Peripatetici
. Discepoli della scuola di Aristotele, aperta ad Atene negli edifici già adibiti al culto di Apollo Licio (Liceo), così detti, secondo un'etimologia universalmente nota, a causa dell'abitudine del maestro d'insegnare passeggiando: E però che Aristotile cominci a disputare andando in qua e in lae, chiamati furono - lui, dico, e li suoi compagni - Peripatetici, che tanto vale quanto ‛ deambulatori ' (Cv IV VI 15).
Innumerevoli, naturalmente, su questo punto, i possibili riferimenti, da Cicerone (cfr. Acad. I IV 17 " qui erant cum Aristotele Peripatetici dicti sunt, quia disputabant inambulantes in Lycio "), ad Agostino (Civ. VIII 12, testo ripreso da Vincenzo di Beauvais Spec. hist. III 82, e da Giovanni di Salisbury Policrat. VII 6), a Rabano Mauro (De Univ. XV 1 " Peripatetici a deambulatione dicti, eo quod Aristoteles, auctor eorum, deambulans disputaret ": la stessa definizione, alla lettera, in Vincenzo di Beauvais Spec. doctr. I 12), a Uguccione da Pisa, il quale aggiunge all'etimologia tradizionale una nuova interpretazione, avvicinando i P. agli ‛ scholares ' medievali (Magnae derivationes: " Peri, idest ‛ circum ' vel ‛ de '... item peri componitur, et dicitur peripateticus, a, um, quasi circumcalcantes vel ambulantes, quia Aristoteles, auctor eorum, deambulans disputare solitus erat; vel quia deambulabant de scola ad scolam disputantes et inquirentes quid melius suae scientiae possent adiungere ": testo ripreso da Giovanni Waleys Florilegium de vita et dictis illustrium philosophorum VI 1).
Il termine passò poi a designare tutti i seguaci della filosofia aristotelica: la constatazione s'inserisce, per D., in un particolare schema interpretativo della storia della filosofia, considerata esclusivamente come etica, ricerca e definizione del bene supremo. Secondo un ordine che non è certo cronologico, dopo i tentativi dello stoicismo e dell'epicureismo (Cv IV VI 9-13: le dottrine epicuree sono note a D. attraverso Cic. Fin. I: v. EPICUREI), unicamente in Socrate e nel suo successore Platone D. riconosce gl'iniziatori di una vera e propria filosofia morale, avente per fine la virtù, come ricerca del giusto mezzo nell'umano operare (Cv IV VI 13-15. Cfr. Cic. Brutus XL 149; Alberto Magno Super Eth. I VIII 2 " Et... perficit ipsam [scil. rationem] prudentia, cuius est eligere utilia a nocivis, non secundum quod est in speculatione tantum, sed secundum quod immiscet se operi, ponens medium in omni virtute. Unde dicit Commentator quod est auriga virtutum, et Socrates dicit, quod omnes virtutes sunt prudentiae quaedam ": cfr. su questo punto Arist. Eth. Nic. VI 13, 1144b 17 ss. La dossografia delle scuole derivate da Socrate dipende da Cic. Acad. I IV). La ragione umana, naturale, raggiunge però il vertice delle sue possibilità unicamente in Aristotele (Cv IV VI 15 per lo 'ngegno [singulare] e quasi divino che la natura in Aristotile messo avea: cfr. Cic. Divin. I XXV; cfr. anche Averroè Phys. prol.), in cui la filosofia morale, fondata sulla ragione, trova la sua espressione più compiuta e perfetta (Cv IV VI 15-16).
In questa prospettiva, chiaramente apologetica, la scuola platonica si estingue, avendo esaurito la sua funzione (v. ACADEMICI; l'identità di dottrine fra Accademici e P. sul problema della virtù è affermata da Cic. Acad. I IV 18 " nihil... inter Peripateticos et illam veterem Academiam differebat "; cfr. anche cap. VI). Ai P. è invece affidato il compito di trasmettere quel messaggio, universalmente valido, di verità, che la filosofia aristotelica rappresenta: E però che la perfezione di questa moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome de li Academici si spense, e tutti quelli che a questa setta si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene questa gente oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica oppinione. Per che vedere si può, Aristotile essere additatore e conduttore de la gente a questo segno (Cv IV VI 16). Com'è noto, un complesso processo storico è alla base di questa identificazione di Aristotele con la massima ‛ auctoritas ' proposta alla ragione umana, definito " regula in natura, et exemplar, quod natura invenit ad demonstrandum ultimam perfectionem humanam in materiis " (Averroè Phys. prol.; cfr. anche De Coelo III comm. 68; De Anima III comm. 14. V. comunque ARISTOTELE). In pieno XIII secolo, Vincenzo di Beauvais disegna ancora uno schema secondo il quale la filosofia morale, iniziata da Socrate (cfr. Spec. doctr. I 11 " Socrates magister Platonis, qui primus universam philosophiam ad corrigendos mores, componendosque, flexisse memoratur, cum ante illum omnes magis philosophicis, id est naturalibus rebus perscrutandis, operam maximam impenderint "), troverebbe piuttosto il suo compimento in Platone, che riunisce in sé la sapienza attiva di Socrate e la sapienza contemplativa di Pitagora. Nel secolo precedente, per contro, ben lontano dall'adesione di Alberto Magno o Tommaso d'Aquino alla metafisica aristotelica, Giovanni di Salisbury attribuisce ad Aristotele una superiorità fondata sul perfetto dominio dell'arte della logica, " scientiam quae verum a falso discerneret ", il cui uso si è reso necessario a causa degli errori intervenuti, soprattutto con Epicuro, nell'ambito della filosofia naturale (physica) e morale (ethica), le due parti cioè della filosofia, la cui fondazione precede la fondazione della logica (Metalogicon II 2. Cfr. ibid. lo schema di storiografia filosofica proposto: " Tradunt ergo Apuleius, Augustinus, et Isidorus quod Plato philosophiam perfecisse laudatur, physice, quam Pithagoras, et ethice, quam Socrates piene docuerat, adiciens logicam, per quam discussis rerum morumque causis vim panderet rationum; non tamen hanc in artis redegit peritiam... Deinde Aristoteles artis regulas deprehendit et tradidit. Hic est Peripatheticorum princeps, quem ars ista praecipuum laudat auctorem, et qui alias disciplinas communes habet cum auctoribus suis, sed hanc suo iure vendicans a possessione illius exclusit ceteros "). Per l'antico discepolo di Abelardo la " perfecta scientia disserendi " costituisce in realtà il fondamento di tutte le altre discipline (" aliis philosophicis disciplinis posterior tempore, sed ordine prima ", ibid. 3): il contributo dei P. all'arte della logica costituisce quindi, ugualmente, un contributo decisivo alla filosofia morale, all'ordine stesso del vivere umano: " Videntes itaque Peripathetici, quod opus in usum, usus transire potest in artem, quod vagum fuit et licentiosum, certis regulis subiecerunt, excludentes mendacia, supplentes imperfecta, resecantes superflua, et in omnibus praecepta congrua praescribentes " (ibid. 3). Come per D., alla superiorità dei P. nella ricerca della verità si attribuisce qui un valore che è soprattutto di natura morale: " Peripatheticorum hinc orta est secta, quae in cognitione veri summum bonum vitae humanae esse constituit. Omnium ergo rerum naturas scrutati sunt, ut scirent quid in omnibus rebus fugiendum tamquam malum, quid contemnendum tamquam non bonum, quid praeferendum ut maius bonum, quid ex casu boni nomen sortiatur aut mali " (ibid. 2).
Date queste premesse, D. sostiene coerentemente che nei casi più controversi si deve seguire l'opinione di Aristotele e degli aristotelici, come del resto non manca di fare dinanzi al problema particolarmente complesso dell'anima e della sua origine, non senza aver prima enunciato le dottrine riferite ad Avicenna, Algazel, Platone e Pitagora: Se ciascuno fosse a difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si vedrebbe essere in tutte; ma però che ne la prima faccia paiono un poco lontane dal vero, non secondo quelle procedere si conviene, ma secondo l'oppinione d'Aristotile e de li Peripatetici (Cv IV XXI 2-3; per un'esposizione della dottrina peripatetica, cfr. 4 ss.; una più completa enumerazione di opinioni a proposito della generazione sostanziale, e quindi anche dell'origine dell'anima, in II XIII 5 De la quale induzione, quanto a la prima perfezione, cioè de la generazione sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano cagione, avvegna che diversamente questo pongano: quali da li motori, sì come Plato, Avicenna e Algazel; quali da esse stelle, spezialmente l'anime umane, sì come Socrate, e anche Plato e Dionisio Academico; e quali da vertude celestiale che è nel calore naturale del seme, sì come Aristotile e li altri Peripatetici; su questo tema v. comunque ANIMA; PLATONE).
Analogamente, per quanto riguarda il problema dell'appetito naturale, D. dichiara ancora una volta: Lasciando dunque stare l'oppinione che di quello ebbe Epicuro filosofo, e di quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente a la verace oppinione d'Aristotile e de li altri Peripatetici (IV XXII 4 ss.; v. APPETITO).
La verità aristotelica, tuttavia, arrestandosi al limite concesso alla ragione umana, oltre il quale la rivelazione è necessaria, è incapace di condurre l'uomo alla beatitudine. Questa posizione, che appare senza dubbio coerente nella prospettiva della Commedia, si presenta invece più problematica se inquadrata nella prospettiva del Convivio. Dopo aver infatti affermato che l'uso del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo... l'uno e l'altro dilett[os]issimo, avvegna che quello del contemplare sia più (Cv IV XXII 10; cfr. XVII 9-11), D. considera appartenenti alla sfera della vita attiva le tre grandi scuole dell'antichità, Epicurei, Stoici e P. (cioè la filosofia fondata sulla ragione naturale), anche se D. non ignora certo, come osserva giustamente il Nardi, che la filosofia aristotelica pone la felicità nella contemplazione del vero (in Cv IV XVII 9 si rinvia al libro X dell'Ethica, prima ancora che al testo evangelico [Luc. 10, 38 ss.] per dimostrare la superiorità della vita contemplativa. Sulla perfetta felicità della ragione nell'atto dell'intendere, cfr. Eth. Nic. X 7, 1177a 17, 1177b 24 ss.; X 8, 1178b 7).
L'atteggiamento di D. è giustificata dal fatto che in questo contesto adotta una nozione di felicità come contemplazione della verità suprema in cui l'intelletto si appaga, al di sopra, quindi, della vita terrena: E questa parte [l'intelletto] in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è ved]ere [in s]é Iddio ch'è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti (Cv IV XXII 13).
Con un'audace esegesi morale-anagogica (della quale anche il Nardi deve riconoscere quanto sia difficile trovare altri esempi), nelle tre Marie che si recano al sepolcro di Cristo, Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Maria Salomè (Marc. 16, 1 ss.), D. ravvisa le tre scuole filosofiche antiche, cui è data la conoscenza del mondo, cioè l'accesso al sepolcro vuoto, ma non il raggiungimento della beatitudine, la presenza del Cristo risorto (Cv IV XXII 14-15): Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale... era angelo di Dio (§ 15). Analogamente Giovanni di Salisbury aveva preso in considerazione le scuole antiche come tentativi diversi nella comune ricerca di una " via beatitudinis": " Stoicus enim, ut rerum contemptum doceat, in mortis meditatione versatur; Peripatheticus in inquisitione veri; volutatur in voluptatibus Epicurus; et, licet ad unum tendant, varias sententias quasi vias beatitudinis auditoribus suis aperiunt. De quibus dubitare et quaerere liberum est, donec ex collatione propositorum quasi ex quadam rationum collisione veritas illucescat " (Policr. VII 8; il tema è evidentemente antico: si può ricordare, di Agostino, il Sermo CCLXLI 6, sul problema della vita beata posto dai filosofi pagani, e il Sermo CCXL in cui alla " sapientia mundi ", rappresentata dai filosofi, si contrappone la " resurrectio promissa piis credentibus in Mediatorem ").
L'esegesi dantesca si fa ancor più complessa, in quanto l'angelo significa per il poeta questa nostra nobilitade che da Dio viene, la parte divina dell'anima, che annuncia alla ragione e alle sette filosofiche, in cui la ragione si esprime, il messaggio di una salvezza oltremondana, necessaria per colmare il desiderio dell'intelletto con la contemplazione della verità suprema (questa l'interpretazione delle parole dell'angelo in Marc. 16, 6-8 " surrexit, non est hic... Sed ite, dicite discipulis eius et Petro quia praecedit vos in Galileam; ibi eum videbitis "): cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la speculazione. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza [cfr. Isidoro Etym. XIV 3, 23; Uguccione Magnae deriv.]. Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: ‛ Elli precederà '; e non dice: ‛ Elli sarà con voi ': a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma (Cv IV XXII 16-17; cfr. Beda Glossa ord. in Marc.: " Secundum hoc... Galilea revelatio dicitur... Illa enim revelatio vera est Galilea, cum similes ei [scil. Deo] erimus, et videbimus eum sicuti est ").
Se si considerano le affermazioni precedenti di D., che cioè il desiderio naturale dell'intelletto è proporzionato alle possibilità di conoscenza offerte dalla vita terrena (Cv III XV 7-9, 3-4, VI 7-9; v. su questo punto ARISTOTELE), affermazioni da cui consegue la possibilità reale di una felicità mondana, e quindi anche di una morale umana, fondata sulla ragione, appare quanto meno giustificata l'ipotesi del Nardi, secondo la quale " tutto il brano ha l'aria di essere un'aggiunta posteriore alla prima stesura del trattato; il che spiegherebbe la ripetizione del concetto già sufficientemente toccato nel cap. XVII 9 ". Senza dubbio, una prospettiva più radicalmente religiosa interferisce qui con una concezione del mondo determinata prevalentemente da interessi politici e civili, senza che tuttavia l'una escluda l'altra. Se la forza di certe affermazioni sembra qui attenuarsi, l'ispirazione stessa del Convivio e della Monarchia presuppone che la ragione sia capace di una sua piena, autonoma realizzazione nella sfera terrena: questa capacità, è vero, sarebbe difficile a riconoscersi, se mancasse l'esempio e l' ‛ auctoritas ' di Aristotele (non si può attribuire a D. un'antistorica ‛ modernità '), ma questa ‛ auctoritas ' è fondamento e principio di legittimità del supremo potere civile, cui spetta il compito di dirigere il genere umano alla felicità secundum phylosophica documenta (Mn III XV 10), di tradurre in istituzioni i dettami della ragione, quae per phylosophos tota nobis innotuit (§ 9). La storia dell'etica e delle dottrine filosofiche, nella prospettiva di D., tende a questa conclusione, cioè che l'autoritade del filosofo sommo... sia piena di tutto vigore. E non repugna a la imperiale autoritade. Il testo biblico stesso è invocato a conferma: " Amate lo lume de la sapienza [Sap. 6, 23]... " Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere (Cv IV VI 17-18: non si può certo dire che non sussista un legame fra l'incomprensione di certe realtà politiche, la cui funzione è invece determinante - come nel caso, soprattutto, delle monarchie nazionali - e il bisogno del poeta, espressione di un momento storico ben preciso, d'identificare in un'‛ auctoritas ' suprema una ragione umana che si è realizzata una volta per tutte: ma questo è un tema meritevole di ben altro approfondimento). In questo spirito, che il Renucci definisce " état d'esprit averroïste ", pur escludendo si possa parlare di averroismo tout court, al termine del cammino terreno l'anima si trova dinanzi a una nuova città, che non è la " civitas " agostiniana, contrapposta a quella terrena, ma quasi la continuazione ideale di un ordinato sistema del vivere civile (Cv IV XXVIII 5-6). A questa città appunto, ben diversa ancora dal Paradiso del poema (cfr. l'osservazione del Renaudet: " Le génie dantesque n'aperçoit encore que l'Elysée virgilien ou le ciel du Songe de Scipion "), a questa che è veramente un'Atene celestiale, la cui immagine è la risultante di una serie complessa di mediazioni culturali, le diverse scuole filosofiche del mondo antico tendono concordemente, come al punto di arrivo di quella che è stata una comune ricerca, il cui risultato finale resta universalmente valido e operante, trasmesso fedelmente dalla tradizione peripatetica: Per le quali tre virtuti [fede, speranza e carità] si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove li Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la, l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolemente concorrono (Cv III XIV 15. V. su questo punto EPICUREI).
Bibl. - B. Nardi, Alla illustrazione del " Convivio " dantesco, in " Giorn. stor. " XCV (1930) 100 e 110; qualche accenno ai problemi trattati in A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, 85, e in P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954, 45-47, 80-81, 264-265.