Periodizzazione
Con questo termine, entrato nell'uso nel corso del Novecento, si designa quell'operazione culturale volta a suddividere il tempo storico attribuendo a ogni scansione un significato e un senso ben individuato. Il termine è relativamente recente -deriva dalla scienza storica tedesca di fine Ottocento -, ma l'operazione è antichissima. Il filosofo polacco K. Pomian, tracciandone un quadro complessivo (1980), ha ricordato come le grandi religioni, cristianesimo e islam, hanno trasformato una p. elementare -dopo Cristo, dopo l'egira -in una cronologia. E come alcune profezie, quella per es. dei quattro regni del libro di Daniele, sono divenute periodizzazioni. Questa p. ha convissuto con quella delle sei epoche di s. Agostino che stabiliva una corrispondenza tra le sei giornate della creazione e altrettante età, da Adamo alla nascita di Cristo. La sesta è destinata a durare fino alla fine dei tempi, fino alla venuta del Signore. A questa visione teocentrica di un tempo lineare si contrapponeva la visione naturalistica di un tempo ciclico proposta dagli eredi del pensiero aristotelico. Lo storico arabo musulmano Ibn Khaldūn (14° sec.) non esclude l'intervento di Dio nella storia, ma il tempo storico è definito -come nella vita umana, così nelle dinastie - dall'alternarsi di gioventù, maturità e vecchiaia prima che il ciclo ricominci.
Il tema di un nuovo inizio o, dal 15° sec., di una rinascita, è un concetto ricorrente nel mondo occidentale. Ne troviamo testimonianza nella cultura umanistica e nella riforma protestante declinato in modo diverso e attribuito, da un lato, al ritorno ai fasti della classicità, dall'altro, al riaffermarsi dei valori della Chiesa delle origini e della vera fede. Si fa strada, successivamente, un senso di superiorità dei moderni sugli antichi (con J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, 1572) e, in seguito, un superamento della stessa storia sacra proprio in un campione di questo genere (J.-B. Bossuet, Discours sur l'histoire universelle à Monseigneur le Dauphin, 1681) con una p. che attribuiva rilevanza a scansioni determinate da avvenimenti e figure mondane, dalla caduta di Troia a Romolo, a Carlo Magno: "Ultimo monumento della teologia della storia, il Discours di Bossuet testimonia, all'insaputa del suo autore, di una crisi della cronosofia cristiana" (Pomian 1980, p. 618).
Si registra così un graduale distacco dal predominio di una visione cristiana della storia. Con Voltaire e con l'Illuminismo si identificano nel passato una serie di fasi, di epoche in cui è possibile individuare un progressivo sviluppo della società e della cultura, avvicinandosi con sempre maggiore consapevolezza a un'idea di progresso. Da queste operazioni non è assente un'intenzione valutativa cha attribuisce carattere di esemplarità alle singole epoche e sempre più un'aura di positività al tempo presente. Mentre sembrava acquisita la rappresentazione di un'età intermedia tra classicità e modernità, il Medioevo, segnata da oscurità e barbarie. La storia e il discorso sulla storia diviene elemento di confronti culturali e ideali espressi in grandi semplificazioni. Le p. valutative entrano stabilmente nei meccanismi della comunicazione culturale. Così il pensiero romantico contrappone positivamente il Medioevo, per i suoi legami con le fonti sorgive dei popoli, al razionalismo distruttivo dell'Illuminismo culminato nella Rivoluzione francese. E proprio la Rivoluzione francese si attribuisce un valore così forte di esemplarità da dare inizio a un nuovo calendario, a una nuova cronologia. Il fascismo italiano ripeterà l'esperimento nell'illusione di aver avviato una nuova era destinata a durare.
Il progressivo distacco tra la storia come disciplina fondata sull'analisi critica delle fonti e filosofia della storia rende inattuale e impraticabile il tentativo dell'idealismo di proporre una scansione periodizzante delle tappe dello Spirito. G.W.F. Hegel aveva ritrovato nel passato quattro mondi della storia universale - orientale, greco, romano, germanico - espressione dello spirito del tempo e "incarnazione di un principio il cui compimento è necessario per l'avanzata dello spirito, della sua autoconoscenza e della sua libertà, vale a dire del progresso del genere umano" (Pomian 1980, p. 627). Ma la maggioranza degli storici, dalla prima metà del 19° sec., si muovono su un terreno diverso anche se molti, nel corso del Novecento, non mancheranno di manifestare una certa nostalgia per una superiore concezione di insieme (anche se negata si trattava pur sempre di una filosofia della storia) affidata ora allo storicismo idealista ora, e con maggior seguito, a quello marxista giustificato dallo sviluppo dialettico delle forze produttive.
Anche per questi motivi la storia della storiografia dimostra quanto sia difficile sottrarre interamente le p. da una connotazione valutativa per contenerle nella dimensione di strumenti neutri di ricostruzione storica. A questo si aggiunga che il consenso tendenzialmente generale sulla denominazione delle grandi p. - antichità, Medioevo, età moderna, età contemporanea - nasconde in realtà molte differenze, tutte derivanti dalle diverse tradizioni culturali nazionali e/o ideologiche di appartenenza. Nella tradizione di ispirazione marxista-leninista del mondo sovietico la modernità, misurata sull'estinzione del sistema di produzione feudale, ha tempi e andamenti diversi da quelli dell'Europa occidentale dove appaiono decisive le scoperte geografiche, la Riforma e la nascita dello Stato moderno.
È anche vero che le p. rispondono a un'esigenza eminentemente didattica e, quindi, alla necessità di individuare avvenimenti fondanti - vuoi come inizio che come termine - facilmente generalizzabili, memorizzabili e comunicabili (la caduta dell'Impero romano, 476 d.C., la Rivoluzione francese, 1789). Proprio questa funzione pratica è alla base del rifiuto delle p. di quanti vi vedono un arbitrario vincolo di rigidità e le rifiutano, come B. Croce, in nome dell'individualità di ogni vicenda storica: del resto, "se pensare è storicizzare, pensare è, sempre e unicamente, individuare" (Croce 19434, p. 301). "Accade persino di assistere - scriveva Croce - alla personificazione dei 'secoli', numericamente designati, e alla congiunta determinazione e deduzione dei loro caratteri e modi di operare, e alle dispute in proposito; il che è spinto talvolta fino al risibile, come quando negli ultimi dell'ottocento si formò ed ebbe voga la partizione 'fin de siècle', che fu utilizzata sostantivamente e oggettivamente, in riferenza a un presunto contenuto ideale e morale, e parve quasi diventare una norma dell'azione e del costume" (19434, pp. 297-98). Ed è puntualmente quello che è accaduto e continua ad accadere. Le età si sono suddivise in secoli e i secoli oltre a essere numerati hanno ottenuto attributi identificativi. Denominazioni condivise, ma di frequente anche denominazioni plurali: il Seicento dell'assolutismo, ma anche delle rivoluzioni inglesi e della rivoluzione scientifica; il Settecento secolo dei Lumi, ma anche del conflitto per l'egemonia mondiale tra Gran Bretagna e Francia, delle rivoluzioni atlantiche e della nascita della democrazia; l'Ottocento delle nazionalità, ma anche della borghesia trionfante; il Novecento delle guerre mondiali e degli stermini di massa, ma anche del benessere, della decolonizzazione, della società globale. Per quanto nella cultura diffusa, ma anche in quella specialistica, si sia puntato a ricondurre a unità il carattere dei secoli, è la pluralità ad aver prevalso neppure troppo sorprendentemente. La complessità degli accadimenti e la ricca articolazione delle interpretazioni e dei punti di vista rende arbitrario utilizzare il secolo come elemento unitario. Ma la scansione secolare riesce a prevalere per una sua prepotente forza comunicativa e semplificatrice. Con il paradosso di allungare o raccorciare l'arco temporale dei cento anni: si è parlato così del "lungo secolo xvi" (F.P. Braudel) a significare la fase di espansione economica e demografica che si spegne solo nel 1620 circa, o di "secolo breve" (E.J.E. Hobsbawm) per definire il tempo che inizia con la rivoluzione bolscevica e termina nel 1989 con il crollo del muro di Berlino, l'arco dell'esperienza comunista vicina alle opzioni culturali e politiche del suo ideatore.
Alle p. appare possibile attribuire tre modalità differenti non necessariamente separate ma separabili: le p. che operano a fini prevalentemente didattici, la cui traccia più vistosa si ritrova nei programmi e nei manuali scolastici: storia medievale, moderna, contemporanea; le p. che rispondono a esigenze maggiormente articolate esprimendo l'addensarsi di fenomeni culturali complessi con le correlate dispute cronologiche e denominative: si pensi, per es., a categorie come Rinascimento, Barocco e più di recente a Tardoantico o a Postmoderno; quelle infine che assolvono a esigenze di immediatezza comunicativa, apparentemente neutre e oggettive in quanto legate a un arco temporale definito: il secolo appunto o le età cronologicamente definite dalle vicende politiche di alcuni grandi protagonisti (l'età di Pericle, di Augusto, di Napoleone). Rientra in questa tipologia anche la categoria di generazione, che risale a Erodoto ma che ha impieghi diffusi e recenti (la generazione dei GUF, dei giovani intellettuali formatisi nei gruppi universitari fascisti, o la generazione del Sessantotto, per indicare i giovani che parteciparono alla rivolta studentesca di quell'anno) o quella che periodizza per decenni il Novecento (gli anni Venti, gli anni Trenta). Quest'ultima deriva dal mondo anglofono e si è consolidata grazie all'egemonia imposta dal linguaggio dei mass media. Si affermano prima gli anni Venti con la locuzione americana the roaring Twenties (i ruggenti anni Venti), il titolo di un film di gangster di R. Walsh del 1939; poi la numerazione Thirties, Forties, Fifties, Sixties si rende autonoma da uno specifico attributo, ma non da una somma di caratterizzazioni che rimangono sottintese: la grande crisi e i suoi effetti per gli anni Trenta, la guerra e la ricostruzione per gli anni Quaranta, la guerra fredda e la decolonizzazione negli anni Cinquanta fino all'età del benessere e alle rivolte degli anni Sessanta. Il nodo focale sembra la situazione internazionale (da un punto di vista occidentale), ma quando i decenni periodizzanti divengono d'uso corrente anche in Italia intorno al 1960 (Fabi 1962) cominciano ad assumere declinazioni fortemente locali. Si parlerà allora degli anni Settanta della conflittualità e del terrorismo, degli anni Ottanta del riflusso ideologico e del ritorno al mercato. Prigioniero delle formule, il lessico periodizzante varia solo per i contenuti e quindi è costretto a esitare di fronte alle premature denominazioni del nuovo secolo 21°. In tutta la casistica delle p. giocano le diverse tradizioni culturali, didattiche e di ricerca, confermando in ogni caso quanto sia rilevante, in ambito lessicale e metodologico, il peso del discorso pubblico sulla storia.
Una spia di queste varietà è la p. dell'età contemporanea. Un arco oscillante di anni definisce il suo inizio: il 1789 o il 1815. La prima data ha una sua evidenza per la svolta epocale rappresentata dalla Rivoluzione francese nella storia politica, la seconda è invece legata alla caduta di Napoleone e si è consolidata nella manualistica scolastica italiana della seconda metà del Novecento. In Italia la p. dell'età contemporanea vede il sovrapporsi di un'età del Risorgimento che arretra, in chiave monarchica e nazionalista, all'indietro fino al 1748 (fine della guerra di successione austriaca) per spingersi in avanti fino al 1918, al definitivo completamento dell'unità con Trento e Trieste. Tuttavia denominazioni come quella dell'età del Risorgimento, tutta italocentrica, tende a snaturare la dimensione internazionale di età contemporanea. Dagli anni Trenta agli anni Sessanta nelle università italiane si insegnerà storia del Risorgimento come partizione della storia moderna, per poi vedere dilagare la storia contemporanea come disciplina autonoma in crescente inarrestabile espansione.
Il valore periodizzante della Rivoluzione francese nei confronti della età contemporanea vale per la Francia, per l'Italia e anche per la Germania, dove si preferisce aggettivare con le varianti di neu (nuovo): Neuzeit, l'età moderna (fino al 1918), neueste Zeit, l'età nuovissima ossia contemporanea. È adottata anche l'espressione Zeitgeschichte, ossia storia del [nostro] tempo. La Rivoluzione francese non ha evidentemente lo stesso valore nelle p. del mondo inglese, che aveva avuto in altre epoche le sue rivoluzioni politiche (1640, 1688-89), o dell'Oltreatlantico con la rivoluzione americana del 1776. Anche in ambito anglofono si preferisce aggettivare modern indicando con late modern un arco cronologico che può spingersi dal 1789 al 1989, ma la dizione contemporary comincia a trovare un suo spazio per indicare gli anni successivi al 1918. Ancora diverse sono le p. che introducono accanto alla rivoluzione politica quella economica della rivoluzione industriale, con il suo mobile inizio, in Inghilterra nel 1780 circa, nei primi anni dellin Belgio, Francia, Germania e oltre la metà del secolo per Italia e Russia.
L'uso italiano di 'contemporaneo' dal 1789 a oggi, con un terminus ad quem sempre procrastinabile e con la sua estensione più che bisecolare, pone gli storici su un terreno di rigida difesa disciplinare di un concetto che viene avvertito invece dalla cultura diffusa come il nostro tempo in divenire, non definibile con alcuna certezza. La cultura francese, avvertendo questa aporia, ha introdotto infatti la locuzione histoire du temps présent e il relativo ambito di studi. In Italia, in particolare, la difesa di una così lunga contemporaneità mantiene una netta divaricazione tra il mondo degli studi e la cultura corrente dove quel 'moderno', che gli storici continuano per tradizione a confinare entro la fine del Settecento o alla prima metà dell'Ottocento, è invece comunemente avvertito come la cifra del nostro tempo: non ultimo paradosso della difficoltà per il mondo scientifico a tutelare anche all'esterno, nel mondo della comunicazione mediatica, il proprio lessico e i suoi canoni.
bibliografia
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