Performance: strumenti per la misurazione e verifica
Il contributo analizza le principali modifiche apportate dal d.lgs. 25.5.2017, n. 74 alla disciplina sulla valutazione della performance organizzativa e individuale. A tal fine, esaminate le nuove regole sulla programmazione e sull’assegnazione degli obiettivi, viene dedicata particolare attenzione alla competenza nel valutare la performance organizzativa. Ciò per poi rinvenire il principale problema della recente riforma nella difficoltà di valorizzare appieno il significato giuridico-istituzionale della valutazione.
A distanza di circa un quinquennio dall’ultima riforma organica sulla valutazione, la l. 7.8.2015, n. 124 prospetta un ulteriore intervento su tale materia; un intervento collocato in una più ampia revisione della p.a. e da subito apparso di difficile attuazione. Tuttavia, nonostante le complesse vicende che hanno interessato la l. n. 124/2015 [1], il processo riformatore è andato avanti, generando, tra i tanti, anche il d.lgs. 25.5.2017, n. 74, che, nel modificare il d.lgs. 27.10.2009, n. 150, opera in tre diverse direzioni:
a) sulla disciplina destinata agli obiettivi;
b) sul quadro dei titolari della “funzione di valutazione”;
c) sul ruolo del Dipartimento della funzione pubblica.
Stando alla legge delega, le linee di sviluppo del d.lgs. n. 74/2017 dovrebbero essere accomunate dall’intento di potenziare i «processi di valutazione indipendente del livello di efficienza e qualità dei servizi e delle attività delle amministrazioni pubbliche e degli impatti da queste prodotti, anche mediante il ricorso a standard di riferimento e confronti» (v. art. 17, lett. r, l. n. 124/2015): un principio tanto centrale nella sistematica della legge da costituire il riferimento per leggere anche gli altri. Esso, in particolare, valorizza la valutazione del risultato – ossia l’esito finale dell’organizzazione o di un suo segmento autonomo – quale strumento giuridico-istituzionale per coniugare il crescente bisogno di autonomia organizzativa delle amministrazioni – indispensabile per fornire risposte efficaci ed efficienti agli utenti – con la doverosa imparzialità dell’azione pubblica. Quanto detto, del resto, non stupisce. A costituire l’essenza stessa della cd. “privatizzazione”, infatti, è l’opzione legislativa verso la “funzionalizzazione sintetica”, che proietta sull’attività organizzativa – intesa come complesso unitario di atti – l’obbligo di «assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»: l’effetto è che il suo esito ultimo, a differenza del singolo atto organizzativo, diventa il riferimento per appurare il rispetto dell’art. 97 Cost [2]. È questa, dunque, la soluzione legislativa per valorizzare la flessibilità organizzativa necessaria a modulare l’agire amministrativo, ricercando la sintesi di interessi maggiormente efficace ed efficiente: i “criteri” per svolgere l’“attività” e la cui osservanza va accertata nel rigoroso rispetto del principio di imparzialità [3]. Ciò impone di articolare un sistema di verifica del risultato basato su parametri oggettivi e svolto da soggetti “terzi”. Ad affermarlo è la Corte costituzionale da circa un decennio, sottolineandone la rilevanza cruciale in un quadro normativo incentrato sulla separazione funzionale tra potere di indirizzo politico-amministrativo e attività gestionale [4]. Secondo la Corte, da un lato si ampliano le competenze direttive dei dirigenti a fronte del potere di solo indirizzo della politica; dall’altro si impone il rigoroso accertamento di una peculiare forma di responsabilità dei medesimi dirigenti, che, fondandosi sul risultato conseguente alla gestione, ne richiede una verifica oggettiva: solo il binomio responsabilità-valutazione rende l’autonomia organizzativa incline a conformare lo sviluppo delle scelte di indirizzo ai principi di imparzialità e buon andamento. Sicché, rinunciare a una valutazione imparziale significa svuotare la separazione tra “politica” e “dirigenza” in un circuito pericolosamente autoreferenziale [5]. La valutazione del risultato, però, non ha ricevuto una disciplina appropriata: ne è esempio il d.lgs. 30.7.1999, n. 286, basato su logiche autoreferenziali. Non da meno è stato il d.lgs. n. 150/2009, che, pur definendo le coordinate normative della valutazione in parola, ha in più occasioni sovrapposto controlli interni ed esterni. Non meraviglia, dunque, il persistere di rilevanti difficoltà nella prassi dei sistemi di valutazione, ancora oggi molto variegate: a esperienze positive, che confermano la possibilità di sviluppare una proficua valutazione del risultato, si oppongono realtà dove le ambiguità normative costituiscono la principale causa delle note derive autoreferenziali.
Ebbene, dati i principi alla base del d.lgs. n. 74/2017, occorre chiedersi quanto le novità legislative provino a rilanciare un tipo di valutazione assolutamente cruciale per definire quel fondamentale triangolo relazionale composto da politica, dirigenza e andamento dell’organizzazione, che ancora aspetta di essere pienamente sviluppato.
Tra le norme destinate agli obiettivi rientrano, anzitutto, quelle sulla loro pianificazione: il d.lgs. n. 74/2017 collega la programmazione delle singole amministrazioni alle politiche nazionali, introducendo gli «obiettivi generali» – determinati tramite «linee guida adottate su base triennale con decreto del Presidente della Repubblica» – mediante cui identificare «le priorità strategiche» delle amministrazioni. Tali obiettivi sono destinati ad avere un’incidenza significativa sugli «obiettivi specifici» di ogni amministrazione: la cui programmazione – lo prevede l’art. 5 d.lgs. n. 150/2009 – deve essere coerente con gli obiettivi generali. Certo, il riferimento alla “coerenza”, data la natura politico-istituzionale del piano considerato, non è agevolmente decifrabile, ma lo stretto dato di diritto positivo induce a ritenere che gli obiettivi specifici debbano articolare i contenuti degli obiettivi generali: questi ultimi, pertanto, condizioneranno, seppur indirettamente, anche gli obiettivi dei dirigenti, la cui formazione si colloca nel perimetro degli obiettivi specifici. Continuando l’esame delle norme in parola, particolare attenzione meritano gli obiettivi dei dirigenti. Nel pianificare l’esito ultimo dell’organizzazione o di un suo segmento autonomo, essi sono alla base della valutazione sul risultato (rectius performance organizzativa), che, per essere oggettiva, non può prescindere dagli standard correlati ai servizi. E, se oggetto della prestazione dirigenziale è la gestione – tanto che il risultato finale va direttamente ricondotto alla sua esecuzione –, non sembra possa dubitarsi che gli esiti del giudizio sulla performance organizzativa costituiscano la componente quantitativa di una diversa valutazione: quella incentrata sulla prestazione di lavoro (rectius performance individuale), che ne accorpa il profilo quantitativo – cioè il suo l’esito ultimo rinvenibile, per l’appunto, nel risultato finale – alla dimensione qualitativa, identificata dalla legge nelle competenze sia dinamico-relazionali sia personali e, dopo il d.lgs. n. 74/2017, nei «comportamenti organizzativi richiesti per il più efficace svolgimento delle funzioni assegnate». Affiora, così, un rapporto osmotico tra performance organizzativa e individuale; un’osmosi valorizzata pure dal d.lgs. n. 74/2017. Significativo è il peso prevalente assunto, nella valutazione della performance individuale, dall’obbligo di calibrare i parametri per misurare l’elemento quantitativo della prestazione su quanto scandisce l’ambito della responsabilità di risultato: il riferimento è ai servizi e agli standard in funzione dei quali costruire gli indicatori di performance, che, come loro indispensabile riferimento, consentono di misurare l’obiettivo.
L’incidenza del d.lgs. n. 74/2017 sulla disciplina degli obiettivi non può dirsi esaurita; infatti, il co. 1-bis dell’art. 9, per i soli dirigenti individuati dall’art. 19, co. 3 e 4, collega la valutazione della performance individuale al «raggiungimento di specifici obiettivi individuali, definiti nel contratto individuale, e di quelli individuati nella direttiva per l’azione amministrativa e la gestione, nonché nel Piano della performance». La norma tocca un tema a lungo controverso: ossia, la natura dell’atto per assegnare gli obiettivi. Ma, se per un verso sembra valorizzare il metodo negoziale, per altro verso pone dei limiti al suo impiego di difficile comprensione. Al riguardo, giova osservare che, mancando specifiche disposizioni sull’assegnazione degli obiettivi, la soluzione bilaterale – è stato dimostrato in letteratura – costituisce l’unica strada percorribile, permettendo al dirigente di verificare se gli obiettivi proposti siano adatti a raggiungere gli standard e siano, altresì, appropriati alle risorse disponibili: una verifica necessaria se dall’obiettivo in parola dipende sia l’accertamento della responsabilità di risultato sia il conseguimento del premio. Sul punto non è possibile dilungarsi oltre, occorre solo aggiungere che l’assegnazione dell’obiettivo, da effettuare per ogni ciclo annuale delle performance, richiede una manifestazione del consenso ulteriore rispetto a quella espressa con il contratto che accede al provvedimento di incarico: la sua periodicità, tarata su quella del medesimo incarico, è incompatibile con i tempi del suddetto ciclo. Sicché, l’espressa configurazione contrattuale dell’obiettivo è sicuramente una scelta interessante. Certo, il riferimento al contratto individuale non è approfondito, ma, per le ragioni dette, difficilmente vi si può leggere un rinvio al contratto accessivo: ciò a cui si rinvia, quindi, è un diverso contratto individuale, volto a eseguire l’incarico dirigenziale. Non si comprende, invece, la limitazione ai dirigenti ex art. 19, co. 3 e 4, d.lgs. n. 165/2001 del riferimento al contratto individuale, giacché sia la responsabilità ex art. 21 sia gli incentivi retributivi – ovvero i fondamenti dell’opzione negoziale – operano per l’intera dirigenza. Da non trascurare, poi, è la scelta di “collegare” la valutazione della performance individuale dei dirigenti apicali (di cui al co. 3 dell’art. 19) e dei dirigenti generali (di cui al co. 4 dell’art. 19) al raggiungimento degli obiettivi contenuti nella direttiva generale per l’azione amministrativa e la gestione e degli obiettivi contenuti nel Piano delle performance. Sul punto è opportuno essere chiari: la direttiva e il Piano delle performance rientrano tra gli atti con i quali la politica, legittimamente, indirizza l’organizzazione, esprimendo le sue competenze programmatiche. Tuttavia, secondo la giurisprudenza costituzionale sullo spoils system, l’azione politica può incidere direttamente solo sull’operato dei dirigenti apicali. Ciò, naturalmente, non significa escludere, per la restante dirigenza, la connessione funzionale tra indirizzi politici e obiettivi: diversamente, l’implementazione del programma politico verrebbe pregiudicato. Tale connessione, però, si realizza in forma indiretta: avviene, cioè, con l’intermediazione della dirigenza apicale, che, secondo la citata giurisprudenza, è l’unica a dover attuare il complessivo programma politico e a garantire il complessivo buon andamento dell’amministrazione. Pertanto, data la genericità dell’espressione “collegare”, sembra ragionevole ipotizzare soluzioni interpretative che ne ricostruiscano il contenuto in funzione del dirigente considerato. Con l’effetto che la diretta rilevanza dei menzionati obiettivi programmatici sulla valutazione va limitata alla sola dirigenza apicale, mentre, per i dirigenti di cui all’art. 19, co. 4, d.lgs. n. 165/2001, il collegamento indicato andrebbe ricostruito tenendo ben presente il coordinamento svolto dai dirigenti apicali. Altro non è possibile aggiungere in questa sede, se non che la strada prospettata evita l’opposta soluzione, la quale presupporrebbe una diretta incidenza della direttiva e del Piano anche sugli obiettivi dei dirigenti generali; l’azione politica, quindi, si rifletterebbe sulla dirigenza in esame con modalità equivalenti a quelle proprie degli apicali: il problema, però, è che i suoi poteri gestionali finirebbero con l’essere completamente svuotati.
Nel riformare il sistema di valutazione del personale, il d.lgs. n. 74/2017 interviene anche sulle tecniche legali per differenziare i premi. In questo caso – è opportuno precisarlo – la valutazione viene intesa nella sua accezione più tradizionale, ossia quale strumento per incentivare prestazioni maggiormente integrate nel loro contesto organizzativo e, quindi, maggiormente appropriate a raggiungere il risultato finale. È a tal fine che il d.lgs. n. 150/2009 introduce la già indicata performance individuale, con la quale, sia per la dirigenza sia per il personale, misurare il quid pluris della prestazione rispetto al suo normale adempimento. Ebbene, al riguardo significativa è l’abrogazione delle fasce introdotte dal d.lgs. n. 150/2009; esse sono apparse da subito poco coerenti con il significato socio-organizzativo della performance individuale, facendone uno strumento di gestione del personale – dunque uno strumento interno all’organizzazione – rimesso a chi, della gestione, ha titolarità e responsabilità, senza, tuttavia, riconoscergli la dovuta autonomia [6]. Più precisamente, il problema dell’art. 19, non era tanto il compito dell’Organismo indipendente di valutazione (di seguito OIV) di realizzare la graduatoria del personale, bensì l’approccio autoritario e impositivo del d.lgs. n. 150/2009. L’obbligo di scaglionare il personale in tre fasce meticolosamente definite e l’automaticità degli esiti connessi alla collocazione in graduatoria, infatti, finivano con il comprimere l’autonomia nel verificare il conseguimento sia degli obiettivi sia dei comportamenti organizzativi e nel proporzionarvi l’entità del relativo incentivo. Con l’effetto che il premio non rappresentava più il normale sviluppo della performance realizzata. Principale strumento del mutamento di prospettiva è il contratto collettivo nazionale, competente a stabilire tanto la quota di risorse «destinate a remunerare la performance organizzativa e individuale» quanto i criteri per garantire «un’effettiva diversificazione dei trattamenti economici». Abrogato il sistema delle fasce, però, il d.lgs. n. 74/2017 rischia comunque di non valorizzare appieno la funzione socioorganizzativa della performance individuale, puntando su una fonte, il contratto collettivo nazionale, che da sola difficilmente può rilanciarla a livello di singolo ente: il d.lgs. n. 74/2017, al pari del d.lgs. n. 75/2017, sebbene la l. n. 124/2015 sembrasse valorizzare anche il contratto collettivo integrativo, punta unicamente su quello nazionale. Tuttavia, si è più volte osservato – da ultimo sulla scia di una nota pronuncia della Corte costituzionale [7] – che la contrattazione collettiva, per contribuire a raggiungere il risultato, deve esprimersi liberamente, senza subire pressioni legislative che ne limitano le potenzialità o che alterano il virtuoso binomio contratto nazionale-contratto integrativo: se il primo permette di inserire la retribuzione in un più ampio contesto di revisione dell’organizzazione, diretto a valorizzarne il buon andamento, con il secondo ciascuna amministrazione deve poter calare le voci retributive collegate alla produttività nel concreto della propria vicenda organizzativa, modellandole in modo da erogare un servizio efficace ed efficiente. Da non trascurare, infine, la scelta di «remunerare […] la performance organizzativa» oltre alla performance individuale: se la connessione – stabilita dal d.lgs. n. 150/2009 – tra premialità individuale e performance individuale non viene modificata, la scelta in parola implica l’introduzione di premi collettivi, da erogare secondo modalità stabilite nel contratto collettivo nazionale. La novità – è opportuno precisarlo – risponde solo in parte alla nota carenza di incentivi collettivi nel d.lgs. n. 150/2009, poiché la premialità in questione non può essere legata agli obiettivi di gruppo menzionati nell’art. 9, co. 2, lett. a), d.lgs. n. 150/2009; essa, al contrario, sarà basata sui soli obiettivi con i quali valutare la performance dell’organizzazione o di un suo segmento autonomo: a tanto induce il collegamento tra premio e performance organizzativa, la cui connotazione strutturale e funzionale non viene mutata rispetto a quella originariamente individuata dal d.lgs. n. 150/2009.
Nel passare ai titolari della “funzione di misurazione e valutazione”, rilevanti sono le norme sull’OIV, che, dovendo valutare la performance organizzativa, svolgono un ruolo cruciale nella “valutazione indipendente” menzionata dalla l. n. 124/2015. Ciò poiché l’imparziale valutazione sull’efficace ed efficiente svolgimento dell’azione amministrativa richiede, oltre a parametri oggettivi, adeguate garanzie di indipendenza in chi la effettua. Ed è proprio la traduzione giuridica di siffatte garanzie a costituire uno dei punti più complessi della disciplina sugli OIV; una complessità derivante da un assetto delle sue funzioni che sovrappone controllo sul risultato e controlli interni all’amministrazione: tra questi ultimi significativo è il controllo strategico, che presuppone una posizione contigua alla politica e in sé poco coerente con il principio di imparzialità. Ebbene, le ambiguità funzionali non vengono eliminate dal d.lgs. n. 74/2017, che si limita a valorizzare un ruolo degli OIV più dinamico rispetto a quello emergente, almeno formalmente, dal d.lgs. n. 150/2009.
Per comprendere tale dinamismo, va considerato che, in aggiunta alla valutazione della performance organizzativa, l’OIV esprime il parere vincolante sul sistema di valutazione e ne garantisce la corretta applicazione in ogni suo snodo. Quest’ultima attribuzione, già prevista dal d.lgs. n. 150/2009, si è esaurita in controlli puramente “notarili” e, spesso, privi dei dovuti approfondimenti istruttori. Certo, tali aspetti non venivano adeguatamente approfonditi dal d.lgs. n. 150/2009, ma ciò non ha impedito di ricevere, pur se in via interpretativa, la possibilità di seguire l’attuazione dei processi valutativi in modo dinamico: ossia, non limitandosi al controllo finale, ma fornendo un concreto supporto al loro sviluppo. Simile è il punto sui poteri istruttori: non formalizzati, ma desumibili dalla responsabilità dell’OIV nel rilevare l’anomalo svolgimento delle attività di valutazione [8]. Il d.lgs. n. 74/2017 prova a superare ogni dubbio e, al co. 4, lett. a), dell’art. 14, chiarisce che l’OIV, nel monitorare il funzionamento del sistema di valutazione, formula proposte e raccomandazioni ai vertici amministrativi. Per poi riconoscergli anche, nello svolgimento delle restanti funzioni del co. 4, il potere di accedere: «a tutti i documenti in possesso dell’amministrazione, utili all’espletamento dei propri compiti»; «a tutti i sistemi informativi dell’amministrazione, ivi incluso il sistema di controllo di gestione»; «a tutti i luoghi all’interno dell’amministrazione, al fine di svolgere le verifiche necessarie all’espletamento delle proprie funzioni, potendo agire anche in collaborazione con gli organismi di controllo di regolarità amministrativa e contabile dell’amministrazione». Rimangono da chiarire, a questo punto, le scelte per garantire l’imparzialità degli OIV. Per comprenderle, va considerato che le originarie misure del d.lgs. n. 150/2009 sono state sostituite da quelle del d.l. 24.6.2017, n. 90 e del d.P.R. 9.5.2016, n. 105. La previgente disciplina del d.lgs. n. 150/2009, in particolare, prevedeva una duplice competenza della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (di seguito CiVIT) [9]: formulare i requisiti per nominare i membri dell’OIV ed esprimere il parere, obbligatorio ma non vincolante, sulla medesima nomina. Tuttavia, in attuazione del d.l. n. 90/2014 e nell’ottica di un più ampio trasferimento di compiti dalla CiVIT al Dipartimento della funzione pubblica, il d.P.R. n. 105/2016 impone di individuare i componenti degli OIV tra i soli iscritti, previo possesso di peculiari requisiti, in un elenco nazionale. Abilitato a tenere l’elenco nazionale è il Dipartimento della funzione pubblica, mentre i requisiti per iscrivervi sono stabiliti dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. Su tale quadro si inserisce il d.lgs. n. 74/2017, confermando, con l’art. 14 bis, la disciplina appena richiamata: il co. 1 del citato articolo ribadisce il compito del Dipartimento della funzione pubblica nel tenere e aggiornare l’elenco nazionale secondo quanto stabilito dal «decreto adottato in attuazione» dell’art. 19, co. 10, d.l. n. 90/2014.
La novità, piuttosto, sta nel prevedere la nomina politica dell’organismo in parola: da tenere nella massima considerazione, poiché già qui emerge con forza il problema dell’indipendenza sui cui si tornerà a breve.
E nello stabilire la nullità della medesima nomina qualora fossero violate le regole dell’art. 14 bis: infatti, il d.P.R. n. 105/2016, pur non escludendola, si asteneva dal conferire alla politica simile attribuzione. E, ancora, una sicura innovazione è costituita dalla scelta di escludere dai possibili componenti degli OIV (v. il nuovo art. 14, co. 8, d.lgs. n. 150/2009) il personale interno all’amministrazione: un’opzione mai prevista dal legislatore e consentita solo in talune delibere CiVIT. Al riguardo, la scelta del d.lgs. n. 74/2017 è opportuna, essendo i soggetti interni all’amministrazione più facilmente esposti all’influenza politica, con effetti deleteri sull’imparzialità di cui gli stessi organismi dovrebbero essere dotati. Per il resto – durata dell’incarico, obblighi formativi, criteri generali per l’iscrizione nell’elenco nazionale – il d.lgs. n. 74/2017 interiorizza quanto già stabilito nel d.P.R. n. 105/2016.
Tra i titolari della “funzione di valutazione”, il d.lgs. n. 74/2017 include pure gli utenti finali del servizio, coinvolti nella valutazione della performance organizzativa: un coinvolgimento teso ad appurare la qualità dei servizi resi all’amministrazione e realizzato nelle modalità indicate dall’art. 19 bis.
Giova osservare che le indagini sulla soddisfazione degli utenti (cd. di customer satisfaction), pur non contemplate dal d.lgs. n. 150/2009, non costituiscono un’assoluta novità, essendo state valorizzate dalla CiViT. Significativa è la delibera n. 3/2012, dove le indagini di cui si discorre vengono ritenute necessarie al fine di testare il reale radicamento sociale degli standard per valutare il risultato: in loro assenza – si scrive nella delibera – il rispetto degli standard potrebbe assumere un significato solo formale senza garantire «un’effettiva soddisfazione delle esigenze degli utenti». La citata delibera, inoltre, individua anche i requisiti minimi delle indagini in questione (v. punto 3.6.4). Ebbene, tornando all’art. 19 bis, il legislatore, per un verso, rende doverose le indagini in parola, facendone uno strumento con il quale valutare la performance organizzativa. Per altro verso, però, si astiene dall’individuarne i requisiti minimi, conferendo alla “partecipazione” menzionata dalla norma un contenuto variegato e multiforme, declinato dall’OIV. Una scelta coerente con il suo ruolo istituzionale; se le indagini cd. di customer satisfaction contribuiscono a valutare il risultato in termini imparziali e se tale valutazione viene rimessa allo stesso OIV, non può che essere quest’ultimo a precisare come utilizzarle: diversamente, esse potrebbero essere impiegate per alterare la valutazione del risultato. La suddetta competenza, quindi, va ricondotta al suo ruolo di controllore imparziale del risultato e, più in generale, di garante dell’oggettiva correttezza metodologica della valutazione: un ruolo espresso con il “parere vincolante” sul sistema di valutazione dell’amministrazione e maggiormente valorizzato, data la ricaduta sulla verifica della performance organizzativa, proprio con il compito di predisporre le indagini sulla soddisfazione degli utenti. Il problema, piuttosto, è l’incidenza sul richiamato assetto del Dipartimento della funzione pubblica: nel predisporre i modelli per valutare la performance organizzativa, non può escludersi una sua ingerenza sulle indagini cd. di customer satisfaction, che, con questo tipo di valutazione, si intrecciano.
A valle delle considerazioni fatte – e si giunge al terzo tipo di interventi – è chiara l’intenzione del d.lgs. n. 74/2017 di ribadire la centralità del Dipartimento della funzione pubblica nel valutare il risultato; anzi, il d.lgs. n. 74/2017 ne definisce meglio il ruolo, rimuovendo i numerosi difetti di coordinamento ancora sussistenti dopo il d.l. n. 90/2014 e il d.P.R. n. 105/2016. Eloquenti sono gli artt. 3, co. 2, 14, co. 4, lett. b) e f), che presupponevano la persistenza delle originarie funzioni svolte dalla CiVIT, tanto che – si affermava – la misura della performance va svolta secondo le indicazioni della Commissione di cui all’art. 13, la comunicazione delle criticità riscontrate dagli OIV va effettuata alla medesima Commissione e sempre gli organismi di valutazione sono responsabili nell’applicare le linee guida della richiamata Commissione. Ebbene, tutte le citate disposizioni sono state emendate, trasferendo i compiti prima indicati al Dipartimento della funzione pubblica. E, su tale scia, il citato co. 1bis dell’art. 8 stabilisce che «le valutazioni della performance organizzativa sono predisposte sulla base di appositi modelli definiti dal Dipartimento della Funzione Pubblica». Simile approccio ispira le modifiche dell’art. 13 d.lgs. n. 150/2009, che pure conteneva numerosi “residui” delle originarie funzioni assunte dalla CiVIT. Ne sono esempi: la denominazione dell’organismo individuato dall’art. 13, rimasta «Commissione per la valutazione, la trasparenza, e l’integrità delle amministrazioni pubbliche»; il potere di indirizzare e coordinare le attività di valutazione; i requisiti di competenza per l’accesso alla Commissione, tra cui spicca la «comprovata esperienza […] in materia di management e misurazione della performance»; l’eventuale ricorso a esperti in materia di valutazione per svolgere le proprie attività; la possibilità di sostenere progetti innovativi concernenti tanto il miglioramento delle performance quanto i sistemi di valutazione. In questo caso il d.lgs. n. 74/2017 abroga scelte normative prive, oramai, di ogni ragion d’essere dopo la limitazione dei compiti assunti dall’ANAC alla trasparenza, all’anticorruzione e ai contratti pubblici.
Più che le prospettate questioni interpretative – che operatori e studiosi dovranno approfondire – il problema principale del d.lgs. n. 74/2017 ruota intorno alla concentrazione di compiti sul Dipartimento della funzione pubblica e sul Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione: una concentrazione di dubbia coerenza con il significato giuridico-istituzionale della “valutazione indipendente”, che la l. n. 124/2015 intende valorizzare. Sul punto, il Consiglio di Stato – v. parere del 10.3.2010, n. 870 – osserva che le funzioni trasferite al Dipartimento richiedono l’assenza di ogni collegamento «sia funzionale sia strutturale» tra chi le esercita e l’autorità politica. Esse svolgono un ruolo cruciale nell’attuare i «valori di diretta derivazione costituzionale»: la misura obiettiva del risultato «secondo regole certe e in un sistema idoneo ad assicurare che la stessa sia al riparo da interferenze politiche improprie» esprime – si legge nel parere n. 870/2010 – un valore di rango costituzionale, radicato nel principio di «buon andamento e imparzialità dell’amministrazione (art. 97), nel dovere di fedeltà degli impiegati pubblici (art. 98) e nel principio, oramai riconosciuto come di diretta derivazione dal sistema costituzionale, della separazione tra politica e amministrazione». Non a caso – prosegue il Consiglio di Stato – le considerazioni fatte hanno ispirato la scelta del d.lgs. n. 150/2009, «secondo un processo logico comune alla istituzione di altre autorità indipendenti», di «allocare le attribuzioni in materia di valutazione a un organismo autonomo» dalla politica: ossia la CiVIT. Sicché, il trasferimento di competenze al Dipartimento e al Ministro, attuato dal d.l. n. 90/2014 e consolidato dal d.lgs. n. 74/2017, alimenta una profonda asimmetria sistematica: sebbene il loro esercizio richieda adeguate garanzie di indipendenza, le recenti opzioni legislative le trasferiscono a chi imparziale non è. Con l’effetto che la parzialità della politica, di cui il Dipartimento e il Ministro sono sicura espressione, rischia di diffondersi, mediante le loro nuove attribuzioni, in ogni fase del sistema di valutazione del risultato, contaminando aspetti cruciali per la sua corretta implementazione: se l’imparzialità dell’OIV dipende da quella di chi (il Ministro) individua i requisiti per l’iscrizione nell’albo tenuto dal Dipartimento, non c’è dubbio che, mancando quest’ultima, anche la prima è messa in discussione. E inoltre, se il Dipartimento della funzione pubblica è abilitato pure a predisporre i modelli per valutare la performance organizzativa, è legittimo ritenere che i recenti sviluppi normativi incidono criticamente sul fondamento stesso della riforma sul lavoro pubblico: misurare l’oggettivo livello di buon andamento del risultato finale. In definitiva, lo scenario evidenziato appare estremamente discutibile quanto al piano istituzionale. Sulla valutazione del risultato aleggia l’ombra della politica, che rischia di imprimerle una brusca battuta d’arresto: non a caso, dopo il d.l. n. 90/2014, l’intensa produzione di linee guida, avuta quando la CiVIT svolgeva il suo originario ruolo, è bruscamente cessata, alimentando significativi dubbi operativi. Tutto ciò non pare pienamente coerente con l’intenzione della l. n. 124/2015 di potenziare i «processi di valutazione indipendente del livello di efficienza e qualità dei servizi e delle attività delle amministrazioni pubbliche». Insomma, anche questo passaggio riformatore non sviluppa il significato giuridico-istituzionale della valutazione in modo convincente, riproponendo i ben noti problemi su un tema troppo rilevante per il destino delle riforme in atto e, ancor prima, per le aspettative dei numerosi utenti che, a vario titolo, si interfacciano quotidianamente con le
[1] V., in questo volume, Diritto del lavoro, 3.3.1, La “riforma Madia” del lavoro pubblico.
[2] L’espressione «funzionalizzazione sintetica» risale a Orsi Battaglini, A., Fonti normative e regime giuridico del rapporto d’impiego con enti pubblici, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1993, 461 ss.
[3] Sin da ora sia consentito rinviare su questo aspetto e per ogni altra implicazione che qui non si avrà modo di approfondire a Monda, P., Contratto di lavoro pubblico, potere organizzativo e valutazione, Torino, 2016, dove è possibile rinvenire tutti i necessari approfondimenti bibliografici.
[4] C. cost., 16.6.2006, n. 233; C. cost., 23.3.2007, nn. 103 e 104; C. cost., 24.10.2008, n. 351; C. cost., 11.4.2011, n. 124.
[5] Zoppoli, A., Dirigenza, contratto di lavoro pubblico e organizzazione, Napoli, 2000, in particolare cap. IX.
[6] Tra i tanti e per tutti, v. Treu, T., Le forme retributive incentivanti, in Riv. it. dir. lav., I, 2010, 637 e ss.
[7] C. cost. 23.7.2015, n. 178.
[8] Eloquente in tal senso è stata la giurisprudenza contabile, su cui v. C. conti, 5.5.2014, n. 403.
[9] Poi denominata Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) con l’art. 1, co. 2, l. 6.11.2012, n. 190.