Percorsi introduttivi - La forma cinema nella sua evoluzione storica
La forma cinema nella sua evoluzione storica
Il cinema va pensato al plurale. È infatti un insieme di film, che formano un patrimonio di discorsi in immagini e suoni; è un'industria che produce e fa circolare questi film; è una forma d'arte che interloquisce con altri ambiti espressivi; è un medium che entra nel panorama dei mezzi di comunicazione di massa; è un oggetto culturale attorno a cui si intrecciano dibattiti, studi, polemiche; è persino la forma che il mondo sembra assumere quando si fa motivo di spettacolo, come ben chiarisce la frase corrente "Sembrava d'essere al cinema…". In parallelo, il cinema si è trasformato nel corso degli anni, e ha assunto profili e assetti sempre nuovi: è stato un'arte muta, per qualcuno un'evoluzione del mimo, per poi diventare un'arte parlante, qualche volta troppo vicina al teatro; è stato un'occasione di divertimento popolare, presentato in luoghi provvisori, per poi diventare un rito collettivo, da celebrare nelle grandi cattedrali dei cinema palaces; è stato un medium dominante, quasi l'epitome della comunicazione di massa, per poi diventare una nicchia, peraltro sempre prestigiosa, del più vasto campo dell'audiovisivo; è stato un luogo in cui si offrivano spettacoli rapidi ed eterogenei, quali erano i primi film in una o due bobine, per poi diventare uno dei luoghi tipici della narratività novecentesca, e cioè un ambito in cui il racconto disteso ha potuto sperimentare nuove vesti e nuove soluzioni.Il cinema va pensato al plurale. Anche quando si affronta solo uno spicchio di una realtà così complessa e così mutevole, come faremo nelle prossime pagine in cui ci concentreremo sulle forme di rappresentazione che il cinema ha elaborato, si ha infatti sempre a che fare con qualcosa che tende a travalicare i confini prefissati, e richiama irresistibilmente altre componenti. In particolare analizzeremo le grandi 'forme dello sguardo' che il cinema è venuto sperimentando. Queste forme hanno pesato innanzitutto sul tipo di linguaggio che i film hanno via via adottato, e più precisamente hanno determinato che cosa un film doveva mostrare, in che ordine e da quale prospettiva doveva farlo. Hanno però pesato anche sui processi produttivi, visto che il lavoro di 'fabbricazione' di un film ha sempre tenuto conto delle strutture formali che poi esso doveva adottare. Hanno pesato sul tipo di esperienza vissuta dallo spettatore, dato che i modi in cui viene messo in scena il reale hanno in buona parte determinato gli atteggiamenti e le posizioni che chi guarda un film viene adottando. Hanno pesato sui campi espressivi e comunicativi in cui il cinema si inseriva, dato che hanno condizionato il sistema di prestiti, differenziazioni, calchi ecc., tra le arti o tra i media. Hanno pesato infine sull'idea stessa di cinema, per es., sul ruolo sociale che gli è stato attribuito, dato che le maniere in cui è venuto raffigurando il mondo sono state ciò attorno a cui si sono più confrontate le opinioni correnti.Per esplorare le forme di rappresentazione del cinema e in particolare le sue grandi 'forme dello sguardo' verrà qui seguita una periodizzazione ormai largamente accettata (Gaudreault, Gunning 1989). Essa porta a distinguere tra cinema delle origini (dal 1895 agli anni a cavallo tra il primo e il secondo decennio del Novecento), cinema classico (dalla seconda metà degli anni Dieci agli anni Cinquanta, con ampie articolazioni interne) e cinema moderno (dagli anni Cinquanta in poi), cui si può aggiungere il cinema che si è definito a cavallo tra i due millenni, e che qualcuno chiama post-moderno. Definiremo le grandi 'forme dello sguardo' di ciascun periodo dando qua e là qualche indicazione sulle connessioni tra queste 'forme dello sguardo' e gli altri aspetti del cinema.Il cinema delle origini: mostrare e attrarre. ‒ Per quanto gli studi recenti (Dagrada 1995²) abbiano messo in luce l'estrema ricchezza e complessità delle soluzioni linguistiche adottate, è possibile tuttavia individuare alcuni aspetti ricorrenti.Innanzitutto si ha a che fare con inquadrature 'autarchiche': ciascuna ripresa esaurisce in sé stessa la presentazione di un evento o di una situazione, e, parallelamente, ciascun evento o situazione occupano una e una sola ripresa. Ciò è evidente nella primissima produzione: si pensi ai film di Lumière o di Edison, costituiti da una sola inquadratura, corrispondente alla lunghezza di una bobina caricabile nella macchina da presa. Ma ciò vale anche per la produzione che all'inizio del secolo comincia a proporre film con più inquadrature: se si considera un'opera come Le voyage dans la Lune (1902; Il viaggio nella Luna) di Georges Méliès, si può vedere che il passaggio da un'inquadratura all'altra coincide con la fine di una scena e l'inizio di una scena nuova, non legata alla precedente (Gunning 1990). La conseguenza è che le inquadrature si sommano tra loro, più che succedersi l'una all'altra; c'è un accumulo, più che una concatenazione. Di qui un evidente effetto sulla temporalità filmica: gli eventi rappresentati sembrano possedere una durata, ma non un autentico sviluppo.In secondo luogo si ha a che fare con uno spazio sostanzialmente piatto, privo di profondità: o meglio, con uno spazio meno unidimensionale di quello offerto, per es., dal teatro delle ombre o dalla lanterna magica, ma anche incapace di raggiungere quello spessore e quella percorribilità che altri dispositivi spettacolari come il panorama e il diorama avevano cominciato a sperimentare e che il cinema raggiungerà solo più tardi. La piattezza visiva del cinema delle origini è legata ad almeno cinque fattori (Burch 1991): un'illuminazione sostanzialmente verticale, che rischiara in modo uniforme il campo filmato; la fissità della macchina da presa, ancorata al treppiede; la sua posizione orizzontale e frontale rispetto a quanto è rappresentato; il frequente uso di fondali dipinti; e infine la collocazione degli attori, relativamente lontani dall'obiettivo della cinepresa, rivolti a essa nella recitazione, e con rari movimenti verso il davanti o lo sfondo della scena. Un tale sistema, tra l'altro, comporta nello spettatore la sensazione di essere 'esterno' al quadro dell'azione: in faccia agli eventi raffigurati, ma anche distanziato da essi.D'altra parte, l'immagine sullo schermo non sembra possedere degli evidenti punti di forza. Essa è per lo più policentrica, cioè caratterizzata dalla presenza contemporanea di più zone d'attenzione; specialmente i piani d'insieme appaiono brulicanti e confusi, sovraffollati di persone e di oggetti. Inoltre, quest'immagine è anche tendenzialmente centrifuga, nel senso che la realtà raffigurata spesso deborda dal quadro: i personaggi entrano ed escono dalla scena, gli ambienti proseguono verso il fuori campo, facendo capire che c'è dell'altro oltre a quello che si vede. Sotto questo aspetto, l'inquadratura del cinema delle origini (cfr. Burch 1991) appare come un ritaglio in qualche modo casuale rispetto al continuum spazio-temporale: non organizza chiaramente le presenze sullo schermo, né motiva quello che esclude, come una sorta di mosaico stipato di figure, pronto a lasciare molte tessere, anche importanti, fuori dei propri bordi. Con una raffigurazione che, proprio per questo, sembra catturare la realtà nella sua casualità e nella sua immediatezza: letteralmente, 'sul vivo'.In quarto luogo, il film si presenta come un testo 'non autosufficiente'. Il senso di quanto appare sullo schermo non è infatti sempre evidente; per renderlo chiaro ci vuole qualcuno che in sala commenti la vicenda rappresentata, un imbonitore che insieme valorizzi e spieghi quanto il film mostra (Le bonimenteur de vues animées, 1996); oppure che lo spettatore possa far ricorso alle sue conoscenze pregresse, in quanto romanzi, pièces e temi sono presentati per sommi capi, o per 'scene madri', e non nella loro completezza o nel loro sviluppo (Staiger 1992). E il fatto che chi segue il film deve utilizzare informazioni che questo non gli dà, contribuisce a far sentire lo spettatore 'esterno' a quanto vede.
A. Gaudreault e T. Gunning definiscono il profilo complessivo che emerge da tutte queste caratteristiche come un regime basato sulla mostrazione, cioè sulla semplice presentazione di una situazione, reale o fittizia, senza intenzione di 'raccontarla'; e sull'attrazione, cioè sulla volontà di fare di quanto appare sullo schermo, foss'anche una semplice ripresa dal vivo come nelle 'vedute' lumieriane, un motivo di sorpresa, un breve ma vivido spettacolo, un piccolo shock per l'occhio dello spettatore. Il cinema delle origini 'esibisce' la realtà, vera o finta che sia: non la espone secondo i canoni di un racconto compiuto e autosufficiente (interpretazione questa contestata da Staiger, 1992); la offre semplicemente alla vista, con un gesto che peraltro risulta assai forte già in sé. E il cinema delle origini 'attira' il suo spettatore: ne conquista l'attenzione per quello che mostra, si tratti di uno spaccato di vita realistico, o di un trucco volto a lasciare interdetti, o di un semplice primo piano che rende il volto ritratto terribile e mostruoso; e ne eccita la curiosità per la sua abilità nel riprodurre e nel ricreare il reale. Mostrare e attrarre; esibire e provocare. Di qui una struttura di spettacolo basata sul confronto esibizionista: sullo schermo appaiono delle immagini destinate a 'sorprendere' e a 'colpire'; nella sala, c'è uno spettatore che non dimentica mai d'essere al cinema. Un gioco di sfide incrociate, che rende assai densa la partita.
Sul piano della forma della visione, questi diversi tratti del cinema delle origini rimandano anche a un'altra, e parallela, caratteristica di fondo: l'esplorazione (più aperta che sistematica) delle possibilità legate allo sguardo. Possibilità in senso duplice: ciò che infatti viene messo in gioco è da un lato la capacità da parte del cinema di catturare e riproporre la realtà; anzi, di analizzare a fondo il mondo effettivo e insieme di proporre degli universi fittizi; dall'altro lato è l'ampiezza e la diversità degli aspetti che possono essere filmati; e cioè riproposti alla vista, ma spesso anche fatti scoprire. Dunque la locuzione possibilità dello sguardo va presa nel suo significato sia attivo sia passivo: rimanda tanto all'attitudine di chi guarda (la 'forza di penetrazione' della macchina), quanto all'estrema varietà di ciò che è guardato (la 'disponibilità' del mondo). Ciò significa che il nucleo che emerge e si impone è quello costituito dal binomio di vedere e potere; un 'potere' che a sua volta può essere inteso sia nel senso foucaultiano di 'sottomissione' (M. Foucault, Le mots et les choses, 1966), sia in quello di 'possibilità' (Friedberg 1993). E il binomio vedere e potere è connesso appunto per un verso alla straordinaria ricchezza del reale (vero o finto) offerto sullo schermo, per l'altro alla capacità del dispositivo cinematografico di soddisfare nello spettatore il desiderio di nuove esperienze scopiche.Pensare il cinema delle origini sotto questa prospettiva consente di chiarire meglio alcuni snodi essenziali. Innanzitutto aiuta a capirne la funzione. Nel corso dell'Ottocento, sul piano della percezione del mondo, si aveva a che fare con un fenomeno in qualche modo curioso: all'intensificazione degli stimoli visivi corrispondeva l'impressione di non riuscire più ad afferrare la realtà circostante. W. Schivelbusch illustra questa esperienza parlando dei primi viaggi in treno: il viaggiatore era sottoposto a un bombardamento di sensazioni e nello stesso tempo non arrivava a distinguere con precisione il paesaggio che gli scorreva sotto il naso (Geschichte der Eisenbahnreise, 1977; trad. it. 1988, pp. 24-67). Ma situazioni analoghe si trovavano anche in ambito urbano: la luce che penetrava all'interno di edifici in ferro e vetro come il Crystal Palace rivelava ai visitatori ogni segreto dell'ambiente e contemporaneamente faceva smarrire loro il senso dello spazio e dei volumi (W. Schivelbusch, Lichtblicke. Zur Geschicthte der künstlichen Helligkeit im 19. Jahrundert, 1983). Anche l'esperienza della folla (esperienza che con il 19° sec. divenne quotidiana) andava nella medesima direzione: l'individuo immerso in una moltitudine si eccitava per il numero e la varietà di coloro che la componevano e insieme non riusciva a inquadrare i volti che aveva davanti, né arrivava a conoscere per davvero chi gli era accanto (cfr. G. Simmel, Über das Abenteuer, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essais, 1911 e Die Grosstädte und das Geistleben, 1903, in Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, 1957). Rispetto a tali fenomeni, che caratterizzano l'epoca in cui nasce il cinema, quest'ultimo svolge un preciso ruolo: da un lato moltiplica ulteriormente gli scorci visibili, dall'altro li rende però pienamente afferrabili. Abbacina con la sua luce, ma mette in vista la realtà; regala nuovi scorci a ogni inquadratura, ma li rende anche perfettamente decifrabili; riempie lo schermo di presenze, ma non per questo sovrasta chi sta in sala. Insomma, esalta la ricchezza del reale (nel giro di pochi minuti, sullo schermo si affaccia il mondo intero); e contemporaneamente ristabilisce un dominio (lo spettatore può far suo questo mondo). In questo senso si può ben parlare di un gioco che comprende sia un'intensificazione sia una restituzione: il cinema alimenta ancor più la cascata degli shock visivi, ma pone anche un rimedio al senso di perdita che essi inducono.In secondo luogo, riferirsi al cinema delle origini come a un campo di possibilità legate allo sguardo aiuta a capirne anche la natura. Il modo principale in cui l'Ottocento viveva la crescente presenza delle tecnologie era vederle come un mezzo per disciplinare le forze della natura e, tramite queste ultime, per impadronirsi ulteriormente del mondo. Inoltre, i dispositivi ottocenteschi erano anche caratterizzati da un'estrema spettacolarità: basta pensare alla locomotiva a vapore, forse l'emblema più tipico di questo universo di macchine, e all'ammirazione che essa suscitava sia per le sue prestazioni sia per la sua bellezza. Ciò significa che queste tecnologie avevano parecchi tratti del cinema; e, reversibilmente, che il cinema delle origini rifletteva bene lo spirito delle tecnologie del tempo. Il suo lavoro sulla realtà del resto lo dimostra bene: in qualunque maniera lo si interpreti (catturare la realtà per avvicinarla a noi; ma anche catturarla per svelarne i movimenti più segreti; o per prolungare la vita degli esseri e delle cose; o per costruire con essa un mondo fatto della stessa stoffa dei sogni...), esso si presenta nelle vesti di un lavoro all'insegna dello sfruttamento e dell'appropriazione di quello che il mondo può dare; e di un lavoro che produce spettacoli e che appare come uno spettacolo esso stesso. In questo quadro, la scelta di mostrare e di attrarre appare di nuovo assai sintomatica.Infine, pensare al cinema delle origini nei termini di un'esaltazione delle possibilità dello sguardo consente di vederne anche le tensioni e le ambiguità. Ogni risorsa e ogni conquista hanno una faccia solare e una buia. Come nel caso della ferrovia: un dispositivo tecnologico che annulla le distanze e insieme sconvolge il paesaggio precedente con i suoi binari, i viadotti e le gallerie; che consente l'ebbrezza della velocità e insieme espone al rischio di incidenti. Il treno permette di assoggettare lo spazio e il tempo, e contemporaneamente ne fa saltare le misure. Allo stesso modo il cinema convoca sullo schermo l'intero universo, reale e immaginario, ma ne rivela anche gli aspetti meno tollerabili e consueti; riempie gli occhi dello spettatore, ma ne suscita anche il terrore o lo sconcerto. Non è un caso che nei film dei primi tempi i trucchi fossero così frequenti: utilizzati soprattutto per rovesciare le leggi della natura (un muro abbattuto ritorna intero; un tuffatore si solleva dall'acqua e si posa su un trampolino), presentano il mondo come incontrollabile e quindi come una potenziale minaccia. Né è un caso che nel cinema delle origini fossero così popolari la dimensione granguignolesca o quella erotica (teste mozzate, rustici striptease): la passione per il vedere aveva come contropartita l'incontro con lo spaventoso e l'imbarazzante (Gunning 1990), con l'imprevedibile (letteralmente: ciò che non ci si aspetta, e forse non ci si augura, di vedere) e l'osceno (letteralmente: ciò che di solito è, e forse dovrebbe restare, fuori scena).
Occorre aggiungere che le caratteristiche del cinema delle origini lo avvicinano a tutti quei luoghi e quei momenti in cui la vista viene insieme eccitata e alimentata. A. Friedberg (1993) discute a lungo di due tra questi luoghi o momenti: i grandi magazzini con la loro esposizione di merci; e i viaggi organizzati nel primo turismo di massa. In essi il cinema trova l'ideale preparazione per quello sguardo mobile (cioè in continuo passaggio da un oggetto all'altro) e virtuale (cioè pronto a catturare le immagini delle cose prima ancora che le cose in sé) che ne costituirà il tratto di fondo. In essi trova una situazione in cui le possibilità della visione hanno già motivo di esaltarsi; in cui l'occhio arriva a catturare il mondo, e il mondo arriva a rivelare tutte le sue ricchezze. Se invece si considerano più propriamente gli ambiti della comunicazione e dello spettacolo, la vicinanza maggiore è con quei media e quelle arti che fanno della performance e dell'interpellazione il loro punto di forza. Si pensi agli spettacoli di lanterna magica, ma anche agli intrattenimenti da fiera, al circo, al music hall e soprattutto al vaudeville, e cioè a quei luoghi in cui lo spettatore viene sorpreso con delle prestazioni 'straordinarie', provocato nelle sue abitudini e chiamato direttamente in causa (Allen 1980; Leutrat 1985); è qui che l'abbondanza degli stimoli e insieme la sfida a impadronirsene raggiungono il loro apice; è qui che la voglia onnivora di esperienze visive trova il suo nutrimento in una realtà piena di sorprese. E dunque avevano ben ragione quegli intellettuali del tempo che accusavano il cinema d'essere un fenomeno da baraccone; più ragione di quanto non ne avessero i loro colleghi dotati di spirito progressista, che per valorizzare la nuova arte la paragonavano alla letteratura, al teatro, alla pantomina, e dunque la iscrivevano direttamente nella grande tradizione estetica; semplicemente non capivano ‒ né gli uni né gli altri ‒ che alcuni degli snodi cruciali dell'epoca si manifestavano meglio in qualche numero approssimativo e generoso offerto nei baracconi che su molte scene, su molte pedane o su molte pagine di ponderosi volumi.Il cinema classico: narrazione e trasparenza. ‒ Come è noto, la transizione dal cinema delle origini al cinema classico è un processo abbastanza complesso: occupa grosso modo gli anni tra il 1907 e il 1914, ma con qualche anticipo e qualche ritardo; segue delle 'vie nazionali' (Italia, Francia, Inghilterra, Paesi scandinavi) spesso parziali e sfalsate tra di loro; trova comunque il suo punto di condensazione negli Stati Uniti, attorno a due nomi come la Biograph e David W. Griffith, che meglio ne interpretano le esigenze; e si conclude con la messa a punto di un sistema industriale e linguistico, identificabile nel cinema hollywoodiano, che avrebbe tenuto per più di quarant'anni, nonostante alcune rivoluzioni interne come l'introduzione del sonoro (Bordwell, Staiger, Thompson 1985; Burch 1991). Sul piano dei processi produttivi, il punto di passaggio più significativo è probabilmente quello (intorno al 1907) dal cameraman system al director system, che segna l'avvio di una progressiva specializzazione dei ruoli; o, sul piano dei prodotti, quello da un programma composito a un programma centrato su un lungometraggio di finzione (intorno al 1911); o, sul piano del consumo, quello da un'offerta 'occasionale' come era quella garantita dagli ambulanti a un'offerta 'stanziale', legata alla nascita di primi 'siti fissi' (i nickelodeons intorno al 1905, e i 'teatri in muratura', per es. in Italia intorno al 1907). L'orizzonte che si viene fissando è quello che avrebbe caratterizzato a lungo il cinema: un'industria capace di sfornare 'prototipi in serie' (ogni film è unico, e tuttavia assomiglia a ciò che si è già visto: di qui l'importanza dei generi), basata su un lavoro collettivo ben coordinato dalla casa di produzione (il producer è la figura che garantisce il funzionamento della macchina), mirata a massimizzare il consumo dei propri prodotti (ogni film deve possedere un universal appeal), e diffusa, a partire dal suo centro elettivo, Hollywood, in tutto il mondo (The American film industry, 1976). Ma i tratti che marcano il cinema come industria hanno una corrispondenza, e forse il loro stesso fondamento, oltre che nei processi tipici di tutta l'industria culturale del periodo, anche nei tratti che marcano il cinema come linguaggio. Ed è proprio sul passaggio dal modo di rappresentazione primitivo a quello classico che è importante soffermarsi.Il primo elemento da sottolineare è l'affermarsi di un principio di linearità: le inquadrature, anziché accostarsi l'una all'altra, si dispongono in una vera e propria successione. Il cambiamento è duplice. Sul piano della sintassi filmica, si passa da un regime di autarchia a un sistema di relazioni biunivoche: le inquadrature non appaiono più come segmenti autonomi, che esauriscono in sé stessi la situazione che devono mostrare, ma si collegano tra di loro; ciascuna richiama la precedente e prepara la successiva, proponendosi come seguito dell'una e premessa dell'altra (l'esempio canonico è: 'uomo armato che avanza ‒ pistola che spara ‒ avversario che cade'); o anche ciascuna riprende la precedente e si prolunga nella seguente, proponendosi come loro complemento e come loro integrazione (l'esempio canonico è: 'inseguitori ‒ inseguiti ‒ inseguitori'). Ciò consente tra l'altro di spezzare la scena in più momenti, e nello stesso tempo di tenerli uniti: nasce il découpage con il sistema di raccordi alla base del montaggio analitico (raccordi di saturazione, come nel caso del montaggio 'personaggio che guarda ‒ oggetto guardato'; raccordi di specificazione, come nel caso del montaggio 'totale ‒ figura intera ‒ dettaglio' ecc.). Sul piano delle grandi forme espositive, si passa invece da una struttura bipolare a una tripolare: anziché una situazione iniziale e il suo eventuale rovesciamento finale, il film offre un'apertura, uno svolgimento e una conclusione. Ciò significa che esso può progredire per gradi attraverso una fitta rete di passaggi; può insomma distendersi e acquistare un vero e proprio sviluppo. Il risultato complessivo è dare alla temporalità cinematografica un nuovo senso: non si ha più a che fare con una semplice durata, ma con un autentico divenire. Il tempo del film, da mero 'contenitore' di eventi, diventa una 'freccia' che ne accompagna l'avanzare; si fa tempo 'portante', tempo vettoriale (Burch 1991; Bellour 1980; Bordwell, Staiger, Thompson 1985). Si può aggiungere che la temporalità filmica nel cinema classico assume in realtà due forme, il più delle volte combinate: o si corre verso una meta finale, secondo un modello teleologico; oppure, sia pur più raramente, si mira a un punto da cui la vicenda può ricominciare, secondo un modello ciclico.In secondo luogo, emerge l'esigenza di organizzare meglio la porzione di realtà raffigurata sullo schermo: il quadro non si presenta più come uno spaccato relativamente caotico, ma comincia a strutturarsi sia in superficie sia in profondità. L'immagine filmica infatti acquista un senso di ordine: ciò su cui deve concentrarsi l'attenzione dello spettatore occupa la parte centrale del quadro (tecniche di centering); e se i punti d'interesse sono più d'uno, essi si collegano tra loro in modo da risultare o simmetrici o paralleli (articolazione destra/sinistra, o alto/basso). Contemporaneamente, l'immagine filmica acquista anche un senso di profondità: vengono dislocati nel quadro più centri d'attenzione su più piani diversi; viene impiegata un'illuminazione in chiaroscuro, con zone differenziate di luce; alle riprese in interno si alternano quelle in esterno, che distanziano la chiusura dell'orizzonte visivo; soprattutto si adottano più punti di vista, non solo frontali, ma anche 'interni' alla situazione presentata (si pensi alla costruzione che meglio esemplifica questo nuovo modo di girare, e che si imporrà con relativa rapidità: il campo/controcampo, in cui la macchina da presa si sposta alternativamente da un personaggio a qualcuno o qualcosa che gli è di fronte ‒ il suo interlocutore, o il suo oggetto di attenzione ecc. ‒ e in questo modo occupa letteralmente il cuore della scena). Il risultato è costruire uno spazio 'a tutto tondo': non più solo contemplabile, come è quello del cinema delle origini, ma in qualche modo tangibile e percorribile (cfr. Burch 1991).In terzo luogo, non è più necessario ricorrere a conoscenze possedute previamente o fornite in margine alla pellicola; il film suggerisce da sé tutte le informazioni utili per ricostruire e seguire la storia raccontata. Il testo insomma raggiunge una sua autosufficienza. Vari elementi giocano un ruolo essenziale in questo senso. Si pensi, per es., all'uso delle didascalie e poi, con il sonoro, alla frequente presenza di una voce narrante esterna (voice over) e, più in generale, ai dialoghi tra i personaggi: l'inserimento della parola nel corpo stesso della pellicola consente di rinforzare ed esplicitare il senso di quanto accade sullo schermo senza bisogno di alcun altro aiuto. Ma si pensi anche a come si stabilisce una corrispondenza sempre più stretta tra i comportamenti dei personaggi e i loro stati d'animo: ciò consente di leggere qualcosa di invisibile attraverso un insieme di gesti visibili, e dunque di arrivare ad afferrare pienamente quanto altrimenti sarebbe di difficile interpretazione. Soprattutto, viene offerto un sistematico collegamento tra i diversi dati presentati dal film: un indizio apparentemente casuale scioglie dubbi creati in precedenza; due eventi paralleli si illuminano a vicenda; un imprevisto rilancia l'attesa di come andrà a finire; un comportamento reiterato conferma il carattere del personaggio ecc. Il film crea un fitto gioco di richiami che si completano l'un l'altro, e in questo modo si rinserra su sé stesso. Il risultato è la costruzione di una trama complessa e coerente che si autogiustifica e si autoalimenta.In quarto luogo, chi sta in sala non si trova più a 'fronteggiare' il film; al contrario, viene 'risucchiato' nel mondo diegetico e si trova in qualche modo a 'vivere' quanto accade sullo schermo. Innanzitutto cambiano le condizioni di fruizione di una pellicola: si cerca di annullare il rumore del proiettore; si accentua il buio nella sala; si usano poltrone che consentono di isolarsi dal vicino ecc. (Gomery 1992). Ciò significa che non si ha più la continua percezione di 'essere al cinema': lo spettatore può dimenticare questa sua situazione. Poi cambia il tipo di immagine usata: da inquadrature che tendono a 'spiazzare' o a 'distanziare' lo spettatore, si passa a inquadrature che gli consentono di seguire gli eventi narrati dal miglior punto di osservazione possibile (tanto che il punto di vista offerto dal film si presenta come un vero e proprio vantage point), e contemporaneamente di non perdersi nonostante l'accentuata frammentazione dei piani. Si costituisce dunque una sorta di 'sistema di orientamento' interno. Infine, cambia il regime di comunicazione: anziché una continua interpellazione dello spettatore, chiamato in causa da quanto o da chi il film mostra, viene fatto scattare un processo di identificazione (Morin 1956; Metz 1977); chi segue il film si proietta nei personaggi in azione sullo schermo, ne condivide le avventure, ne sposa spesso lo sguardo (le soggettive), ne veste mentalmente i panni. Il risultato complessivo è che lo spettatore può immergersi nel mondo narrato: può inoltrarsi in esso senza smarrirsi; può occupare ogni suo punto e partecipare a ogni suo istante; può aderire alle vicende dimenticando letteralmente sé stesso e la sua effettiva condizione.Dunque una successione lineare delle inquadrature, che consente un'articolazione della scena e uno sviluppo della vicenda, con la conquista di un tempo vettoriale; una organizzazione del quadro sia in superficie sia in profondità, volta a dargli ordine e spessore; un film che si spiega da sé, e che richiama entro di sé il suo spettatore. Questi tratti riportano a due grandi caratteristiche di fondo del cinema classico: il fatto di essere un cinema narrativo, e il fatto di possedere una scrittura filmica trasparente.Che il cinema classico sia un cinema narrativo non significa semplicemente che racconti delle storie; significa piuttosto che è capace di integrare i singoli luoghi e i singoli momenti in un universo molteplice ma unitario, articolato ma coerente: in un mondo diegetico compiuto (cfr. Gaudreault, Gunning 1989; Chatman 1978; Bordwell 1985). Il film può moltiplicare le inquadrature, e con esse gli spazi e i tempi raffigurati; quel che conta è che l'insieme di questi spazi formi un territorio complessivo, in cui ci sia contiguità tra le diverse zone e possibilità di passare dall'una all'altra; e in parallelo che l'insieme di questi tempi disegni un arco più ampio, in cui ogni momento raccolga l'eredità del precedente e pesi sul destino del seguente. Insomma, se si pensa a The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione) di Griffith, è essenziale che la casa dei Cameron, il fronte di guerra, Washington, rientrino in un'unica mappa (si potrebbe dire: nella geografia di una nazione); così come è essenziale che in Intolerance (1916), sempre di Griffith, l'ultimo giorno di Babilonia, il venerdì della Passione, la notte del massacro degli Ugonotti costituiscano i passaggi di un'unica vicenda (si tratti pur della storia dell'umanità); è solo perché c'è uno spazio-tempo integrato che la narrazione può prendere piede.Va aggiunto che l'integrazione narrativa è rafforzata dal privilegio accordato all'azione: è infatti l'attività dei personaggi a far da collante tra i diversi luoghi e i diversi tempi. Così come va aggiunto che l'integrazione narrativa si riflette anche sul tipo di storia raccontata: una storia che, quale che sia la sua ambientazione, tende a mettere a confronto due posizioni apparentemente incompatibili e a trovare una mediazione tra di esse (si pensi al western, per es., a Stagecoach, 1939, Ombre rosse, con lo scontro tra lo sceriffo apparentemente inflessibile e il giovane che sembra aver imboccato la cattiva strada, e alla capacità di ciascuno dei due di 'adattarsi' all'altro).Se l'integrazione narrativa fa apparire il film come un organismo ordinato e compiuto e il mondo diegetico come parallelo a quello reale, la scrittura trasparente porta a mascherare tutti i passi che consentono di raggiungere un tale obiettivo. Il cinema classico infatti non tollera che venga svelata la finzione scenica e per far questo rimuove ogni riferimento alla lavorazione che sta alla base del film (tipica è l'interdizione all'attore di 'guardare in macchina'). Soprattutto, il cinema classico persegue un'apprensione diretta e senza fatica di quanto è narrato: procedimenti come il centering, il raccordo sul movimento e sullo sguardo, la proibizione dello scavalcamento di campo, la regola dei 30° ecc., mirano a far percepire la realtà sullo schermo pur tuttavia senza che ci si accorga che la si sta percependo.Tale scelta corrisponde a un orientamento più generale che sembra prendere piede nella prima metà del Novecento, e che porta a considerare i dispositivi tecnici non più come uno 'spettacolo' nel quale si celebrano la sottomissione delle forze della natura e la conquista del mondo, ma piuttosto come 'protesi' che prolungano in modo apparentemente naturale le facoltà dell'uomo. Non tutti aderiscono a un simile orientamento; basta pensare alle avanguardie artistiche, e alla loro scelta di rendere evidente e problematico il lavoro estetico assieme ai mezzi di cui si serve; ma la sua affermazione è chiara nel mondo della produzione e delle merci, in cui i principi dell'ergonomia e il sogno della robotica si fanno progressivamente strada (oltre che naturalmente nel campo della guerra, come suggerisce P. Virilio, Guerre et cinéma. Logistique de la perception, 1984). L'invisibilità della macchina cinematografica va in questo senso.
Fin qui, sia pure in una rapida sintesi, i grandi caratteri del cinema classico. Lo sguardo che emerge da una simile situazione non è più chiamato a magnificare delle possibilità, ma a stabilire una necessità; non è più volto a evocare un potere, ma ad affermare un dovere. L'idea che sembra sostenerlo è infatti riassumibile nello slogan 'Si deve vedere così perché così impongono sia le leggi della visione sia le leggi della natura'. Dunque si ha a che fare con un imperativo, e con un imperativo che investe tanto lo sguardo in sé quanto l'oggetto dello sguardo: appunto, si 'deve' vedere così, e questo sia perché 'così si vede', sia perché 'così è ciò che si vede'.
Sul primo versante, il cinema classico sembra giustificare il proprio dovere attraverso un richiamo ai meccanismi della visione in generale: viene invocato un legame tra questa e la visione cinematografica, e viene stabilita un'obbligazione dell'una nei confronti dell'altra. Di fatto l'operazione è complessa, e si effettua attraverso più mosse. La prima consiste nel cercare di dimostrare che tra il dispositivo cinematografico e il dispositivo percettivo (ma più ampiamente, psichico) dello spettatore esiste una sottile equivalenza. Quest'idea, oltre a essere al centro di molti interventi teorici dell'epoca (si pensi tra tutti a H. Münsterberg, The photoplay. A psychological study, 1916, ma l'idea di una vicinanza tra le due 'macchine' punteggia tutta una linea teorica sul cinema, che da Münsterberg si spinge fino a Morin e a Baudry, ma anche a Bordwell), orienta a fondo la sperimentazione pratica che accompagna il cinema classico: infatti la ricerca della maniera migliore con cui filmare le cose obbedisce a questo principio; ed è in rapporto a esso che si possono capire le tecniche che man mano vengono in uso. Si consideri, per es., il modo in cui lo spazio viene suddiviso in diversi tipi di piani e il modo in cui questi piani si succedono in una sequenza (cfr. Bordwell, Staiger, Thompson 1985). In genere si va da una visione d'insieme dell'ambiente in cui ha luogo la vicenda (establishing shot), a una serie di inquadrature più strette, che accompagnano al centro dell'azione colta sia nei suoi momenti essenziali, con campi medi, primi piani, dettagli ecc., sia nelle reazioni che provoca negli astanti (reaction shot); l'azione è seguita nel suo svolgersi, fino a un'inquadratura finale che mostra l'ambiente eventualmente trasformato dagli eventi che vi hanno avuto luogo (re-establishing shot). Ebbene, tanto il modo in cui vengono scelti i piani, quanto il modo in cui viene costruita la sequenza, tendono a simulare l'esperienza percettiva di un osservatore presente alla scena (Burch 1991). In particolare, si cerca di riproporre il suo probabile percorso sul luogo degli eventi, dal suo affacciarsi sulla scena al suo avvicinarsi al cuore dell'azione, sino al distacco finale; più ancora, si cerca di riproporre la maniera in cui si disloca progressivamente la sua attenzione, dallo sguardo d'insieme alle occhiate più mirate, sino al rapido controllo in chiusura; e in qualche modo si cerca anche di riproporre il suo desiderio di sapere, dalla curiosità iniziale al prendere contatto diretto con gli eventi, sino alla saturazione finale. Dunque, sguardo del cinema e sguardo umano sembrano coincidere. In realtà, la corrispondenza è imperfetta: un osservatore effettivo vedrebbe per un verso meno bene, per l'altro qualcosa di più di quanto il film mostra al suo spettatore. Di qui la seconda mossa, che si sovrappone alla prima: se non si può stabilire una compiuta equivalenza tra i due sguardi, si può però assumere che quello cinematografico funzioni come funzionerebbe quello umano se quest'ultimo fosse al meglio delle sue possibilità. Ciò significa che lo sguardo cinematografico può essere eletto a 'forma ideale' dello sguardo naturale: ne ripropone i meccanismi di base, e nel far questo ne evidenzia i modi d'operare più consoni; ne ricalca i percorsi, e nel far questo ne mette in luce i comportamenti canonici. Detto altrimenti, lo sguardo cinematografico applica con puntualità quella 'grammatica del vedere' che ciascuno di noi segue quotidianamente ma in modo approssimato; anzi, la applica tanto bene da riuscire letteralmente a incarnarla. Ecco il punto: poiché l'idea di equivalenza non tiene, gli si fa subentrare l'idea di canonicità o di grammaticalità; se lo sguardo cinematografico è soltanto 'quasi' come lo sguardo umano, in cambio lo si può eleggere a 'esempio' dell'altro. L'effetto, paradossale, è quello di creare uno sguardo 'più vero del vero'; e comunque di ribadire il fatto che alla base del gioco c'è una necessità ('si deve vedere così perché così si vede, anzi perché così si deve vedere').Si ritrova la stessa dinamica anche a proposito del secondo dovere alla base del cinema classico, quello che investe l'oggetto dello sguardo anziché lo sguardo in sé ('si deve vedere così perché così è ciò che si vede'). Il gioco riproduce lo schema precedente, in quanto anche qui la prima mossa consiste nello stabilire un'equivalenza tra mondo raffigurato sullo schermo e mondo reale: un'equivalenza che è rafforzata dalla base fotografica del cinema, dalle tecniche della messa in scena, dalla scelta di personaggi che richiamano tipi umani ecc. Tuttavia il mondo sullo schermo è 'quasi' eguale a quello reale. Come dirà Jean-Luc Godard, al cinema il sangue è solo del rosso: nessuno muore veramente, e nessuno muore come veramente si muore. Di qui il bisogno di una seconda mossa, che accompagna e compenetra la precedente: il mondo sullo schermo, se non è un duplicato perfetto del mondo in cui viviamo, è però una sua rappresentazione ideale, che ce ne restituisce i dati essenziali; quelli che nel caos dell'esistenza altrimenti non coglieremmo. Ciò significa che il mondo fittizio si pone come canone del mondo reale: ne esprime gli andamenti tipici, le intime leggi; ne esplicita la 'grammatica' sottintesa. La presenza di un racconto è decisiva in questo processo: narrare vuol dire infatti far emergere la trama degli eventi al di là del loro apparente caos. In ogni caso il risultato è che l'universo sullo schermo può presentarsi come 'più vero del vero' (ciò che si vede è una realtà nella sua 'essenza'); e soprattutto che questo universo può invocare a sua misura la necessità (appunto, 'si deve vedere così perché così è il mondo, anzi così deve essere').
I meccanismi che sono stati brevemente ripercorsi spiegano la grande forza del cinema classico. Le sue immagini possono essere belle o brutte, ricche o povere, ma assai raramente sono approssimative: tendono infatti a incarnare un punto di vista cogente e insieme ottimale, quello da cui le cose vanno viste perché diventino subito chiare per il loro osservatore. Sotto questo aspetto ci possono essere delle scelte personali, ma non delle soluzioni casuali; c'è in gioco una convenzione, ma non l'intervento di un arbitrio.Anche i personaggi e gli eventi narrati possono essere interessanti o banali, vividi o piatti, ma non sono mai privi di senso: tendono infatti a tradurre figure e situazioni reali in qualcuno o qualcosa che ne possa rappresentare i tratti chiave, la sostanza dietro le apparenze. Si pensi, a questo proposito, a come gli atteggiamenti di Cary Grant diano corpo all'idea stessa di spigliatezza, o a come il volto di James Dean sintetizzi l'idea di disagio giovanile; ma anche a come il conflitto tra legge e desiderio si rifletta nel contrasto, tipico del melodramma, tra i doveri familiari e la tentazione extraconiugale, o nel contrasto, tipico del western, tra la necessità del settle down e il richiamo dell'avventura. Quanto occupa lo schermo tende a funzionare da sintesi e da emblema di quel che accade nella vita.
Del resto tutti i grandi generi hollywoodiani presentano dei personaggi e degli snodi narrativi che riprendono ed esemplificano caratteri e situazioni reali. Si pensi al musical, in cui la reversibilità di spettacolo e vita parla della necessità di conciliare l'essere e l'apparire. O alla sophisticated comedy, in cui l'emergere del capriccio (la scatenata Katharine Hepburn di Bringing up baby, 1938, Susanna, di Howard Hawks) parla del bisogno di bilanciare l'identità individuale e la norma sociale. O al western, in cui la solitudine del cavaliere senza macchia e paura (Shane, 1953, Il cavaliere della valle solitaria, di George Stevens) parla della difficoltà di mantenere una purezza di comportamento. O al gangster film, in cui il fascino esercitato dal gangster parla della pervasività del male e della sua prossimità con la riuscita sociale (su tali generi cfr. Altman 1987; Cavell 1981; Warshow 1962). Questi personaggi e queste situazioni, proprio perché richiamano delle realtà ricorrenti e ne riassumono i dati di base, non sono semplici stereotipi, ma si propongono come degli autentici archetipi, e cioè come delle rappresentazioni in cui ciascun spettatore può cogliere lo schema essenziale, la struttura profonda, di ciò che nella sua esistenza gli capita di incontrare in forme e occorrenze molteplici.
È d'altra parte proprio questa presenza di archetipi che consente al cinema classico di diventare un gigantesco 'laboratorio dell'immaginario collettivo': il più ampio tra quelli mai prima attivati. I suoi racconti offrono degli spunti e delle figure che entrano subito in circolo, nutrono competenze e memorie, aiutano a capire individui e fatti, collegano esperienze e culture diverse. Si compone così un patrimonio di simboli che servono a decifrare la realtà e insieme a parlare di sé e del mondo, ad ampliare lessici privati e insieme a forgiare un vocabolario comune, ad affrontare il contingente e insieme a cogliere l'essenziale. In questo senso si può anche dire che il cinema classico è il grande luogo in cui la nostra epoca ha elaborato i miti di cui aveva bisogno; miti diversi da quelli tradizionali (anche se ne ripropongono alcuni aspetti) che hanno però la stessa funzione dei precedenti, quella di offrire uno schema di interpretazione dei momenti più complessi e contraddittori della vita e di creare consenso attorno alle soluzioni proposte (oltre che di soddisfare il bisogno di storie e arricchire la dimensione della fantasia: sulla valenza mitica dei film e sull'analogia tra miti antichi e moderni cfr. McConnell 1979).
Sono necessarie almeno altre due notazioni. La prima: se i film offrono dei miti, debbono per forza innescare anche dei riti. Non è un caso allora che il consumo del cinema classico si presenti come un momento fortemente ritualizzato, in cui degli individui compiono dei gesti ricorrenti, e lo fanno all'unisono, fino a sentirsi parte (e insieme per sentirsi parte) di una comunità che va oltre il pubblico in sala. Di qui l'affacciarsi di un terzo 'dovere', che investe questa volta le pratiche della fruizione: 'si deve vedere così perché così vedono tutti'; andare al cinema, e andarci in quel modo, è segno di un'appartenenza e di una cittadinanza. Dopo la conformità alle leggi della percezione e la conformità alle leggi della natura, il cinema classico vanta, e propone, anche un'altra conformità quella alle leggi della società.
Seconda notazione: il dovere, il senso di necessità che governano lo sguardo hanno origine nella capacità di unificare attorno a modalità che appaiono 'naturali' (così si vede, così è il mondo, così si fa) individui che altrimenti non avrebbero lo stesso punto di riferimento. Gli anni in cui si afferma il cinema classico sono infatti segnati da alcuni processi di straordinaria portata: drastiche perdite di identità e di radici (la scomparsa di culture e di patrie determinata dalla Prima guerra mondiale), ampi fenomeni di deterritorializzazione (emigrazioni di massa, urbanizzazione accentuata), continue minacce di fratture sociali (le tensioni connesse alla Grande crisi), e per converso frequenti tentativi di trovare una rifondazione (in negativo, i grandi totalitarismi tra le due guerre), l'emergere di un orizzonte mondiale (il sentirsi cittadini del mondo, che si sovrappone al sentirsi membri di una comunità), e l'affermarsi di una cultura, la cultura di massa, che funge da nuovo sfondo unificante. In questo quadro, il cinema gioca la sua parte in quanto evidenzia quelle che sono, o che si pretende che siano, le 'grammatiche' rispettivamente del vedere, del reale e del sociale, e le propone come canoni cui conformarsi e in cui riconoscersi. Ciò che dunque viene messo in campo è un esplicito lavoro di integrazione culturale e sociale: questo cinema offre uno sguardo e delle visioni su cui è legittimo, e anzi doveroso, convergere. E congloba gli spettatori in un grande e unico pubblico, che spartisce la stessa percezione e lo stesso senso delle cose, o se si vuole lo stesso immaginario e gli stessi miti. In parallelo con altre arti che avevano cercato o cercano di compiere la medesima funzione (la letteratura e il teatro borghesi, la pittura accademica e antiaccademica fino alla fine dell'Ottocento, la fotografia di reportage ecc.; insomma, le arti della narrazione trasparente), questo cinema si propone insomma come guida in un mondo sempre più complesso e difficile.Il profilo del cinema classico così schematicamente tracciato trova negli anni tra il 1915 e il 1945 numerose e diverse interpretazioni. L'opera di 'canonizzazione' dello sguardo e del mondo si basa talvolta sullo sfruttamento di universi mitici già consolidati (si pensi a un genere come il western o a un regista come John Ford); talvolta invece affronta paesaggi meno sfruttati e comportamenti meno definibili (si pensi al film noir o ai personaggi interpretati da Humphrey Bogart); talvolta evidenzia la mediazione dello spettacolo (si pensi al musical); talvolta invece, magari all'interno dello spettacolo, accetta l'irruzione dell'attualità (il numero Remember my forgotten man, che descrive in modo straziante le conseguenze della Depressione, è ospitato in un back-stage musical come Gold diggers of 1933, 1933, La danza delle luci, di Mervyn LeRoy); talvolta insegue la quotidianità e talvolta ha di mira l'accensione melodrammatica (Meet John Doe, 1941, Arriva John Doe ‒ I dominatori della metropoli, di Frank Capra, e Casablanca, 1942, di Michael Curtiz); talvolta sceglie la prosa e talvolta tenta la poesia. Dipende dalle poetiche dei registi, e ancor più dalle politiche produttive degli studios e dai contesti sociali e culturali (compresi i contesti nazionali) in cui i film nascono e circolano.Naturalmente non tutto il cinema tra il 1915 e il 1945 rientra nel profilo tracciato; esistono esperienze estranee alla sua logica, dal cinema formalista sovietico (v. la voce formalismo) al cinema 'puro' francese, alle non poche sperimentazioni filmiche delle avanguardie storiche (v. la voce avanguardia cinematografica). Queste esperienze mettono in campo un'idea di cinema del tutto diversa: un cinema ancora concepito come uno spazio di attrazioni e come un'attrazione esso stesso, e dunque all'insegna della possibilità anziché della necessità (si pensi in particolare all'avanguardia; del resto lo stesso cinema classico continua a lavorare sulle attrazioni in parallelo al racconto, per es., nella slapstick comedy o nel musical o, sia pur sotto traccia, anche in altri generi: Gunning 1990); o un cinema chiamato a riprodurre i processi di pensiero, e dunque a farsi esplicitamente 'discorso' sulle cose, anziché loro 'riflesso' (anche se poi la natura con i suoi processi trova in questo 'discorso' un profondo riscontro: si pensi al secondo Ejzenštejn, e alla straordinaria riflessione che ci offre con Neravnodušnaja priroda, 1945-1949; trad. it. La natura non indifferente, 1981, 1992³). Come esistono delle varianti di classico, esiste anche un anticlassico che attraversa il periodo in questione. Resta tuttavia il fatto che per oltre trent'anni il cinema classico, con il suo cuore a Hollywood, è del tutto dominante, e che bisogna aspettare la fine della Seconda guerra mondiale per avvertirne le prime incrinature.
L'uscita dal cinema classico è un processo di lunga durata, cui contribuiscono molteplici fattori. Intervengono trasformazioni nello scenario sociale: il Conflitto, l'Olocausto e la Bomba rendono chiaro che il sogno di una comunità senza confini tenuta insieme dalle stesse visioni e dalle stesse sensazioni è solo un'illusione. Intervengono trasformazioni nella macchina cinematografica: l'industria dei film perde la sua compattezza, sia perché produzione ed esercizio vengono separati in forza di un'importante sentenza antitrust, sia perché viene emergendo un modo di produzione basato su produttori indipendenti, non sempre conformi alle politiche degli studios, sia perché si affacciano o si riaffacciano sulla scena numerose cinematografie nazionali, in grado di (o costrette a) sperimentare nuove vie. Intervengono delle trasformazioni nella composizione del pubblico: all'audience generalista e indifferenziata si affiancano pubblici più definiti e più mirati, pronti anche a un consumo di qualità. Pesano soprattutto trasformazioni nel panorama mediale: la televisione, che comincia a imporsi tra gli anni Quaranta e Cinquanta, assorbe funzioni e prodotti che prima erano propri del cinema.Disegnare i grandi tratti del cinema moderno, con particolare attenzione agli aspetti linguistici, è impresa complessa in quanto i punti di riferimento sono spesso contraddittori e perché le strade sono comunque assai diversificate. Si può provare a tracciare una mappa approssimativa del territorio. Il moderno nasce da due esperienze assai distanti, e tuttavia leggibili in parallelo, e cioè da un lato il cinema neorealista (Roberto Rossellini), con il suo bisogno di uscire dalla logica della messa in scena e di trovare un rapporto più stretto con il reale, dall'altro il cinema 'fiammeggiante' americano degli anni Cinquanta (Samuel Fuller, Nicholas Ray ecc.), con la sua esigenza di esasperare le convenzioni per esplorarne la tenuta e i limiti, le possibilità e i ricambi; matura grazie a registi come Michelangelo Antonioni o Ingmar Bergman, divisi per il modo di procedere, ma accomunati dalla volontà di piegare il cinema a forma espressiva; si afferma con la Nouvelle vague (François Truffaut, Jean-Luc Godard, Agnès Varda ecc.), ma anche con i 'nuovi cinema' degli anni Sessanta (europei, latinoamericani, asiatici), ciascuno con i suoi motivi ispiratori e le sue scelte stilistiche; si consolida con gli autori degli anni Settanta e Ottanta, impegnati nella ricerca di poetiche personali (Rainer Werner Fassbinder, Theo Anghelopulos, Woody Allen, Martin Scorsese, Andrej Tarkovskij), ma anche in una rivisitazione e in un ribaltamento dei generi sopravvissuti (Robert Altman); include sperimentatori che rischiano la marginalità (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Chantal Akerman), ma anche registi che vogliono interloquire con il grande cinema (Bernardo Bertolucci, ancora Scorsese); infine sembra trovare la sua celebrazione nell'opera di Wim Wenders, che fa del moderno, consapevolmente, una maniera. Il quadro è volutamente iperschematico: non si possono dimenticare i grandi maestri ispiratori come Jean Renoir; né tacere del ruolo di Orson Welles, il cui Citizen Kane (1941; Quarto potere) rappresenta per molti versi il culmine del classico e insieme il punto di apertura al moderno. Rimangono da individuare i tratti portanti di questo quadro.Innanzitutto c'è un'immagine non più attenta solo al cuore degli eventi rappresentati, e pronta a cambiare ottica quando la situazione si evolve (si pensi a come il cinema classico scegliesse l'inquadratura in funzione del fatto raccontato e come la cambiasse con l'avanzare della vicenda); al contrario, c'è un'immagine che vuole essere il più possibile disponibile e recettiva, decisa ad aprirsi a tutti gli aspetti e a tutti i momenti del reale, e dunque caratterizzata più da una curiosità diffusa che da un'attenzione mirata. Il rifiuto di ogni selezione preventiva o forzata si manifesta, per es., nel frequente tentativo di afferrare l'intero ambito o l'intero arco dell'azione, o associando nella stessa inquadratura i diversi partecipanti alla vicenda, o inglobando in un'unica inquadratura le sue diverse fasi. Nel primo caso risulta essenziale il recupero e l'uso della profondità di campo, che consente di tenere sott'occhio uno spazio in tutti i suoi piani simultaneamente; nel secondo è decisivo l'utilizzo del piano-sequenza, e cioè di una ripresa lunga abbastanza da esaurire una porzione di storia raccontata, e dunque in grado di restituirci in continuità l'intero sviluppo di un'azione, anziché i suoi singoli momenti, o solo alcuni tra di essi. La profondità di campo e il piano-sequenza (sui quali, in quanto procedimenti stilistici del moderno, rimangono fondamentali le analisi di A. Bazin) costituiscono effettivamente dei procedimenti abituali nel cinema moderno, sia da soli sia associati. Il loro impiego porta a cogliere l'azione non solo nella sua completezza, ma anche a ridosso dell'ambiente che la ospita; anzi, ad annegare l'azione nell'ambiente, in modo da spogliare l'una della sua eccezionalità e da far risaltare nell'altro la sua complessità. Infatti, se si raffigura l'azione in tutti i suoi momenti e con tutti i suoi partecipanti, essa perde la sua forza: si diluisce, si disperde (di più: quel che emerge è anche l'esistenza di stati di inazione; di momenti vuoti, di personaggi passivi). In cambio viene alla ribalta l'ambiente, e cioè quella porzione di mondo che accoglie un accadimento, ma anche che lo precede e lo travalica; che lo vede intervenire, ma che non ne è necessariamente influenzata. Il risultato è che sullo schermo non si ha più a che fare con punti 'culminanti' che ripropongono le fasi essenziali dell'evento raccontato, ma con porzioni di spazio e di tempo 'generiche' o 'indistinte', che colgono di un evento anche i passaggi meno significativi, e più ancora che dissolvono questo evento nell'orizzonte che lo ospita: zone e momenti 'qualunque', anche se non meno pregne.Parallelamente, c'è un'immagine che tende a sottolineare il proprio statuto di immagine: se da un lato essa esprime lo sforzo di arrivare il più vicino possibile al reale, dall'altro non nasconde di esserne una raffigurazione, e dunque di fungere da sua reinterpretazione più che da suo specchio. Ne deriva che il film, quanto più cerca di farsi testimone fedele e passivo dei fatti, tanto più deve accettare d'essere anche un oggetto linguistico, o un complesso di segni, e dunque, rispetto a quei fatti, un'illustrazione e un filtro. Di qui il frequente utilizzo di riprese che rinnovano e perturbano i tradizionali modi di filmare il mondo, a sottolineare la provvisorietà del prelievo e insieme l'intrinseca cinematograficità dell'operazione. Si pensi ai décadrages, e cioè a quel tipo di inquadrature che privilegia zone vuote, oggetti collocati lontano dal centro del quadro, corpi in bilico tra il campo e il fuori campo, e che così facendo spostano e complicano il punto di vista sulle cose, anziché scegliere uno sguardo piano e diretto su di esse: il risultato a cui portano è di rendere manifesto e problematico l'operato del cinema (Bonitzer 1985). Ma di qui anche un frequente lavoro sui generi, volto a mettere a nudo le loro regole di base e a farle apparire in tutta la loro evidenza e artificialità: sia per sottolineare la natura di costrutto del film, sia per cercare di rivitalizzarne le misure e le funzioni. Si pensi al pastiche, al calco ironico, all'utilizzo di secondo grado (J.-L. Godard, da À bout de souffle, 1960, Fino all'ultimo respiro, fino a Masculin féminin, 1966, Il maschio e la femmina, ne è maestro): il risultato di questo tipo di intervento è di evidenziare l'architettura su cui s'appoggiano le immagini e i suoni, e insieme di saggiarne la sua possibile tenuta.
Quale sia la piega che il film assume, resta il fatto che lo spettatore non viene più condotto, inquadratura dopo inquadratura, a ricostruire il mondo diegetico e a coglierne le intrinseche valenze, ma si trova a dover decidere in prima persona dove porre l'attenzione, come collegare le diverse porzioni di spazio e di tempo, quale rilievo dare a quanto viene vedendo. Di fronte ha delle porzioni di mondo prive di chiare linee di forza e ha delle rappresentazioni spesso ambigue riguardo al loro statuto; la sua sensazione dunque non può essere che quella dello spaesamento. Al quale può reagire o limitandosi a prendere atto di quanto gli viene mostrato (del resto il mondo è così: indecidibile...), o avventurandosi lungo sentieri del tutto personali, al punto da costruirsi lui la sua storia, e di scegliere lui i riferimenti di cui essa si nutre (del resto le vere lezioni sono così: piene di significati nascosti...).Questi tratti chiariscono bene come il cinema moderno si opponga al cinema classico nei suoi due assi portanti. Emerge in tutta la sua evidenza la dimensione antinarrativa. Se l'universo che si affaccia sullo schermo è indistinguibile e cifrato, diventa difficile metterne in luce la trama; anzi, questa trama forse non esiste affatto e, se c'è, si nasconde accuratamente tra le pieghe degli eventi; dunque lo spazio per il racconto è esilissimo; probabilmente è uno spazio perduto. Dall'altro lato emerge una sorta di opacità della scrittura. Se l'immagine mette in mostra la propria natura di segno, diventa inevitabile soffermarsi sulle ragioni per cui questi segni sono prodotti e sui modi in cui funzionano. Sullo schermo le cose possono mostrarsi in tutto il loro splendore, e nondimeno diventa chiaro il fatto che si tratta solo di raffigurazioni: rappresentare il reale smette allora di essere un gesto ovvio e scontato, che si maschera dietro la magnificenza del proprio risultato, e si trasforma in un atto problematico, da verificare e da giustificare a ogni passo.
Ma questi tratti evidenziano anche come alla base del cinema moderno ci siano delle spinte assai diversificate tra di loro (De Vincenti 1993). Da un lato c'è la voglia di arrivare alla verità delle cose: di afferrarle nella loro singolarità e concretezza, di restituirne la densità e l'indeterminazione, di recuperarne tutte le sottili dinamiche. Quel che importa è che il cinema sappia catturare e restituire la realtà. Dall'altro lato c'è la voglia di mettere a nudo i procedimenti che consentono di raffigurare il mondo sullo schermo: dunque di fare un cinema che prima di tutto rifletta su sé stesso, mostri la propria natura di 'di-scorso' sul reale, evidenzi la logica che lo sostiene. Quel che importa è che il film confessi e spieghi processi e meccanismi su cui si basa il suo lavoro di rappresentazione. In questo senso si può ben dire che nel cinema moderno esiste una perfetta coesistenza di realismo e di formalismo; l'attenzione alle cose e l'attenzione alla rappresentazione reclamano ciascuna un proprio spazio. Non deve stupire allora il fatto che in questo cinema si incontrino scelte stilistiche talvolta contrastanti: l'abolizione della messa in scena, in nome di una 'presa diretta' sul mondo, ma anche l'esaltazione della messa in scena, in nome dell'idea che ogni rappresentazione nasce da un 'lavoro' sul reale; una recitazione che mira al naturalismo, al punto da far scegliere attori presi dalla vita quotidiana, ma anche una recitazione che sfiora il virtuosismo, al punto da presentarsi come 'citazione' di gesti e posture già messi in atto; o una composizione figurativa che vuole rispecchiare la banalità del mondo, fino a lasciare un senso di vuoto, ma anche una composizione ipertrofica ed eccessiva, che sottolinea bene come ogni immagine sia un oggetto artificiale.
E il gioco delle polarità potrebbe continuare. In ogni caso si è lontani dall'equilibrio e dalla funzionalità del cinema classico, con la sua capacità di tenere insieme sguardo, mondo e rappresentazione; qui i tre termini sembrano dissociarsi l'uno dall'altro, e spingere ciascuno nella propria direzione. Soprattutto si è lontani dal senso di dovere che permeava quel cinema; l'orizzonte che emerge è tutto un altro.
Se infatti ci si concentra sulle forme della visione, si può ben dire che il cinema moderno liquida il cinema classico nel suo tratto di fondo: più che una connessione tra vedere e dovere, ciò che si impone è il legame tra vedere e sapere. L'idea che emerge è appunto quella che il cinema presupponga e insieme metta in gioco una qualche forma di conoscenza: una conoscenza che non coincide necessariamente con una spiegazione o una razionalizzazione dei fenomeni investigati, ma che tende piuttosto a farsi consapevolezza sia della realtà, sia dei modi in cui il cinema la coglie e la fissa sullo schermo; una conoscenza che ha qualcosa insieme della sensibilità, dell'appercezione e dell'autocoscienza. In questo nuovo orizzonte, i vincoli della necessità (appunto, il 'dover vedere') sembrano sciogliersi, sostituiti da un diverso tipo di virtù (appunto, il 'saper vedere'); e il paesaggio assume nuovi e più marcati profili.Va ribadito innanzitutto che il sapere del moderno ha indubbiamente più facce. Per un verso si presenta come sforzo di comprensione del reale: e dunque l'essenziale è prendere contatto con la realtà; anzi, stare già da sempre dalla sua parte con discrezione e di-sponibilità; solo se la si è capita nel profondo la si riesce a filmare, e filmandola a riproporla sullo schermo (o, se si passa dal cineasta allo spettatore, a ripercorrerla sullo schermo, e ripercorrendola a coglierne il senso). Per un altro verso, invece, questo sapere si presenta come riflessione sull'operato del film: se è vero che il cinema è prima di tutto un dispositivo grazie al quale costruire un discorso sulle cose, dando l'illusione di una loro presenza immediata sullo schermo, non resta allora che esplorare questo dispositivo, metterne a nudo i modi di funzionamento, portarne alla superficie gli effetti, rivisitarne i precedenti risultati. Dunque l'essenziale è avere una piena conoscenza della macchina cinematografica, per evitare che il film diventi semplicemente il luogo di un'illusione (o, sempre passando dal cineasta allo spettatore, per evitare che il film diventi una trappola in cui trovarsi prigionieri).
Insomma, c'è un 'saper vivere' (o, per chi segue il film, un 'saper rivivere') contrapposto a un 'saper mostrare' (e per lo spettatore un 'saper osservare'); un impegno maieutico (lasciare che le cose dischiudano il loro senso) contrapposto a un sistematico autoriferimento (rendere esplicito passo per passo ciò che si sta facendo); un'idea di cinema come sensibilissima antenna indirizzata verso il mondo contrapposta a un'idea di cinema come esercizio linguistico che si rispecchia in sé stesso; qualcuno potrebbe anche dire, Rossellini contrapposto a Godard. La linea di separazione tra i due fronti è almeno in apparenza chiara. E tuttavia il sapere che permea il moderno, per quanto si palesi in forme differenziate, unifica anche il territorio. Sia perché gli dà una base comune. Sia perché consente delle circolarità. È utile approfondire questo passaggio.Ripercorrendo i due fronti, ci si trova davanti in definitiva ora a un elogio dell'esperienza (l'essenziale è prendere contatto direttamente con le cose, prima di parlarne, e dunque di far intervenire dei segni), ora a un elogio del linguaggio (l'essenziale è padroneggiare l'universo dei segni, prima di dire qualcosa, e dunque di confrontarsi con il mondo). Nel corso del Novecento, queste due opzioni hanno portato talvolta a posizioni estreme, e cioè da una parte a un immergersi nell'esistente senza mai arrivare a rappresentarlo, dall'altra a un parlarsi addosso che pospone all'infinito il momento del rimando alla realtà. Tuttavia, ancor più spesso nel corso del Novecento l'esperienza e il linguaggio si sono mostrati come due misure strettamente correlate. In ciascuna si è infatti vista la premessa dell'altra. Ancor di più, in ciascuna si è visto l'affiorare dell'altra, nascosta tra le sue pieghe. Di qui una frequente sovrapposizione delle misure: ben esemplificata da quegli autori che combinano passione per la realtà e passione per i testi; o che si aprono programmaticamente all'universo circostante e altrettanto programmaticamente praticano la sperimentazione linguistica (si consideri a tal proposito la nozione di testo moderno avanzata da R. Barthes in De l'œuvre au texte, in "Revue d'esthétique", 1971, 3; trad. it. in Il brusio della lingua, 1988, pp. 57-64). Di qui, soprattutto, quella capacità del tutto tipica dell'opera moderna di presentarsi come uno spaccato di mondo in cui coesistono frammenti di reale e lacerti di discorsi, e nello stesso tempo come un testo autoregolato al cui funzionamento concorrono tanto scelte estetiche peculiari quanto un richiamo alle leggi della natura (il doppio richiamo alle leggi dell'estetica e alle leggi della natura appare del resto in molti dei 'manifesti' del Novecento). In altre parole: di qui la vocazione dell'opera moderna a proporsi insieme come ritratto e come autoritratto.
Queste dinamiche sono presenti anche nel cinema moderno. Più che delle scelte estreme, che pur non mancano (gli esempi più chiari si trovano nel cinema sperimentale, soprattutto nel cinema strutturale dell'underground statunitense), vi si incontra infatti una frequente circolarità tra i due poli. Richiami all'esperienza che finiscono in una celebrazione del linguaggio (si pensi, all'interno del Neorealismo, a Giuseppe De Santis). Tentativi di nuove strade sul piano del linguaggio giustificate dalla volontà di rappresentare meglio l'esperienza (8 1/2, 1963, di Federico Fellini). Ironia metalinguistica combinata con la ricerca di un'assoluta verità psicologica (Jean-Pierre Léaud contrapposto a Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi, 1972, di B. Bertolucci). Rivisitazione dei generi per azzerarne il potere di filtro (Mc Cabe and Mrs. Miller, 1971, I compari, di R. Altman). Confessione di sé che finisce nell'apologia del cinema (La nuit américaine, 1973, Effetto notte, di F. Truffaut). E così via. A suggello di questa circolarità si devono ricordare proprio Rossellini e Godard: in fondo non è un caso che l'uno dopo Roma città aperta (1945) giri un film metalinguistico come La macchina ammazzacattivi (1952), e che l'altro prima di Pravda (1969) giri un film che sfida i modi del documentario come Deux ou trois choses que je sais d'elle (1966; Due o tre cose che so di lei).In questo senso la consapevolezza che sottende sia il 'saper vivere' sia il 'saper mostrare' funziona come discrimine ma anche come tratto unificante. Infatti nutre ora un cinema a vocazione realistica, ora un cinema a vocazione metalinguistica. E nondimeno consente di cogliere dietro alle diverse scelte una medesima esigenza di fondo: tale esigenza consiste nel fare dello sguardo un'occasione di conoscenza, anche se non necessariamente determinata, razionale.Va aggiunto che questa tensione alla consapevolezza fa del film non più uno strumento pedagogico e direttivo, come era per il classico, ma un luogo di critica. Critica alle immagini e ai suoni tradizionali, in nome di immagini e suoni più pregni; alle forme di sguardo consuete, in nome di uno sguardo più acuto; all'esistente, in nome del possibile. Così come questa tensione alla consapevolezza spinge i registi a fare della ricerca e delle diverse opzioni che si prospettano loro una questione anche, se non soprattutto, di morale: vale a dire a proporre un'etica dell'estetica, secondo la bella definizione di Miccichè (1972, p. 18).Il cinema della tarda modernità: oltre l'immagine fotografica, oltre il consumo collettivo. ‒ Gli anni Ottanta, e poi con più decisione gli anni Novanta del 20° sec., vedono un'ulteriore mutazione di scenario. Il cinema doppia il primo secolo di vita e si trova impegnato in alcuni cambiamenti radicali. In particolare affronta due sfide che investono le sue caratteristiche di base, quelle che sembrano marcarne la natura più profonda: rispettivamente la sua natura di 'fotografia animata' e la sua natura di 'spettacolo a fruizione collettiva'. Da un lato infatti si elaborano nuovi modi di produrre immagini filmiche, senza passare per il dispositivo fotografico. È il caso di tutti gli effetti speciali basati sulle potenzialità dell'elettronica. I dinosauri di Jurassic Park (1993) di Steven Spielberg, a differenza di King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, nascono da un puro algori-tmo matematico: si materializzano sullo schermo senza aver mai avuto un'esistenza effettiva, neppure quella di un pupazzo. Con questo fanno compiere al cinema un vero salto (del resto già preannunciato da altri film, sia pure in modo meno esemplare, e destinato a farsi ancora più evidente quando si passa all'uso di attori virtuali): gli offrono cioè la possibilità di rinunciare agli oggetti, ai paesaggi, ai corpi; insomma, lo portano ad affrancarsi dal reale. Ora è chiaro che le immagini cinematografiche così ottenute (ma, per risonanza, anche le altre, che nel frattempo continuano a essere usate) non hanno quei tratti di credibilità, evidenza, pregnanza, che avevano le immagini cinematografiche tradizionali. Ciò che conservano è solo la somiglianza con la realtà (una somiglianza che può anche raggiungere il virtuosismo); perdono invece, e irrimediabilmente, il legame diretto, esistenziale, con il reale, non più chiamato a determinare con la sua presenza concreta quanto appare sullo schermo. Dall'altro lato si determinano nuovi modi di consumare il film, senza passare per la sala. Il cinema affronta una diversa e più articolata vita sociale: nelle videocassette o nei videodischi e nei supporti digitali; sul televisore di casa, offerto liberamente (come mezzo per l'acquisizione di audience da vendere a sua volta alla pubblicità), o tramite un abbonamento, o il pay per view, o il VOD (Video On Demand); trasmesso via etere, via cavo o via satellite; sullo schermo del computer, grazie al CD-ROM o via Internet. È evidente che un prodotto audiovisivo così fruito non scatena le dinamiche psicologiche o sociali, né lavora sull'immaginario o sulla consapevolezza critica di una società, né suscita l'adesione e il confronto, come i film fruiti nelle forme tradizionali. È un prodotto di consumo più diretto e insieme più flessibile.È appena il caso di ricordare che queste due mutazioni radicali intervengono in coincidenza con il delinearsi, sullo sfondo, di un nuovo paesaggio mediale: un paesaggio che nasce dalla confluenza di universo dello spettacolo e universo della comunicazione promossa dall'informatica (Le nuove tecnologie della comunicazione, 1993); e un paesaggio contrassegnato da almeno tre grandi tratti strutturali. In primo luogo, la presenza di conglomerati produttivi che si occupano non solo di cinema, ma anche di entertainment, informazione, telecomunicazioni ecc. In secondo luogo, l'offerta non di singoli prodotti o servizi, ma di 'pacchetti' compositi. Non è un caso che le sale tendano ormai ad avere anche un bookstore o un ristorante, e ancor più che siano sempre più spesso allocate all'interno di grandi centri commerciali, a fianco di decine di altri esercizi in cui si vendono sia beni materiali, sia beni immateriali (Friedberg 1993). In terzo luogo, una facile accessibilità ai prodotti e ai servizi di questo settore: essi sono in qualche modo perennemente disponibili, grazie all'enorme potenzialità di trasporto della rete distributiva, costituita sempre più da cavi che collegano un amplissimo numero di punti e su cui viaggiano segnali digitali. Ciò significa che l'acquisizione di un prodotto e di un servizio è determinata dai bisogni dell'utente (o almeno lo appare: in realtà le strozzature sono ancora numerose): quest'ultimo può costruirsi 'liberamente' il suo menu; e se è cinefilo, può comporsi il suo programma di visioni pescandole da archivi che funzionano da cineteca ideale.Dunque si è venuto a comporre un paesaggio mediale contrassegnato dalla globalizzazione, dalla disponibilità, dalla compatibilità, dalla multimedialità e dall'interattività. È evidente che il cinema in questo quadro perde la propria specificità e la propria autonomia e diventa parte di un territorio più vasto (cfr. Il cinema: secondo secolo, terzo millennio. Primo rapporto, 1998). La sua collocazione è spesso ai margini del sistema. Ne sono un esempio tutte quelle produzioni che al di fuori del mainstream perseguono caratteristiche come la capacità espressiva e autoriale, o la ricerca e l'innovazione estetica; valori tipici di una stagione precedente, ma che appaiono ormai defilati rispetto al nuovo mercato delle immagini e dei suoni. Ciò non significa che tali produzioni non offrano delle opere assai significative: anzi, offrono film straordinari ma in qualche modo 'di nicchia'. Infatti è forse in quest'ambito che si trovano alcuni dei capolavori recenti del cinema. Del resto è tipico: spesso il godimento estetico per realizzarsi ha bisogno di opere 'inattuali'. Molte volte però rispetto al nuovo quadro la posizione del cinema risulta centrale. Si pensi a quei casi in cui il film funziona da prodotto da traino, e si propone come perno di un'operazione complessiva (serve appunto a mettere sul mercato contemporaneamente un disco, un libro, un videogioco, una linea di moda ecc.: con conseguenze sia sul piano economico, sia sul piano dei processi simbolici); o si pensi a quei casi in cui il film mobilita le tecnologie avanzate su cui si basa il sistema, e assume il ruolo di vero e proprio laboratorio delle nuove forme di immaginario sociale (il riferimento è naturalmente al cinema degli effetti speciali, non solo 'giocattolo', ma anche nuova maniera di concepire il mondo); o si pensi a quei casi in cui il film opera da innesco o da terminale di nuove forme di esperienza visiva (per es., quando consolida l'uso di nuovi punti di vista, come le soggettive estreme o i grandi totali, sperimentati dapprima in televisione, in particolare nelle trasmissioni sportive, e destinati poi a passare ai videogiochi; o quando crea forme di fruizione che in qualche modo anticipano e preparano alla realtà virtuale, come nella Géode parigina, una sala completamente avvolgente).Del resto, i caratteri dei film che meglio interpretano la stagione che si potrebbe chiamare della tarda modernità (o anche della postmodernità, se quest'ultimo termine non fosse ormai un po' usurato: cfr. Canova 2000), sono proprio questi: grande investimento tecnologico, ampio valore d'uso e forti connessioni con il sistema. Cui corrisponde, sul piano del linguaggio, la ricerca della massima spettacolarità (l'esempio è S. Spielberg, opera omnia); la ripetibilità della formula, sia attraverso sequels o prequels, sia attraverso ve-ri e propri cloni, magari in forma parodica (Rocky, Rambo, Star Trek, ma anche la coppia Independence day e Mars attacks!); e l'uso di procedimenti derivati da altri ambiti espressivi o da altri media, e assunti spesso senza alcuna mediazione (SuperMario Bros, Jumanji ecc.). Di questo cinema (è chiaro, non l'unico prodotto in questa stagione, ma certo quello che meglio ne rappresenta lo spirito) Star wars (1977; Guerre stellari) di George Lucas è in qualche modo l'iniziatore e l'emblema. E nondimeno, anche quando assume una posizione di rilievo, anche quando si pone al centro del sistema, si tratta pur sempre di una parte del territorio complessivo: parte che deve avere coscienza dell'insieme.Lo sguardo tautologico. ‒ Sul piano dei modi della visione, la formula che contrassegna il cinema della tarda modernità o della postmodernità è 'ciò che si vede è ciò che c'è'. L'immagine filmica sembra infatti affermare la pura e semplice presenza di qualcosa sullo schermo: l''esserci' appunto di una 'figura da vedere', nulla di più; come in una tautologia. Ciò obbliga tuttavia ad alcune precisazioni.Innanzitutto, questo 'esserci' non ha alcuna pretesa o alcuna consistenza ontologica: non rimanda affatto in modo stringente all'esistenza di una qualche realtà, ma solo a delle presenze percettibili sullo schermo; non è impronta del mondo, traccia di un oggetto o di un corpo; è, se si vuole, puro significante. Parallelamente, non implica alcuna soggettività, e cioè non manifesta la presenza di un autore impegnato a esprimersi; è semmai solo una componente di un disegno (il più delle volte un progetto economico-industriale) cui corrisponde con perfetta funzionalità. Dunque nessun rinvio; nessun voler dire. Questo spiega bene perché le immagini del cinema della tarda modernità appaiono spesso 'indifferenti': possono suscitare stupore e ammirazione, ma non discriminano tra verità e falsità, o tra senso e insensatezza, né si distinguono tra loro sulla base di questi parametri. Anche se poi, per converso, questo cinema riserva delle immagini che, proprio perché sembrano riscoprire il gusto di un riferimento forte alla realtà, fosse anche quella del set, assumono un inedito impatto. Si pensi, per es., all'ultima sequenza di Schindler's list (1993; Schindler's list ‒ La lista di Schindler) di Spielberg, con i sopravvissuti all'olocausto che prendono per mano gli attori che ne hanno interpretato la parte, e la si confronti con il resto del film, e anzi con il resto del cinema di Spielberg, che è invece l'esempio massimo di 'indifferenza'. Ma si pensi anche ad Abel Ferrara, che con Snake eyes (1993; Occhi di serpente) o con The funeral (1996; Fratelli) combatte l''indifferenza' delle immagini attraverso una sorta di teatro della crudeltà, in cui gli attori sono portati a una condizione estrema, peraltro resa esplicita dalla storia raccontata. E si pensi soprattutto a David Cronenberg, che in particolare con Crash (1996) fa della 'indifferenza', sia delle immagini sia della vita e dei sessi, una sorta di ossessione tragica. Dunque, dopo l'annullamento della necessità che contraddistingueva il classico, emerge anche la fine della consapevolezza che marcava il moderno, in cui la sfida alla realtà e al linguaggio giocavano un ruolo essenziale. Al suo posto, uno sguardo che si limita ad allineare le immagini sullo schermo, a constatarne la presenza, a ottimizzarne gli effetti. Uno sguardo senza aggettivi: uno sguardo appunto tautologico.In secondo luogo, questo 'esserci' di un 'qualcosa da vedere' porta a costruire un mondo in qualche maniera paradossale. Non tanto perché si tratta di un universo che non ha più una connessione necessaria con quello effettivo. Quanto perché è un mondo che sembra aver perso i propri parametri tradizionali. Sullo schermo infatti si disegna spesso una realtà senza misura, troppo grande o troppo piccola, o se si vuole colta da troppo lontano o da troppo vicino (si pensi al frequente uso di inquadrature 'eccessive': il dettaglio estremo e il totale zeppo). Una realtà disomogenea, che accorpa oggetti e individui diversi tra loro e spesso incompatibili (si pensi alla straordinaria eterogeneità dell'universo di Blade runner, 1982, di Ridley Scott). Una realtà senza centro e senza direzione (si pensi ai mondi che letteralmente non stanno insieme, come quelli di frequente descritti da Brian De Palma, un regista che esplora a fondo il senso della dispersione). Una realtà senza origine o senza originalità (si pensi alla pratica del remake e della citazione: il déja vu non solo viene accettato, ma diventa anche un punto di forza). Una realtà senza conclusione e senza chiusura (si pensi alle serie: come ha spiegato Spielberg, non ci sono storie, ma solo episodi).Infine, questo 'esserci' di 'qualcosa da vedere' consente di caricare di valenze diverse i differenti tipi di consumo di cinema. Lo sguardo 'grado zero' che lo spettatore fa proprio a partire dal film può infatti 'rimodalizzarsi' a seconda delle diverse situazioni di fruizione (che coinvolgono diversamente il grado di consapevolezza dello spettatore, se appassionato, cinefilo, studente di cinema ecc.).Questi dunque i tre grandi aspetti che l''esserci' di 'qualcosa da vedere' mette in gioco: uno sguardo indifferente, che dà corpo a un mondo paradossale, e che assume valenze diverse a seconda dei contesti di fruizione del film. L'idea di una visione che si autodefinisce, o che inizia e termina su sé stessa (come si è detto: uno sguardo tautologico) dà ragione di tutti e tre questi tratti. Tuttavia il cinema della tarda modernità, sia per i suoi caratteri sia per il quadro in cui opera, non si limita a dare una particolare piega al suo sguardo: lo porta anche a confrontarsi con le sue frontiere, lo spinge oltre i suoi bordi. È su tale territorio liminare che si può concludere questo percorso.
Come già sottolineato, il cinema della tarda modernità perde quel legame con la realtà che pareva essenziale per produrre le immagini filmiche. Queste ultime non nascono più necessariamente da una realtà posta davanti alla macchina da presa. Acquisiscono in molti casi verosimiglianza, ma perdono il loro carattere di calco, di impronta: incrementano il loro valore di icone a scapito del loro statuto di indici. Ciò vale innanzitutto per le immagini create attraverso procedimenti elettronici; ma investe inevitabilmente l'intero corpo dei film. Uno degli effetti è che il cinema muta in qualche modo collocazione: non è più accostabile alle arti o ai media indessicali, in primo luogo alla fotografia; si avvicina invece ai media e alle arti iconiche, come la pittura, l'illustrazione ecc. Più precisamente, entra nell'area delle pratiche di simulazione, a fianco dei videogiochi, dei giochi di ruolo o della realtà virtuale. Del resto è proprio così che esso può continuare a mantener fede alla funzione che da sempre lo contraddistingue, quella di celebrare la vicinanza e la disponibilità delle cose, l'afferrabilità e la ripercorribilità del mondo. Alla fine del 20° sec. e agli inizi del 21° lo fa appunto simulando il reale: nell'impossibilità di agganciare il mondo grazie a un legame esistenziale, si limita a imitarlo, ma con tale perfezione che la realtà sullo schermo si può sovrapporre a quella effettiva.
Questo fatto muta profondamente gli equilibri su cui poggiava lo sguardo del cinema. Innanzitutto il vedere ridisegna i suoi rapporti con l'immaginare. La perdita dell'indessicalità infatti mette a nudo un dato di cui il cinema è consapevole da sempre, ma che spesso tende a tenere sullo sfondo: la natura fondamentalmente illusoria della presenza della realtà sullo schermo. Il film può ben celebrare la prossimità e la disponibilità delle cose: ma quello che ci mostra non è lì dove appare; se c'è stato, ora è altrove (Melchiorre 1972). In questo senso vedere al cinema significa da sempre colmare un'assenza, riempire un buco; insomma, fare i conti con una piccola allucinazione (Baudry 1978), che porta la percezione a intessersi appunto di immaginazione. L'immagine a base fotografica cercava di regolare questo problema vantando la propria natura di 'impronta del mondo'; un'impronta che conservava direttamente la memoria degli oggetti e dei corpi che l'avevano lasciata, e che dunque consentiva di evocarli esattamente come se continuassero a essere lì. All'effettiva assenza delle cose quell'immagine rispondeva con un richiamo così forte da renderle presenti. Il cinema della tarda modernità, con le sue immagini-icone, ribalta il meccanismo. Poiché non c'è più in gioco un legame esistenziale con il mondo, ma solo il tentativo di assomigliargli il più possibile, l'assenza delle cose appare del tutto chiara e insieme per nulla drammatica. Ciò significa che non si è più tenuti a evocare con forza ciò che di fatto non c'è; piuttosto, si è tenuti a riconoscere quello che sullo schermo appare; e a riconoscerlo nei due sensi del termine, cioè sia identificarlo sia accettarlo. Ecco il punto: si passa dall'evocazione al riconoscimento; il vedere si mescola sempre all'immaginare, ma questa componente di immaginazione cambia di segno. Si mescola al vedere senza timori e senza ritegni; in sintonia con la diversa maniera di rendere prossimo il mondo, o meglio, di costruire la prossimità del mondo.In secondo luogo, quasi per una forma di compensazione, il vedere si sposta ancor più verso il sentire. I film della tarda modernità infatti tendono a mobilitare l'intera gamma delle percezioni: impegnano per così dire tutto il corpo, e non soltanto l'occhio. Ciò è dovuto all'estrema ricchezza di stimoli che sanno dare: offrono delle immagini perfette, di grande dettaglio, in modo incalzante, proiettate su grandi schermi e accompagnate da musiche avvolgenti. Del resto questo è il loro campo d'azione: in quanto copie e non più tracce, devono riprodurre il pulsare del mondo, non evocarlo. Solo che nel riprodurlo lo portano all'eccitazione. Il risultato è che assistere a un film significa immergersi in una sorta di esperienza totale. Nella quale spesso non si è più guidati dal bisogno di ricostruire quanto appare sullo schermo, ma piuttosto dal piacere di abbandonarsi ai ritmi del film, alle sue suggestioni, alla sovrabbondanza dei suoni ecc.Questa intensificazione dell'esperienza cinematografica comporta un altro cambiamento: assistere a un film vuol dire sempre meno vedere una pellicola in un ambiente adatto, e sempre più entrare in un ambiente che la pellicola crea, proprio per la sua ricchezza sensoriale. Ciò è del resto in sintonia con una delle tendenze più evidenti nel campo dei media: dai media che si 'adattano' al proprio ambiente di fruizione (per es. il televisore) si passa a quelli che costituiscono essi stessi un ambiente in cui inserirsi (per es. Internet, con il suo creare una situazione di conversazione simulata cui l'utente accede).Infine il nuovo statuto delle immagini filmiche costringe il vedere a riconsiderare la sua relazione con il leggere e l'ascoltare. La parola, scritta o pronunciata, e più ancora la voce, occupano un territorio tradizionalmente opposto a quello dell'immagine; rappresentano il dominio della scrittura e dell'oralità di contro al dominio della visualità. Tuttavia la caduta dell'indessicalità nel cinema muta i termini del confronto: se non altro perché consente o costringe altri segni, altri media, a farsi impronta o calco del reale. Tra questi media, la voce sembra svolgere assai bene una tale funzione. È la voce infatti che sa richiamare meglio di ogni altra cosa la presenza di un corpo momentaneamente assente o sembra restituirne per davvero tutti i caratteri. Si pensi sul piano tecnico alla grande cura per gli impianti sonori della sala, quasi che l'immagine abbia bisogno di essere ascoltata prima ancora che vista. O si pensi, con una punta d'emozione, alla voce di J.-L. Godard che commenta le sue ultime opere, quasi che solo essa sappia rendere ragione della presenza dell'autore. O si pensi, esempio estremo, alle voci che riempiono lo schermo monocromo di Blue (1993) di Derek Jarman, uniche testimonianze possibili della verità di una vita.La voce, ma anche la parola. Compresa quella scritta, anch'essa capace di farsi traccia dell'esserci oppure dell'esserci stato di qualcosa più di quanto non riesca ormai a fare l'immagine.Settant'anni dopo che gli intellettuali di punta annunciavano trionfanti che 'il tempo dell'immagine è venuto', a sancire il passaggio dal vecchio testamento della cultura scritta e orale al nuovo testamento della cultura visiva, il cinema deve confrontarsi, e in modo nuovo, con una frontiera che forse aveva dimenticato. È probabilmente questa l'ultima sfida che un dispositivo ottico deve affrontare; il bordo estremo verso cui deve spingersi il vedere. Vedere delle lettere per udire una voce. Vedere con l'orecchio affidandosi all'ascolto. Vedere il brusio della realtà. Vedere a occhi chiusi.
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