ASSOLUTISMO, Periodo dell'
È termine convenzionale per disignare il periodo che si suole delimitare con le date del 1660 e del 1789, tenendo presente quella ch'è la caratteristica di molti stati d'Europa, in primo luogo la Francia, durante questi centotrent'anni: la formazione d'una monarchia accentratrice, che più non deve dividere il suo potere o comunque trovare limiti legali in altri organi esistenti nello stato, relitti del feudalesimo o del carattere contrattuale che hanno avuto nel Medioevo quasi tutti i regimi monarchici. A prescindere da ciò che vi è sempre di relativo in queste delimitazioni di periodi storici, fatte tenendo presenti le caratteristiche salienti - che non si realizzano mai contemporaneamente, né con la stessa intensità, né con le medesime forme nei varî stati - l'espressione non è delle più felici, in quanto l'assolutismo dei sovrani non sembra essere il carattere principale di quest'epoca, e il termine può indurre facilmente nell'erronea credenza che il periodo abbia segnato una diminuzione di libertà e di garanzie per la moltitudine dei sudditi, là dove all'opposto realizzò per essi una maggior protezione giuridica, attraverso il sacrificio dei privilegi di determinati ceti e l'abbattimento - in alcune regioni solo parziale, in altre quasi completo - dei relitti della feudalità.
I caratteri salienti di questo periodo sono i seguenti:1. La formazione dello stato burocratico ed accentratore, i cui organi hanno titolari dipendenti dal re e da lui nominati (onde la scomparsa o la depressione di ogni parlamento, sicché s'indica anche il 1620, data della battaglia della Montagna bianca, come inizio di questo periodo); l'avvento dell'amministrazione unitaria che regola tutta la vita dello stato, che sottrae ogni autonomia agli organi locali, e allorché non riesce a farne mere dipendenze dell'amministrazione centrale, riduce almeno al minimo la sfera e l'importanza delle loro attribuzioni, in modo da togliere ad essi ogni possibilità d'inceppare l'azione dell'amministrazione centrale. 2. L'avocazione allo stato della funzione legislativa, dovunque si tratti di regolare rapporti di qualche importanza, e di quella giudiziaria. Lo stato muove verso l'unificazione del diritto, sovrapponendo alle consuetudini locali sempre nuove leggi unitarie, valevoli per tutto il territorio nazionale, e dando decisa opera, sulla fine di questo periodo, verso una codificazione, che non solo tolga le diversità di diritto vigenti tra le varie parti dello stato, ma sostituisca al diritto romano, rimasto come diritto fondamentale per regolare i rapporti di diritto privato (diritto comune), la legge statale, che tiene conto delle nuove esigenze. 3. La formazione di eserciti di tipo moderno, aventi cioè a caratteristica l'uniformità di ordinamento, la dipendenza immediata ed esclusiva dal potere sovrano dello stato, la permanenza anche in tempo di pace, la possibilità di essere adoperati indifferentemente in guerra e per attuare coercitivamente sul territorio nazionale i provvedimenti del potere centrale. 4. La sottomissione delle Chiese nazionali al potere sovrano dello stato. Essa si compie senza gravi contrasti, allorché si tratta di confessioni acattoliche. Nei paesi cattolici, il contrasto è sempre vivo; ma, in definitiva, l'episcopato e il clero, là dove lo stato è forte, appaiono più devoti al sovrano che non al pontefice, e non solo tollerano ma promuovono l'intervento del potere civile nella vita interna della Chiesa, e spesso anzi si giovano di questo intervento per trionfare degli ordini religiosi rivali del clero secolare, particolarmente di quegli ordini che si sono dedicati alla cura d'anime. 5. Non solo l'abbattimento di ciò che resta della feudalità, ma la sostituzione della vecchia aristocrazia feudale, in quanto classe di governo, con una nobiltà nuova, senza tradizioni, elevata dal favore del sovrano, cui di tutto è debitrice, senza aderenze e basi nelle provincie, che la pongano in grado di tentare la minima resistenza al principe; in molti stati, la formazione di un ceto medio, partecipe esso pure delle funzioni amministrative e comunque avente una spiccata importanza, perché assorbe in sé le professioni liberali (rendendole spesso di fatto ereditarie e creando così un nuovo spirito di casta), e perché diviene il ceto su cui s'impernia la vita economica. 6. Un aumento d'importanza della ricchezza mobiliare, nei confronti della immobiliare (le borse, prima quella di Amsterdam, cominciano ad essere un fattore nella storia politica del mondo; il debito pubblico diventa un coefficiente importante della vita dello stato); il sorgere quasi dappertutto di nuove industrie (talora si potrebbe pur parlare di grande industria), spesso dalle origini artificiose, volute dallo stato, sorrette da uno sfrenato protezionismo. Oltre questi fatti e caratteri che più strettamente si rannodano all'idea di assolutismo, altri potrebbero esserne ricordati, che appartengono alla sfera della vita economica e intellettuale, e poco o solo indirettamente si connettono con la formazione di questo nuovo assetto statale, ma che pur tuttavia aiutano a caratterizzare nel suo insieme l'epoca dell'assolutismo. Così la sostituzione di nuove potenze marittime alle antiche (Spagna, Portogallo, Venezia, Genova, Città anseatiche), tutte più o meno in decadenza, l'allargarsi dei traffici marittimi, il sorgere di nuovi imperi coloniali, pur concepiti in modo eguale a quello degl'imperi spagnolo e portoghese, cioè come colonie di sfruttamento a favore dell'industria e dell'economia nazionale. Così il definitivo spostamento del centro della vita culturale da un ceto all'altro. L'Italia in questo aveva precorso i tempi: ma oltralpe, ancora nel Rinascimento, il fiore dell'intellettualità si coglieva tra il clero o nei palazzi dei principi. Ora si sposta verso il laicato, cioè la piccola nobiltà e la nuova classe media. Naturalmente, questo spostarsi della cultura da un ceto ad un altro non è senza uno stretto rapporto con la vicenda sociale e politica dei ceti stessi, con la solidarietà che lega borghesia o nobiltà minore e principe assoluto, con la funzione politica che a quelle nuove classi è assegnata in regime assolutistico. Comunque, ora la teologia e le scienze sacre perdono il loro posto dominante, e scende di qualche grado anche la scienza giuridica, nell'ordine delle discipline. Ma sorge la scienza dello stato, ceppo da cui si staccheranno l'economia, la statistica, la geografia economica. Si forma ed acquista incremento la cultura tecnica. Non soltanto nelle università il metodo sperimentale batte in breccia l'aristotelismo; ma in tutta la cultura, anche e soprattutto in quella politica, l'apriorismo che domina in tutte le trattazioni del Cinquecento, non escluse le più celebrate che vorrebbero sempre essere modelli valevoli per ogni tempo e per ogni età, cede all'osservazione dei fatti, allo studio dei costumi dei varî popoli e delle costituzioni straniere. Tra i cultori di molte arti viene lanciato il grido di ribellione contro gli antichi: in Francia, Desmarets e Perrault affermano la superiorità della letteratura del loro tempo sull'antica, il giogo di Aristotele, con l'imposizione delle tre famose unità nel teatro tragico, è dappertutto oggetto di contestazioni e di lotte. Gli uomini del Seicento e del Settecento dànno ai capolavori scaturiti dallo spirito scettico del Rinascimento, pervasi da un sano umorismo e da un profondo scetticismo, un tributo di ammirazione quale non avevano dato loro i contemporanei.
Ha questo periodo importanza particolare anche per la formazione del sentimento nazionale? Alla domanda non è agevole rispondere. Di un sentimento nazionale, come qualcosa del tutto staccato dalle forme di governo, indipendente dalle fedi religiose e dalle dottrine politiche, destinato a tenere saldamente unito il popolo attraverso qualsiasi crisi interna, non è il caso di parlare. Nella stessa Inghilterra, dove si riscontrano tutte le condizioni ambientali atte a favorire la più salda formazione dello spirito nazionale, sarebbe ardito affermare che la divisione tra anglicani e cattolici sia men forte di quel ch'è il sentimento unitario, e che l'anglicano e il cattolico, allorché la patria è in guerra, si sentano soltanto cittadini della stessa stirpe. In molti paesi, di un sentimento nazionale, come suol oggi intendersi, non sono che i primi indizî: la lingua e le tradizioni comuni non impediscono divisioni interiori profonde. Luigi XIV compie conquiste in paesi di lingua tedesca, mediante eserciti tedeschi; Italiani sono ad ogni ora in lotta contro Italiani, anche se nelle due parti si sia già da lungo tempo rivelata la coscienza dei vincoli comuni. Ma altrove - Francia, Spagna - la formazione di un sentimento nazionale è già più avanzata. Lo spirito particolaristico delle varie regioni non prevale sul deciso senso unitario. Certo, anche qui, nessuno si pone la questione se egli sia francese o spagnolo indipendentemente dal re. Vi è piuttosto attaccamento al sovrano, senso dinastico, che non senso nazionale. Ma, attraverso i secoli, se l'involucro è rimasto immutato, il contenuto è diventato profondamente diverso. La dinastia non è più centro di raccolta di popoli di razze diverse per il fulgore delle sue tradizioni, per il carattere religioso dei suoi capi: nel re, l'involucro e mostrerà il senso nazionale già formatosi, tanto forte in sé da poter rinnegare tutta la tradizione monarchica, mentre anche in germania esso si desta ed opera rimorchiando i sovrani, senza sentire il bisogno di far capo ad un principe unico, in cui si sintetizzi la nazione.
Primo momento nella storia dell'assolutismo. - Nel periodo dell'assolutismo, si sogliono distinguere due momenti, di cui possono indicarsi come figure simboliche e significative Luigi XIV, il Re Sole, e Giuseppe II, il prototipo dei principi riformatori, o Federico II, che si afferma il primo servitore dello stato. Indubbiamente, i due momenti rispondono ad un'evoluzione di coscienza collettiva, ma di classi colte più che di popolo, di minoranze più che di masse, compiutasi durante circa otto decennî, che sono stati tra i più fecondi per la formazione dell'Europa moderna. Ma, quando si è voluto contrapporre il re, sulle cui labbra storia o leggenda pongono l'orgogliosa espressione "lo stato sono io", al re di Prussia che si afferma primo servitore dello stato e padre del suo popolo, formando quasi un'antitesi, si è ancora caduti nell'errore di scambiare l'etichetta per il contenuto, di dare alle espressioni verbali un significato che sono ben lungi dall'avere. Il sovrano assoluto, convinto del proprio carattere sacro, che tocca i malati di scrofole quasi fiducioso nel suo potere taumaturgico di guarirli ("Dio ti guarisca, il re ti tocca"), e il principe deista e filosofo, eventualmente incline a considerare il contratto sociale base di ogni potere, sono molto più vicini che non sembri. Entrambi sono convinti della pienezza assoluta del loro potere, quale ne sia l'origine, della necessità, per il bene del popolo, ch'esso rimanga intero, non venga in alcun modo intaccato; entrambi sono orgogliosi di non riconoscere sulla terra alcun superiore; entrambi sono sinceramente desiderosi della prosperità della loro nazione, del bene di tutti i ceti. A parte la diversità di linguaggio e qualche manifestazione esteriore di etichetta, la diversità tra le due concezioni è solo quella che ottant'anni di evoluzione hanno portato nella coscienza comune, allorché si tratta di considerare cosa debba intendersi per pubblico bene: per il monarca della fine del Seicento, le imprese militari, la gloria della bandiera sono fattori che contano un po' più di quel che pesino sulla coscienza del principe di ottant'anni più tardi; per il quale i "filosofi" e gli eruditi stanno un po' più in alto dei generali, l'università vale almeno quanto la caserma.
Le caratteristiche accennate come proprie al periodo dell'assolutismo si ritrovano in molti paesi, in Prussia, in Danimarca, in Svezia: ma meglio si scorgono, nei due momenti del periodo, considerando la Francia e l'Impero. Luigi XIV, unico capo, non vuole primo ministro, ma governa attraverso ministri, che non debbono essere se non esecutori dei suoi ordini. Ed è accorgimento dei più intelligenti fra questi, come Louvois, far credere al re che siano sue idee originarie quelle che non sono se non gli effetti degli abili suggerimenti loro. La macchina amministrativa è organizzata perfettamente; al vertice, il consiglio di stato presieduto dal re, composto dei quattro o cinque ministri in carica; altri organi centrali, un consiglio dei dispacci, presieduto esso pure dal re che tratta gli affari dell'amministrazione interna, discutendo i rapporti degl'intendenti e le istruzioni da darsi loro, e un consiglio di finanza, un consiglio privato, a "a corte giudiziaria ed amministrativa. Accanto a questi organi collegiali, le cariche individuali: il cancelliere, primo funzionario dell'ordine giudiziario; il controllore generale, capo dell'amministrazione finanziaria e preposto a quella che oggi diremmo l'attività sociale dello stato; i quattro segretarî di stato, preposti agli affari esteri, all'esercito, alla casa del re, alla marina. Nel reame sussistono le antiche provincie cui è preposto un governatore militare, con alta prebenda, ma con scarsi poteri e che di solito è un soldato di grande nobiltà il quale vive alla corte. Ripartizione amministrativa di reale importanza sono le 31 intendenze, con mansioni molteplici: di finanza, commerciali, di agricoltura, di controllo sulla magistratura, ed anche ecclesiastiche. I paesi che possedevano stati provinciali vedono inaridirsi o scomparire questa istituzione. Dove sussistono, ripartiscono tra i comuni le imposte e ne sorvegliano l'esazione: ma debbono concedere senza discussione, al bilancio statale, la somma che, per il tramite dell'intendente, lo stato domanda. Le franchigie municipali sono ridotte a nulla: i preposti dei mercanti ed i sindaci degli scabini sono eletti dietro le imposizioni del re, finché nel 1692 il re stabilisce dei sindaci perpetui di nomina governativa. L'ufficio è in fatto venduto e l'innovazione ha una base fiscale. Anche le corporazioni di arti e mestieri non possono opporre alcuna resistenza alle invadenze del potere sovrano: ai loro statuti si sovrappongono i regolamenti emanati in nome del re.
L'epoca di Luigi XIV vede anche la grande unificazione legislativa che restringe il campo di applicazione del diritto consuetudinario locale e del diritto romano osservato nel Mezzogiorno. È un'opera voluta da Colbert, seguita da presso e diretta dal re, nella cui esecuzione ha parte dominante il consigliere di stato Pussort. Nel 1667, è pubblicata l'ordinanza sulla procedura civile, di cui il vigente codice di procedura civile non è se non un rifacimento.
Seguono l'ordinanza sulle acque e foreste, e quella sulla procedura penale, ispirata all'idea della repressione del delitto e scarsamente rispettosa delle esigenze della difesa; l'ordinanza sul commercio (1673), primo codice di commercio che abbia visto l'Europa, ma che in parte cadde in desuetudine nel corso di non molti decennî; l'ordinanza del 1681 sulla marina, molte delle cui disposizioni vivono tuttora anche nel nostro codice per la marina mercantile; il codice nero (1685) sulla condizione degli schiavi neri delle colonie, che li sottrae all'arbitrio del padrone, impone a questo di mantenerli anche se impotenti a lavorare, ma lo autorizza ad incatenarli e batterli con le verghe. Il regno di Luigi XV vede un'opera legislativa più modesta, dovuta al cancelliere d'Aguesseau, che regola (sostituendo anche qui il diritto unitario al diritto consuetudinario delle varie parti della Francia) alcuni capitoli del diritto civile: donazioni e diritto successorio.
Per opera di due ministri "borghesi", Michele Le Tellier e soprattutto il figlio Francesco Michele marchese di Louvois, scompare l'esercito ove i colonnelli ed i capitani ricevevano dallo stato un brevetto pagato a caro prezzo, arruolavano soldati, li mantenevano, e percepivano dallo stato un premio, sicché l'esercito non era che un mezzo di speculazione per lo stato e per gli ufficiali, e mancava di ogni unità; sorge al suo posto l'esercito di tipo moderno su cui il potere centrale esercita, giovandosi di uno stuolo d'ispettori, di commissarî di guerra, appositamente creato, un comando reale ed assoluto. È una formazione lenta: per un pezzo non si riesce a bandire la vendita dei gradi; ma pure procede. Si fondano anche le compagnie di cadetti, primo germe delle accademie militari. Per l'innanzi ogni capitano pensava al mantenimento delle sue truppe, giovandosi largamente del saccheggio: ora, tutto quanto è munizioni e servizio d'intendenza viene disimpegnato dal potere centrale.
I contrasti tra la monarchia e il papa mostrano a quale punto, in seno al clero, all'episcopato anzitutto, prevalgano l'obbedienza e la devozione al re su quella al pontefice. Il clero, non solo riconosce al re il diritto di estendere su tutti i vescovati del regno il privilegio di subentrare ai vescovi defunti, durante la vacanza dell'episcopato, nella percezione dei redditi e nel diritto di nomina ai benefici minori (question de la régale); ma, con i quattro articoli del 1682, nega al papa ogni potere che non sia in materia spirituale, lo sottopone al concilio ecumenico, dà valore alle sue decisioni solo in quanto la Chiesa le accetti. Se il re più tardi, di fronte alla resistenza del papa, abbandona questi articoli, non è certo per timore di una ribellione dei suoi vescovi. Ma, in compenso, è il re a dolersi col papa se questi si mostra indulgente verso i giansenisti, invisi in sommo grado al sovrano. Il Re Sole non vuole ammettere nel suo consiglio né ecclesiastici né nobili di grande nobiltà, e tiene accuratamente da parte negli affari politici i principi del sangue ed i suoi figli naturali. Si appoggia invece sulla piccola nobiltà o sui borghesi nobilitati. Colbert era figlio di un negoziante di stoffe di Reims. Lo stesso esercito, se ha condottieri presi tra la grande nobiltà e tra gli stessi principi del sangue, dipende da ministri borghesi, di recente nobilitati, per tutta la funzione amministrativa, per l'organizzazione, per il conferimento delle cariche.
Lo stato esercita un'intensa ingerenza in materia economica: sorgono industrie di stato (famosa la fabbrica dei Gobelins) sottratte ad ogni ingerenza delle corporazioni di arti e mestieri; lo stato prescrive anche i dettagli tecnici di costruzione: esso protegge le industrie con elevatissimi dazî contro i manufatti importati dall'estero e sulle materie prime che si vogliano esportare all'estero. Asperrima la tariffa del 1664 che dovette essere abbandonata tre anni più tardi. Questo sforzo è connesso all'idea, dominante senza contrasti in tutta l'Europa del tempo, che la prosperità economica dello stato sia in funzione della sua bilancia commerciale; che niente prema quanto esportare molto ed importare poco. Idea, questa, connessa, alla sua volta, alla necessità di moneta in contanti che sentono tutti gli stati del tempo. Autant augmenterons-nous l'argent comptant et autant augmenterons-nous la puissance, l'agran-disement et l'abondance de l'État, dice appunto Colbert.
La Francia riprende l'opera di Richelieu nella creazione di una marina da guerra di cui era quasi priva e riesce a decuplicare il numero delle sue navi (300). Viene anche escogitata la coscrizione marittima delle popolazioni costiere, ancora oggi in vigore. Per il commercio transoceanico, lo stato riprende del pari il piano di Richelieu, la creazione di compagnie marittime (delle Indie orientali, occidentali, del Nord, del Levante, del Senegal). Ma queste creazioni artificiose mostrano scarsa vitalità. Tuttavia, tra il 1670 e il 1683, la Francia raddoppia il proprio naviglio mercantile. La Francia profitta delle sue guerre, per cercar di sottrarre colonie ai nemici. Il risultato più tangibile sono Pondichéry e gli stabilimenti dell'Indostan che creano la rivalità tra Francia ed Inghilterra per il dominio dell'India, sulla rovina dei Portoghesi e degli Olandesi.
Secondo momento. - Un quadro affatto diverso, ma in cui riscontriamo sempre, sotto altri colori, i tratti che abbiamo indicato come essenziali del periodo dell'assolutismo, ci si offre allorché consideriamo l'opera di Maria Teresa, e soprattutto di Giuseppe II, diretta a consolidare e rafforzare il loro dominio sugli stati ereditarî di Asburgo. Qui, il dominio dev'essere assoluto per compensare l'evanescente supremazia imperiale. Manca ogni altra unità, di tradizioni, di costumi, di lingua, di fedi. Occorre ad ogni costo evitare il frantumarsi della monarchia, creare moralmente, con la forza della tradizione e della devozione dinastica, e materialmente, con l'unità e la centralizzazione amministrativa, lo stato unitario.
Maria Teresa comincia a darvi opera con mano accorta e sapiente, facendo di Vienna quello ch'essa sempre resterà: il gran crogiolo dove, con elementi tratti da tutte le nazionalità, si forgia il "buon austriaco", promuovendo anche matrimonî di magnati ungheresi con ereditiere di grandi casate tedesche. Giuseppe II procede più decisamente ma meno abilmente, sembrando spesso scambiare per realtà il suo vivo desiderio di regnare non sopra un insieme di popoli ma su uno stato unitario. Egli non vuole essere incoronato re d'Ungheria e ferisce al cuore il sentimento nazionale ungherese, sempre così suscettibile, con l'ordinare che la corona di S. Stefano sia trasportata a Vienna: e dal 1763, la dieta ungherese non è più convocata. L'imperatore dà uniformità amministrativa allo stato, dividendolo in tredici governi, sede ognuno di una corte di giustizia, suddivisi in circoli, cui è preposto un capitano. Tutti i funzionarî dipendono dalle cancellerie di stato di Vienna (l'austro-boema e l'ungarico-transilvana). L'amministrazione giudiziaria è quasi del tutto sottratta ai grandi nobili, alle città, ai proprietarî terrieri, ed avocata ai giudici dello stato: e contro tutte le sentenze, si appella in definitiva alla corte aulica di Vienna, istituita nel 1762. L'imperatere tenta pure d'introdurre l'uniformità finanziaria in tutto lo stato, togliendo la sperequazione e le prerogative delle differenti provincie. Anche l'esercito viene più saldamente sottoposto al potere centrale, e si tenta, ma senza successo, d'introdurre la coscrizione in luogo dell'arrolamento volontario. Il protezionismo è spinto sino al divieto delle mercanzie straniere, e le dottrine economiche in auge, che vedono nella popolazione un coefficiente di ricchezza per lo stato e nel suo incremento un fattore di prosperità, spiegano il divieto di emigrazione e la tassa sugli assenti. Non si scorge lo spiccato sfavore e sospetto, proprio di Luigi XIV, verso la grande nobiltà; ma questa, se continua ad aver larga parte a corte e nelle alte cariche dello stato, perde nelle sue attività patrimoniali forse più che non perda la nobiltà francese, in quanto lo stato pone fine alla servitù della gleba che ancora largamente sussisteva, ed emancipa dappertutto i contadini, proteggendoli efficacemente contro i signori. I diritti feudali rimangono ridotti a ben poco. La proprietà della terra diviene accessibile a tutti. I nobili vengono sottoposti al pagamento dei tributi, sono ostacolati i maggioraschi, nobili e plebei son resi uguali di fronte alla legge.
La legislazione penale e il diritto processuale sono rinnovati e resi uniformi in tutto l'impero. La riforma del diritto civile, iniziata da Maria Teresa, dà luogo nel 1788 alla pubblicazione di un codice civile generale. Maria Teresa, sebbene sinceramente fervida cattolica, combatté tuttavia l'incremento dei beni ecclesiastici, l'aumento dei conventi e dei religiosi, e soprattutto curò la riorganizzazione degli studî teologici, allontanandone i gesuiti e sottraendo l'università di Vienna all'influenza della gerarchia ecclesiastica. Giuseppe II, trovando larghi consensi tra l'episcopato tedesco (consensi che vennero meno solo verso la fine del suo impero), ingaggiò una decisa lotta contro la Santa Sede, cercando di nazionalizzare la Chiesa dell'impero. Tutto il clero doveva essere formato nello stato (il Germanicum di Roma, seminario frequentato dai chierici dell'alta nobiltà, vero semenzaio di vescovi, venne soppresso), in cinque seminarî generali interamente dipendenti dall'imperatore. Nessun ecclesiastico poteva ottenere dignità dalla Santa Sede, senza il consenso dell'imperatore. Tutte le dispense, assoluzioni e facoltà, che per l'innanzi si chiedevano a Roma, dovevano essere concesse dai vescovi dell'impero: troncato così ogni legame tra i fedeli ed il papa, 600 conventi furono soppressi, e ai restanti venne vietato di ricevere per dodici anni novizî. Inoltre, il sovrano pose decisamente mano nella vita interna della Chiesa, dando prescrizioni anche in materia liturgica e sopprimendo feste. Misure tutte largamente impopolari dovunque, ma che nel Belgio esasperarono il popolo sino alla rivolta. Giuseppe II completò la sua politica ecclesiastica con una larga tolleranza religiosa, non solo di fatto, ma consacrata in apposita patente (1781). Poiché più non era possibile pensare a ridurre tutti i sudditi artatamente alla stessa fede, la parificazione era ancora il mezzo migliore per dare uniformità allo stato.
L'assolutismo in Italia. - L'Italia non è il paese dove il periodo dell'assolutismo presenti i suoi caratteri più salienti. Il feudalismo non aveva mai posto radici profonde tra noi, e in alcune regioni non era esistito se non di nome: onde mancò la lotta tra i sovrani e la grande nobiltà, o non se ne ebbero che accenni nel mezzogiorno d'Italia. D'altronde, il ceto medio in nessun paese prima che da noi aveva acquistato benessere, parità di tutela giuridica con i grandi, ingerenza nell'amministrazione dello stato. Il clero, sino alla metà del Settecento, fu tutto senza eccezioni devotissimo alla Santa Sede. La piccolezza degli stati eliminava la necessità di un accentramento e rendeva comunque possibile attuarlo senza serî contrasti. Le autonomie comunali erano state già stroncate al sorgere delle signorie; e se, qua e là, particolarmente nello stato pontificio, i comuni conservavano qualche indipendenza, non potevano mai rappresentare un potere rivale dello stato. Anche le corporazioni d'arti e mestieri non avevano acquistata mai tra noi l'importanza assunta altrove. Alla formazione di eserciti di qualche importanza, non si addivenne che nel regno di Napoli con i Borhoni, e in Piemonte, con la lenta opera militare iniziatasi fin da Emanuele Filiberto. Tuttavia, anche in Italia si sente, attenuata, l'opera accentratrice dello stato. I poteri dei feudatarî sono successivamente limitati, tranne che in Sardegna; fino a che, al cadere del sec. XVIII e all'inizio del XIX, segue la soppressione completa della feudalità. I consiglî che reggono i comuni continuano a venir ristretti nel numero; si accresce l'ingerenza governativa nella nomina dei loro membri, quando non assurge a nomina diretta; la varietà di costituzioni comunali scompare, instaurandosi con legge dello stato una struttura uniforme (in Piemonte, nel 1733; in Lombardia, nel 1755, facendosi eccezione per le città; in Toscana, nel 1774); sorgono organi centrali di controllo sulla vita di tutti i comuni (nello Stato pontificio, la Congregazione del buon governo, 1592, i cui poteri sono estesi nel 1704 alle città e terre baronali; in Piemonte, la Congregazione generale sul buon regolamento delle comunità, 1661). I parlamenti decadono sempre più. Gli Stati del Piemonte e della Savoia non sono più convocati, dopo Emanuele Filiberto. A Napoli, dopo il 1642, subentrano loro le riunioni dei seggi della nobiltà. In Sardegna, dal 1699, non si raduna il parlamento, ma i tre stamenti che lo componevano, separatamente. Continua per tutta l'epoca medicea il senato fiorentino, e continua il parlamento di Sicilia. Ma tutti questi organi non hanno alcuna possibilità di essere un freno per il sovrano: essi votano il sussidio o il donativo richiesto dallo stato, e ne stabiliscono la ripartizione tra le comunità. Un freno più efficace è talora esercitato dai senati di Piemonte e Savoia e da quello di Milano (soppresso da Giuseppe II) che, sull'esempio dei parlamenti di Francia, rifiutano talvolta di registrare gli atti del sovrano o muovono a questi osservazioni o rimostranze.
Quello che si manifesta fulgido in Italia è il periodo dei principi riformatori: ma i sovrani sono degli Asburgo o dei Borboni, e la sola grande figura nazionale che abbia una parte saliente nell'attività dei principi riformatori, è quella del toscano Bernardo Tanucci. La Lombardia di Giuseppe II, il regno di Napoli con Carlo III e con la reggenza, che segue la partenza del re per la Spagna, il ducato di Parma col ministro Du Tillot, e soprattutto il granducato di Toscana sotto Pietro Leopoldo son veramente modelli tipici di stati retti da principi riformatori. L'amministrazione è accentrata, tutto dipende dal principe, il commercio, l'industria, l'agricoltura sono regolati, soggetti a controlli svariati e incoraggiati in modi diversi, la legislazione uniforme si stabilisce in tutto lo stato, la borghesia conquista ogni sorta di cariche e in Toscana non si può più addirittura parlare di privilegi nobiliari. Notevolissima, in quest'attività riformatrice, la politica ecclesiastica. I tratti sono quelli già accennati parlando di Giuseppe II. Ma non si deve dimenticare che è a Pavia, l'università di Pietro Tamburini e di Giuseppe Zola; a Pistoia, la sede vescovile di Scipione de Ricci; a Pisa, l'università di Vincenzo Palmieri; è in queste città che si compie lo sforzo più organico per creare, attraverso un'intromissione dello stato in materia ecclesiastica così spinta da imporre le dottrine teologiche, un clero interamente devoto allo stato, che non vede più nel papa se non un vescovo primus inter pares tra gli altri vescovi, e scorge nel sovrano anche il maestro dottrinale.
Il Settecento italiano vede anche nei paesi, i cui principi non partecipano alle correnti enciclopediste ed illuministiche, e restano fedeli alla tradizione nobiliare, militare, cattolica, il forte impulso all'unificazione legislativa, da attuarsi attraverso la codificazione. Così, in Piemonte, le regie costituzioni sono pubblicate nel 1723 (seguono le redazioni del'29 e del'70); a Modena, è pubblicato un codice generale nel 1771; in Toscana, la legislazione penale è unificata nell'86 (essendo falliti precedenti tentativi di codificazione generale); nel Veneto, si ha nel 1792 una codificazione, pure limitata al solo diritto penale. A Napoli, invece, i tentativi di codificazione non sono coronati da buon successo.
Bibl.: Ricordiamo qui solo alcune delle più recenti opere di carattere generalissimo, che possono servire a dare una prima idea del periodo e delle sue vicende; altre indicazioni debbono esser cercate nella storia dei singoli paesi (v. austria; francia; prussia, ecc.), e negli articoli dedicati ai sovrani, oltreché, per la parte economica, nella voce mercantilismo. Si vedano dunque specialmente i manuali di M. Immisch, Geschichte des europäischen Staatensystems von 1660 bis 1787, Berlino 1905; K. Kaser, L'età dell'assolutismo, traduzione italiana, Firenze 1926; G. Pagès, La monarchie d'Ancien Régime de France, Parigi 1926. Per le idee politiche dell'età dell'assolutismo, v. la profonda analisi di F. Meinecke, Die Idee er Staatsräson in der neueren Geschichte, Monaco-Berlino 1924.