PERSEO (Περσεύς, Perseus e Perses)
Ultimo re di Macedonia. Era figlio di Filippo V. È ignoto il nome della madre, ma si tratta probabilmente di quella Policratea argiva, moglie di Arato il Giovane che Filippo condusse in Macedonia spe regiarum nuptiarum, e che poi dovette effettivamente sposare. Che fosse suppositizio ex paelice natus è da ritenere favola. Nacque circa il 213; giovanissimo nel 199, circa il tempo della prima invasione romana in Macedonia, ebbe dal padre un comando nominale, sotto il controllo di ufficiali esperti. Un comando effettivo ebbe 10 anni più tardi nella guerra contro Antioco e gli Etoli; e allora conquistò la Dolopia e si avanzò, ma senza effetto, nell'Anfilochia. Accompagnò poi il padre in Tracia nella famosa ricognizione sul monte Emo. Frattanto era venuto in dissenso col fratello Demetrio, più giovane di circa 5 anni, nato da un'altra moglie di Filippo anch'essa ignota. Demetrio, ch'era stato ostaggio in Roma dopo la battaglia di Cinoscefale (197) fino alla guerra di Antioco e che poi era stato mandato a Roma con altri ambasciatori dal padre per placare i Romani quando cominciarono a turbarsi di nuovo le relazioni loro con la Macedonia, si lasciò guadagnare dal favore interessato che i Romani gli dimostravano e sperò col loro appoggio di soppiantare il fratello maggiore nella successione. Di qui dissidio tra i due fratelli e accuse contro Demetrio di tradimento. Dopo avere a lungo esitato, il re, per istigazione di P., s'indusse a sopprimere il figlio più giovane. E certo, se voleva che il successore ereditasse il suo odio per i Romani e si valesse dei grandiosi preparativi da lui fatti per la riscossa, Filippo non poteva seguire altra via. Del resto tutti i particolari di cui Polibio ha arricchito il racconto della morte di Demetrio, dipingendo con colori foschi la parte che vi ebbe P., sono di assai dubbia attendibilità. Comunque, può darsi che il re rimanesse molto amareggiato dall'uccisione del figlio; è probabilmente favola che volesse diseredare P., se anche è possibile che dubitasse delle sue attitudini e che fosse geloso negli ultimi anni delle simpatie che lo circondavano. Alla morte di Filippo (179), P. ebbe cura di rinnovare il trattato con Roma, ma nello stesso tempo continuò la preparazione politica e militare della riscossa. All'interno si procacciò favore concedendo una larga amnistia e condonando i debiti verso il tesoro regio. All'estero cercò di consolidare le relazioni amichevoli con la Siria, sposando una figlia di Seleuco IV, e con la Bitinia dando una sua sorella in moglie a Prusia II. Si studiò anche, ma invano, di riallacciare qualche relazione con gli Achei. In Delfi, dove il riordinamento dell'Anfizionia dopo la guerra etolica aveva ridato una certa autorità ai Macedoni, egli si recò alla testa delle truppe per farvi col pretesto di sacrifici una solenne dimostrazione ai Greci della propria potenza. I Romani seguivano attentamente e controbattevano le sue iniziative. In Siria queste furono rese vane dalla morte di Seleuco IV e dall'essere salito al trono col favore di Roma il fratello di lui Antioco Epifane. I Rodî, che avevano fatto scortare onorificamente dalle loro navi la sposa di P. in Macedonia, furono intimiditi dai palesi segni della disapprovazione romana. Ed infine Eumene, re di Pergamo, che, impensierito della politica di P., s'era recato a Roma, riuscì a indurre il senato a deliberare la guerra. Pretesti fu facile trovarne; ultimo e più grave un attentato contro Eumene a Delfi, di cui senza prove fu ritenuto istigatore P. L'ultimatum romano fu presentato al re da Marcio Filippo, che, tuttavia, non essendo ancora votata la guerra dai comizî né iniziati i preparativi militari, concesse a P. una tregua per trattative ulteriori e così gli legò le mani nel momento in cui un'ardita offensiva in Grecia poteva essere promettente di successo. Le trattative furono chiuse bruscamente dal senato che nella primavera del 171, senza pur degnarsi di rispondere agli ambasciatori macedoni, ordinò loro di lasciare l'Italia. Non è qui il luogo di raccontare le vicende della terza guerra macedonica. P. riportò qualche vantaggio nei due primi anni, ma, non volendo troppo rischiare, non seppe profittarne e finì col ridursi a una timida difensiva. Questo raffreddò gli animi di molti partigiani che aveva in Grecia, sicché per lui non si dichiararono che tre città beotiche, più tardi i Molossi e infine il re illirico Genzio. Frattanto nel 169 i Romani forzarono i passi dell'Olimpo penetrando nella Pieria e nel 168 sotto Lucio Emilio Paolo si avanzarono sino presso Pidna, dove il re si vide costretto ad arrischiare per la difesa del suo regno quella battaglia che non aveva voluto dare in condizioni assai più favorevoli. L'esercito macedonico mal guidato, impegnandosi col nemico prima di aver compiuto il proprio schieramento, fu totalmente disfatto (22 giugno 168). Il re, abbandonato da tutti, rifugiatosi nel sacro recinto dei Cabiri in Samotrace, finì con l'arrendersi al vincitore che lo condusse prigioniero in Italia dove coi figli ornò il suo trionfo (27-29 novembre 167 secondo il calendario romano). Liberato dal carcere e internato in Alba Fucente vi morì, non si sa se per suicidio o per i maltrattamenti o pei patemi, nel 162.
Dei figli il maggiore, forse adottivo, e la figlia non gli sopravvissero che di poco, il minore visse più a lungo in condizioni modestissime. In complesso può ritenersi che P., tanto diverso come politico e come guerriero dalla maggior parte dei re di Macedonia quanto differiva da essi per le sue doti di mitezza e di sobrietà, non fu né per animo né per ingegno pari alla situazione gravissima in cui si trovò e che con la sua timidità e le insufficienti attitudini militari agevolò ai Romani quella vittoria sulla Macedonia, che sarebbe stata del resto difficilmente evitabile, anche se egli avesse avuto l'arditezza e la genialità d'un Annibale.
Bibl.: K. J. Beloch, Grièchische Geschichte, IV, ii, 2ª ed., Berlino 1927, p. 139 segg.; J. Kromayer, Antike Shlachtfelder, II, Berlino 1907, p. 231 segg.; G. Colin, Rome et la Grèce, Parigi 1905, p. 373 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, i, Torino 1923, p. 254 segg.; Cambridge Ancient History, VIII, Cambridge 1930, p. 241 segg.