PERETTI GRIVA, Domenico Riccardo
– Nacque il 28 novembre 1882 a Coassolo (valli di Lanzo), presso Torino. Fu ultimo di dieci figli, tre dei quali morti infanti, di Francesco e di Teresa Facta, imparentata con Luigi, uomo politico e, nel 1922, presidente del Consiglio. Il padre, notaio in Lanzo Torinese, per anni fu sindaco di Coassolo. Dopo gli studi dai salesiani e la laurea in diritto penale all’Università di Torino nel 1905, lavorò per quattro anni come procuratore legale in uno studio torinese. Fu alpinista come l’amico magistrato Umberto Balestreri, che lo iniziò alla passione per la fotografia (dimensione approfondita nella seconda parte di questa voce). Di lui, caduto in montagna, scrisse un commosso ricordo nel 1933 nella rivista torinese Alpinismo. Nel 1910 entrò in magistratura. Vi rimase per quarantatré anni, in una lunga carriera che dal primo ufficio di pretore a Mongrando lo portò (attraverso vari uffici giudiziari del Nord Italia) alla carica di primo presidente della Corte d’appello di Torino; con un unico intervallo, tra il 1915 e il 1918, quando fece parte del Tribunale militare della Terza armata. Nel 1915 sposò Angela Gallia, originaria di Camerano Casaschi (Asti); nel 1916 nacque la figlia Maria Teresa, che nel 1941 sposò il magistrato Alessandro Galante Garrone. La sua tempra di tipico «magistrato del vecchio Piemonte» (Galante Garrone, 1984, p. 326) d’impronta postrisorgimentale – con profondo culto dello Stato e fiero spirito d’indipendenza – non gli impedì di focalizzare l’attenzione e le numerose produzioni scientifiche su temi modernissimi per quell’epoca: le opere dell’ingegno e le privative industriali, la circolazione stradale, il condominio di case, gli infortuni sul lavoro e il contratto d’impiego privato, la delinquenza minorile, il diritto di famiglia. In quest’ultimo campo, nei primi anni Cinquanta, affermò una nuova giurisprudenza che portava alla delibazione delle sentenze di divorzio pronunciate all’estero, per impedire la quale fu varata un’apposita legge (il cosiddetto 'decreto anti-Peretti Griva'). Durante il Ventennio – animato da un antifascismo culturale e di stile prima ancora che politico – fu tra i principali esponenti di quella magistratura che costituì una minoranza eroica per la sua opposizione legalitaria alle prepotenze del regime. Alcuni episodi ne sono sintomatici. Nel 1931, come presidente del Tribunale di Piacenza, fissò un processo, pendente da tempo, contro tre capi del fascismo locale imputati di aver aggredito un avvocato e difesi dal gerarca Roberto Farinacci. Il processo, celebrato in un’aula affollata da miliziani in divisa, si concluse con la condanna dei tre. Quella sentenza – raccontò poi Peretti Griva – non provocò alcuna conseguenza negativa sulla sua carriera. Anzi, fu la «dimostrazione che anche in regime fascista, il magistrato era nella possibilità di ragionare con la propria testa e di seguire la propria coscienza». Perché «il conformista agisce da pauroso, anche senza che sussista, in concreto, una ragione» (Peretti Griva, 1956a, p. 327). Quando, negli anni Trenta, i magistrati partecipavano all'inaugurazione dell’anno giudiziario indossando la camicia nera, si rifiutò di farlo; e il presidente della Corte d’appello di Torino lo 'dispensò' dal partecipare alla cerimonia in quanto, non essendo iscritto al Partito nazionale fascista, non poteva «fregiarsi dell’onore di vestire la camicia nera» (Borgna, 2006, p. 118). Nel 1939, ai tempi delle leggi razziali, emise una sentenza che, contravvenendo alle disposizioni ministeriali, escludeva i nati da 'matrimoni misti' dalla soggezione a tali leggi. Al tempo della Repubblica sociale italiana guidò i giudici torinesi che rifiutarono il giuramento di fedeltà al nuovo Stato, riuscendo a convincere il guardasigilli Piero Pesenti – che si era recato appositamente a Torino – a esonerare i magistrati dal giuramento. Il 20 luglio 1944 il Comitato di liberazione nazionale del Piemonte, in previsione della Liberazione, lo nominò segretamente presidente della Corte d’appello di Torino conferendogli poteri eccezionali (con la possibilità di collocare a disposizione, per collaborazionismo, magistrati o cancellieri). Immediatamente dopo inviò ai presidenti di tribunale e ai procuratori del re del Piemonte una circolare in cui li invitava ad adottare tutte le misure organizzative affinché, nel momento dell’insurrezione, il popolo sentisse, fin dalle prime ore, che l’ordine giudiziario era presente e che dunque la giustizia doveva essere assicurata dai tribunali e non dalla piazza. In questo quadro, fu contrario ad affidare – nei processi politici del dopo Liberazione – il ruolo di pubblica accusa a commissioni di giustizia composte da membri designati dai partiti, perché questi organi avrebbero agito «in contrasto con un principio giuridico e politico che fu una delle prime rivendicazioni della coscienza civile moderna» (Neppi Modena, 1977, p. 346). Nel 1953 e nel 1956 raccolse le sue memorie e riflessioni in due libri, rispettivamente Esperienze e riflessioni di un magistrato ed Esperienze di un magistrato, da cui emerge limpidamente il suo profilo di magistrato: colto, tecnicamente preparato, con la 'schiena dritta'; capace anche, però, di mescolare queste qualità con il buon senso e con una grande attenzione e il rispetto verso gli uomini e le donne di quel popolo in nome del quale si amministra la giustizia. La sua visione dell’attività giudiziaria fu mite, quasi timorosa di quella che egli chiamava la «portata pressoché sovrumana della funzione affidata al giudice», sempre diffidente verso il «malinteso senso di orgoglio» del proprio ruolo. Al giudice che Calamandrei avrebbe voluto «inaccessibile come una divinità dell’empireo», oppose, in garbata polemica, un magistrato più modestamente vicino «all’umano consorzio», capace di conservare «normali rapporti con il mondo esterno». Non meno attuale l’idea che Peretti Griva ebbe del rapporto tra legge e sua applicazione. Il giudice – scriveva – pur essendo «sovrano nell’esercizio del suo altissimo mandato» di applicare la norma e pur potendosi ispirare a «criteri umani e non a elucubrazioni metafisiche», ha un limite preciso e invalicabile: la legge. La legge «non può mai essere superata, né più o meno artificiosamente contorta» dal giudice, con il fine «di rendere una giustizia che egli, soggettivamente, creda migliore» perché ciò trasformerebbe «il magistrato in legislatore; con violazione di quella divisione dei poteri che costituisce la base di ogni sano regime democratico» (Peretti Griva, 1956a, p. 263).
Nel 1953 Ferruccio Parri gli chiese di candidarsi alla Camera per Unità popolare ma rifiutò, pur appoggiando la lista. Morì a Torino l’11 luglio 1962.
di Paolo Borgna
Parallelamente all'impegno in magistratura, Peretti Griva si dedicò a quella che fu la sua attività più amata, la fotografia, sollecitato dall’amico Umberto Balestreri, nel solco della tradizione piemontese dei fotografi di montagna, cui a inizio secolo aveva dato impulso, nelle valli di Lanzo, il Club alpino italiano. Dovette iniziare intorno al 1905, sull’onda dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica di Torino del 1902, che consacrò il movimento pittorialista e fece emergere i fotografi piemontesi. A Torino, allora capitale della fotografia italiana, la cultura dei 'dilettanti' era sostenuta da sodalizi di fotografi amatoriali, mostre, convegni, corsi specialistici e da impegnati contributi teorici, in particolare di Guido Rey. La prestigiosa rivista La Fotografia Artistica contava su una commissione di artisti e su collaboratori internazionali; guardava alla rivista Camera work di Alfred Stieglitz, distinguendosi per una cultura più letteraria e per «modelli artistici consolidati» (P. Costantini, La fotografia artistica 1904-1917, Torino 1990, pp. 45 s.), in primis Lorenzo Fontanesi, fondamentale fonte d’ispirazione per gli inizi crepuscolari di Peretti Griva. Questi, per le tecniche fotografiche (in particolare la gomma bicromatata e il bromolio) dovette guardare a François Démachy, al belga Léonard Misonne e a Rodolfo Namias, per mettere poi a punto con originalità il procedimento del bromolio-trasferto (riporto su carta da disegno mediante torchio litografico, con ritocchi finali a mano) di cui scrisse a più riprese. La prima notizia di una sua foto, in base al suo archivio fotografico, ora al Museo del Cinema di Torino, risale al 1909. Poco dopo collaborò a pubblicazioni del Touring club italiano, pubblicando una foto nel 1911 (in Il bosco, il pascolo, il monte, Milano) e una nel 1912 (in Il bosco contro il torrente, Milano). Si conservano tra le prime foto una del Duomo di Vercelli, del 1914, e una di documentazione del luogo di un assassinio a Mongrando, dove era pretore, scattata nel 1915 (M. Franco, Fotografia e indagine giudiziaria: un percorso presso l’archivio del tribunale penale di Biella, in Studi e ricerche sulla fotografia nel biellese, II, Biella 2006, p. 117). La prima importante uscita pubblica avvenne nel 1923 a Torino, all’Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, dove ottenne la medaglia d’argento. Commissari per il settore fotografico erano, tra gli altri, Carlo Baravalle e Stefano Bricarelli che, con Achille Bologna, quell’anno spostarono da Milano a Torino la redazione del Corriere fotografico, dal 1924 organo ufficiale del gruppo piemontese per la fotografia artistica, cui Peretti Griva apparteneva. Sulla rivista, aggiornata sulle nuove esperienze internazionali, lontana dalla retorica del regime, e sul suo annuario Luci ed Ombre (1923-1934), a partire dal 1924 pubblicò diverse foto e articoli giuridici sulle prerogative della fotografia e sul diritto all’immagine. Partecipò da allora costantemente ai Salon d’arte fotografica internazionale di Torino e a sempre più numerose esposizioni in Italia e all’estero (Europa, Giappone, Canada, America), impegnandosi negli anni Trenta nella sezione fotografi artisti del Circolo degli artisti di Torino. Nel 1932 e nel 1933 insegnò stampa agli inchiostri grassi alla scuola di fotografia dell’associazione ALA (Ad Liberas Alpes) e dal 1933 al 1937 oleobromia al corso superiore di Cultura fotografica presso la Società fotografica subalpina. Fedele fino alla fine al linguaggio pittorialista, la cui fortuna, già incrinata con la prima guerra mondiale, andava declinando a favore di una fotografia 'modernista', pubblicò foto su diverse riviste di fotografia, tra cui Galleria, dove espose la sua poetica nel 1934 (n. 8, pp.16-18) nell’articolo Come dev’essere giudicato il valore artistico di una fotografia, confessando il suo «temperamento essenzialmente romantico, e tradizionalista» e la sua avversione a ogni «cerebralismo»; dimostrava però apertura verso la fotografia più moderna e astratta (come poi nell'annuario fotografico ALA del 1937) e la sua ammirazione per l’amico Italo Bertoglio. Del clima purista tenne del resto personalmente conto in questi anni nella ricerca di geometrie di luce. Nel 1934 scrisse sulla rivista Diritto e pratica commerciale (parte II, pp. 61-72) un articolo sul diritto d’autore, a tutela della fotografia come opera d’arte, seguito da un altro, nel 1942, sulla Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni (II, pp. 168-174) intitolato La fotografia nella nuova legge sui diritti d’autore, considerato da Italo Zannier (1985, p. 226) uno dei testi più rigorosi sul tema. Dei viaggi fotografici di questi anni si possono ricordare, dopo quello in Grecia del 1934, quelli del 1936 e del 1937 con gli amici Bertoglio e Mario Roccavilla in Francia ed Europa centrale, di cui restano suoi diari inediti. Dal 1948 pubblicò scritti di divulgazione e diversi volumi di fotografie (su Torino, Roma, Valle d’Aosta, e il Viaggio pittoresco seguendo gli impianti della SIP commissionatogli dalla società nel 1949). Fu in testa agli italiani per numero di esposizioni nelle statistiche degli anni Cinquanta dell’Annual photography americano. Effettuò nuovi viaggi fotografici all’estero, in Polonia, India, Libano e, nel 1955, in Cina, Paese che volle poi far conoscere con proiezioni pubbliche di diapositive. Nel 1962 la Federation internationale de l’art photographique gli conferì la prestigiosa Honoraire Excellence FIAP. È singolare che nel 1943, quando il pittorialismo era ormai generalmente ritenuto superato, sulla rivista Fotografia della Editoriale Domus, riferimento dell’avanguardia fotografica italiana, Ermanno Scopinich, curatore con Alfredo Ornano e Albe Steiner, pubblicasse un suo trasferto. Anche Carlo Mollino lo segnalò tra i pochi esempi positivi di una «pericolosa tecnica fotografica pittorica», nel suo caso «non gratuita», che evocava «un autentico mondo di poesia» (Il messaggio della camera oscura, Torino, 1949, p. 30). Spetta principalmente a Zannier, a partire da un articolo comparso sulla rivista Ferrania (1960, n. 4, pp. 2-7), la stessa sede dove Ornano nel 1948 l’aveva attaccato per i suoi procedimenti di manipolazione, la rivalutazione della sua qualità artistica e tecnica, messa in ombra dalla ricerca sociologica del secondo dopoguerra (I. Zannier, Storia della fotografia italiana, Bari 1986, pp. 291, 365). Anche frettolosi giudizi su un’arte considerata 'aristocratica' o di 'evasione' (un’alternativa, peraltro, al trionfalismo del regime) sono stati rivisti, dagli Annali della Storia d’Italia pubblicati da Einaudi, alle mostre Alinari, per le sue «fresche immagini di strada» (Falzone del Barbarò - Zannier, 1991, p. 30), il lirismo accentuato dalle personali didascalie, il candore che traspare anche nelle sue fiabe degli anni Cinquanta, l’empatia nei confronti dei più diversi tipi umani, di preferenza contadini. Dalle mostre a lui dedicate, intensificatesi dagli anni Novanta, si risale alla ricca bibliografia.
di Giovanna Galante Garrone
Opere. Esperienze di un magistrato, Torino 1956a; La famiglia e il divorzio, Bari 1956b; Il buon cittadino: introduzione alla vita civile e politica, Torino 1961.
Fonti e Bibl.: P. Calamandrei, Elogio dei giudici. Scritto da un avvocato, Milano 2008 (1954); A. Galante Garrone, Una spina dorsale, in I miei maggiori, Milano 1984, pp. 326-334; I magistrati italiani dall'unità al fascismo: studi biografici e prosopografici, a cura di P. Saraceno, Roma 1988; P. Borgna, Un paese migliore: vita di Alessandro Galante Garrone, Roma-Bari 2006; Dizionario biografico dei giuristi italiani, ad vocem (G. Cottino), Bologna 2013, pp. 1537-1539; A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna 2013. Sull'attività fotografica: I. Zannier - P. Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia (1839-1949), Milano 1985; M. Falzone del Barbarò - I. Zannier, Fotografia luce della modernità. Torino 1920-1950: dal pittorialismo al modernismo (catal.), Firenze 1991; Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946 (catal.), a cura di D. Reteuna, Torino 2002; P. Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi (catal.), Milano 2003, pp. 40-43; P. G. fotografo (catal.), a cura di L. Danna Leonardo, Torino 2004; G. Galante Garrone - C. Maraghini Garrone, P.G. fotografo per passione, in Memorandum. Festival di fotografia storica (catal.), Biella 2011, pp. 34-43; P.G. e il pittorialismo in Italia (catal.), a cura di C. Dall’Olio, Modena 2012.