare favola". E altri studiosi hanno variamente tematizzato la crisi del mondo vero, affermando ora l'avvento dell'età dei simulacri, ora un'idea debole (o debolissima) del reale.In questi processi storici e sociali il ruolo del cinema è sicuramente rilevante. Il cinema è una macchina che interpreta l'immaginario, lo produce/riproduce in forme molteplici e ne amplifica la diffusione e la penetrazione sociale, è un grande produttore/riproduttore di finzioni e di figure, di scene e di stereotipi. Il cinema, dunque, produce e riproduce immaginario, sviluppando innanzitutto nelle proprie forme specifiche gli immaginari esistenti, prodotti dalla letteratura e dal teatro, dagli spettacoli popolari e dagli altri media, e/o radicati nella stessa storia dell'umanità (secondo alcuni studiosi). Ma l'intrinseca capacità fabulatoria e rappresentativa, sommata alla forza dell'immagine e alle potenzialità emozionali dello spettacolo, fa dell'immaginario prodotto dal cinema una delle macroforme di maggiore rilievo. L'immaginario cinematografico ha infatti non solo una straordinaria capacità di diffusione capillare in tutto l'orizzonte planetario, ma una forza di penetrazione e una potenza fascinativa del tutto particolari. Le sue forme insieme uniscono e condizionano le comunità sociali, i loro comportamenti, i loro valori, le loro mitologie. Il meccanismo cinematografico di produzione dell'immaginario si articola in maniera complessa e si fonda nello stesso tempo sui processi di elaborazione di figure e di fantasmi e su un insieme di elementi intesi a determinare la partecipazione affettiva dello spettatore. L'affettività è la condizione stessa di comunicazione e di sviluppo dell'immaginario ed è legata a un insieme di componenti tecniche strutturali del cinema e ai meccanismi di percezione del film.Immaginario, identificazione, autoriconoscimento dello spettatore. ‒ I meccanismi di identificazione e di autoriconoscimento fondano la partecipazione emozionale e fantasmatica dello spettatore, radicano lo spettatore nell'immaginario filmico e il film nell'immaginario dello spettatore. I prodotti dello spettacolo forense, gli spettacoli dei fratelli Lumière, le esibizioni delle tecniche di riproduzione dell'immagine, le lanterne magiche o i derivati dei cabinets optiques e dei cabinets des merveilles non hanno avuto neanche lontanamente la diffusione sociale del cinema, proprio perché i processi fruitivi prodotti non implicavano i meccanismi dell'autoriconoscimento. L'immagine schermica invece si presenta come speculare, sollecitando la ripetizione delle esperienze di riconoscimento del sé e della costituzione del soggetto e dell'immaginario descritte e indagate da J. Lacan nei suoi studi. Il riconoscimento del sé, proprio della fase dello specchio e del primo formarsi dell'io attraverso la visione della propria immagine accanto a quella dell'altro (la madre, generalmente), si riproduce nello schermo in forme simili e al contempo differenti. Il cinema propone infatti meccanismi più diversificati di riconoscimento del sé, che escludono innanzitutto la presenza del soggetto percettivo all'interno dell'immagine schermica stessa. Mentre nello specchio il bambino si scopre e si riconosce accanto alla madre, qui lo spettatore instaura una relazione con le immagini di altri, che possono anche diventare doppi del sé, e in cui egli può perfino identificarsi. L'immagine schermica coinvolge i fantasmi dello spettatore in un meccanismo di riproduzioni e di rifrazioni possibili, di duplicazioni e di sostituzioni e crea un orizzonte di risonanza infinito in cui l'io e l'altro attivano una partita senza fine. La forza psichica e sociale del cinema va quindi ricondotta prevalentemente ai meccanismi infinitamente variati e riprodotti dell'identificazione e dell'autoriconoscimento del soggetto spettatoriale, ed è legata innanzitutto a due caratteri strutturali dei film: l'essere prevalentemente formati da un'immagine antropomorfica e l'articolarsi in scene strutturate dentro un percorso narrativo. Per questo, il cinema estraneo alla struttura narrativo-rappresentativa, importante sotto il profilo artistico, ha avuto una diffusione così limitata. Il visivo garantisce il modo specifico del riconoscimento e gli assicura anche una forza supplementare: il riconoscimento attraverso l'immagine ha insieme un carattere percettivo e psichico, è riconoscimento di un'immagine analogica, che riprende i fenomeni, ma ha anche attinenza e similarità con i fantasmi psichici. Se il cinema si presenta nella sua unità minima costitutiva come significante audiovisivo, il suo immaginario ha innanzitutto una struttura audiovisivo-dinamica e opera insieme sull'occhio e sull'orecchio. Questi modi del significante cinematografico assicurano insieme la percettibilità immediata dell'immagine, e la sua configurazione in figure audiovisive che hanno la forza e l'evidenza del visibile. L'immaginario appare quindi largamente definito, ampiamente delineato e, per es., non richiede, a differenza di quanto avviene nella letteratura, una forte integrazione immaginativa del fruitore. Questo carattere al tempo stesso rende più forte, ma meno ambiguo l'immaginario cinematografico, gli conferisce la forza seduttiva dell'attore, dello spazio, del paesaggio, ma gli sottrae anche ambiguità e immaginabilità. Insieme l'immaginario cinematografico ha una densità informativa e una ricchezza visiva sature, che non consentono variazioni sulla superficie, ma solo nelle interrelazioni immaginabili. Questa saturazione informativa dell'immagine ha anche una forza intrinseca ulteriore che garantisce la capacità fascinativa del cinema. Come significante audiovisivo il cinema ha inoltre un carattere di spectaculum, di oggetto da vedere, di configurazione visiva che cattura lo sguardo, interrompe la percezione abituale e afferma un monstrum.Il meccanismo di autoriconoscimento assume nella relazione spettatoriale articolazioni e modi diversi. L'autoriconoscimento è innanzitutto un modo di percezione del sé nell'altro che è insieme un passaggio del radicamento del soggetto nel mondo, una forma di allargamento del soggetto all'altro e un modo di definizione dei confini flessibili del sé. L'autoriconoscimento è al contempo più e meno dell'identificazione. Il processo di autoriconoscimento è legato all'immagine, ma implica tutta una serie di percorsi possibili di percezioni e di emozionalità. Vi operano insieme modi e forme differenti di attivazione parziale dell'identità, concrezioni psichiche diverse che possono avere una duplice configurazione. Da un lato possono essere affezioni ed emozioni psichiche particolari che lo spettatore riconosce, per esperienza personale, nelle scene mostrate e narrate nei film. Dall'altro, le situazioni del film possono provocare nello spettatore effetti di paura, di piacere, di disagio solo indirettamente legati alla sua vita, ma intenzionalmente prodotti dall'immaginario cinematografico. Tra lo schermo e la psiche dello spettatore si gioca insomma una partita di riconoscibilità e di attivazione emozionale del tutto particolare. Il meccanismo dell'autoriconoscimento si inserisce in ogni modo all'interno di una struttura più larga che è l'identificazione. L'identificazione non è soltanto un concetto psicanalitico, ma è un meccanismo strutturale del cinema variamente studiato e che non riguarda soltanto i rapporti con le figure e i personaggi del film, ma anche il dispositivo cinematografico. La costruzione di un percorso capace di produrre forti identificazioni diventa quindi uno degli obiettivi prioritari di ogni progetto filmico. L'immaginario filmico è intessuto di proiezioni e di identificazioni. È uno spazio dinamico dove lo spettatore deve trovare il proprio luogo e le proprie forme di reattività emozionale. Abitare nell'immaginario cinematografico è una forma popolare e ampiamente diffusa dell'esperienza dell'abitare nell'opera d'arte, evocata da M. Heidegger.I registi e i produttori sanno bene che più profonda è l'identificazione prodotta, più forte è la partecipazione emozionale dello spettatore. L'identificazione è quindi il meccanismo che garantisce non solo il flusso emozionale del film, ma l'approfondimento della relazione di autoriconoscimento dello spettatore. È noto tuttavia che l'identificazione cinematografica ha forme e articolazioni diverse. Il film produce un'identificazione con i personaggi e in particolare con i protagonisti e al contempo il dispositivo cinematografico produce anche un'identificazione cinematografica primaria con la macchina da presa e, più in profondità, con lo stesso meccanismo percettivo e con l'atto di guardare. È una struttura d'identificazione primaria, in quanto determina le condizioni per le identificazioni cinematografiche secondarie con i singoli personaggi. Ma è anche una struttura che radica il flusso audiovisivo del film nelle profondità del soggetto. L'identificazione con l'atto percettivo favorisce un inglobamento dello spettacolo, di luci e colori del film nell'immaginario soggettivo, come prima forma di assorbimento di un universo di fascinazione artificiale che attraversa il sistema comunicativo contemporaneo. L'identificazione primaria è legata al meccanismo della visione, all'istanza rappresentante, a ciò che fa vedere più che al veduto. Nell'identificazione è essenziale il ruolo della messa in scena cinematografica e dei meccanismi tecnico-linguistici particolari del cinema. Quest'ultimo, infatti, ricorre a procedure di messa in scena che favoriscono e rafforzano l'esperienza di identificazione. Lo spettatore vede attraverso la macchina da presa, è posto al centro dell'azione e del paesaggio, vive i dislocamenti di macchina come dislocamenti soggettivi, e si radica nella possibilità di vedere che offre il cinema. La soggettiva è la tecnica più evidente di radicamento dello spettatore nel film e nel personaggio, ma non è altro che una variante dell'identificazione con lo sguardo narrativo-rappresentativo della macchina da presa che caratterizza il film. La soggettiva rafforza il rapporto identificativo e potenzia il radicamento nell'immaginario dello spettatore, che è immerso nell'illusione di diventare soggetto produttivo, di contribuire alla creazione dell'immaginario che percepisce.Il cinema produce tuttavia anche un secondo meccanismo d'identificazione attraverso cui lo spettatore entra nell'economia narrativa del racconto filmico, collegandosi di volta in volta a figure, a personaggi, a situazioni. Il coinvolgimento dello spettatore nel film ha infatti radici profonde connesse allo stesso rapporto con la narratività e la sua struttura di fondo. Vari studiosi (R. Barthes e R. Bellour tra gli altri) hanno sottolineato come il racconto sia articolato sulla relazione/conflitto tra il desiderio e la legge e come siano presenti quindi forti analogie con la struttura edipica. Il percorso narrativo riprende perciò il conflitto tra desiderio e legge che è la struttura dell'Edipo e articola in ruoli diversi i modi di identificazione complessi e contraddittori che l'Edipo implica. L'intrecciarsi di proiezioni e opposizioni, l'emergere del carattere narcisistico e regressivo dell'identificazione permettono relazioni diverse con l'immaginario schermico e modi di (auto)riconoscimento vari e differenziati. D'altronde l'economia del racconto propone una tensione strutturale tra un soggetto desiderante e un oggetto del desiderio, variamente ricercato, raggiunto, perduto e ritrovato. La connessione radicale tra la rappresentazione delle dinamiche e delle frustrazioni del desiderio nel film e l'esperienza soggettiva dello spettatore è un passaggio fondamentale nel processo identificativo prodotto dalla narrazione filmica. La potenziale specularità delle avventure, del desiderio e del conflitto desiderio/legge tra la soggettività dello spettatore e l'oggettività immaginaria del racconto filmico garantiscono un'emozionalità variamente profonda del rapporto spettatoriale. Al contempo, come ogni avventura del desiderio, sia quello nel film sia quello nel soggetto spettatoriale sono segnati dalla mancanza. La mancanza costituisce il fondamento dell'itinerario di ricerca dell'oggetto narrato nel film, proprio come segna la presenza del desiderio nel soggetto.
L'immaginario del cinema è segnato quindi dal desiderio e dalla mancanza e questa struttura fondamentalmente speculare favorisce l'incontro con la soggettività e il dialogo con le profondità della psiche stessa. I suoi percorsi sono dunque segnati da un duplice movimento. L'immaginario cinematografico è prodotto da soggetti che insieme utilizzano fonti già semiotizzate, narrative, drammaturgiche, mediatiche, e raccolgono tracce dell'immaginazione soggettiva e fantasmi psichici diversamente configurati. È quindi risultato di un processo, il luogo centrale di un percorso molteplice che emerge dalle fonti e dai fantasmi per riversarsi come nuovo produttore di fantasmi psichici nel soggetto spettatoriale. Ma insieme ha anche un carattere di intertestualità, è lo spazio di infinite intersezioni semiotiche, di depositi e di rielaborazione di infiniti prelievi testuali. L'immaginario cinematografico è insomma il luogo di un passaggio permanente in direzioni diverse, in cui gli itinerari narrativi tematizzano, dilatano e formalizzano variamente le avventure del desiderio e dei suoi oggetti.
Quali possono essere i criteri per catalogare le tipologie dell'immaginario prodotte dal film? Le risposte sono ovviamente collegate alle concezioni diverse dell'immaginario e possono essere articolate secondo logiche differenti. Più che ai contenuti e alle figure dell'immaginario, essenziale nella classificazione delle sue forme è l'aspetto strutturale e ordinante che riguarda le modalità di riconoscimento dello spettatore. L'immaginario del film può infatti attivare: a) i modi dell'autoriconoscimento dello spettatore come sé; b) i modi dell'autoriconoscimento del sé come altro; c) i modi del riconoscimento di altri.I modi dell'(auto)riconoscimento tuttavia presentano, insieme ad alcuni aspetti strutturali, anche altri aspetti legati alla storicità e alla particolarità determinata dal rapporto fruitivo. È infatti la struttura comunicativa e affettiva proposta dal film che configura e seleziona il proprio spettatore. Certe componenti strutturali del film delineano un rapporto spettatoriale magari articolato, ma particolare, che implica un certo tipo di spettatore o una certa relazione psichica con l'immagine schermica. D'altra parte lo spettatore che si riconosce in un personaggio di un film non è uno spettatore qualsiasi, ma è spesso uno spettatore specifico, la cui individualità è legata innanzitutto al sesso, alla razza e al sistema mentale di una civiltà, poi alla situazione storica e magari a modelli generazionali o a un clima culturale e immaginario particolare, pur se i film significativi attraversano le epoche, superano le generazioni e acquisiscono una risonanza più ampia. I modi dell'autoriconoscimento come sé. Sono modi che implicano l'identificazione diretta dello spettatore con uno o più personaggi del film. Lo schermo diventa uno spazio antropomorfico nel quale lo spettatore riconosce l'esistente e quindi la propria esperienza vissuta in tratti più o meno ampi e più o meno significativi. Il riconoscimento più forte è naturalmente legato ai modi dell'identificazione con i personaggi, e favorisce transfert psichici ovviamente di carattere antropomorfico. Le forme del riconoscimento sono poi molteplici. Ci sono film che rappresentano una generazione, o un progetto esistenziale diffuso, o uno stato di disagio condiviso. Ci sono film in cui si riconoscono i caratteri di un'epoca, magari drammaticamente vissuta. Nei film della Nouvelle vague, per es., un nuovo soggetto socio-esistenziale è iscritto nell'immaginario filmico da nuovi soggetti creativi, attraverso un rapporto differenziato, ma in cui sembra prevalere il principio della proiezione di sé: autori che fanno film per parlare di sé e di quello che conoscono. È l'immaginario di alcune esperienze di cinema d'autore fondato sulla sostanziale identificazione dell'autore con un soggetto psico-esistenziale determinato e con un personaggio specifico: si pensi ai film di Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette, Eric Rohmer, ma anche di Michelangelo Antonioni, Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Ingmar Bergman, Wim Wenders, Rainer W. Fassbinder o in un'altra prospettiva Jonas Mekas, Kenneth Anger o Jack Smith. Sono configurazioni differenti dell'immaginario caratterizzate tuttavia da una struttura di autoespressività e dalla creazione di un nesso forte tra il soggetto e l'immaginario filmico attivato. Questa forma strutturale dell'immaginario implica insieme una proiezione soggettiva dell'autore che, nel momento in cui si afferma come sé, sa farsi un altro in cui altri individui possono identificarsi. Questa processualità è favorita da una nuova autenticità visiva dei personaggi, assicurata anche da un tipo di recitazione diversa e più spontanea che facilita modi di autoriconoscimento più forti e specifici. In questa prospettiva è fondamentale l'affermarsi del nuovo modo di recitazione proprio del cinema moderno e della Nouvelle vague in particolare, di Jean-Paul Belmondo e di Anna Karina, di Jean-Pierre Léaud e di Jean-Claude Brialy, di Macha Meril e di Claude Jade, per citare solo alcuni giovani attori emersi con il nuovo cinema.Le dinamiche di riconoscimento descritte implicano in ogni modo un ulteriore aspetto anomalo. Perché i riconoscimenti generazionali citati non riflettono un'omogeneità effettiva tra lo spettatore generazionale e il personaggio, ma prospettano insieme analogie e differenze. I personaggi della Nouvelle vague, per es., sono spesso soggetti che si pongono ai margini della legge o addirittura al di là e che quindi non rappresentano una tipicità, ma semmai colgono una possibilità relativamente diffusa, una potenzialità implicata. L'immaginario filmico coglie una tendenza, una tensione radicata e scarsamente irrealizzata, un desiderio, registra una disponibilità esistenziale per renderla più estrema, dilatarla, farla diventare una radicalità ulteriore. Anche quando l'immaginario filmico si pone nell'orizzonte dell'autoriconoscimento dello spettatore, non solo possono sussistere palesi margini di differenza, ma anzi la differenza può diventare un elemento significativo. La proiezione non inscrive soltanto la mimesi dell'esistente, deve integrare l'esistente generazionale con il possibile, in qualche modo implicato e immaginato, deve arricchire l'immagine generazionale con l'immaginazione. In questa dialettica tra immagine (dell'esistente) e immaginazione si gioca d'altronde una delle partite essenziali relative all'immaginario e la sua stessa possibilità di garantire una estensione varia, molteplice e articolata delle figure del possibile.I modi dell'autoriconoscimento del sé come altro. Sono processi estremamente diffusi che investono figure e situazioni molto variate. Il grande cinema di genere tende a creare un rapporto spettatoriale in cui i personaggi schermici si danno come alterità psichica e comportamentale, ma al tempo stesso non implicano una lontananza radicale dallo spettatore, fondandosi piuttosto su un rapporto dialettico duplice. Lo spettatore percepisce i personaggi e il protagonista in particolare come altro, ma insieme rileva aspetti di condivisione delle esperienze narrate sullo schermo e può quindi creare un'identificazione con un altro, che può assumere la forma di 'ideale dell'io', per usare una nozione freudiana. Questo meccanismo non è meno forte ed è anche più diffuso del precedente, in quanto riguarda le relazioni spettatoriali standard effettuate dal cinema spettacolare e di genere. Il riconoscimento di sé nell'altro sembra quindi avere una forza di diffusione supplementare, in quanto implica una semplificazione e un ammorbidimento del rapporto di identificazione. Mentre il rapporto di identificazione con il sé può anche configurarsi come un rapporto potenzialmente difficile e a volte anche spiacevole, in quanto tende a implicare in qualche modo la verità del soggetto, il rapporto spettatoriale di riconoscimento dell'altro come sé invece può configurarsi più facilmente attraverso semplificazioni e rimozioni, variabilità ed elisioni. Un riconoscimento che passa per fantasmi, fissazioni e desideri, ma non pone la questione dell'identità, è più facile di un riconoscimento che investe la soggettività nelle sue componenti costitutive. L'identificazione con il protagonista riflette uno dei meccanismi elementari dello spettacolo, che non implica affatto confusioni tra il sé e l'altro, ma una proiezione del sé nell'altro e insieme un inglobamento dell'altro nel sé. Il protagonista (maschile/femminile) può svolgere la funzione di 'ideale dell'io', senza che per questo il riconoscimento debba mescolare il soggetto spettatoriale e il personaggio, dando vita comunque a un'esperienza fruitiva che produce generalmente piacere e gratificazione. Nelle forme più semplici l'identificazione è a volte totale e non lascia spazio alla distanza e alle distinzioni. Ma in altri casi invece l'identificazione è frammentata, parziale e presuppone l'attivazione di un rapporto variato. Le identificazioni classiche con gli eroi del cinema americano non implicano affatto un semplicistico riconoscimento, ma una dialettica di desiderio e di 'ideale dell'io' che insieme crea una distanza e delinea una volizione. Certo se l'identificazione con l'eroe implica un'attivazione del modello psichico dell' 'ideale dell'io', questo percorso si configura generalmente attraverso una frammentazione del soggetto, che attiva non il sé, ma appunto il desiderio di altro da sé. Naturalmente le caratteristiche del protagonista possono essere di vario tipo e non riconducono solo a un modello di valori, di virtù e di atouts, ma spesso anche a eroi meno solari e lineari, più ambigui e notturni. Il meccanismo del riconoscimento del sé nell'altro è in ogni modo favorito dal riferimento alla struttura edipica propria di ogni narrazione. L'evocazione del conflitto tra il desiderio e la legge, infatti, presiede ai modi del riconoscimento e li rende più profondi, variegati e contraddittori.I modi del riconoscimento di altri. Sono modi estremamente diversificati e producono quindi rapporti spettatoriali di tipo opposto, ora più difficili e problematici, ora più percettivi e contemplativi. Sono gli immaginari dei film in cui lo spettatore non si riconosce ed è costretto a elaborare forme di partecipazione emotiva diverse, generalmente meno forti, ma magari riqualificate sotto il profilo intellettuale. Sono situazioni in cui la mancata identificazione con i personaggi sposta l'attenzione su una pluralità di altri elementi, favorendo magari una percezione critica o una recezione straniata e certo più razionale. Sono avventure in cui lo spettatore è invitato ad attraversare l'immaginario filmico con una diversa attitudine, magari più consapevole e critica, capace anche di effettuare fruizioni trasversali e distaccate del film stesso. Sono da un lato i film documentari e non recitati di Dziga Vertov e di Robert Flaherty, di John Grierson e di Alberto Cavalcanti, o i film politici di Fernando E. Solanas o di Joris Ivens, o dall'altro i film di forte straniamento, come quelli del Godard iperpoliticizzato e del gruppo Dziga Vertov (Godard, Jean-Pierre Gorin), ma anche di Philippe Garrel o di Chantal Akerman, di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet o di Hans-Jürgen Syberberg, di Marguerite Duras o di Marcel Hanoun, o ancora i film formalisti e strutturali dell'avanguardia, da Walter Ruttmann a Fernand Léger, da Michael Snow a George Landow a Tony Conrad.
Patrimonio di immagini e di scene prodotte dalla percezione dell'esistente, dai fantasmi psichici e dalle immagini prodotte nell'intersoggettività e nei media, l'immaginario non è solo qualificato dall'immagine schermica, ma anche dal suo carattere di scena. E la scena ha una configurazione doppia: è scena e percorso narrativo, evento, situazione psichica e sviluppo di interrelazioni tra soggetti antropomorfici. L'immaginario innanzitutto si configura come insieme di scene, cariche di rilevanza significante ed emozionale e radicate nello psichico. Non sono solo scene variamente correlate a processi narrativi. Sono scene impregnate di emozionalità e di fantasmaticità, in cui lo psichico determina la configurazione immaginaria delle scene stesse. La natura narrativa dell'immaginario cinematografico rafforza senza dubbio il riconoscimento. Non solo i rapporti intersoggettivi nel mondo si presentano come scene antropomorfiche, situazioni interpersonali, percorsi di interrelazioni tra persone, ma soprattutto i fantasmi psichici si configurano come scene dislocate tra conscio, preconscio e inconscio e fissate nella psiche come percorso di sviluppo più o meno coerente, ma certo non esente da aspetti narrativi. Non a caso Freud definiva l'inconscio anche come l'altra scena. Le scene antropomorfiche e le interrelazioni narrative sono radicate nel mondo e nella psiche e diventano nel cinema doppiamente e automaticamente riconoscibili, garantendo l'autoriconoscimento del soggetto spettatoriale. Non è un caso che i film sperimentali di maggiore successo siano quelli in cui frammenti di scene e di narratività e fantasmi scenici preconsci/inconsci sono presenti (Un chien andalou e L'âge d'or di Luis Buñuel, Le sang d'un poète di Jean Cocteau, Vinyl e The Chelsea girls di Andy Warhol, Inauguration of the pleasure dome di K. Anger). Configurare le immagini cinematografiche come immagini antropomorfiche e le scene come scene antropomorfiche e narrative non è stato uno sbocco automatico del cinema, ma l'affermarsi e il consolidarsi di una scelta intenzionale che ha di fatto reso marginale tutta una serie di altre opzioni del cinema. Le ricerche del cinema documentario, scientifico o, per un altro verso, del cinema astratto sperimentale, sono diventate secondarie perché non potevano assicurare un immaginario capace di coinvolgere lo spettatore in profondità. Il rapporto spettatoriale, cioè la dimensione psichica del cinema, gioca quindi un ruolo determinato non solo nel decretare l'affermazione o l'insuccesso di modelli diversi del cinema, ma anche nel definire i modi del costituirsi dell'istituzione cinematografica. I percorsi narrativi diffusi nel cinema riflettono certo modelli articolati e ripetuti, che alcuni sceneggiatori, teorici e studiosi considerano come un percorso costruito attorno a un modello originario molto forte, una sorta di itinerario archetipico, che passa dalla mitologia alla narrativa popolare contemporanea. Il famoso studio di V.Ja. Propp, Morfologija skazki (1928), ha delineato con rigore la struttura del racconto di fiabe analizzandone le articolazioni e la ripetibilità delle funzioni. Gli elementi morfologici definiscono una struttura narrativa stabile che si dà ovviamente anche come asse di configurazione dell'immaginario, cioè come modo di strutturazione delle figure e dei fantasmi nell'immaginario prodotto. La connessione tra immaginario e narrazione è indubbiamente essenziale nel cinema che si è storicamente affermato e l'itinerario profondo del racconto di fiabe presenta evidenti analogie, ma naturalmente non rigide omologie con le strutture narrative dei film. Propp individua trentuno funzioni di sviluppo del racconto di fiabe dalla situazione iniziale alla conclusione utopica, delineando un modello astratto-concreto che definisce insieme la morfologia del racconto di fiabe e alcuni elementi strutturali del configurarsi dell'immaginario narrativo. Questa articolazione morfologica del racconto si struttura in ogni modo sotto un'altra ottica come il viaggio dell'eroe, che costituisce indubbiamente una figura forte dell'immaginario. Non a caso oggi negli Stati Uniti l'elaborazione delle strutture narrative per il cinema è sempre più attenta non solo ai modelli classici del racconto, ma soprattutto alle strutture del mito e all'ipotetica configurazione degli archetipi della narrazione. In questa prospettiva, riferimento essenziale sono gli studi di J. Campbell sull'eroe (1949), il suo percorso e i suoi volti, che non solo collegano i modi della narrazione occidentale e contemporanea alle presunte origini mitiche, ma delineano una sorta di Ur-modello immaginario del racconto presente già nelle mitologie antiche. In queste ricerche Campbell riprende in maniera diretta o indiretta un'ampia tradizione psicologica, filosofica o psicosociologica che va da C.G. Jung a G. Bachelard a G. Durand e che sostiene in modi diversi la presenza nella psiche di modelli archetipici legati alla filogenesi dell'umanità e la rilevanza assoluta del ruolo dell'immaginario nei processi psichici e nei comportamenti socio-esistenziali.Le riflessioni di Bachelard e di Durand delineano un patrimonio complesso ed eterogeneo di archetipi, di miti, di figure che si radicano nella storia dell'umanità. Durand studia le strutture antropologiche dell'immaginario e scopre un insieme di archetipi di tipologie differenti, articolati in simboli e strutture, nei regimi diurni e notturni, in dominanti riflesse, in schemi e miti. Per Durand gli archetipi sono "sostantificazioni di schemi", che formano lo scheletro dinamico, il canovaccio funzionale dell'immaginazione. Ma sono insieme anche figure, ossessività, contenuti profondi che ritornano in forme diverse nelle epoche storiche e nella produzione artistica. La ricerca di una archetipologia dell'immaginario di Durand costituisce uno sviluppo e una sistematizzazione degli studi di Bachelard sugli elementi fondamentali, l'acqua, il fuoco, la terra, l'aria e sulle diverse forme d'immaginazione materiale e si ricollega ai principi teorici elaborati da Jung nel quadro della psicologia del profondo. Jung, infatti, elabora il concetto di inconscio collettivo i cui contenuti fondamentali sono, appunto, gli archetipi. Scrive Jung: "Oltre alla nostra coscienza immediata, che è di natura del tutto personale, […] esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui. […] Esso consiste di forme preesistenti, gli archetipi, che possono diventare coscienti solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici" (Die Archetypen; trad. it. 1980, p. 44). Secondo Jung esistono quindi 'forme universali inconsce', legate all'istintualità e radicate nell'inconscio collettivo. Jung, da un lato, insiste sul carattere formale, sull'operatività strutturale degli archetipi: "L'archetipo in sé è un elemento vuoto, formale, nient'altro che una facultas praeformandi, una possibilità data a priori delle forme di rappresentazione" (p. 81). Ma, dall'altro, sottolinea anche la presenza nei miti, nei simboli e nelle culture di contenuti determinati omogenei e ripetuti con varianti secondarie, dedicando un'attenzione specifica alla figura delle due madri o a quella della rinascita o seconda nascita. Gli archetipi sono quindi per Jung strutture che informano i tratti comuni, i quadri di rappresentazione dei miti, dei racconti, ma sono insieme anche figure mitiche e simboliche particolari. Tutti questi elementi sono in ogni modo legati alla formazione dell'inconscio e costituiscono una sorta di patrimonio ereditario grazie al quale l'ontogenesi si ricollega alla filogenesi e la soggettività si radica in un patrimonio comune dell'umanità.Il modello della narrazione mitologica individuato da Campbell è una struttura attanziale che prevede come modello archetipico il viaggio dell'eroe, articolato in dodici fasi: il mondo ordinario, il richiamo all'avventura, il rifiuto del richiamo, l'incontro con il mentore, il varco della prima soglia, prove alleati nemici, l'avvicinamento alla caverna più nascosta, la prova centrale, la ricompensa, la via del ritorno, la resurrezione, il ritorno con l'elisir. Lo schema narrativo mitologico individuato da Campbell costituisce una forma di rappresentazione fondata su percorsi, finalità e opposizioni definiti con grande chiarezza e con una certa schematicità. Sono percorsi dell'evidenza, della ripetizione e del conflitto, che implicano uno schema di base molto semplice, presente in innumerevoli film come nei racconti di fate o di avventure.Ma lo schema del racconto mitologico conosce tutta una serie di varianti che investono le strutture stesse dell'immaginario. Innanzitutto la figura dell'eroe è molteplice e può assumere volti profondamente differenti. Una prima dicotomia è costituita dall'opposizione eroi disponibili/eroi riluttanti, una seconda dall'alternativa eroe solitario/eroe integrato nella comunità. Un'ulteriore variante è rappresentata poi dalla contrapposizione eroi/antieroi che attraversa non solo tutto il cinema classico e il cinema di genere, ma ovviamente lo stesso cinema moderno. E la figura dell'eroe può incarnare ulteriori sottomodelli, di cui Campbell e Ch. Vogler forniscono un ampio elenco.
Lo schema dell'immaginario dei generi in ogni modo prevede insieme strutture consolidate e processualità diverse, e ripete a volte le strutture del racconto mitologico, sviluppando altre volte percorsi narrativi diversi. Un'ipotesi significativa, avanzata da Th. Schatz (1981), riguarda specificamente le strutture dell'immaginario nel cinema classico americano e distingue tra generi dell'ordine e generi dell'integrazione. I generi dell'ordine (il western, il detective film, il gangster film) propongono le prospettive dell'inserimento sociale in un contesto di disordine e di incertezza, che domina in tutto il film e che solo la conclusione può negare e superare. I generi dell'integrazione (il musical, la commedia, il family melodrama) implicano il mantenimento dell'ordine sociale e la fluidificazione dell'integrazione dei soggetti. I generi dell'ordine presentano un eroe individuale, il maschio dominante, uno spazio conflittuale, ideologicamente mutabile, una conflittualità esterna e violenta, l'eliminazione del nemico. I generi dell'integrazione presentano un eroe collettivo, generalmente una coppia con la donna dominante, uno spazio ordinato e civilizzato, ideologicamente stabile, un conflitto interiore, psicologico ed emotivo, l'accordo e l'abbraccio finale. Sono orizzonti immaginari diversi che inglobano e articolano tematiche differenti. Nei generi d'ordine prevalgono la mediazione e la seduzione, i codici maschili, l'affermazione del soggetto isolato, l'utopia come promessa di futuro. I generi dell'integrazione sono attraversati dai modi dell'inserimento sociale, dai valori e dai comportamenti propri della famiglia, dalla prevalenza dei codici femminili e legati alla figura materna, dalla valorizzazione della comunità cooperante, dall'utopia come realtà possibile o in atto. Tuttavia i generi non costituiscono un'affermazione e una variazione semplicistica ed elementare dei temi e dei valori presenti e riconosciuti nell'organizzazione sociale. Non funzionano soltanto come espressione e diffusione dei valori esistenti, ma come variazione, discussione e trasformazione dei valori stessi. Non si limitano a proporre il déjà vu, ma riarticolano i temi e le situazioni, criticando spesso le posizioni tradizionali e progettando una logica e graduale modificazione di comportamenti e valori in rapporto all'evoluzione dei tempi. L'apertura alla problematizzazione e al superamento dei valori tradizionali caratterizza soprattutto i generi maturi, che riflettono non solo i mutamenti sociali, ma anche le necessità di uno sviluppo interno, di una modificazione delle strutture stesse degli immaginari proposti.Questa problematizzazione dei valori non sottrae forza né alle situazioni immaginarie, né alle figure dei protagonisti, che mantengono la loro capacità di seduzione e di coinvolgimento del pubblico. Nei film di genere il rafforzamento e la critica dei valori diffusi sono presenti entrambi e rendono più dinamiche la comunicazione e la fruizione. Gli eroi del western rappresentano spesso il progetto della conquista e anche del self-made man statunitense, ma tra il Ringo-John Wayne di Stagecoach (1939; Ombre rosse) di John Ford, l'Ethan di The searchers (1956; Sentieri selvaggi) sempre di Ford e lo sceriffo Willy Kane-Gary Cooper di High noon (1952; Mezzogiorno di fuoco) di Fred Zinnemann o un antieroe come Jack Crabbe-Dustin Hoffmann di Little big man (1970; Piccolo grande uomo) di Arthur Penn vi sono non solo differenze radicali, ma configurazioni differenti dell'immaginario. E i personaggi dalla struttura monolitica dei primi film acquistano gradualmente una flessibilità e una profondità psicologica ulteriore, configurandosi come personaggi pluridimensionali, attraversati da dubbi, paure e riflessività che conferiscono loro un più forte coefficiente di umanità e di verosimiglianza. Anche il thriller, la detective story o la spy story conoscono articolazioni diverse e i film e i personaggi più significativi sono poi personaggi di individui che lottano nel concreto del sistema sociale, cercando di mantenere viva la propria indipendenza, il proprio coraggio, ma conoscendo anche difficoltà, contraddizioni e parziali sconfitte. Sam Spade (The Maltese falcon, 1941, Il mistero del falco, di John Huston) o Marlowe (The big sleep, 1946, Il grande sonno, di Howard Hawks; Murder my sweet, 1945, L'ombra del passato, di Edward Dmytryk; My lovely farewell, 1975, Marlowe il poliziotto privato, di Dick Richards) non sono certo eroi senza macchia, ma figure che perseguono una difficile via di lealtà e di moralità personale in un contesto dominato dalla corruzione e dall'ingiustizia. Nei due film di Huston e di Hawks, Humphrey Bogart dà uno spessore ambiguo alle prime caratterizzazioni di Spade e di Marlowe, disegnando una verità che è legata alla contraddittorietà del mondo, offrendo una gamma di sfumature acquisite con le precedenti interpretazioni di ruoli di gangster o di personaggi ai margini della legge. Non sempre il detective rappresenta l'assoluta imparzialità della legge, ma ciò che ispira il suo comportamento è una volontà di scoprire la verità e di decifrare l'oscurità del mondo al di là di ogni tipo di costrizione, mantenendo razionalità e lucidità. E la ricerca della verità costituisce la struttura più profonda della detective story, in cui il mondo piombato nel caos viene lentamente ricondotto a una leggibilità piena. Proprio questo rapporto diretto con la verità possibile e occultata fa della detective story uno dei modelli essenziali dell'immaginario contemporaneo, in cui il mondo appare sempre più oscuro ed enigmatico. E le immagini del genere diventano complesse rielaborazioni e proiezioni dell'ambiguità e dell'enigmaticità del mondo. Mentre il western maturo problematizza il mondo diegetico stesso del West e rende più difficile l'identificazione dei buoni e dei cattivi, il noir e la detective story conoscono percorsi più complessi e ambigui e fin dagli anni Quaranta sviluppano intrecci e mescolanze tra bene e male, onestà e illegalità. D'altra parte il noir e il gangster film conoscono sempre di più l'eroe eslege come protagonista, costruendo da Bonnie and Clyde (1967; Gangster story) di A. Penn a Goodfellas (1990; Quei bravi ragazzi) di Martin Scorsese, una mitologia della trasgressività sociale e dell'avventura di indubbia anche se disomogenea intensità. La conferma dei valori tradizionali si fa sempre più debole e il principio di capacità e di efficienza non qualifica più azioni volte all'affermazione della verità o del bene, ma alla realizzazione di obiettivi illegali personali. Nei gangster film della fine del 20° sec. (dalla serie di The godfather, 1972, Il padrino, di Francis Ford Coppola, a Pulp fiction, 1994, di Quentin Tarantino, a Casino, 1995, di Scorsese), infatti, le figure di identificazione sono ormai totalmente spostate nel campo dell'illegalità e le dinamiche bene/male sono sostanzialmente azzerate. Restano, accanto alla riduzione di ogni operare alla redditività pragmatica, alcuni microvalori di riferimento come l'amicizia, la lealtà, a volte l'amore, che tuttavia raramente interferiscono con lo sviluppo degli eventi e in ogni modo non costituiscono riferimenti prioritari. Processualità attanziali e personaggi diversi caratterizzano dunque il noir e il gangster film, delineando nuove configurazioni dell'immaginario in cui sembra perdersi la figura stessa dell'eroe.
Le strutture fondate sulla ricerca di un obiettivo e sul conflitto non solo non esauriscono i modelli narrativi proposti dal cinema, ma risultano inadeguate a schematizzare e a interpretare altri aspetti della sensibilità e dell'immaginario contemporanei. Le strutture narrative del cinema legato alla crisi della soggettività, alle difficoltà dei rapporti con il mondo, all'estraneità verso l'orizzonte intersoggettivo, sono forzatamente diverse, non si articolano in un viaggio, non implicano necessariamente un percorso e spesso riflettono forme diverse di nullificazione del mondo e dell'io. Sono forme dell'immaginario che implicano l'annullamento dell'oggettività nella processualità mentale e nelle difficili oscillazioni della negatività e della psiche. Sono eroi/antieroi che vivono la crisi, la perdita di identità e che tendono quindi a rovesciare le caratteristiche tradizionali dell'eroe. I personaggi di molti film di Carl Theodor Dreyer e di I. Bergman, di M. Antonioni e di Robert Bresson, di W. Wenders e di R.W. Fassbinder sperimentano rapporti complessi con l'esistenza in quanto tale o con la religione, con la solitudine o con la crisi del senso. Certo la loro popolarità è minore di quella degli eroi d'azione, ma la loro dimensione notturna, la loro elaborazione comportamentale della negatività fa parte del mondo immaginario non meno di quella degli eroi del conflitto attivo. Sono antieroi non costruiti sul conflitto ma sulla ricerca, non sull'azione, ma sulla crisi, non sulla soluzione dei problemi, ma sulla loro invenzione, non sul superamento degli ostacoli, ma sulla loro moltiplicazione.Tuttavia questi antieroi, incapaci di agire e di modificare il mondo, sono spesso anche personaggi che vivono una ricerca difficile, contraddittoria, ma non per questo meno significativa. Nell'immaginario diffuso uno spazio meno esteso ma non meno profondo è riservato alle figure della negatività, che insieme riflettono i percorsi di frustrazione esistenziale e di irrealizzazione del desiderio. Anche quando sembrano assumere configurazioni complesse e problematiche tendenzialmente elitarie, le immagini di irrealizzazione esprimono una condizione strutturale della soggettività, un movimento dell'io e del desiderio che si confrontano con l'irrealizzazione che li costituisce. Queste configurazioni assumono nel cinema di L. Buñuel le forme più esplicite di visualizzazione della frustrazione e della deviazione del desiderio stesso, diventano la forma di un movimento pulsionale che scopre la propria fragilità interna. Con Buñuel il desiderio diventa oggetto oscuro dell'immaginario che scopre la propria vocazione allo scacco, all'insoddisfazione, all'irrealizzabilità. Gli antieroi buñueliani sperimentano le devianze psichiche che la frustrazione del desiderio comporta e definiscono percorsi di varia perversione, in cui il desiderio si configura insieme come fantasmatico e come irrealizzabile. L'irrealizzazione va dunque considerata come una figura profonda dell'immaginario, che l'immagine schermica rimanda allo spettatore come un'immagine speculare, in cui lo spettatore stesso consciamente o inconsciamente si riconosce.
Esiste tuttavia un altro macro-orizzonte dell'immaginario che si sottrae all'orizzonte dell'azione e alla conflittualità dinamica, pur senza escluderli del tutto. Si tratta dell'orizzonte del romance, l'universo dell'amore, che attraversa l'immaginario del cinema con una forza intensiva assolutamente singolare e una indubbia surdeterminazione. Nella grande tradizione occidentale, celebrata in un libro come L'amour et l'Occident (1939) di D. de Rougemont, l'amore è sempre passione frustrata, dolore, mancanza. È esperienza del Weltschmerz, è volizione che può soltanto incontrare lo scacco. La sessualità e il desiderio sono nascosti, ignorati: quello che domina è la forza del sentimento, la spinta della psiche, la passione e la nostalgia, la tensione verso l'infinito e la sua impossibilità: romance.
Esiste tuttavia un altro macro-orizzonte dell'immaginario che si sottrae all'orizzonte dell'azione e alla conflittualità dinamica, pur senza escluderli del tutto. Si tratta dell'orizzonte del romance, l'universo dell'amore, che attraversa l'immaginario del cinema con una forza intensiva assolutamente singolare e una indubbia surdeterminazione. Nella grande tradizione occidentale, celebrata in un libro come L'amour et l'Occident (1939) di D. de Rougemont, l'amore è sempre passione frustrata, dolore, mancanza. È esperienza del Weltschmerz, è volizione che può soltanto incontrare lo scacco. La sessualità e il desiderio sono nascosti, ignorati: quello che domina è la forza del sentimento, la spinta della psiche, la passione e la nostalgia, la tensione verso l'infinito e la sua impossibilità: romance.
Romance è l'amore incompiuto, inappagato, l'amore non pienamente realizzato, è la tensione sentimentale che segna il rapporto irrisolto. La grande tradizione simbolica e letteraria occidentale ha concepito l'amore come passione irrealizzata, esperienza dell'ostacolo, dell'insufficienza dell'umano, del limite e dell'impossibile. Da Tristano e Isotta all'amore dei troubadours, dal Romanticismo alla letteratura per collegiali, l'amore è contrastato, difficile, drammatico. È sperimentazione della mancanza, è perdita di sé, spossessamento dell'io, derealizzazione del mondo, annegamento nella disperazione per l'assenza dell'oggetto amato. È una Stimmung profonda, una tensione pura all'infinito. Il cinema ri-vive e ri-crea questa Stimmung in una sorta di collettiva e strutturale coazione a ripetere, in un'infinita varietà di immagini che propongono la tensione e l'impossibilità dell'amore (e spesso, alla fine del film, anche una più banale realizzazione illusiva). Il cinema usa pienamente sia l'immagine, sia il racconto per inseguire la mobilità della Stimmung, colorarla di emozionalità particolari. E sembra preferire la variabilità dello struggimento, della mancanza che si rinnova e illusoriamente viene a colmarsi, alla disperazione della pura e semplice mancanza."The movie-screen is the face of love", scrive A. Kobal (1973). In questa ricerca dell'oggetto sempre perduto il cinema disegna i volti dell'amore e della bellezza. Nella magia dello schermo i vettori essenziali del romance sono il primo e il primissimo piano, ma a volte anche il gesto di una mano o il movimento inconsulto di un corpo o l'improvviso intrecciarsi della natura o di un agente atmosferico con una persona che è legata all'amore. I piani ravvicinati del cinema sembrano fatti apposta per creare un'intimità tra lo schermo e lo spettatore, garantire una fusione nuova tra la mobilità dell'ombra schermica e la partecipazione percettiva ed emotiva della psiche. Il cinema amplifica infinitamente la tensione impalpabile prodotta dalla bellezza, la trasforma in uno strumento di turbamento, di aggressività sottile e profonda. La bellezza dello schermo è una dimensione nuova del visibile, totalmente artificiale e assolutamente illusiva. La sua spettacolarità costituisce un vettore di allucinazione senza dubbio nuovo nel mondo della comunicazione, che ha una produttività istantanea e folgorante ed è legata all'impalpabilità del virtuale. È una forza esplosiva dell'immaginario.Lo sguardo di Marlene Dietrich è per eccellenza lo sguardo della notte, il fascino proibito, esaltante e distruttivo della notte. È lo sguardo perverso non solo perché legato alla tentazione e al rischio, ma perché implica, lacanianamente, uno spostamento della posizione del soggetto rispetto alla pulsione. È lo sguardo della verità, perché rivela l'impossibilità del possesso, l'impossibilità di raggiungere l'oggetto del desiderio, l'impossibilità di colmare la mancanza. È uno sguardo che fa affiorare il 'manque à', lo rende presente, proprio mentre all'opposto rende presente l'universo della bellezza e la sua promessa infinita. È lo sguardo della notte in cui la possibilità del piacere non ha confini visibili, come la possibilità della disperazione.Prima di Marlene Dietrich, Brigitte Helm aveva enigmaticamente delineato lo sguardo della notte in Alraune (1930) di Richard Oswald, come in L'argent (1929) di Marcel L'Herbier, e Louise Brooks in Die Büchse der Pandora (1928; Lulu ‒ Il vaso di Pandora) e in Das Tagebuch einer Verlorenen (1929; Diario di una donna perduta) di Georg W. Pabst. E dopo di lei tutte le dark lady del film noir, da Lauren Bacall a Veronica Lake, da Barbara Stanwyck a Lizabeth Scott, da Gene Tierney a Rita Hayworth, da Joan Crawford a Gloria Grahame, da Lana Turner a Kim Novak. Sono donne abbastanza snaturate per apparire impossibili, come sosteneva G. Bataille. E sono insieme la 'presentificazione' simbolica dell'impossibile. Il loro è uno sguardo di verità, perché sottrae nel momento stesso in cui evoca, suscita il desiderio per frustrarlo, promette di colmare la mancanza per un attimo e al tempo stesso assicura di ricostituirla più profonda e più dolorosa. È lo sguardo di una dark lady preda lei stessa di un meccanismo di inadeguatezza e di impossibilità, consapevole che la distruzione dell'altro si accompagna sempre a una piccola distruzione di sé. La forza assoluta di questi sguardi, d'altronde, è sicuramente garantita e moltiplicata, perché lo sguardo della seduzione nel cinema è anche lo sguardo del cinema, è anche visualizzazione simbolica della seduzione del cinema. Come la pulsione scopica propria del film evocava la mancanza che è l'ossatura stessa della pulsione erotica, così lo sguardo seduttivo dell'amore nel cinema è l'esercizio diretto della forza fascinativa del cinema.Per questo non solo i registi di star come Clarence Brown l'hanno utilizzato sistematicamente. Anche autori come Fritz Lang e Josef von Sternberg hanno fatto dello sguardo intenso di una donna verso la macchina da presa un passaggio significativo nella costruzione di una tensione emozionale che è anche un esempio rilevante dell'intensità che l'immagine filmica può produrre. Sedurre in un intreccio di sguardi, d'altronde, fa parte della stessa arte del film. E gli sguardi che dallo schermo escono nella notte della sala sugli sguardi degli spettatori seduti in poltrona sono uno strumento folgorante di cattura.
La seduzione del cinema ovviamente va al di là dello sguardo e può essere seduzione di corpi, di gesti, di pelle, di volti. Tutto il cinema è evidentemente sostenuto e reso possibile dal voyeurismo dello spettatore, ed è inserito in una struttura interattiva di visioni. E se c'è nel cinema uno sguardo seduttivo, ancora di più c'è uno sguardo sedotto che è essenziale all'esistenza dell'istituzione cinematografica.Lo sguardo sedotto e seducibile dello spettatore, com'è noto, rende il cinema possibile. E il cinema si costituisce proprio su un'interazione tra desiderio di vedere e possibilità (tecnico-produttiva) di mostrare. Se lo spettatore è voyeur, nota Ch. Metz (1977), il cinema è esibizionista. Se il rapporto spettatoriale è costituito sul voyeurismo, l'istituzione cinematografica non può non essere e non concepirsi come esibizionista.
L'immaginario è naturalmente legato all'intreccio e alla sintesi di immagine e fantasma. I corpi e i volti contribuiscono in maniera assolutamente precisa al rafforzamento della dimensione dell'immaginario e ne costituiscono una componente essenziale. I corpi sono segni viventi, dinamismi materiali, paesaggi antropomorfici, che riflettono strutture, funzioni ed effetti diversi. E costituiscono una delle nuove forme della bellezza del cinema, che rielabora la bellezza e l'iconografia della pittura. Configurazione formale, cromatismo, qualità visive e dinamiche di luce e ombra si intrecciano nel corpo cinematografico che assume rispetto alla pittura la forza vivente, illusiva e ulteriore garantita dal movimento e costituisce una delle forme forti della seduzione del cinema. Non solo il corpo femminile, ma anche quello maschile diventano forme fascinative, cariche di seduzione psichica ed erotica e acquistano spesso una tale forza affettiva da diventare figure privilegiate dell'immaginario.Ma accanto ai corpi, i volti giocano un ruolo di fascinazione e di coinvolgimento psichico ancora più forte in quanto sono la forma prioritaria della bellezza antropomorfica, sono paesaggi viventi della psiche. Da un lato oggettivano i contenuti psichici, le sensibilità, i turbamenti dell'animo. Sono lo specchio dell'interiorità, il luogo di materializzazione possibile dei fantasmi. Dall'altro sono i più forti vettori di bellezza e di seduzione, interpretano i gusti del tempo e creano sullo schermo, grazie al primo piano e al primissimo piano, una fortissima capacità fascinativa. I volti di Greta Garbo e di Marlene Dietrich, di Rita Hayworth e di Marilyn Monroe, di Rodolfo Valentino e di James Dean sono volti di luci e di ombre, di carne e di spiritualità, e sono diventati, nell'immaginario del Novecento, l'immagine del sentimento senza fine.
L'esaltazione seduttiva del corpo e del volto, dello sguardo e delle labbra acquista la propria forza mitica nelle star. Le star sono non solo la seduzione elevata ai massimi livelli, ma il sistema seduttivo elevato a mito. Sono il mito realizzato del cinema, la concentrazione emozionale e fascinativa più forte che diventa vettore di cattura totale del pubblico. Le star sono un ideale dell'io, insieme sostitutivo e fissato in concrezioni irreali e irraggiungibili, la proiezione di tutto quello che si vorrebbe essere e la sintesi di tutte le qualità fisiche e spirituali del proprio oggetto del desiderio. È certo l'uomo ideale per la donna e la donna ideale per l'uomo. Ma è anche l'uomo che gli uomini vorrebbero essere e la donna che gli uomini vorrebbero avere. E viceversa. È un misto di essere e di avere, di modello e di oggetto da possedere, e in questa dinamica di rifrazioni sembra rinviare ancora ai meccanismi dell'Edipo. Ma è anche la forma schermica attraverso cui l'io si misura con le proprie profondità psichiche, i modelli esistenziali in cui si proietta l'ideale dell'io. In genere il divo è oggetto di una pulsione di amore che cerca un oggetto su cui riversarsi. Il divo e la diva sono prevalentemente il terminale di un desiderio di innamoramento che la banalità del quotidiano non può soddisfare. Come in The purple rose of Cairo (1985; La rosa purpurea del Cairo) di Woody Allen, il desiderio della spettatrice è un infinito irreale che solo lo schermo può soddisfare. Come nei film di Marlene Dietrich, lo spettatore desidera la seduzione infinita di uno sguardo e di un corpo capace di strapparlo alla mediocrità dell'esistenza per fagocitarlo nella no man's land della fascinazione pura. I divi sono l'affermazione senza limiti dell'immaginario puro, il dispiegarsi senza controllo di una potenza della seduzione che distrugge ogni fenomeno, ogni evento per affermare l'immaginario come unica realtà effettiva.Certo il divismo e la potenza delle star hanno conosciuto momenti di forza differenti collegati a epoche diverse della storia del cinema, e gli ultimi decenni del 20° sec. hanno segnato sicuramente un declino non solo dello star system ma della stessa esistenza della star. La grande stagione del divismo, certo ormai conclusa, si è affermata tra gli anni Venti e la fine degli anni Cinquanta con un pubblico forse più ingenuo e più disposto ad accettare il proprio desiderio di idoli come una forza che può legittimare la distruzione dell'oggettività a favore delle mitologie dell'immaginario. Ma l'orizzonte delle star conserva un'intensità pura in cui lo spettatore si annulla e si esalta in una radicale perdita di sé, nella pura volizione dell'infinito e dei miti.
Anche se il cinema presenta qualche volta figure di donne capaci di assumere un ruolo attivo e di diventare soggetti dinamici nell'economia del film, è evidente che nell'universo del cinema la donna è soprattutto oggetto dello sguardo dell'uomo che la colloca in una funzione subalterna. La Feminist Film Theory ha studiato con grande intelligenza e indubbia polemica le dinamiche psichiche attivate dal cinema e le strutture del rapporto spettatoriale, assumendo naturalmente il punto di vista della donna. Gli studi di L. Mulvey (1989), che costituiscono uno dei punti di partenza della ricerca femminista del cinema, hanno delineato modelli diversi di rappresentazione della figura femminile nel cinema classico. La donna è prevalentemente icona, immagine, oggetto passivo dello sguardo maschile. La sua presenza iconica forte è legata agli investimenti sessuali dell'uomo e generalmente non sviluppa un'autonomia attanziale. Nel cinema classico di indubbia impronta patriarcale, il personaggio femminile appare come un soggetto che ha la forza della bellezza e della seduzione, ma non dell'azione, che può essere investito dallo sguardo maschile, ma non può diventare il perno di uno sguardo autonomo. Insieme l'immagine della donna evoca per l'uomo la castrazione possibile. Nell'immaginario filmico l'inconscio maschile sfugge all'angoscia della castrazione attraverso due strade: il voyeurismo, collegato al sadismo, e la scopofilia feticistica. Il voyeurismo-sadismo implica una storia e un rapporto di subordinazione della colpevole con la punizione o con il perdono. Nella scopofilia feticistica invece la pulsione erotica è incentrata solo sullo sguardo. I film di Alfred Hitchcock e di von Stenberg costituiscono due straordinarie esemplificazioni immaginarie della struttura voyeristico-sadica e di quella scopofilico-feticistica. Il voyeurismo hitchcockiano è moltiplicato dalla soggettiva, da espliciti punti di vista del soggetto, da percorsi di identificazione che legano fortemente lo spettatore allo sguardo. Mentre la valorizzazione sostitutiva o la scomposizione del corpo della donna attuate da von Stenberg esaltano la pura bellezza come oggetto intensivo della scopofilia e dei meccanismi sostitutivi del feticismo. Queste dinamiche dell'immaginario costituiscono per la Mulvey i modi di controllo dell'oggettivazione della figura femminile dentro l'universo maschile. Ma se, secondo la Feminist Film Theory, l'immaginario cinematografico si configura nella forma delineata dal punto di vista maschile, come è possibile l'identificazione e il piacere della spettatrice? M.A. Doane (1991) individua alcuni modi possibili di fruizione, di trattamento o di rielaborazione dell'immaginario filmico da parte della donna, dalla mera identificazione con la figura passiva e subalterna vista sullo schermo, all'assunzione di un punto di vista che accetta le componenti femminili come elementi di forza e li esibisce in una sorta di maschera alternativa all'ottica maschile. La spettatrice critica, cioè, può attuare un'identificazione alternativa con il femminile in quanto è esibito, enfatizzato e surdeterminato.
Ma esiste naturalmente un'altra possibilità di espressione per il punto di vista femminile nel cinema ed è il progetto, variamente realizzato, di esprimere la soggettività e l'identità femminile in un rapporto di opposizione al cinema maschile. Le esperienze di cinema al femminile sono ovviamente molteplici e attraversano con difficoltà la storia del cinema, che resta prevalentemente un'istituzione maschile. Suo carattere fondamentale è pensare e rappresentare la donna come differenza sessuale e come differenza di identità, cioè come soggetto non riconducibile al modello maschile e capace di oggettivare percorsi di alterità più o meno radicale. L'affermazione della figura e del punto di vista della donna come differenza e come differenza sessuale pone l'immaginario cinematografico al femminile come un orizzonte di forte conflittualità rispetto all'immaginario diffuso consolidato del cinema istituzionale. La realizzazione della differenza della donna, in ogni modo, non è legata soltanto alle figure, ma investe anche l'orizzonte del linguaggio, dello stile. Si tratta della ricerca di un altro modo di rappresentare, di una maniera diversa di pensare e di attuare la messa in scena; è la scelta di un'altra ottica, di un'altra logica di visualizzazione. Le esperienze del punto di vista femminile sono quindi legate a percorsi produttivi e realizzativi difficili e particolari, effettuati con indubbia marginalità rispetto all'istituzione cinematografica: da Germaine Dulac a Chantal Akerman, da Margarethe von Trotta a Yvonne Rainer, da Agnès Varda a Marguerite Duras, le autrici più rigorose hanno cercato di esprimere la radicalità della differenza in esperienze creative di forte originalità. Altre autrici invece, più integrate nel sistema produttivo, come Alice Guy e Dorothy Arzner, Ida Lupino e Lina Wertmüller, Liliana Cavani e May Zetterling, Helma Sanders e Kathryn Bigelow hanno cercato di valorizzare l'orizzonte femminile in un confronto interno/esterno con l'universo maschile. Ma in questa affermazione radicale dell'alterità possibile dell'immaginario cinematografico si affermano la sua infinita variabilità e il suo carattere di mobilità e di trasformabilità permanente. L'immaginario filmico, maschile e femminile, è strutturalmente metamorfico.a
Per la letteratura sull'immaginario, si vedano:
F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, Leipzig 1889 (trad. it. Crepuscolo degli idoli, Milano 1970).
S. Freud, Die Traumdeutung, Leipzig 1900 (trad. it. in Opere, 3º vol., Torino 1967).
S. Freud, Totem und Tabu, Leipzig 1913 (trad. it. in Opere, 7º vol., Torino 1975).
V.Ja. Propp, Morfologija skazki, Leningrad 1928 (trad. it. Morfologia della fiaba, Torino 1966).
G. Bachelard, La psychanalyse du feu, Paris 1938.
D. de Rougemont, L'amour et l'Occident, Paris 1939 (trad. it. Milano 1977).
J.-P. Sartre, L'imaginaire. Psychologie phénoménologique de l'imagination, Paris 1940 (trad. it. Immagine e coscienza, Torino 1948).
G. Bachelard, L'eau et les rêves. Essai sur l'imagination de la matière, Paris 1942 (trad. it. Psicanalisi delle acque, Como 1987).
G. Bachelard, La poétique de la rêverie, Paris 1948 (trad. it. Bari 1972).
J. Campbell, The hero with a thousand faces, New York 1949 (trad. it. Milano 1984).
G. Bachelard, La poétique de l'espace, Paris 1957 (trad. it. Bari 1975).
J. Lacan, Écrits, Paris 1966 (trad. it. Torino 1974).
G. Durand, Les structures anthropologiques de l'imaginaire. Introduction à l'archétypologie générale, Paris 1969 (trad. it. Bari 1972).
J. Lacan, Le Séminaire. I. Les écrits techniques de Freud, 1953-1954, Paris 1975 (trad. it. Torino 1978).
C.G. Jung, Die Archetypen und das kollektive Unbewusste, in C.G. Jung, Gesammelte Werke, 9º vol., t. 1, Olten 1976 (trad. it. in Opere, 9º vol., t. 1, Torino 1980).
C.G. Jung, Aion: Beiträge zur Symbolik des Selbst, in C.G. Jung, Gesammelte Werke, 9º vol., t. 2, Olten 1976 (trad. it. in Opere, 9º vol., t. 2, Torino 1982).
G. Durand, Figures mythiques et visage de l'œuvre, Paris 1979.
J. Burgos, Pour une poétique de l'imaginaire, Paris 1982.
G. Durand, L'imaginaire, Paris 1994 (trad. it. Como 1996).
J. Kristeva, La révolte intime, Paris 1997.
Ch. Chelebourg, L'imaginaire littéraire, Paris 2000.
Per la letteratura sull'immaginario cinematografico, si vedano le seguenti opere:
E. Morin, Le cinéma, ou l'homme imaginaire, Paris 1956, 1977² (trad. it. Milano 1982).
E. Morin, Les stars, Paris 1957 (trad. it. Milano 1995).
J. Kobal, Romance & the cinema, London 1973.
Ch. Metz, Le signifiant imaginaire, Paris 1977 (trad. it. Cinema e psicoanalisi, Venezia 1980).
R. Bellour, L'analyse du film, Paris 1980.
Th. Schatz, Hollywood genres, Philadelphia 1981.
G. Deleuze, L'image-mouvement, Paris 1983 (trad. it. Milano 1984).
F. Pelletier, Imaginaires du cinématographe, Paris 1983.
G. Deleuze, L'image-temps, Paris 1985 (trad. it. Milano 1989).
D. Serceau, Le désir de fictions, Paris 1987.
L. Mulvey, Visual and other pleasures, Bloomington (IN) 1989.
M.A. Doane, Femmes fatales. Feminism, film theory, psychoanalysis, New York 1991 (trad. it. Parma 1995).
Ch. Vogler, The writer's journey: mythic structure for storytellers and screenwriters, Studio City (CA) 1992 (trad. it. Roma 1992).