Periferie storico-identitarie e Costituzione: le regioni a statuto speciale
Questo contributo ricostruisce brevemente la vicenda storico-politica delle regioni e delle province a statuto speciale, le loro esperienze e il loro significato autonomistici. Si offre, da un lato, una sintesi informativa, con qualche squarcio di cronaca se non di vita, che seleziona, esamina e annoda tra loro alcune salienti problematiche che le riguardano; dall’altro, un quadro interpretativo che cerca di mettere in luce le ragioni politiche (e, in via derivata, costituzionali) della loro esistenza, e quindi il significato e le condizioni alla base della loro ‘specialità’ e della persistenza di quest’ultima. Collocati uno accanto all’altro, i vari casi delle regioni ‘speciali’ italiane forniscono uno schema di ricezione pubblica che va oltre quello, più consueto, della lettura separata dei singoli casi, destinata per lo più ai cultori di storia e di politica locale o agli specialisti di settore. Ciò che qui si propone non ambisce ad altro che a delineare i contorni di un tema generale e a tracciare una mappa o un inventario dei principali motivi e questioni che si riversano sull’identità nazionale italiana, e che risaltano come frammenti di identità riflessi in quello che si può definire una sorta di specchio delle periferie identitarie storiche.
In tal modo si vuole mostrare, tra l’altro, come alcune tematiche divenute di rilevanza pubblica a partire dagli anni Novanta del 20° sec., e legate ai problemi sollevati dal ‘nuovo nordismo’ padano della Lega Nord e alle riforme istituzionali che hanno delineato un processo di regionalizzazione dello Stato italiano, percorrano vicende pluridecennali, e in particolare il dibattito politico-culturale dell’Italia repubblicana e le esperienze delle regioni a statuto speciale. Attraverso il tema delle regioni speciali, infine, si intende porre l’accento su alcune questioni salienti che caratterizzano lo spazio politico dello Stato-nazione democratico italiano, ma che di rado emergono con pari intensità in altri contesti del territorio politico del nostro Paese. Non si entrerà direttamente nel merito della discussione attuale sulle prospettive di uno ‘Stato delle autonomie’ o federale né sul processo di riforma costituzionale e istituzionale e sul suo carattere instabile e conflittuale, ma si cercherà di fare il punto sull’attualità politica del tema dell’autonomia regionale. Si rifletterà dunque sul significato di quell’esperienza regionalistica peculiare che è incarnata dalle regioni storiche ad autonomia speciale: Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, ossia quelle regioni alle quali è conferito il riconoscimento massimo di autonomia dallo Stato italiano – un riconoscimento conservato nella recente riforma del titolo V della Costituzione.
Se qualcuno dovesse mai pensare, ancora oggi, quasi a metà del secondo decennio degli anni Duemila, che dalla crisi e dall’ormai squalificata ‘repubblica dei partiti’ possa o debba nascere una democrazia migliore, nelle sembianze di una ‘repubblica delle regioni’ o delle autonomie (per non dire di una ‘repubblica federale’), l’esperienza e il significato delle regioni a statuto speciale offrono alcuni buoni argomenti per riflettere sulla sua fattibilità, sulle condizioni politiche eccezionali necessarie, sulla radicalità della crisi che è tipicamente implicata nei processi politici di questa natura e concernenti la territorialità dello Stato. In questo quadro, tale esperienza e tale significato possono anche aiutare a comprendere, per un verso, come e perché la ‘regionalizzazione ordinaria’ sia (e sia destinata a restare) cosa diversa dall’‘autonomia speciale’; per l’altro, a comprendere il fondamento della specialità e la valenza che esso può avere per le prospettive future delle regioni a statuto speciale. È fuori di dubbio che queste ultime suscitino spesso perplessità o critiche da parte di molti settori dell’opinione pubblica, che, giustamente, non può non avvedersi dei benefici e dei privilegi di varia natura che la condizione di specialità consegna ad alcune regioni italiane, ad alcuni cittadini italiani e alle loro comunità, ad alcuni gruppi di interesse o organizzazioni che operano su quei territori, a paragone delle altre regioni e degli altri cittadini, italiani anch’essi, ma ‘ordinari’. L’eguaglianza che definisce lo status di cittadino di uno Stato, e la condizione di cittadinanza, rappresenta un valore politico e un principio etico che nutrono e legittimano la liberaldemocrazia di massa – sia questa intesa come ideale o come concreto regime istituzionale, come mentalità o cultura politica. Un valore politico e un principio etico che sono custoditi dalle costituzioni – quelle costituzioni che anche per questo sono sacralizzate. Ma, come si vedrà meglio più avanti, «Le costituzioni […] non sono scritte su pergamene vergini» (B. Clavero, Territorios forales, in Le autonomie e l’Europa, a cura di P. Schiera, 1993, p. 44).
Le regioni a statuto speciale concorrono in modo peculiare a definire la forma dello Stato-nazione e della democrazia in Italia. La loro esistenza esprime la componente più propriamente federalistica dello Stato democratico italiano costruito nel secondo dopoguerra e negli anni della Resistenza e della Costituente. Tuttavia, è bene precisare, si tratta di una componente federalistica piuttosto parziale e approssimativa. Essa, infatti, se misurata sul piano dei principi politici, della struttura istituzionale e amministrativa e del sistema costituzionale, non è sufficiente a configurare un ordinamento genuinamente federale per lo Stato-nazione. Ma le regioni a statuto speciale concorrono in modo particolare anche a identificare come uno e molteplice lo Stato-nazione italiano, e così a sfatare l’ingenua visione del carattere monolitico e omogeneo dello Stato-nazione e dell’identità nazionale: i cittadini, le collettività, i territori che convivono in una medesima comunità politica nazionale portano a quest’ultima ciascuno un proprio bagaglio di storia, cultura e memorie, di pratiche e tradizioni normative, di modelli sociali e istituzionali, di questioni aperte e di sfide politiche.
Le regioni a statuto speciale rappresentano una realtà non marginale per quanto riguarda alcuni semplici indicatori dimensionali. Esse, per es., costituiscono 1/5 delle regioni italiane (5 su 20), il 15% circa dell’intera popolazione nazionale e addirittura 1/4 dell’estensione territoriale dello Stato-nazione italiano. Osservarle nel loro complesso consente, quindi, di gettare luce su una parte significativa del nostro Paese. Al riguardo, si potrebbe obiettare che tale peso dimensionale delle regioni a statuto speciale scaturisce da un’aggregazione artificiosa e arbitraria di realtà regionali troppo differenti tra loro e che, invero, non esiste una realtà che possa debitamente chiamarsi ‘regioni a statuto speciale’, ma semmai alcune distinte regioni a statuto speciale (quattro, per la precisione) e due province autonome. È infatti innegabile che Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna e le Province Autonome di Trento e di Bolzano sono entità regionali e provinciali molto diverse. Esse presentano varie e profonde differenze a livello storico e culturale, istituzionale e amministrativo, economico e fiscale, dell’estensione geografica e della dimensione demografica (sull’argomento si vedano i volumi dedicati alle singole regioni in Storia d’Italia; La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol nel XX secolo, 2007). Le specificità di tali regioni riguardano anche le ragioni e le competenze che definiscono la loro autonomia, così come il tipo di relazioni che esse intrattengono con lo Stato centrale o il loro grado di capacità autonomistica e negoziale rispetto al governo nazionale.
Nonostante tutto ciò, questa variegata realtà regionale può essere debitamente compresa, almeno per un buon tratto, sotto un’unica e medesima categoria regionale, distinta dalle altre regioni tanto dal punto di vista politico-istituzionale e costituzionale quanto per il rapporto tra centro e periferie. Le diverse regioni a statuto speciale, infatti, sono accomunate da una condizione di ‘autonomia speciale’ che lo Stato italiano riconosce solo ed esclusivamente a talune regioni e province. Questo riconoscimento, da un lato, ha notevoli conseguenze nel differenziare le regioni speciali da quelle ordinarie: riguardo alla vita sociale quotidiana e pubblica dei cittadini, ai processi decisionali pubblici e al policy making, alla distribuzione e redistribuzione delle risorse pubbliche, al sistema dei diritti/doveri di cittadinanza. Dall’altro lato, tale riconoscimento rimanda alle cause (o ragioni) che hanno portato lo Stato italiano a distinguere alcune regioni speciali dalla più ampia categoria delle altre regioni, riconosciute anch’esse in sede costituzionale ma come ordinarie.
Sostenere che le regioni a statuto speciale, nel loro insieme, costituiscono una realtà sui generis, una categoria regionale chiaramente distinguibile da quella delle regioni ordinarie, obbliga ad affrontare alcuni interrogativi di fondo: a) esiste, ed eventualmente qual è, l’elemento che le accomuna? b) perché tale elemento persiste, se persiste? c) quale ‘durezza’ esso possiede di fronte alle profonde trasformazioni sociali, culturali e politiche che hanno mutato il volto della Repubblica democratica italiana rispetto alle sue origini e nel corso di mezzo secolo di storia? d) un tale elemento di distinzione è politicamente giustificabile (ovvero legittimo) e, nel caso, perché? Per lungo tempo rimasti nell’ombra, questi interrogativi, apparentemente astratti ma carichi di una valenza pratica e immediata sul significato delle regioni a statuto speciale e sul loro futuro, riemergono con forza a partire dall’inizio del 21° sec., quando esplode progressivamente una crisi economica e finanziaria internazionale che investe gravemente l’Italia. In questo contesto, politiche di riduzione della spesa pubblica nazionale hanno messo in discussione risorse finanziarie e pratiche di spesa anche di enti locali e regioni, comprese quelle a statuto speciale. Con particolare riferimento a queste ultime, l’attenzione dell’opinione pubblica ha denunciato più che in passato i privilegi a esse accordati in virtù della loro condizione di specialità. Né mancano analisi di diritto costituzionale secondo cui le ragioni per le quali i padri della Costituzione diedero vita ad alcune aree privilegiate siano oggi venute meno. L’argomento non è nuovo. Del resto, nel corso dell’ultimo quindicennio di riforme relative ai rapporti tra i vari livelli territoriali di governo, a partire dalla legge Bassanini (1997), fino alla riforma del titolo V della Costituzione (2001), governi di diverso colore politico-ideologico hanno dato vita a una tendenza ad avvicinare le regioni speciali a quelle ordinarie, rendendo un po’ più ordinarie le prime e un po’ più speciali le seconde. Da parte loro, le regioni a statuto speciale (2011-12) hanno reagito contro questa tendenza, impugnando alcuni provvedimenti dello Stato nazionale di fronte alla Corte costituzionale.
Questi dibattiti, queste tendenze e queste controversie inducono a ripercorrere il significato delle ‘pretese regionali’ e della condizione di specialità. A tal fine è però necessario collocare l’esperienza regionale italiana in una visione politica più ampia e in un quadro storico-ricostruttivo e di valutazione un po’ più articolato rispetto a quanto spesso si riscontri nel discorso pubblico.
Contrariamente all’apparente monoliticità e omogeneità suggerita ingannevolmente dal linguaggio comunemente utilizzato e spesso riproposta nella pubblicistica e negli studi specialistici, il concetto di Stato-nazione designa una costruzione geopolitica, giuridico-istituzionale e simbolico-culturale tipicamente composita e sfaccettata, variegata al suo interno. Un fattore cruciale di questa natura complessa degli Stati-nazione è senz’altro costituito dalla pluralità e diversità dei territori unificati in territorio statale-nazionale, e quindi dalla pluralità e diversità delle comunità insediate nei territori locali coinvolti nei processi storici di integrazione nazionale e di unificazione politica (Rokkan 1999). Come è stato evidenziato dagli studi di scienza politica e storiografici, si tratta di processi tipicamente di lunga durata, pervasivi praticamente di ogni aspetto della vita sociale, processi tanto invisibili e sottili (che operano a livello ‘molecolare’ nella vita quotidiana), quanto, spesso, apertamente conflittuali (con tanto di eserciti schierati). Tale varietà suggerisce che l’identità nazionale (al singolare) di un Paese risulta forgiata attraverso una sorta di assemblaggio (o integrazione), storicamente più o meno riuscita nei diversi casi, di ingredienti molteplici e tra loro differenti, dove il fattore territoriale gioca una parte rilevante. Questa condizione tipica dello Stato-nazione ha importanti implicazioni non solo per l’organizzazione istituzionale dello Stato liberale e democratico contemporaneo, ma anche per il tema del rapporto tra identità nazionale e identità regionale, tra centro e periferie. L’Italia rientra pienamente in questo quadro. Uno dei caratteri essenziali dell’identità italiana è la sua ‘molteplicità’. Di conseguenza, per un’adeguata comprensione della società italiana è importante fare riferimento anche alla sua differenziazione territoriale e, in particolare, alla sua articolazione regionale, su molteplici piani: economico, linguistico, culturale, politico (Geografia politica delle regioni italiane, 1997).
Le regioni italiane come le conosciamo oggi, fatta eccezione per pochi aggiustamenti, sono il prodotto di operazioni artificiali. Esse, infatti, risultano costituite in gran misura da ‘ritagli’ di ingegneria statistico-amministrativa, spesso create senza particolare attenzione agli aspetti di omogeneità culturale, di comunanza o radici storiche, di densità delle relazioni sociali o economiche all’interno di ciascuna area delimitata come ‘regione’. È tuttavia importante rifocalizzare il significato delle regioni come ‘invenzione’, soprattutto per ragioni di ordine epistemologico inerenti lo ‘statuto di realtà’ dei fenomeni storico-sociali e politici che in questa sede non è possibile trattare. Ciò che qui si può sottolineare, nel merito del fenomeno che interessa, è che nel corso del tempo le ‘regioni inventate’ sono diventate realtà. Così, anche le regioni speciali si sono oggettivate e istituzionalizzate, diventando dei veri e propri ‘fatti sociali’, che a loro modo strutturano l’immaginario collettivo, la cultura politica, la pratica politico-amministrativa e persino le pratiche della vita quotidiana dei cittadini; trasmesse da una generazione all’altra, sono diventate contesto e occasione di memorie collettive (locali e nazionali), di vicende e personaggi, di miti e di stereotipi o caratteri della nazione italiana. Tutto ciò contribuisce a spiegare perché, oggi, nel secondo decennio del 21° sec., come in passato, risulti così difficile porre mano a un ridisegno dei ‘ritagli regionali’, a livello nazionale quanto a livello europeo, pure a fronte di forti pressioni politiche o a fronte di proposte di ingegneria politica ed economica.
Le regioni in generale e quelle speciali in particolare hanno progressivamente assunto un loro profilo istituzionale e amministrativo, soprattutto a partire dal dettato costituzionale, da cui bisogna ripartire per sviluppare l’argomento qui preso in esame. Ciò non solo per la valenza giuridico-formale della Costituzione, ma anche per il fatto che quest’ultima incarna momenti e valori costitutivi della storia politica e ideale che hanno orientato la vita della nostra società e della nostra democrazia. In tal senso vanno dunque presi in considerazione la pagina storica della Resistenza in Italia, le fasi terminali della Seconda guerra mondiale e gli anni della Costituente, con specifico riferimento alla questione delle regioni speciali.
A partire dagli anni Novanta del 20° sec., la società e la democrazia italiane hanno attraversato una fase di vero e proprio rifacimento politico, istituzionale e socioculturale, che a tutto il primo decennio degli anni Duemila non sembra aver trovato approdi significativamente stabili. Al centro di questa trasformazione democratica vi è il tramonto dei partiti e del sistema partitico tradizionali: figli della Resistenza, accomunati dal patto costituzionale e che avevano retto la politica e la società italiane per quasi mezzo secolo (il così detto sistema dell’arco costituzionale). In questo contesto, si è sviluppato un cospicuo dibattito sull’identità e sul senso di appartenenza nazionali (Una patria per gli italiani?, 2003). Tra i molti temi che hanno caratterizzato tale dibattito è utile ricordare quello centrato sull’immagine di un’identità nazionale una e molteplice. Il profilo dell’Italia ‘nazione una e molteplice’ è stato messo a fuoco su una varietà di piani. Tra questi interessa soffermarsi su quello delle culture politiche subnazionali o subculture territoriali (M. Caciagli, Quante Italie?, «Polis», 1988, 2, 3, pp. 429-57; Putnam 1993). Queste nozioni fanno riferimento ad aspetti di cultura politica che delimitano aree territoriali subnazionali secondo criteri, per es., di tipo etnolinguistico, partitico-ideologico o relativi a mentalità e pratiche nell’ambito della vita collettiva e politica. In tale contesto, l’attenzione cade anche su una rinnovata questione regionale.
La crisi e la trasformazione politica degli anni Novanta hanno così rimesso in moto e ridato rilievo anche a questioni e cleavages (fratture o linee di divisione) sociali e politico-culturali centrati sul problema dell’unità politico-territoriale e dell’appartenenza nazionale (Nevola 2011). A onor del vero, non si tratta di una questione inedita nella storia italiana. Come è noto, il problema dell’assetto istituzionale-regionale dello Stato italiano, della sua diversificazione territoriale, è salito ciclicamente alla ribalta del dibattito politico, fin dall’inizio del processo di unificazione nazionale (Federalismo e autonomia in Italia dall’Unità ad oggi, 1995; Chiaramonte 1998; Patriarca 2010; Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, 1995). Di seguito si richiamano brevemente i termini essenziali che la questione assunse all’epoca della Resistenza e della formulazione della Costituzione repubblicana, poiché di diretto e immediato rilievo per il tema delle regioni a statuto speciale.
Il tema politico-territoriale del fatto regionale è stato uno dei fuochi del dibattito politico e culturale che ha caratterizzato la convulsa e critica stagione storica italiana che dal crollo del regime fascista e dall’8 settembre 1943, attraverso il periodo della Resistenza, arriva alla fase costituente e alla nascita della Repubblica. Questa congiuntura è caratterizzata da un certo dinamismo di idee e di esperienze di quelle che all’epoca venivano chiamate le ‘autonomie territoriali’ (Marchetti 1993). Nella discussione politica resistenziale e costituente furono presenti istanze di autonomia di forte intensità e di ampia estensione, per tutte le regioni – anche di tipo federalistico. L’intensità e l’estensione dell’autonomia regionale risultarono però assai limitate nel compromesso siglato tra le forze politiche – sia sul piano della formulazione costituzionale sia, ancor di più, su quello dell’attuazione. All’epoca della ‘fondazione partitica’ della Repubblica democratica prevalse infatti un orientamento politico-ideologico secondo il quale il vero strumento di autonomia, di partecipazione democratica e di pluralismo da introdurre nella società civile sembrava fosse costituito dai partiti. Questi, si riteneva, avrebbero consentito un genuino esercizio della sovranità popolare.
In generale, nel secondo dopoguerra l’istituto regionale, per quanto fragile, era sorto per rispondere soprattutto alla non banale varietà socioeconomica del Paese. Tuttavia, in alcuni casi le regioni si sono rivelate, proprio in questa congiuntura storica, ben più dense di significato politico e più fortemente valorizzate dalla Costituzione. È il caso della nascita, tra il 1946 e il 1963, delle così dette regioni a statuto speciale: Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Sardegna, Sicilia. Perché lo Stato italiano, con la sua nuova Costituzione repubblicano-democratica, riconosce ad alcune regioni un’autonomia speciale? E perché proprio a Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia?
Le diverse esperienze nazionali di unificazione politica in Europa non hanno del tutto sanato le fratture su base territoriale, di tipo economico-funzionale, socio-identitario o politico-istituzionale. Tant’è che il problema di una «politicità territoriale distinta da quella nazionale» trova ancora diffusione (M. Caciagli, Quante Italie?, cit., p. 431; Rokkan 1999; Regional and national identities in Europe in the XIXth and XXth centuries, 1998). Lo studio della cultura politica aiuta a comprendere i termini in cui viene a configurarsi tale problema. Per cultura politica si intende quell’insieme o aggregato di atteggiamenti, idee, opinioni individuali che riguardano la sfera della politica, e, allo stesso tempo, quell’insieme di valori e simboli collettivi, norme e riti pubblici, credenze, sentimenti e comportamenti individuali e collettivi, strutture e istituzioni che producono, riproducono e condizionano gli orientamenti individuali verso la politica, ivi compresa la trasmissione di tutto ciò da una generazione all’altra. Su tali basi, per es., in riferimento al caso italiano è possibile distinguere quattro tipi di culture politiche subnazionali: a) culture politiche con dominanza dell’elemento etnolinguistico e della sua collocazione geopolitica; b) culture politiche come espressione di comunità locali; c) culture politiche a base di subcultura politico-territoriale; d) culture politiche come espressione della frattura Nord/Sud. Tra questi, il tipo di cultura politica con una più densa politicità (o politicizzazione), poiché esprime fratture non sanate nella formazione dello Stato-nazione italiano, è quello al cui epicentro si trovano il fattore etnolinguistico e quello geopolitico (M. Caciagli, Quante Italie?, cit., pp. 429-57). In questa classe rientrano proprio i casi di Valle d’Aosta, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia, ‘territori periferici’ nei quali perdurano culture politiche locali che si sono rivelate particolarmente resistenti al processo di integrazione nazionale. Culture politiche che nel corso del tempo hanno visto spesso acuirsi le linee di divisione rispetto al clima della cultura politica nazionale (con qualche parziale eccezione). Non casualmente, a queste regioni la Costituzione italiana ha riconosciuto uno statuto speciale di autonomia (anche se in tempi, modi o gradi differenti).
Questa spiegazione della ‘specialità’ di alcuni territori italiani trova ulteriore conferma nella ricerca scientifica. Le regioni e le province a statuto speciale rappresentano infatti alcuni dei casi rintracciabili nella storia europea di quello che è stato definito il fenomeno della «sopravvivenza dell’identità periferica» (Rokkan 1999). Le cinque odierne regioni italiane a statuto speciale risultano, in effetti, tutte presenti in questa analisi e tutte risalenti alle fasi storiche del processo di formazione dello Stato nazionale italiano. Nell’analisi dell’unificazione italiana, Stein Rokkan (1921-1979) concentra la sua attenzione proprio su queste regioni: le considera tutte esempi di ‘periferie storico-identitarie’ e le classifica come ‘periferie interfaccia’, ossia «territori che si trovano tra la pressione incrociata di grandi blocchi» (Valle d’Aosta, Alto Adige e Trieste); ‘periferie esterne mediterranee’, ossia aree «geograficamente remote ai margini dell’Europa occidentale ed esposte all’influenza di un solo centro» (Sicilia e Sardegna); ‘enclaves periferiche’, ossia aree che «non corrispondono alla cultura dominante dei territori che le circondano [Friuli]» (Rokkan 1999; trad. it. 2002, pp. 258-61).
Le regioni a statuto speciale sono dunque periferie storico-identitarie con una lunga vicenda politica alle spalle. Valle D’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia sono aree regionali che nella storia dello Stato-nazione italiano, a partire dal suo processo di formazione, si sono caratterizzate per un forte malessere o risentimento nei confronti del centralismo statale, o del ‘continente sfruttatore’; hanno espresso problemi e tendenze di separatismo, irredentismo, annessionismo; sono state in più occasioni territori contesi, al centro di tensioni internazionali. Ciò che è stato detto per la Sicilia, «meno di una nazione, ma più di una regione» (G. Giarrizzo, introduzione a Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, 1987), può valere, più in generale, per ciascuna di esse. D’altra parte, però, la condizione di autonomia speciale che la Costituzione italiana definisce per queste regioni è anche figlia diretta dell’epilogo della Seconda guerra mondiale, del drammatico tracollo del regime fascista, della guerra di liberazione. Da qui bisogna allora ripartire per evidenziare, a sommi capi, con uno sguardo d’insieme, i motivi principali che hanno portato allo statuto speciale per alcune regioni d’Italia.
La crisi politico-istituzionale (oltre che psicologica e sociale) che si apre con l’armistizio dell’8 settembre 1943 travolge lo Stato italiano. La sua stessa unità territoriale viene meno di fatto (e per alcuni aspetti anche formalmente), con ripercussioni evidenti per il senso di sovranità, di appartenenza e di coesione nazionale. In questa situazione di ‘statualità sospesa’, le istanze dell’autonomia territoriale trovano occasione di rilancio. L’onda autonomistica viene recepita come un vento liberatorio che attraversa l’Italia e si salda con la guerra di liberazione nazionale, con la lotta contro il fascismo e il centralismo autoritario. Un’onda che dà presto vita a progetti politici di riorganizzazione dello Stato e delle sue istituzioni. Con la Costituzione del 1948, per la prima volta nella storia costituzionale dello Stato italiano, viene introdotto l’istituto regionale, che tuttavia non interessa allo stesso modo tutte le regioni. Ad alcune di esse, infatti, lo Stato italiano riconosce formalmente un’autonomia speciale, attraverso leggi costituzionali di approvazione degli statuti regionali che sono promulgate tutte all’inizio del 1948, con l’unica eccezione del Friuli Venezia Giulia, che dovrà attendere il 1963 e la risoluzione di aspri contenziosi internazionali su questioni territoriali e di confine.
Perché dunque lo Stato italiano riconosce ad alcune regioni un’autonomia speciale? E perché proprio a Valle D’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia? Per usare una efficace formulazione che Bartolomé Clavero ha proposto per i «derechos historicós de los territorios forales» in gioco nella vicenda politico-costituzionale spagnola (e che risulta estendibile a tutta l’Europa), la ragione di fondo di questo riconoscimento costituzionale sta, come già detto, nel fatto che «Le costituzioni […] non sono scritte su pergamene vergini» (B. Clavero, Territorios forales, cit., p. 44). Secondo Clavero, le costituzioni nascono come e con «espropriazione dei diritti comunitari» (p. 44). Questa analisi, sebbene poco elegiaca e piuttosto disincantata rispetto al valore ideale che comunemente si attribuisce alle costituzioni liberal-democratiche (G. Sartori, Costituzione, in Elementi di teoria politica, a cura di G. Sartori, 1995, pp. 13-31), esprime una verità storica e politica, che tuttavia va in parte corretta. Ogni costituzione, come ogni struttura politico-istituzionale degli Stati costituzionali, riflette la fissazione di un punto di equilibrio tra due tendenze opposte: da una parte la propensione/capacità degli Stati-nazione (del centro) a espropriare quelli che Clavero chiama i ‘diritti storici’ appartenenti alle comunità territoriali, dall’altra la resistenza e le rivendicazioni di autonomia e autogoverno fatte valere dalle ‘periferie storico-identitarie’. Le regioni speciali rappresentano un elemento che qualifica la definizione di un tale equilibrio per lo Stato repubblicano italiano. Alle spalle di questo equlibrio ci sono dinamiche politiche tra centro e periferie sedimentate nella storia, rimaste latenti in alcuni periodi, mai comunque tramontate del tutto e, alla fine, ripoliticizzate con efficacia da attori politici in una congiuntura critica a loro favorevole.
In termini ancora diversi, quindi, le regioni che ottengono l’autonomia speciale sono quelle che riescono a far valere ‘al momento giusto’ la loro vicenda storica e i problemi di cui esse sono portatrici nei confronti di uno Stato-nazione, in una congiuntura che vede quest’ultimo alle prese con la propria ricostruzione politica, territoriale, istituzionale. Entrano così in gioco, e premono, il carattere plurietnico-linguistico, la collocazione geopolitica periferica presso delicati e contestati confini internazionali, la tradizione insulare contrapposta al continente, l’espressione storica di tendenze separatistiche, i nodi irrisolti nel senso di appartenenza nazionale o nel riconoscimento dell’autorità dello Stato centrale. Il pericolo che l’Italia possa perdere parti del proprio territorio è un esito del tutto possibile dei conflitti e delle tensioni internazionali che si aprono alla fine della Seconda guerra mondiale.
In Valle d’Aosta, per es., le forze politiche della Resistenza sono profondamente divise riguardo al destino della Valle nel nuovo ordinamento repubblicano. Mentre l’obiettivo di una forte autonomia è condiviso, alcune posizioni insistono sulla garanzia del riconoscimento ufficiale del bilinguismo, in virtù dell’importanza attribuita al legame storico e simbolico tra l’identità valdostana e la Francia; una corrente progetta la secessione dall’Italia e l’annessione alla Francia, incoraggiata dai servizi segreti e dall’esercito francesi. È in questo quadro politico che Federico Chabod (1901-1960) riesce a convincere il governo CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Roma dell’urgenza di concedere subito uno statuto giuridico speciale alla regione (Storia d’Italia, 1995).
Ai confini nordorientali, nelle fasi finali della guerra, l’amministrazione tedesca estromette il governo italiano e crea due zone operative che collegano il Reich con la Pianura Padana: la prima comprende l’Alto Adige, il Trentino e una parte della Venezia Euganea; la seconda le restanti province orientali e quella di Lubiana. L’occupazione tedesca, ufficialmente, è motivata da considerazioni di ordine strategico-militare; la posta in palio percepita è però l’annessione dei territori. Sulla frontiera slava la situazione è complicata dalla difficile convivenza tra italiani e autoctoni, nonché dalla vicina presenza dei regimi comunisti. Nel 1947 l’Italia subisce alcune amputazioni territoriali a oriente. Da un lato, deve cedere alla Jugoslavia una parte della Venezia Giulia, quasi tutta l’Istria, Zara, le isole adriatiche. Dall’altro lato, in base al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, l’Italia deve accettare la costituzione del Territorio libero di Trieste, suddiviso in due zone: una (‘la zona A’) sotto l’amministrazione provvisoria degli Alleati; l’altra (‘la zona B’) sotto il controllo amministrativo jugoslavo (Lanaro 1992; Storia d’Italia, 2002; La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol nel XX secolo, 2007). Alla fine, la sistemazione politico-territoriale ed etnico-giuridica di queste aree di frontiera troverà il suo avvio anche grazie alla pronta concessione dello statuto speciale prima al Trentino-Alto Adige (1948) e poi al Friuli Venezia Giulia (1963).
In Sicilia, invece, il pericolo di perdite territoriali per lo Stato-nazione italiano è provocato da una ritrovata vitalità delle istanze indipendentistiche. Tra la fine del 1943 e il 1946 cresce il consenso attorno al Movimento indipendentista siciliano, sullo sfondo di convinzioni e indiscrezioni relative a un piano segreto degli Alleati, che sarebbero stati in procinto di avallare uno smembramento dello Stato italiano secondo un piano ben studiato e una strategia che mirava a staccare l’isola dall’Italia. Per contrasto, nel medesimo quadro siciliano si riteneva anche che l’autonomismo in Sicilia costituisse una forma particolare di antifascismo e quindi un contributo dell’isola alla Repubblica italiana. Resta tuttavia il fatto che in questa stagione storica l’autonomismo siciliano, volente o nolente, si intreccia con le tendenze separatiste più radicali, con il fenomeno del banditismo e con la riorganizzazione del controllo del territorio tra Stato e mafia. Tutti questi aspetti trovano un punto di coagulo nel drammatico episodio della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947). In questa situazione crescono le pressioni, sulle quali in ultimo convergono anche i partiti di sinistra, affinché la nascente Repubblica italiana riconosca immediatamente una condizione di autonomia all’isola. Nelle parole di Giovanni Guarino-Amella (1872-1949), membro della Consulta regionale dell’epoca, «Proprio perché alla Sicilia non capiti l’avventura di vedere il suo popolo pronunziarsi contro l’unità del paese, è necessario che prima del 2 giugno le sia data la sua autonomia» (R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50), in Storia d’Italia, 1987, p. 575).
In Sardegna, infine, quanto va accadendo risulta meno allarmante rispetto ad altri contesti regionali. Nondimeno, il rinato Partito Sardo d’Azione (PSd’Az) rivendica per l’isola una forte autonomia. L’autonomia, in questo caso, è reclamata in un quadro di unità statale mai messo seriamente in discussione, e tuttavia secondo una prospettiva dello Stato federale. L’istanza, a ogni modo, gode di un consistente peso politico, attestato dal fatto che il PSd’Az nelle elezioni per l’Assemblea costituente risulta il secondo partito dell’isola (dietro alla DC) e ottiene due rappresentanti. Ciò detto, vale anche ricordare come, a fianco di questo tipo di pressione autonomistica, siano attivi alcuni propositi separatisti, espressi per lo più come minaccia o via estrema nel caso di un mancato ottenimento dell’autonomia (Storia d’Italia, 1998).
Il riconoscimento costituzionale di uno statuto di autonomia speciale ad alcune aree regionali ha perseguito l’obiettivo di concorrere al superamento della profonda crisi sociale, politica e identitaria dello Stato-nazione italiano uscito dalla Seconda guerra mondiale, dalla resistenza contro il fascismo, dalla guerra di liberazione dall’occupazione da parte della Germania nazista e da una peculiare guerra civile interna tra italiani. Più in particolare, il riconoscimento costituzionale delle regioni speciali è stato una risposta politica e istituzionale per cercare di normalizzare una situazione di eccezionalità politica, una ‘normalizzazione’ ricercata, e a suo modo conseguita, per quanto qui interessa, sul piano dei rapporti tra il centro e alcune periferie. A livello di sistema statale l’effetto di tale normalizzazione è stato quello di ridisegnare il rapporto tra centro e periferie secondo un impianto istituzionale che è pervenuto fino a noi. Osservata da questa angolatura, dunque, questa pagina di storia italiana evidenzia quella dinamica dialettica di normalizzazione di situazioni di eccezione (o critiche), che costituisce uno dei due volti essenziali della politica, accanto a quello della generazione di stati di eccezione (o critici). In politica, infatti, è sovrano sia il soggetto capace di decidere sullo e nello «stato di eccezione», per riprendere la nota formula di Carl Schmitt (Politische Theologie, 1922), sia il soggetto che si rivela in grado di «normalizzare l’eccezione», ossia di risolvere la crisi (G. Nevola, Democrazia Costituzione Identità, 2007). E questo è esattamente ciò che riescono a fare le forze politiche dell’arco costituzionale che incarnano il costituendo Stato democratico italiano e che varano la Costituzione. E in quest’ambito esse collocano anche la risoluzione dei problemi critici associati alle periferie identitarie, le quali, d’altra parte, riescono a imporre i loro problemi.
Nel corso del secondo dopoguerra e nei decenni successivi, con il conseguimento dell’autonomia, non a caso, andranno progressivamente sbiadendo i desideri valdostani di unirsi alla Francia (la quale rinuncia subito a pretese sulla Valle), così come verranno meno i pericoli di separatismo in Sardegna e, soprattutto, in Sicilia. L’Alto Adige (in una prima fase autonomo in ‘condominio’ con il Trentino) percorrerà con qualche tensione in più il suo cammino istituzionale per dare una sistemazione ai problemi di convivenza tra gruppi etnolinguistici e ai rapporti tra Italia e Austria. In Friuli e soprattutto a Trieste e nella Venezia Giulia occorrerà un po’ più di tempo prima di arrivare a un qualche assestamento riguardo alle tensioni nella convivenza tra i gruppi etnolinguistici e alle questioni geopolitiche dei confini internazionali.
Gli sviluppi e assestamenti politici postbellici, più o meno riusciti a seconda dei casi, non hanno tuttavia sciolto del tutto i nodi. Più spesso li hanno ridefiniti (Altre Italie, 2003). Una riprova di ciò sta nel comportamento elettorale dei cittadini di queste regioni («Istituzioni del federalismo», 2000, 3-4, nr. monografico: Elezioni, assemblee e governi regionali 1947-2000, a cura di G. Baldini, S. Vassallo). La scelta elettorale, infatti, occupa un posto centrale nel processo politico democratico: in qualche modo, essa esprime la preferenza per una società di un certo tipo piuttosto che di un altro. A questo riguardo, è noto come in Italia molte regioni continuino a mostrare caratteri distintivi e come la sfera della politica rifletta spesso elementi di identità, e ciò nella forma di particolari configurazioni dei sistemi dei partiti e/o nella presenza di più o meno significativi o dominanti partiti territoriali-regionalisti. In Alto Adige e in Valle d’Aosta i cittadini riversano i loro voti con notevole compattezza su partiti politici a vocazione territoriale-regionale di maggiore o minore ispirazione etnolinguistica o comunque di autoidentificazione etnoculturale (Südtiroler Volkspartei, nota come SVP, e Union Valdôtaine su tutti); in Sardegna consensi cospicui, anche se altalenanti nel tempo, vengono coagulati attorno al PSd’Az, e talora dirottati anche su altre formazioni di impronta ‘sardista’; in Sicilia si trovano tracce di voto regionalista o per sigle indipendentiste, più o meno genuine, sebbene tipicamente di breve vita; persino in Friuli o nella Venezia Giulia di tanto in tanto hanno incontrato un qualche successo formazioni politiche ispirate alla ‘nazione friulana’ o alla regionalità politico-territoriale. Come si può facilmente cogliere dai dati elettorali, simili tendenze risultano piuttosto originali rispetto a quelle registrate nel resto del territorio nazionale – almeno fino agli anni Ottanta, quando con il leghismo padano trovano forte diffusione anche presso altre regioni ordinarie del Nord del Paese.
Queste espressioni elettorali sono anche segno di un senso di precarietà, di incompiutezza o di malessere identitario che continua ad affliggere le regioni speciali, con una intensità che varia nel tempo e nei luoghi a seconda delle specifiche circostanze e condizioni. Viste da questa prospettiva, le regioni a statuto speciale esprimono una loro peculiare ragion d’essere. Allo stesso tempo, diventano uno specchio che riflette frammenti significativi dell’identità nazionale italiana, frammenti per lo più poco reperibili altrove e che concorrono a tratteggiare un profilo di nazione democratica più ricco di sfaccettature e di problematiche, meno scontato di quanto si sia soliti immaginare a prima vista. Intese come ‘spazi politico-culturali’, le regioni speciali mettono in evidenza temi e questioni che per lo più restano ai margini del grande dibattito pubblico. È vero che a volte tali temi o questioni sono rinvenibili anche nelle esperienze di regioni ordinarie. Tuttavia, in quelle speciali essi, in alcuni casi, assumono configurazioni originali o di particolare intensità; in altri, risultano davvero specifici e sconosciuti ad altre realtà. Si è quindi cercato di selezionare una sorta di piccolo inventario, o una mappa, di frammenti relativi alla ‘questione nazionale italiana’, riflessi, appunto, allo specchio delle ‘periferie speciali’. Un inventario parziale, ma che può fornire un utile sguardo d’insieme su nuove letture più approfondite e su analisi più sistematiche.
A partire dagli anni Novanta, in Italia, si è avuto un rilancio della questione dell’appartenenza e dell’identità nazionale. Il tema ha assunto particolari torsioni in alcune esperienze delle regioni speciali.
Sentirsi davvero italiani: un disagio, un bisogno. Una prima torsione da richiamare è quella che si esprime attraverso il cosìddetto ‘disagio degli italiani’ in aree di frontiera, transnazionali o multilinguistiche. Tale disagio si verifica con un certo rilievo soprattutto in Alto Adige e a Trieste (Nazionalismi di frontiera, 2003; Pasi, Pedrazzini 2007, pp. 163-281; Trieste multiculturale, 2011). Nel primo caso, ciò accade, per es., nelle frequenti dispute sul significato del Monumento alla Vittoria di Bolzano; nelle incessanti polemiche sull’uso della lingua tedesca nella toponomastica, nelle insegne pubbliche e nelle scritte cittadine in genere; nelle ostilità nei confronti della Südtilorer Volkspartei e della stessa Provincia autonoma di Bolzano, visto il dominio di questo partito al suo interno. Il gruppo di lingua italiana avverte un senso di sconfitta e di sradicamento nella vita quotidiana, percepisce una certa esclusione dalla vita pubblica e sociale, esclusione vissuta come una sottile discriminazione etnonazionale camuffata da questione legata a ragioni linguistiche. Da queste condizioni e percezioni discende un attaccamento alla simbologia nazionale a tratti esasperato, che talora si incanala in un voto di protesta o di destra nazionalista, che rappresenta un fattore ora manifesto ora latente di radicalizzazione dello scontro politico.
Nel caso di Trieste, fonte del disagio di essere italiani sono soprattutto le esperienze traumatiche del passato e la loro mancata integrazione nella memoria e nella coscienza nazionali. Nella Trieste del 21° sec. si perpetua una sovrapposizione di doppia eccezionalità identitaria: quella del mito mitteleuropeo e della grandezza asburgica, da un lato; e quella dei traumi vissuti alla fine della Seconda guerra mondiale, trascinatisi nel dopoguerra e riproposti nella ‘dimenticanza nazionale’ dei decenni più recenti, dall’altro. Il ricongiungimento di Trieste all’Italia era stato accolto dagli italiani con un plauso di massa: una vera «fiammata di spirito nazionale» (Ara, Magris 1982). Tuttavia, questo sentimento di attaccamento nazionale alla città di Trieste da parte dell’Italia non è bastato a soddisfare il bisogno di riconoscimento italiano dei triestini, che continuano a mostrare un certo disagio di essere italiani, anche perché l’afflato nazionale per Trieste tornata italiana, a dire il vero, si è esaurito presto, lasciando i triestini con i loro fantasmi, con le loro ferite aperte in Istria e con un bisogno in più di essere italiani che gli altri italiani sono accusati di non comprendere. Non è un caso che nel suo reportage sull’Italia, già negli anni Cinquanta, Guido Piovene (1907-1974) sottolineasse che «Una vera e durevole conquista di Trieste comincia adesso, e la si compie ricordando che Trieste è italiana, non però uguale alle altre città italiane» (Viaggio in Italia, 1957, 1973, p. 70). A mezzo secolo di distanza, storici, sociologi e politologi, intellettuali e uomini politici sensibili al caso continuano a porre le stesse domande, e a insistere sul fatto che la ‘conquista’ di Trieste all’Italia non è ancora compiuta.
Varie forme di indipendentismo e ‘nazionalismo regionale’. Il termine secessione si è diffuso nel linguaggio politico italiano a partire dagli anni Novanta, introdotto nell’agenda politica dalle istanze agitate dalla Lega Nord a proposito di una separazione della Padania dal resto dello Stato-nazione. Rivendicazioni e movimenti separatisti non sono tuttavia un portato del tutto originale del leghismo padano: rivendicazioni e movimenti secessionisti di varia natura e consistenza politica percorrono infatti la storia unitaria italiana e soprattutto il mezzo secolo repubblicano. Tali fermenti hanno tipicamente trovato contesto ed espressione nelle regioni a statuto speciale, attraverso movimenti politici lì affacciatisi, talora con un certo seguito politico o elettorale.
Uno di questi casi è rappresentato dalla Sardegna e dal PSd’Az, un partito nato sotto la guida di Emilio Lussu (1890-1975), nell’ambito dell’azionismo resistenziale (A. Accardo, Sardegna, in Altre Italie, 2003, pp. 107-31). Dopo la crisi che alla fine degli anni Settanta lo aveva portato ai suoi minimi risultati elettorali, il PSd’Az si apre al ‘neo-sardismo’; sulla spinta di altri movimenti entrati all’epoca in scena, lancia la parola d’ordine dell’indipendenza sarda e si fa portavoce dell’esistenza di una ‘nazione sarda’e del suo riconoscimento politico. Alle elezioni regionali del 1984 il partito ottiene un cospicuo successo, e con quasi il 14% dei voti diventa la terza forza politica dell’isola (dietro alla DC e al PCI). Da quel momento, e con una certa costanza, il PSd’Az svolge a suo modo un ruolo importante nella gestione dell’autonomia isolana, ora optando per un moderatismo autonomistico ora radicalizzando istanze indipendentistiche nelle sue negoziazioni con il governo centrale di Roma.
Un altro caso di ondata indipendentista, per certi versi sorprendente, riguarda la Sicilia. A mezzo secolo dalla scomparsa dell’indipendentismo storico che era risorto nel secondo dopoguerra, con la crisi dei partiti storici della prima repubblica, all’inizio degli anni Novanta, infatti, nell’isola si diffondono movimenti e liste elettorali nel segno del ‘sicilianismo’ (P. Violante, Sicilia (in)Felix, in Altre Italie, 2003, pp. 53-106). Anche se i risultati sono spesso assai modesti, resta il fatto che, per es., alle elezioni regionali del 1996 si presentano oltre 50 liste con simboli sicilianisti; così come è sintomatico che nella campagna elettorale del 1999 Leoluca Orlando (uno dei protagonisti della ‘primavera’ della società civile siciliana nella prima metà degli anni Novanta, sindaco di Palermo) adotta uno slogan centrato sull’orgoglio siciliano proprio a seguito di un accordo elettorale con una formazione sicilianista; analogamente degno di nota è il successo elettorale arriso negli ultimi anni al Movimento per le autonomie e che, sulla scia delle istanze separatistico-federalistiche del leghismo del Nord, lo ha portato alla guida della regione nel 2008. In verità, i movimenti politici autonomistici o indipendentistici in Sicilia hanno avuto un’esistenza precaria, se non effimera, e sono andati progressivamente appannandosi; ma è altrettanto vero che i fermenti o il discorso del nazionalismo regionale continuano ad avere una certa presa politica e socioculturale. Al di là di ogni altra considerazione, si registra che l’indipendentismo siciliano ha lasciato in eredità all’isola uno statuto speciale che esso ha profondamente contribuito a segnare: per i tempi della sua realizzazione (già prima del varo della Costituzione repubblicana, con decreto luogotenenziale) e per l’ampiezza e la consistenza dell’autogoverno concesso alla regione (che non hanno pari in altri statuti di autonomia in Italia).
Anche il Friuli è stato attraversato da forme di nazionalismo regionale (Strassoldo 1996). In particolare, per ricordare un solo esempio significativo, nel 1966 nasce il Movimento Friuli, ispirato da rivendicazioni di autonomismo regionalista. Solo due anni dopo, alle elezioni regionali, esso consegue un significativo risultato (oltre il 5%). Nel corso della prima metà degli anni Settanta la sua idea ispiratrice acquista il sapore di ‘nazionalismo friulano’ che, nel volgere di un decennio, lo porterà a chiedere la separazione del Friuli da Trieste, sull’esempio del modello autonomistico che si è sviluppato nel Trentino-Alto Adige e in ragione di una distinzione identitaria etno-linguistica. Fallito questo obiettivo, il Movimento perde rilevanza, fino ad avvicinarsi alla Lega Nord, nella vana speranza di poter così meglio lottare per la ‘nazione friulana’.
Questioni di nazionalismo regionale, infine, si affacciano anche in Trentino-Alto Adige, dove, a rivelare un risvolto peculiare è, per es., il discorso del capitano del Tirolo, Wendelin Weingartner, in occasione del 42° Congresso della SVP a Merano nel 1994, da cui emerge la difesa della prospettiva dell’Euregio tirolese: in questo contesto i fautori dell’euroregione invitano gli italiani-trentini a considerarsi tirolesi in virtù di un’«antica identità tirolese» (B. Luverà, Oltre il confine. Regionalismo europeo e nuovi nazionalismi in Trentino Alto Adige, 1996). La questione è costantemente viva in Alto Adige, come conferma, da un lato, lo storico e perdurante successo elettorale della SVP, frequentemente abbinato, per di più, alla presenza nello scenario politico-elettorale altoatesino di altre formazioni politiche minori di stampo etnoregionalistico; dall’altro, la ciclica rivendicazione separatista che occupa il quadro politico-culturale dell’area e che crea in primis tensioni con il Trentino, il quale – storicamente – ha agganciato la sua autonomia speciale a quella riconosciuta all’Alto Adige.
Statualità e principio di territorialità in bilico. Se in uno Stato-nazione consolidato ‘appartenenza nazionale’ significa anche diffusione del senso dello Stato tra i cittadini che vivono dentro i suoi confini territoriali e se uno Stato si definisce anche in base al principio di territorialità e alla capacità di controllo del proprio territorio, allora la Sicilia, con la secolare presenza della mafia, costituisce un caso paradigmatico di contesto problematico per l’appartenenza nazionale. In sede storiografico-politica è tesi preminente che con l’eliminazione del bandito Salvatore Giuliano (1922-1950) nell’isola si realizzi, di fatto, una sorta di riconoscimento del ruolo ‘politico’ del potere mafioso – a scapito dell’autorità dello Stato (Storia d’Italia, 1987). Come è noto, non mancano osservatori che ritraggono la Sicilia come una realtà sottoposta a un pervasivo controllo da parte delle organizzazioni mafiose, e che concludono sottolineando come un territorio popolato da 5 milioni di abitanti (quanto alcuni Stati europei) resti in preda delle cosche mafiose a fronte di uno Stato persistentemente debole, se non assente. Rispetto a questa dura e disperante immagine della Sicilia, analisi più articolate possono certo condurre a ritratti istituzionali e politico-culturali più sfumati. Ma difficilmente si può negare che si tratti di un caso dove il ‘principio di statualità’ è in bilico di fronte alla realtà effettuale.
In alcune regioni speciali esistono delicate questioni di convivenza multinazionale tra cittadini italiani. Realtà che per lo più restano ai margini dell’interesse pubblico nazionale e là confinate. Si tratta, tuttavia, di questioni che meritano maggiore considerazione. Esse, infatti, a loro modo e per più aspetti, costituiscono dei fenomeni anticipatori di problematiche che, soprattutto in prospettiva, vanno assumendo un enorme rilievo nella vita sociale nazionale, e questo alla luce di una certa tendenza della popolazione italiana verso una ricomposizione in senso multiculturale, multietnico, multinazionale. Tale tendenza, ancora in atto, nasce da mutamenti demografici di varia natura e da processi migratori internazionali che, nel ventennio che inizia poco prima della metà degli anni Novanta, hanno interessato sempre più da vicino la società e il territorio politico italiani. Senza voler minimamente sottostimare le notevoli differenze di tipo quantitativo e qualitativo tra i due tipi di fenomeni, si può dire che taluni problemi di integrazione o tensioni nella convivenza multinazionale tra cittadini italiani, così come qualche soluzione giuridica e istituzionale, emersi nel corso della storia delle periferie speciali, possono costituire esperienze utili da osservare, se non dei laboratori politico-culturali, sociali e giuridici, a fronte della crescente presenza di stranieri o immigrati comunitari ed extracomunitari.
Minoranza nazionale in Italia. Il caso più conosciuto e potenzialmente dirompente, oltre che emblematico dei problemi in gioco nelle aree plurinazionali del nostro Paese, è quello della convivenza multinazionale tra cittadini italiani in Alto Adige. Si è già ricordato come in questa periferia speciale il gruppo etnolinguistico italiano sia la minoranza al cospetto di quello tedesco (sebbene sia maggioritario nella città di Bolzano, capoluogo di Provincia). Secondo alcune proiezioni demografiche, questa composizione linguistico-entonazionale sarebbe destinata a subire pesanti modifiche, vista la tendenza a un assottigliamento della popolazione italiana (che arriverebbe a scendere dall’attuale 26% circa al 10% del totale). Secondo alcuni commentatori questa tendenza renderebbe serio il rischio che, a un certo punto, l’Alto Adige potrebbe distaccarsi dall’Italia. Al di là di previsioni del genere, guardando al presente, ciò che si registra è il limitato peso politico del gruppo italiano e la prospettiva di un suo ulteriore indebolimento. La solidità, a livello locale ma anche a Roma, della Südtiroler Volkspartei (che resta il partito di raccolta elettorale del gruppo etnolinguistico tedesco) garantisce la preminenza al gruppo tedesco e crea malessere in quello italiano, con l’effetto di una difficile convivenza tra i due gruppi. La comunità italiana si ritrova per alcuni aspetti nella condizione vissuta fino agli anni Settanta dal gruppo tedesco: si percepisce svantaggiata, discriminata, incompresa. Questa situazione di ribaltamento del disagio si è venuta a creare in seguito alla definizione e all’applicazione del Secondo statuto di autonomia (1972), il quale ha indebolito le prerogative della Regione autonoma del Trentino-Alto Adige a favore di quelle delle due Province autonome di Trento e di Bolzano: gli italiani dell’Alto Adige sono restati maggioranza in una regione (Trentino-Alto Adige) che ha scarsi poteri e risorse da amministrare e minoranza in una provincia (Bolzano) che ha accresciuto la propria autonomia, diventando il pilastro di questa regione. A caratterizzare tale disagio degli italiani concorrono ormai diversi fattori: mancanza di una propria classe politica, chiusura del gruppo tedesco nei loro confronti, scarsa diffusione della conoscenza della lingua tedesca tra gli italiani e, quindi, preclusione delle opportunità professionali e di accesso a posizioni nell’amministrazione pubblica.
A ciò si aggiunga una separazione dei circuiti di partecipazione politica e di cittadinanza e dei processi di formazione e di circolazione dell’opinione pubblica locale. Le cospicue risorse finanziarie di cui la Provincia autonoma di Bolzano dispone grazie al suo statuto speciale sembrano finora fungere da freno alla riesplosione di pericolose tensioni sociali e politiche: in passato attivate dal gruppo tedesco, oggi, quasi a metà del secondo decennio degli anni Duemila, le stesse tensioni potrebbero essere innescate dal gruppo italiano. Crescono, infatti, i dubbi sulla futura disponibilità delle risorse in capo alla provincia, specie negli ultimi anni: da un lato, in ragione del mutamento dell’ordinamento istituzionale delle regioni e degli enti locali; dall’altro, come effetto delle pesanti politiche di risanamento del deficit e del debito pubblico cui i governi nazionali ricorrono, ora più ora meno, in particolare in periodi di crisi finanziarie ed economiche internazionali, come per es. quella esplosa nel 2007-08 e al 2013 ancora in corso («Istituzioni del federalismo», 2012, 1, nr. monografico: Regioni a statuto speciale e federalismo fiscale, a cura di B. Baldi). A correzione di un certo ottimismo emerso nell’ultimo quarto di secolo di storia locale a proposito del ‘modello altoatesino’ di integrazione plurinazionale ed etnolinguistica, l’integrazione appare in realtà piuttosto precaria e difettosa. La convivenza multinazionale tra italiani continua a restare difficile. Dopotutto, di ‘convivenza’ si tratta. E quindi difficile, anche quando pacifica.
La convivenza in un contesto di plurinazionalità. Sebbene configurato in termini differenti dal precedente, anche il caso della Venezia Giulia illustra l’esistenza di un problema di convivenza multinazionale (Nazionalismi di frontiera, 2003; Trieste multiculturale, 2011). Quest’area periferica, infatti, esibisce un chiaro volto di plurinazionalità: comunità italiana, comunità slovena, isole germanofone, presenze croate. Un vero e proprio mosaico etnolinguistico che si compone in particolare a Trieste e nel Goriziano, e, in piccola parte, in Istria. In tali aree, nonostante una secolare e perdurante convivenza plurinazionale, nel corso degli ultimi decenni non è venuta meno la condizione di convivenza difficile. Un episodio storico può bastare a testimoniare i termini della questione. All’epoca del Trattato di Osimo (1975), prese forma un progetto di creazione di una zona franca. La finalità era di offrire opportunità di sviluppo economico all’area, ma anche, attraverso questa via, di facilitare i rapporti di convivenza o l’integrazione tra i gruppi nazionali presenti sul territorio. L’idea rimase però lettera morta. Su questo esito hanno pesato, non a caso e non poco, proprio le condizioni di difficile convivenza plurinazionale e i timori nutriti più o meno da ciascun gruppo verso l’altro. Nelle clausole relative alla circolazione delle persone, per es., molti triestini intravidero il rischio di una crescita delle minoranze slovena e croata.
Così, i possibili benefici economici derivanti dal progetto passarono in secondo piano rispetto ai propositi di scongiurare, nei limiti del possibile, che le province italiane frontaliere vedessero acuirsi il problema delle minoranze. A Trieste la sofferenza nei confronti della presenza slovena è rimasta piuttosto diffusa. Essa diventa particolarmente palese quando le rivendicazioni per la tutela della minoranza italiana in Istria si incrociano con l’argomento della reciprocità nella tutela per la comunità slovena a Trieste. La replica proveniente da numerosi settori politici e culturali triestini è che l’argomento della reciprocità nella tutela non coglierebbe il punto essenziale: la minoranza italiana – si sostiene – ha veri problemi di sopravvivenza, là dove quella slovena è ben protetta. È evidente che su queste basi, che si aggiungono alle già accennate questioni di memoria storica, diventa arduo rimodellare le relazioni tra i gruppi nazionali e, soprattutto, la convivenza permane difficile.
L’organizzazione di una convivenza multinazionale solleva problemi di vario ordine e complessi, a partire da quelli di tipo giuridico-costituzionale. Questi problemi sono per lo più trattati con il linguaggio e le politiche dei diritti delle minoranze (A. Pizzorusso, Maggioranze e minoranze, 1993). Ma, su queste basi, la questione non sempre trova una definizione coerente con la vera posta in gioco o soddisfacente rispetto ad aspettative, percezioni e rivendicazioni dei soggetti coinvolti. In altri termini, in contesti di convivenza multinazionale difficile a essere in gioco sono, non di rado, problemi che arrivano a mettere sotto tensione le principali tradizioni dottrinarie e istituzionali nel campo dello Stato di diritto e costituzionale e nel modo di concepire la democrazia, tradizioni dentro le quali linguaggio e politiche dei diritti delle minoranze vengono per lo più declinati. Ciò è dovuto, in particolare, al fatto che la natura dei problemi in questione chiama in causa una categoria di diritti, i cosiddetti ‘diritti di gruppo’ (o collettivi), il cui statuto è assai controverso nella dottrina politico-giuridica della modernità occidentale. Il riconoscimento di tali diritti è per lo più negato dalle tradizioni liberali prevalenti a partire dalla fine delle società europee di antico regime: a prevalere è, infatti, una declinazione individuale dei diritti. Questa va a vantaggio degli ormai assai più noti e consolidati diritti individuali, e a scapito di quelli collettivi. Tipicamente, nella politica e nel diritto moderni, i diritti del cittadino, così come quelli dell’uomo, sono ‘diritti dell’individuo’, di cui è titolare il singolo: soggetto dei diritti è quest’ultimo e non già una collettività, un gruppo, una comunità. Questa dottrina liberale, pur dominante, è tuttavia contestata e corretta da altri orientamenti, quali per es. quello comunitario o quello repubblicano (Kymlicka 1995).
Le questioni che reclamano diritti collettivi o comunitari possono investire un’ampia gamma di sfere della vita sociale, dove si incontrano differenti comunità etnolinguistiche e culturali (religione e istruzione, uso pubblico della lingua e terapie mediche, pratiche alimentari o invasive del corpo umano, condizione della donna e dei minori, festività e organizzazione delle attività produttive, commerciali o del lavoro, ecc.), come è dato osservare nelle società di immigrazione storica o nelle società europee a più recente presenza di consistenti numeri di immigrati. Soffermandosi sull’importanza dei diritti collettivi in situazioni più tradizionali di convivenza multinazionale, si può convenire sui termini del problema: il buon senso vorrebbe che i diversi gruppi convivano in pace, nella reciproca tolleranza e secondo un’equa distribuzione di costi e benefici. In questa direzione si esprimono anche alcuni orientamenti del multiculturalismo. Ma se è già difficile definire diritti e doveri del (singolo) cittadino, a rivelarsi ancora più complicato è ciò che concerne diritti e doveri di comunità che convivono su uno stesso territorio politico.
Se si osservano dunque i caratteri dell’ordinamento giuridico-istituzionale altoatesino da questa angolatura, i costituzionalisti aiutano a porre in evidenza un altro fenomeno interessante collocato in una periferia speciale dell’Italia. Sotto il profilo giuridico, l’Alto Adige ha fornito un contributo rilevante nel dare forma a una ‘costituzione delle minoranze’ nell’ordinamento del nostro Paese. Infatti, «l’intero sistema istituzionale della Provincia di Bolzano (e della Regione) è improntato al principio della distinzione tra i gruppi linguistici, ai quali è riconosciuta in diversi passaggi una soggettività giuridica propria», che giunge fino alla «possibilità di ricorso costituzionale per gruppi linguistici (art. 56, 2° co.)» (F. Palermo, L’Alto Adige fra tutela dell’etnia e governo del territorio, «Il Mulino», 1999, 4, p. 673). Qui non interessa entrare nel merito di questa lettura del caso altoatesino, che altri ritraggono in modo più critico (S. Bartole, Una convenzione per la tutela delle minoranze nazionali, «Il Mulino», 1995, 2, pp. 333-48). Basta invece sottolineare come in questa periferia speciale italiana siano maturati meccanismi per il riconoscimento istituzionale dei gruppi etnolinguistici che, più o meno riusciti, sono attivati proprio nel tentativo di dare risposte pacifiche e democratiche alle questioni di convivenza multinazionale per le diverse comunità.
Le questioni di convivenza multinazionale difficile tra italiani delle periferie speciali, con i disagi sociali e i malesseri identitari appartenenti a una o all’altra comunità, con le soluzioni politiche e costituzionali predisposte e la loro inadeguatezza, fanno parte integrante della composita identità nazionale italiana ed esprimono elementi di incompiutezza, se non di precarietà, tipici dell’unificazione nazionale osservata dal punto di vista delle ‘periferie identitarie storiche’ e dalle ‘resistenze’ che queste pongono al ‘centro’. Tutto ciò suggerisce argomenti non banali alla discussione pubblica sul futuro delle regioni a statuto speciale.
Nel corso di pressoché tutta la sua storia repubblicana, quella italiana è stata costantemente raffigurata come una democrazia anomala, in uno o in un altro dei suoi tratti. In proposito le analisi politologiche non hanno lesinato studi e interpretazioni, finendo spesso per leggere aspetti di peculiarità di un sistema democratico in termini di anomalia della società e della politica italiane. Con riferimento alla ‘prima repubblica’, espressione comunemente utilizzata nel linguaggio corrente per identificare il sistema politico della Repubblica italiana tra il 1948 e il 1994, l’anormalità assumeva la forma di ‘democrazia bloccata’. Tale nozione designa l’incapacità della ‘democrazia all’italiana’ di realizzare quelle alternanze alla guida dei governi nazionali ritenute tratto identificante e fisiologico di una ‘democrazia normale’: i governi, sempre centrati come erano sulla DC e sull’esclusione formale del PCI (salvo rarissime eccezioni), hanno rappresentato – stando a questa lettura – un chiaro indicatore di anomalia politica.
Dopo il 1994, il sistema politico italiano si è lasciato alle spalle questo tipo di ‘difetto democratico’. Sebbene altri sembrino ancora attanagliarlo, in riferimento ad alcuni di questi difetti, ricorrere al termine ‘anomalia’ appare tuttavia ancora più discutibile che in passato (Una patria per gli italiani?, 2003). Comunque lo si voglia valutare, il sistema democratico nazionale, quanto ad anomalia, sembra impallidire al confronto con quanto si riscontra in una delle periferie speciali italiane: «Nel cuore dell’Europa, in una regione crocevia tra Nord e Sud, fortemente tecnologizzata, avanzata economicamente, multilingue e snodo di comunicazioni internazionali, esiste da più di cinquant’anni una ‘‘democrazia bloccata’’, con un partito unico al governo che detiene la maggioranza assoluta e una leadership ben salda; un sistema di partito-stato per il quale a breve-medio termine non si intravedono ipotesi di cambiamento» (P. Giovanetti, Alto Adige: il partito di raccolta e la democrazia bloccata, «Il Mulino», 2000, 2, p. 285). Si tratta dell’Alto Adige. Un simile ritratto risulta in effetti un po’ troppo marcato. Ma è indubbio che ci si trovi di fronte a un sistema democratico (locale) assai particolare. In questo caso, parlare di ‘democrazia a partito unico’ significa usare un ossimoro per enfatizzare, in modo paradossale, i caratteri di una situazione politica di fatto, che non ha tuttavia fondamento sul piano delle strutture istituzionali e delle procedure formali, le quali, invece, anche nella fattispecie, sono in linea con i principi democratici: da qui una certa ambiguità democratica.
Al centro della singolarità di questo sistema democratico locale c’è la Südtiroler Volkspartei. Nata come partito di difesa della comunità etnolinguistica tedesca (piccola minoranza all’interno dei confini dello Stato-nazione italiano, ma ampia maggioranza sul territorio della Provincia autonoma di Bolzano), la SVP si è subito imposta, nel secondo dopoguerra, come partito etnico di raccolta, capace di attrarre la gran parte dei voti del gruppo germanofono. La strutturazione del voto nel territorio provinciale è infatti basata su una frattura etnolinguistica. In altre parole, è attraverso la politicizzazione di questo cleavage che si sviluppa la competizione tra i partiti e che prende corpo il sistema democratico e della rappresentanza. L’identità politica dei partiti si definisce in base alla loro posizione etnica. Ciò non significa che tutti i partiti presenti sulla scena siano a profilo etnico, rappresentanti, cioè, di un determinato gruppo etnolinguistico e nazionale. Significa piuttosto che essi devono definire una loro identità ed esibire pubblicamente una loro posizione in merito a tale frattura. Da questo punto di vista diventa importante osservare che nella composizione demo-etno-linguistica dell’Alto Adige (censimento del 2011) il gruppo germanofono rappresenta circa i due terzi della popolazione complessiva, mentre quello italofono circa un quarto (quello ladino si aggira intorno al 5%). In questo quadro politico, la competizione elettorale, i suoi risultati e la composizione del Consiglio provinciale riflettono certo un quadro di pluralismo politico-partitico, anche perché esiste una pluralità di partiti, liste e movimenti che competono per la rappresentanza della comunità germanofona e un’analoga per quella italofona.
Viste però le condizioni sopra richiamate, rimane il dato di fatto che a imporsi, di gran lunga, come il primo in tutte le elezioni provinciali è solo e sempre lo stesso partito, il quale riesce a ottenere la maggioranza dei voti e dei seggi in Consiglio, e così a esprimere il presidente della Giunta provinciale e la maggior parte degli assessori («Istituzioni del federalismo», 2000, 3-4, nr. monografico: Elezioni, assemblee e governi regionali 1947-2000, a cura di G. Baldini, S. Vassallo). Qui sta il significato della democrazia bloccata nel caso dell’Alto Adige: mai, fino a oggi, un’alternanza alla guida del governo (provinciale). Da qui, anche, l’immagine di ‘partito-Stato’ de facto, non certo de iure, per la Südtiroler Volkspartei, e quella paradossale di ‘democrazia a partito unico’ per il sistema politico altoatesino. Immagini, queste, che sono state rafforzate dal fatto che la SVP si è nel tempo strutturata come partito interclassista, con grandi capacità organizzative sul territorio e di controllo dell’ambiente sociale, economico e culturale, pur continuando a restare soprattutto un partito etnico di raccolta, il cui baricentro è la rappresentanza del gruppo etnolinguistico maggioritario sul territorio provinciale.
Così, in Alto Adige la mancanza di effettive alternative politiche, di alternanza al governo, di ricambio della classe politica e di contrappesi di potere, produce una situazione politica in cui un solo partito e sempre lo stesso è in grado di occupare ogni spazio della vita pubblica e collettiva, una situazione che è stata definita di ‘colonizzazione della comunità’. Per questi motivi si è arrivati a definire il sistema politico locale come un sistema gravato da un pernicioso ‘deficit democratico’, e quindi sprovvisto di una piena legittimità democratica. Formulata in questi termini, la definizione può in effetti suonare un po’ forzata o equivoca. Tuttavia, articolando meglio la legittimità democratica nel suo tipico doppio volto di legittimità basata sull’input e legittimità basata sull’output, diventa possibile concludere che il sistema politico altoatesino, in realtà, si trova in sofferenza sul piano della legittimità basata sull’input, ossia quel tipo di legittimità democratica che deriva dalla capacità effettiva di tutti i cittadini e gruppi di partecipare, di essere coinvolti e di essere inclusi nel processo politico e di decisione pubblica autoritativa, con pari peso, con pari opportunità di accesso e di competizione per il successo. D’altra parte, però, il sistema politico altoatesino si mostra adeguatamente in grado di soddisfare i requisiti della legittimità basata sull’output, ossia quella associata alla capacità delle istituzioni politiche di dare risposta alle domande dei cittadini e dei gruppi, di offrire prestazioni apprezzate e di distribuire risorse e benessere. Gli osservatori della realtà altoatesina si chiedono fino a quando un sistema del genere potrà durare: forse finché la Provincia autonoma di Bolzano continuerà a disporre di ingenti risorse economiche e finanziarie per distribuire benessere, opportunità e servizi? Oppure finché il disagio degli italiani non esploderà ed essi non troveranno un loro ‘imprenditore politico’ o un modo di darsi un’organizzazione politica?
L’Alto Adige è l’unica ‘regione’ italiana dove si verifica un fenomeno del genere e in tale portata. A esso può essere accostato, ma solo parzialmente, il caso della Valle d’Aosta («Le istituzioni del federalismo», 2000, cit.). In Valle d’Aosta, a partire dagli anni Settanta, l’Union Valdôtaine gode in effetti di una posizione politico-elettorale egemonica in virtù della sua capacità di presentarsi come rappresentante degli interessi e della identità del ‘popolo valdostano’. Nonostante questo, e nonostante la forte penetrazione e ramificazione nella società valdostana, l’UV non è paragonabile alla SVP: né per la continuità, l’intensità e l’estensione dell’egemonia politica, né per la sua marcatura etnolinguistica. Non a caso, lo stesso sistema politico locale esibisce un pluralismo politico tendenzialmente più robusto di quello altoatesino e, per quanto limitato, un qualche grado di varietà e di articolazione politiche nella storia del governo regionale.
Da alcuni anni circolano in Europa progetti e iniziative di euroregione (L’Europa delle euroregioni, a cura di C. Bonvecchio, G. Dabbeni, G. Parotto, T. Tonchia, 2007). Si tratta di un fenomeno che, a suo modo, chiama in causa un supposto tramonto dello Stato-nazione e, quindi, una ridefinizione dei rapporti tra centro e periferie. In tema di euroregioni, il riferimento primo va al Trattato di Maastricht (1993). L’idea di ‘ritagli’ politico-territoriali diversi da quelli statali-nazionali, con un loro significato giuridico, amministrativo, economico, culturale, non nasce certo in quella occasione. Il punto è che con il Trattato di Maastricht si è cercato di promuovere i ritagli euroregionali come unità centrali di una riorganizzazione degli spazi politici europei, facendo leva sul principio di sussidiarietà e su ipotesi di strutturazione istituzionale nella cooperazione transregionale. I progetti di euroregioni si propongono come una variante dell’idea di una ‘Europa delle regioni’. Essi intendono contribuire allo sviluppo di un modello di organizzazione dello spazio politico europeo diverso, a tratti alternativo, a quello storicamente incardinato sullo Stato-nazione. L’obiettivo ha incontrato il sostegno di alcune organizzazioni europee, di enti territoriali e amministrativi, di centri di analisi e di gruppi di interesse, di settori del ceto politico e dell’opinione pubblica organizzata.
A fronte degli sviluppi politici ed economici degli ultimi anni, questo proposito appare oggi, quasi a metà del secondo decennio degli anni Duemila, in arretramento rispetto alle aspettative che lo avevano nutrito. Al riguardo hanno certo pesato anche le ambiguità che lo caratterizzano nel disegnare a livello politico-istituzionale le regioni europee, dove si trovano oscillazioni tra regione come area ritagliata all’interno degli ordinamenti statali-nazionali, regione definita in termini transfrontalieri funzionali (reti di interessi economici, di traffici e comunicazioni con adeguato supporto amministrativo), regione come nuovo soggetto politico a tutto tondo, magari costituito da territori appartenenti a differenti Stati-nazione. Sebbene il fenomeno delle euroregioni risulti tutt’ora opaco, frastagliato e in continuo movimento, tra retorica e accordi transregionali spesso di basso profilo istituzionale, rimane il fatto che in Europa si sono date un’organizzazione numerose euroregioni, cui aderiscono in vario modo diverse regioni italiane − tra queste, alcune di quelle a statuto speciale risultano tra le più attive.
Un primo esempio, il cui maggiore interesse risiede a livello di formulazione ideologica, riguarda la Valle d’Aosta e risale, in verità, già agli anni Sessanta e Settanta. Qui l’autonomismo, nel pensiero di Bruno Salvadori (1942-1980) o di Gerard Héraud (1920-2003), si propone come una sorta di laboratorio per ‘l’Europa dei popoli e delle regioni’. Un secondo esempio concerne il Friuli-Venezia Giulia, con alcune proposte miranti a riunire l’Istria a Trieste in una sorta di regione europea interstatale, sperimentale ma nel rispetto di vincoli e confini statuali; e, in particolare, con la creazione della regione transfrontaliera di Alpe-Adria (Problemi e prospettive dello sviluppo di euro regioni sul confine nord-orientale italiano: il caso del Friuli-Venezia Giulia, a cura di A. Gasperini, 2001). Un terzo esempio è quello della Sicilia che, nella seconda metà degli anni Novanta, vede la crescita di un movimento di ispirazione sicilianista orientato ad agganciare l’isola alla prospettiva dell’Europa delle regioni, con l’intenzione di promuovere una qualche forma di euroregione mediterranea, in grado di rilanciare un ruolo geopolitico nel solco della vocazione mediterranea della Sicilia. Considerazioni in parte simili muovono le iniziative che coinvolgono la Sardegna (D. Petrosino, Identity and hybridism in Sardinia and Sicily, in L’Europe méditerranéenne, éd. M. Petricioli, 2008, pp. 227-57).
Tra le varie iniziative euroregionali è però quella del Tirolo a emergere con maggiore spessore e a essere perseguita con più forte determinazione e costanza. Essa, per l’Italia, interessa essenzialmente l’Alto Adige, con il suo peculiare contesto politico-territoriale, istituzionale e culturale, e coinvolge il Trentino solo di rimando o come sfondo (B. Luverà, L’euroregio tirolese, in Altre Italie, 2003, pp. 19-33). Il progetto di un’euroregione tirolese si impone all’attenzione a ridosso della caduta del muro di Berlino e si sviluppa nel corso degli anni Novanta, coinvolgendo, oltre al Trentino e all’Alto Adige, Tirolo e Vorarlberg – sia pure secondo modalità e tempistiche varianti. Ben presto, tuttavia, l’iniziativa suscita, specie in Trentino e fra gli italiani altoatesini, il timore di rappresentare una sorta di cavallo di Troia, finalizzato a riunificare Tirolo e Alto Adige/Sud-Tirolo all’insegna di un’identità etnonazionalistica. La prospettiva delle euroregioni, tanto caldeggiata anche dall’Unione Europea in funzione di un’integrazione europea transregionale, svela così un ulteriore frammento della composita identità nazionale italiana portato dalle periferie speciali.
Con il ‘ritorno della nazione’ negli anni Novanta, al tema dell’identità e dell’appartenenza nazionale si accostano quelli degli interessi nazionali e delle questioni geopolitiche. Anche nella cultura e nella politica italiane guadagnano attenzione questioni geopolitiche, di frontiere e di territori. Questa sensibilità pubblica è indotta, in primo luogo, dalla sfida secessionista del leghismo padano, la quale apre il problema della tenuta dell’unitarietà politico-territoriale dello Stato-nazione; in secondo luogo dai conflitti internazionali e dal nuovo quadro geopolitico messo in moto dalla fine dell’impero sovietico e dal disfacimento violento della Jugoslavia alle frontiere orientali italiane. Per lo Stato-nazione italiano riemergono questioni internazionali territoriali e di frontiera che hanno le loro radici nella prima metà del Novecento e si riannodano al secondo dopoguerra, alle soluzioni all’epoca trovate per le contese internazionali – in particolare attorno ad alcune aree periferico-frontaliere.
Queste tensioni politico-territoriali interne ed esterne allo Stato-nazione italiano sono peraltro concomitanti agli sviluppi in atto nel processo di integrazione europea, nel cui ambito prendono forma tendenze tra loro contrastanti. Per un verso, preme l’esigenza di Realpolitik di stabilizzare l’Europa centro-orientale, uscita dal dominio sovietico e percorsa da profondi e sanguinosi sommovimenti; per l’altro, si affermano propositi di rimodellare l’integrazione europea favorendo, anche, l’emancipazione delle regioni dagli Stati nazionali (‘Europa delle regioni’), secondo gli schemi politico-istituzionali del federalismo. La prima esigenza tende a implicare la necessità di non toccare confini e territori degli Stati nazionali, e quindi la sovranità degli Stati-nazione esistenti. Al secondo obiettivo si associa invece una spinta, potenzialmente gravida di conseguenze imprevedibili, che mette in discussione l’integrità politico-territoriale degli Stati esistenti. L’Europa dell’ultimo ventennio, quello che parte dai primi anni Novanta, rivela un panorama ricco di fenomeni geopolitici assai critici. Il caso più noto e drammatico è quello jugoslavo; ma in questo scenario rientrano pure la riunificazione della Germania, la divisione della Cecoslovacchia, lo smembramento dell’Unione Sovietica e, a loro modo, le spinte secessioniste provenienti dalla Scozia o dalla Catalogna, così come la crescente divisione interna tra valloni e fiamminghi in Belgio.
ensioni e problematiche di questo tipo interessano anche l’Italia. Certe istanze politico-territoriali disgregative e ricompositive del territorio italiano agitate dal leghismo padano vanno infatti nella stessa direzione. Queste tendenze alla politicizzazione radicale del territorio non sembrano sulla via del tramonto, anche se in taluni frangenti appaiono sottotono: è più plausibile pensare che, come già in passato, fenomeni del genere cadano di tanto in tanto in una condizione di latenza. In questo momento interessano però le questioni territoriali di natura internazionale.
In una fase storica di profonda crisi internazionale prende corpo una stagione in cui gli interessi nazionali dei vari Paesi, specie quelli dell’Europa continentale, sono chiamati a darsi un profilo. Questo vale persino per un Paese quale l’Italia, per diversi motivi ormai da decenni defilato rispetto alle questioni geopolitiche (IAI/ISPI, La politica estera italiana a 150 anni dall’Unità, «La politica estera dell’Italia», 2011, a cura di G. Bonvicini, A. Colombo). Alcune periferie speciali risultano emblematiche anche su questo versante geopolitico. Come è stato sottolineato da diversi osservatori, nel mezzo secolo successivo alla Seconda guerra mondiale lo Stato-nazione italiano è stato impegnato in due unici casi di attrito internazionale per questioni di tipo territoriale: l’Alto Adige e Trieste. Il ‘problema Alto Adige’ rimanda all’identità storico-culturale tedesca dell’area, un aspetto che non può essere camuffato con troppa disinvoltura: «Alla fine della prima guerra mondiale, noi incamerammo una provincia che aveva sempre fatto parte del Tirolo austriaco, abitata da una popolazione interamente tirolese […] Noi dunque incamerammo il Sud Tirolo» e «credemmo che per italianizzarlo bastasse cambiargli il nome in quello di Alto Adige»; «ora a Bolzano c’è anche un’operosa popolazione italiana che appunto con la sua operosità si è conquistata il diritto di restarci», tuttavia non si può certo dire che «quei borghi, quell’architettura, quei masi, quei coltivi sono di marca italiana. Non cerchiamo di negarlo […]: da Salorno in su, quella è terra tedesca» (I. Montanelli, Non si può trasformare il Sud Tirolo in Alto Adige, «Corriere della Sera», 23 settembre 1997; Id., Cerchiamo di rispettare l’anagrafe dei tirolesi, «Corriere della Sera», 22 ottobre 1997). Il ‘problema Trieste’ trova invece espressione nell’irredentismo storico e nel fatto che Trieste è stata l’ultimo territorio a congiungersi allo Stato-nazione italiano.
Entrambi i problemi hanno trovato una loro soluzione a partire dagli anni Settanta. In Alto Adige con il varo del ‘pacchetto’ (1969), con il Secondo statuto di autonomia (1972) e con la concessione austriaca della quietanza liberatoria (1992), che chiude la vertenza internazionale tra Italia e Austria. A Trieste con il Trattato di Osimo (1975), che definisce gli assetti territoriali frontalieri tra Italia e Jugoslavia, rimasti aperti alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel primo caso, la definizione della questione territoriale è risultata stabile, nonostante, più recentemente, il problema dell’euroregio tirolese abbia sollevato reazioni critiche da parte italiana. Nel secondo caso, un po’ meno. La dissoluzione di uno dei soggetti internazionali firmatari del Trattato di Osimo (lo Stato iugoslavo) ha infatti rimesso in movimento gli equilibri geopolitici dell’area e ha comportato l’ingresso sulla scena e ai confini italiani di due nuovi soggetti internazionali (gli Stati di Slovenia e di Croazia), che non sono contraenti del Trattato.
Così, l’Italia è stato uno dei Paesi che ha maggiormente risentito delle conseguenze provocate dalla disgregazione politico-territoriale della Jugoslavia. In quegli anni, la dissoluzione della Federazione jugoslava e la secessione da essa di Slovenia e Croazia disorientano la politica italiana. In Italia si apre un dibattito politico sulla validità del Trattato di Osimo nel nuovo contesto internazionale, dibattito che arriva anche in Parlamento. Propositi di revisione del Trattato maturano persino all’interno del governo. Il punto, come era facile da attendersi, si rivelerà estremamente delicato da trattare. Da una parte, si trovano alcune posizioni radicali, le quali esprimono propositi di ridefinizione dei confini internazionali; dall’altra, posizioni più moderate, che reclamano la necessità di negoziare con Slovenia e Croazia nuovi rapporti commerciali più vantaggiosi; infine, trovano spazio anche posizioni intermedie, le quali risollevano il problema della restituzione dei beni lasciati in Istria dagli esuli italiani al momento della loro fuga. Al fondo di tutto, ciò che si può dire accomuni queste differenti istanze è la convinzione che sia giunto il momento di riparare torti storici, di cancellare le ingiustizie patite con i trattati.
Naturalmente, non mancano prese di posizione politiche e culturali che, al contrario, difendono fermamente la validità del Trattato di Osimo. Il dibattito politico sulla rinnovata ‘questione triestina’ trova riflesso anche negli orientamenti dei cittadini triestini: se i sondaggi di opinione mostrano come essi siano poco informati sulle questioni legate al Trattato di Osimo e in ogni caso poco propensi a ritenerle delle priorità, va altresì osservato come, nel corso degli anni, al momento del voto i cittadini locali tendano a premiare quei partiti che – in una direzione o nell’altra – agitano la bandiera del ‘problema della frontiera’.
Come già nel secondo dopoguerra, ancora una volta è soprattutto la questione triestina a proiettare lo scacchiere geopolitico internazionale sulla politica interna italiana e a riaprire prospettive di ricollocazione dell’Italia nel sistema degli interessi nazionali legati all’Europa centro-orientale. Gli sviluppi di questa vicenda diranno presto che l’Italia uscirà piuttosto ridimensionata nelle sue ambizioni. Ma non è questo l’aspetto che qui preme sottolineare, né tanto meno quello che riguarda le ragioni di tale esito. Ciò che invece merita attenzione è il fatto che, in una congiuntura storica in cui anche per lo Stato-nazione italiano riacquista esplicito rilievo l’azione geopolitica, a trovarsi in primo piano è, in particolare, una delle sue periferie speciali. Considerazione analoga, sebbene in uno scenario meno pressante, può essere fatta anche per un’altra regione speciale: la Sicilia. La rilevanza geopolitica e geoculturale dell’isola appare ormai da tempo piuttosto trascurata dall’opinione pubblica, benché la presenza della NATO e di basi militari americane non sia stata di rilievo secondario. Dagli anni Novanta, l’area mediterranea e mediorientale ha visto un intenso e perdurante precipitare di crisi e di conflitti internazionali, così come l’acuirsi del problema dei flussi migratori verso l’Europa: la posizione geopolitica dell’Italia e la definizione dei suoi interessi nazionali, ma anche la demarcazione identitaria e geopolitica dell’Europa non possono non fare riferimento alla posizione strategica della Sicilia. In questo quadro, il ruolo italiano nell’area scorre lungo un asse strategico di alternative, i cui estremi qualificano la Sicilia, e con essa l’Italia, ora come presidio occidentale/europeo nel Mediterraneo, ora come ponte di interculturalità e di comunicazione verso il mondo arabo (L’alternativa mediterranea, a cura di F. Cassano, D. Zolo, 2007). L’identità nazionale italiana passa anche da questa periferia speciale.
Ispirata, e a tratti dettata, dalla volontà politica di sottoporre tutte le regioni ai medesimi vincoli e opportunità, benefici e costi, diritti e doveri di cittadinanza, l’azione dei governi delle ultime legislature ha progressivamente avvicinato le regioni ordinarie a quelle speciali, in qualche modo erodendo il principio stesso della ‘specialità’. Le periferie identitarie storiche continuano a godere di una condizione di autonomia speciale, con quel che ne deriva sotto il profilo dei benefici e dei diritti. Tuttavia, le regioni a statuto ordinario, a partire dagli anni Novanta, sono state sensibilmente rafforzate, beneficiate e caricate di responsabilità attraverso una serie di riforme istituzionali e amministrative (regionalizzazione del Servizio sanitario nazionale; decentramento di funzioni amministrative; nuovo sistema elettorale ed elezione diretta dei presidenti delle regioni; potenziamento della finanza regionale propria; revisione del titolo V della Costituzione; legge sul federalismo fiscale).
Le polemiche sui privilegi e sugli eccessivi benefici accordati alle regioni speciali, cresciute negli ultimi anni, e che hanno fatto irruzione, come raramente in passato, nella campagna elettorale del 2013 per il rinnovo del Parlamento nazionale, riflettono il rilievo centrale che sono venute ad assumere le considerazioni di ordine finanziario-amministrativo. Non vi è dubbio che gli aspetti relativi alla distribuzione delle risorse finanziarie e all’efficienza ed efficacia amministrative abbiano avuto storicamente massimo rilievo nei rapporti tra centro e periferie. Ma oggi tali considerazioni sembrano essere arrivate al punto di monopolizzare la discussione sul ‘riparto verticale del potere’.
Nella visione e nell’approccio attraverso i quali si è qui cercato di ricostruire il significato delle regioni a statuto speciale emergono gli argomenti che, perlomeno, relativizzano l’idea che un’adeguata comprensione del significato delle regioni speciali e una considerazione del loro futuro si risolvano esclusivamente o soprattutto sul piano finanziario-amministrativo – senza per questo minimamente sottovalutare tale aspetto. Del resto, anche coloro che sostengono questa idea, allo stesso tempo ritengono che la dimensione finanziaria della ‘specialità’ resti al riparo da interventi di contenimento della spesa pubblica introdotti per via legislativa ordinaria, seppure dettati da emergenzialità (per es. quelli varati dal governo Monti con il decreto ‘salva Italia’, convertito nella l. 22 dic. 2011 nr. 214 ). Ciò perché decisioni unilaterali prese a questo riguardo dal governo centrale mal si accordano con la natura pattizia che definisce le autonomie speciali e che rappresenta il tratto peculiare della specialità. Se non si tiene conto di questo profilo costituzionale, ciò cui si perviene è una sorta di decostituzionalizzazione in modo surrettizio delle regioni a statuto speciale (ossia, via disciplina finanziaria).
Negli ultimi anni, questa tendenza latente è stata non a caso evidenziata da alcune regioni speciali, le quali hanno sollevato contenziosi contro il governo nazionale presso la Corte costituzionale, denunciando provvedimenti unilaterali che andavano a nocumento della loro autonomia speciale. Conflitti del genere, per quanto apparentemente sub specie costituzionale, sono conflitti di valenza squisitamente politica (nel senso visto sopra) – come lo sono tutte le contrapposizioni e decisioni che definiscono un ordinamento costituzionale: su questo persino i due ‘padri rivali’ del pensiero politico-costituzionale del Novecento, il normativista Hans Kelsen (1881-1973) e il decisionista Carl Schmitt (1888-1985), tendono a loro modo a convergere. Di conseguenza, il significato attuale e la persistenza della specialità dipenderanno, in ultima istanza, dall’esito di un eventuale conflitto politico e dal punto di equilibrio che esso potrà produrre tra centro e periferie: analogamente (se non esattamente) a quanto è avvenuto nel ‘momento genetico’ delle autonomie speciali. La posta in gioco in un simile conflitto potrà diventare, alla fine, la stessa natura del principio costituzionale della specialità delle regioni autonome: un principio intangibile a Costituzione vigente o un principio eliminabile dal Parlamento a mezzo di legislazione costituzionale? (V. Onida, I principi fondamentali della Costituzione italiana, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato, A. Barbera, 19975, pp 77-116; S. Labriola, Il principio di specialità nel regionalismo italiano, in La riforma costituzionale in senso federale. Il punto di vista delle autonomie speciali, a cura di S. Ortino 1997, pp. 61-84).
Gli esiti di conflitti politici di tale natura sono difficili, se non impossibili, da stabilire in anticipo. Tuttavia, gli strumenti dell’analisi politica e la rivisitazione delle esperienze storiche possono aiutare a comprenderne portata e natura, e in tal senso offrire un quadro delle condizioni entro le quali tali fenomeni e i loro possibili sviluppi possono plausibilmente muoversi. È la strada che abbiamo qui percorso, con l’obiettivo di spiegare l’autonomia speciale di alcune regioni italiane e la loro peculiare raison d’être – senza voler dire bene di esse, ma nemmeno dirne male. Tale ragion d’essere sta nell’intreccio tra due tipi di fattori politici. Uno di longue durée storica e l’altro di storia ‘événementielle’. Il primo fattore rimanda alla natura di periferie identitarie storiche delle regioni a statuto speciale. Il secondo alla loro capacità (o alla ‘fortuna’, nel senso di Machiavelli) di imporsi come problema per lo Stato-nazione italiano in un momento per questo assai critico. Questo doppio fattore politico alla base dell’autonomia speciale trova una sua ulteriore conferma nel fatto che in tali territori periferici si riscontrano il persistere e la vitalità di una serie di questioni regionali che si riflettono sullo Stato italiano e sull’identità nazionale. Di questi riflessi politico-identitari si è qui cercato di dare una sorta di inventario, senza alcuna pretesa di esaustività: al più una mappa che aiuti a orientarsi.
Le regioni a statuto speciale ben esemplificano significativi aspetti della perdurante attualità delle esperienze del regionalismo storico. Allo stesso tempo, esse costituiscono un banco di prova per un’identità difficile, quale è tipicamente quella nazionale – in Italia come altrove. I propositi di federalismo che negli ultimi 25 anni, cioè dalla fine degli anni Ottanta, hanno trovato espressione nelle rivendicazioni politico-territoriali del leghismo e nell’ingegneria istituzionale della regionalizzazione potrebbero trarre giovamento ed elementi di realismo politico da un confronto con le ‘ragioni delle regioni speciali’ e la loro vicenda storico-politica.
L’Italia, come del resto la maggior parte degli Stati-nazione, è ‘una e molteplice’. Anche sul piano politico-territoriale. L’elaborazione di un’identità nazionale, come di ogni altro tipo di identità, individuale o collettiva, è un processo continuo anche quando incontra momenti di discontinuità. L’identià nazionale di una comunità politica è fisiologicamente esito di processi di rivisitazione del passato, di riconoscimento reciproco, nel presente, tra i vari soggetti coinvolti, di condivisione di un progetto collettivo per il futuro. Il passato e il futuro si incontrano nel presente, sul quale l’uno e l’altro addensano i loro problemi. Le questioni politiche e identitarie sollevate dalle nostre periferie speciali incarnano in modo emblematico questo intreccio intertemporale. Il successo nella formazione di un sano senso di appartenenza nazionale dipende anche da quella che si può definire la ‘politica del riconoscimento tra centro e periferie’: «un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia» (C. Taylor, Multiculturalism and ‘the Politics of Recognition’, 1992, trad. it. Multiculturalismo, 1993, pp. 41-42; J. Habermas, Struggles for recognition in constitutional States, «European journal of philosophy», 1993, 1-2, pp. 128-55).
Ai fini di questo riconoscimento reciproco, nel nostro caso tra periferie speciali e Stato-nazione, è importante la presenza di adeguate istituzioni che assicurino la pluralità delle identità collettive territoriali e che governino le tensioni che tale pluralità può generare. Allo stesso modo, è importante il ruolo delle élites, a partire da quelle politiche, e delle loro agenzie nel guidare e promuovere l’integrazione nazionale presso l’opinione pubblica, la società civile e la massa dei cittadini. Tuttavia, istituzioni ed élite politiche non bastano. C’è bisogno di «qualcosa di più [...] una cultura politica che sostenga lo Stato come nazione-Stato, per suscitare un ‘noi’, un sentimento di comune appartenenza, di identità collettiva» (J.J. Linz, Plurinazionalismo e democrazia, «Rivista italiana di scienza politica», 1995, 1, p. 48). Queste parole ben si adattano al caso italiano e al gioco di specchi tra identità nazionale e identità regionale delle periferie speciali. In un modo o nell’altro, il riconoscimento politico forgia l’identità. Quella di chi è riconosciuto, ma anche quella di chi riconosce.
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