Persona e vita umana
Il paradosso della persona
Sulla copertina del numero di dicembre 2006 della rivista «Time», tradizionalmente dedicata ai personaggi dell’anno, appare la foto di un computer aperto, con al posto del monitor una superficie riflettente come uno specchio, al cui centro campeggia, in lettere cubitali, il pronome You. In questo modo chiunque la guardi vede riflesso il proprio volto, promosso appunto a person of the year, come è assicurato più in alto. L’intenzione della rivista è quella di certificare, in questa maniera iperrealistica, il fatto che nella società contemporanea nessuno esercita maggiore influenza dell’utente di Internet, con le sue foto, i suoi video, le sue dichiarazioni. Ma il messaggio, a un livello più profondo, si presta a un’altra interpretazione meno scontata perché sdoppiata in due piani reciprocamente contrapposti. Da un lato esso, dichiarandolo ‘persona dell’anno’, situa ogni lettore nello spazio di assoluta centralità finora riservato a individui eccezionali. Dall’altro, nello stesso momento, lo inserisce in una serie potenzialmente infinita fino a farne sparire ogni connotato singolare. La sensazione è che, prestando a ognuno la medesima ‘maschera’, finisca per farne il segno senza valore di una pura ripetizione. Quasi che l’esito, inevitabilmente antinomico, di un eccesso di personalizzazione sia quello di dislocare il soggetto nel congegno di una macchina che gli si sostituisce spingendolo nella dimensione senza volto dell’oggetto. Del resto questo scambio di ruoli, ingenuamente o maliziosamente allestito dalla copertina di «Time», non è che la più esplicita metafora di un processo ben più ampio e generale. Nella stagione in cui anche i partiti politici ambiscono a diventare ‘personali’ per produrre identificazione degli elettori con la figura del leader, qualsiasi gadget è venduto dalla pubblicità come massimamente ‘personalizzato’ – adatto alla personalità dell’acquirente e anzi destinato a metterla ancora più in risalto. Naturalmente anche in questo caso con il risultato di omologare i gusti del pubblico a modelli scarsamente differenziati. Torna lo stesso paradosso: quanto più si cerca di ritagliare i caratteri inconfondibili della persona, tanto più si determina un effetto, opposto e speculare, di spersonalizzazione. Quanto più si vuole imprimere il marchio personale della soggettività, tanto più sembra prodursi un esito contrario di assoggettamento a un dispositivo reificante.
Tale paradosso acquista un rilievo tanto maggiore allorché, come oggi accade, il riferimento normativo alla nozione di persona si estende a macchia d’olio a tutti gli ambiti della nostra esperienza. Dal linguaggio giuridico, che la considera l’unica in grado di dare forma all’imperativo, altrimenti inefficace, dei diritti umani; alla politica, che l’ha da tempo sostituita al concetto, non sufficientemente universale, di cittadino; alla filosofia, che in essa ha trovato uno dei rari punti di tangenza tra la sua componente analitica e quella cosiddetta continentale. In questo senso l’appello alla categoria di persona va ben al di là della tradizione personalista che, da Jacques Maritain (1882-1973) a Emmanuel Mounier (1905-1950), fino a Paul Ricoeur (1913-2005), a essa diversamente si richiama, per coinvolgere sia la fenomenologia posthusserliana (in particolare di Edith Stein, 1891-1942), sia l’ontologia neoaristotelica, sia, infine, la ricerca sull’identità personale condotta nella Scuola filosofica di Oxford. Del resto il carattere trasversale – capace di collegare fronti ideologici e culturali anche contrapposti – è ancora più evidente in quell’insieme di discorsi che oggi si riconoscono nell’orizzonte della bioetica: per quanto divisi su tutto – sul momento in cui comincia e in cui finisce la vita qualificata e soprattutto su chi ne sia il legittimo proprietario – laici e cattolici concordano sul primato ontologico di ciò che è personale rispetto a ciò che non è dichiarato tale. Che la vita umana acquisti lo statuto di persona fin dal suo concepimento, come sostengono i cattolici, oppure solo più tardi, come argomentano i laici, è quella la soglia simbolica a partire dalla quale essa è dichiarata sacra o almeno intangibile.
Prima ancora di interrogare l’antinomia cui essa dà luogo, fermiamoci su questo straordinario successo che fa della nozione di persona uno dei più fortunati lemmi – uguagliato forse soltanto da quello di democrazia – del nostro lessico concettuale. Alla sua radice vi è intanto una non comune ricchezza semantica, dovuta alla sua triplice matrice di carattere teologico, giuridico e filosofico. Ma a questa prima ragione, per così dire intrinseca, se ne aggiunge una seconda, di ordine storico, forse ancora più cogente. Che il linguaggio della persona abbia conosciuto un momento di particolare incremento alla fine della Seconda guerra mondiale, fino a divenire il perno della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, non può sorprendere. Esso reagiva al tentativo, messo in atto dal regime nazista, di ridurre l’essere umano alla sua nuda componente somatica, peraltro interpretata in chiave violentemente razziale. Senza stabilire nessuna filiazione diretta, tale ideologia – o meglio biologia – politica costituiva il punto di compimento parossistico, e insieme di stravolgimento mortifero, di un filone culturale, diverso e anche alternativo rispetto alla linea prevalente della tradizione filosofico-politica della modernità, che possiamo definire ‘biopolitico’. Se quella aveva individuato nel nucleo razionale e volontario dell’esistenza umana il baricentro del pensiero e dell’azione politica, già a partire dall’inizio del 19° sec. comincia a profilarsi un’altra filiera di pensiero portata a valorizzare l’elemento corporeo di carattere irriflesso che ne costituisce il sostrato profondo e ineludibile. Alla sua origine possiamo situare la netta distinzione, operata dal grande fisiologo francese Xavier Bichat (1771-1802), all’interno di ogni essere vivente, tra una vita vegetativa e incosciente e un’altra di tipo cerebrale e relazionale. Allorché alcuni autori, come Arthur Schopenhauer (1788-1860), Auguste Comte (1798-1857), August Schleicher (1821-1868), tradurranno in un diverso registro – rispettivamente filosofico, sociologico, linguistico – le ricerche biologiche di Bichat, sostenendo variamente il primato della vita inconsapevole su quella cosciente, apriranno la strada a un orientamento di pensiero che pone radicalmente in discussione il primato, filosofico e politico, della componente soggettiva o, appunto, personale.
Esso sostiene che l’organizzazione politica, piuttosto che dalla scelta volontaria e razionale di individui uniti in un patto fondativo, dipenda da quel nodo di forze e istinti innervati inestricabilmente nel corpo individuale, ma ancora più in quello, etnicamente connotato, delle diverse popolazioni. Naturalmente perché tale corrente culturale – sostenuta prima dall’antropologia comparativa e poi, a partire dalla seconda metà del secolo, dal sociodarwinismo di ispirazione gerarchica ed escludente – potesse incontrare il razzismo omicida nazista, fu necessaria una serie di passaggi non lineari che in questa sede non è possibile ricostruire. Il più rilevante è lo spostamento del principio della ‘doppia vita’ dal piano, in cui lo aveva collocato Bichat, del singolo individuo vivente alla specie umana nel suo complesso, divisa così da soglie fornite di differente valore tra una zona a tutti gli effetti umana e un’altra assimilabile alla natura delle bestie. In questo modo l’animale poteva diventare, piuttosto che il nostro comune progenitore, ciò che divide violentemente l’uomo da sé stesso, consegnando una parte di umanità alla morte nel momento stesso in cui se ne destinava un’altra alla vita qualificata. Era allora che – nel rovesciamento tanatopolitico del filone biopolitico – si determinava una svolta catastrofica nell’idea, e soprattutto nella pratica, di politica di cui la nozione di persona era la prima vittima: anziché abitato da un nucleo spirituale che lo rende intangibile, il corpo umano, ormai puramente coincidente con sé stesso e con la propria cifra razziale, poteva essere affidato alla chirurgia di massa dei campi di sterminio.
È a tale deriva mortifera che, nel secondo dopoguerra, si oppone la filosofia della persona. Contro un’ideologia che aveva ridotto il corpo dell’uomo alla linea ereditaria del suo sangue, essa si propone di ricomporre l’unità della natura umana ribadendone il carattere irriducibilmente personale. Proprio tale riunificazione tra la vita del corpo e la vita della mente risultava, tuttavia, di difficile conseguimento, perché sottilmente contraddittoria con quella categoria – appunto di persona – destinata a realizzarla. Da qui le antinomie che fin dall’inizio insidiano, allontanandolo continuamente, l’obiettivo primo che la Dichiarazione del 1948 si proponeva, vale a dire l’effettuazione di diritti umani validi per tutti – rimasti, infatti, largamente disattesi per un’intera parte della popolazione mondiale, tuttora esposta alla miseria, alla fame, alla morte. Senza mettere in questione l’impegno soggettivo degli estensori della Dichiarazione e quello di tutti i loro eredi personalisti, il problema di fondo riguarda quel dispositivo separante e anche reificante, cui già si è fatto cenno, implicito nella stessa nozione di persona.
Per riconoscerlo, nella sua genesi e nei suoi effetti, è necessario risalire alle sue tre radici: teologica, giuridica e filosofica. Ciò che, nonostante l’ovvia differenza di lessico e di intenzione, tutte le accomuna in una medesima struttura logica è un insolubile intreccio contraddittorio di unità e separazione: nel senso che la definizione stessa di ciò che è personale, nel genere umano o nel singolo uomo, presuppone una zona non personale o meno che personale, da cui esso prende rilievo. Insomma, come la corrente biopolitica inscrive il comportamento dell’uomo nella densità del suo fondo somatico, così la concezione personalista, anziché contestare l’assoluta prevalenza del corpo rispetto all’elemento razionale-spirituale, si limita a rovesciarla in favore di questo. Tale tendenza risulta chiara nella tradizione cristiana, la quale, sia con il dogma trinitario sia con quello della doppia natura di Cristo, non solo colloca l’unità nel quadro della distinzione – nel primo caso tra persone, nel secondo tra sostanze diverse di una stessa persona – ma presuppone il fermo primato dello spirito sul corpo. Se già nel mistero della incarnazione le due nature – umana e divina – non possono certo stare sullo stesso piano, ciò è ancora più palese quando si passa alla doppia realtà, fatta di anima e corpo, che costituisce per il cristianesimo la vita dell’uomo. Per quanto il corpo non sia dichiarato in sé cattivo, perché parimenti creato da Dio, esso rappresenta pur sempre la nostra parte animale, in quanto tale sottomessa alla guida morale e razionale di quell’anima in cui si radica l’unico punto di tangenza con la persona divina – come afferma Sant’Agostino, l’essere umano «secundum solam mentem imago dei dicitur, una persona est» (De Trinitate, XV, 7, 11). È per questo che lo stesso autore può definire la necessità di provvedere ai bisogni del corpo una vera e propria ‘malattia’. Del resto non è un caso che il filosofo cattolico J. Maritain, tra gli estensori della Dichiarazione del 1948, definisca la persona «un tutto signore di sé stesso e dei suoi atti» solamente se esercita un pieno dominio sulla sua, ingente, «parte animale» (Les droits de l’homme et la loi naturelle, 1942; trad. it. 1991, p. 60). Senza potere dare conto della straordinaria ricchezza e complessità della dottrina cristiana, e anche della sensibile differenza di posizione dei suoi interpreti, rispetto alla questione in oggetto, ciò che per essa rende l’uomo propriamente umano è precisamente la linea lungo la quale egli si distacca dalla sua stessa dimensione naturale.
È difficile misurare con precisione gli influssi, probabilmente reciproci, che, in ordine al concetto di persona, legano le prime formulazioni dogmatiche cristiane e la concezione giuridica romana. Sta di fatto che il dualismo teologico tra anima e corpo (a sua volta di mediata derivazione platonica) assume un senso ancora più cogente nella distinzione, presupposta all’intero diritto romano, tra uomo e persona. Persona non solo non coincide a Roma con homo (termine usato in prevalenza per nominare lo schiavo), ma costituisce il dispositivo volto alla divisione del genere umano in categorie nettamente distinte e rigidamente subordinate le une alle altre. La summa divisio de iure personarum – fissata dal giurista Gaio e riformulata nelle Institutiones giustinianee – da un lato include nell’orizzonte di senso della persona ogni tipo di uomo, compreso lo schiavo che tecnicamente viene assimilato al regime della cosa; dall’altro procede attraverso sdoppiamenti successivi e concatenati – inizialmente tra servi e liberi, poi, all’interno di questi ultimi, tra ingenui e liberti – che hanno appunto il compito di inquadrare gli esseri umani in una condizione definita dalla reciproca differenza gerarchica. All’interno di tale meccanismo giuridico – che appunto unifica gli uomini attraverso la loro separazione – solo i patres, vale a dire coloro che hanno la facoltà di possesso in base al triplice stato di uomini liberi, di cittadini romani e di individui indipendenti da altri (sui iuris), risultano personae nel senso pieno del termine. Mentre tutti gli altri – situati in una scala di valore decrescente, che dalle mogli, ai figli, ai creditori arriva fino agli schiavi – si situano in una zona intermedia, e continuamente oscillante, tra la persona e la non persona o, più seccamente, la cosa: res vocalis, strumento in grado di parlare, è definito, infatti, il servus.
Ciò su cui va fissata l’attenzione, per penetrare a fondo il funzionamento di tale dispositivo, non è solo la distinzione, o anche l’opposizione, che in questo modo si viene a determinare tra diversi tipi di esseri umani – alcuni posti in una condizione di privilegio, altri schiacciati in un regime di assoluta dipendenza –, quanto la relazione consequenziale che passa tra l’una e l’altra situazione: per potere rientrare a pieno titolo nella categoria di persona, bisogna avere disponibilità non solo sui propri averi, ma anche su alcuni esseri, ridotti essi stessi nella dimensione dell’oggetto posseduto. Che ciò valga persino per i figli – e dunque per ogni essere umano all’atto della sua nascita – su cui, almeno nel diritto arcaico, pesa il diritto di vita e di morte da parte del padre, autorizzato quindi a venderlo, prestarlo, abbandonarlo, se non a ucciderlo, significa che nessuno a Roma possiede lungo il corso della sua intera vita la qualifica di persona. Qualcuno può acquisirla, altri ne è per principio escluso, mentre la maggioranza transita attraverso di essa, entrandone o uscendone a seconda del volere dei patres, come codificato nei rituali performativi della manumissio e della emancipatio che regolano il passaggio dallo stato di schiavitù e quello di libertà e viceversa.
Da questo lato, attraverso il dispositivo romano della persona, si rende chiaro non soltanto il ruolo di una certa figura giuridica, ma qualcosa che attiene al funzionamento generale del diritto: vale a dire la facoltà di includere attraverso l’esclusione. Per quanto possa essere allargata, la categoria di coloro che godono di un determinato diritto è definita solo dal contrasto con coloro che, non rientrandovi, ne sono esclusi. Qualora appartenesse a tutti – come per es. una caratteristica biologica, il linguaggio o la capacità di camminare – un diritto non sarebbe tale, ma semplicemente un fatto che non richiede una specifica denominazione giuridica. Allo stesso modo, se la categoria di persona coincidesse con quella di essere umano, non ce ne sarebbe stato bisogno. Essa, fin dalla sua originaria prestazione giuridica, vale esattamente nella misura in cui non è applicabile a tutti – e anzi trova il suo senso precisamente nella differenza di principio tra quelli cui è, di volta in volta, attribuita e quelli cui non lo è, o, a un certo punto, viene sottratta. Solo se esistono uomini – e donne – che non sono del tutto, o non sono affatto, considerati persone, altri lo potranno essere o diventare. Da questo punto di vista – per ritornare al paradosso di partenza – il processo di personalizzazione coincide, guardato dall’altro lato dello specchio, con quello dell’altrui depersonalizzazione o reificazione. Persona, a Roma, è chi è in grado di ridurre altri nella condizione della cosa. Così come, in modo corrispondente, un uomo può essere spinto nello statuto della cosa solo al cospetto di un altro proclamato persona.
Soggetti assoggettati
La prima, o comunque la più significativa, occorrenza del concetto di persona all’interno della tradizione filosofica la si deve a Severino Boezio (480 ca.-524/525), per il quale essa è «naturae rationalis individua sub stantia» (Liber de persona et duabus naturis, 3). Dove, anche a prescindere dalla complessa relazione del termine substantia con quelli, greci, di hypokeimenon e di hypostasis (usato, quest’ultimo, per definire le persone della Trinità), l’accento batte sull’attributo di razionalità, che ribadisce la distanza dal corpo posta tanto dalla tradizione cristiana quanto da quella romana: ciò che conta, della persona, è il suo carattere razionale, attinente alla sola dimensione mentale, e dunque non coincidente, e anzi superiore, rispetto all’elemento biologico che la sottende. Ciò evidentemente implica un qualche rapporto della categoria di persona con quello che oggi chiamiamo soggetto. Ma questa connessione, tutt’altro che sciogliere il paradosso della persona, non fa che accentuarlo. Per una lunghissima fase, durata sostanzialmente fino a Gottfried Leibniz (1646-1716), la parola subiectum ha un significato non dissimile da ciò che oggi siamo soliti definire oggetto. Essa, a partire da Aristotele, designa, infatti, qualcosa come un supporto o un sostrato di qualità essenziali o accidentali dotato di capacità recettiva: dunque l’esatto opposto di una realtà mentale e cioè di un agente di pensiero o di azione. Da questo punto di vista il soggetto, nel senso antico e medievale, non solo non si oppone all’oggetto come colui che percepisce al percepito o come la sfera interiore a quella esteriore, ma è fin dall’inizio inteso nel senso di ‘soggetto a’, piuttosto che di ‘soggetto di’. Ora è precisamente questo il punto di tangenza in cui la definizione filosofica di soggetto si incrocia con la semantica giuridica romana – benché questa resti del tutto inassimilabile a quella moderna appunto perché centrata su una nozione oggettivistica di diritto. Un passo di Gaio (Institutiones, I, 48) lo conferma in una forma che reintroduce la relazione con la categoria di persona: «Quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri sunt subiectae». Con questa proposizione Gaio intende dire che a Roma alcuni, definiti propriamente persone, sono dotati di uno statuto proprio, mentre altri sono sottomessi a un potere esterno. Subiecti, in questo caso, ha il significato moderno di ‘assoggettati’, al quale, nel momento di formazione degli Stati assoluti, va ricondotto anche il termine ‘sudditi’: a differenza degli schiavi, sudditi sono coloro che accettano consapevolmente di obbedire all’autorità sovrana che li rende tali.
Già qui viene allo scoperto quella dialettica, analiticamente elaborata soprattutto da Michel Foucault (1926-1984), tra soggettivazione e assoggettamento che ci riporta per altra via a ciò che abbiamo definito il dispositivo della persona. È come se questa, a un certo punto, incorporasse la differenza, e anche il contrasto, tra il tradizionale significato passivo di subiectum e il nascente significato attivo di subiectus. Si può dire che, all’interno di ogni essere vivente, la persona sia il soggetto destinato ad assoggettare la parte di sé stessa non fornita di caratteristiche razionali – vale a dire corporea o animale. Quando René Descartes (1596-1650) – che pure non inaugura ancora la semantica moderna dell’egoità in senso trascendentale – contrappone res cogitans e res extensa, assimilando alla prima la sfera della mente e alla seconda quella del corpo, riproduce, pur da altra angolatura, il medesimo effetto di separazione e di dominanza che abbiamo già individuato nella logica teologica e giuridica della persona. A quel punto neanche il passaggio, attivato da John Locke (1632-1704) e portato a compimento da David Hume (1711-1776), del concetto di persona dall’ambito della sostanza a quello della funzione, sarà in grado di modificare le cose. Che l’identità personale risieda nella mente, nella memoria o in una semplice autorappresentazione soggettiva, resta, e anzi si accentua sempre più, la sua differenza qualitativa dal corpo in cui pure risulta installata.
Il rapporto tra soggettività e assoggettamento, implicito nella declinazione giuridica e filosofica della persona, è reso del tutto trasparente da Thomas Hobbes (1588-1679) – attraverso una decisiva trasposizione del suo dispositivo sul terreno politico. Tale passaggio, orientato alla fondazione assoluta della sovranità, avviene lungo due traiettorie argomentative che a un certo punto si incrociano in un medesimo effetto di separazione. La prima riguarda la relazione, appunto disgiuntiva, tra ‘persone naturali’ e ‘persone artificiali’. Mentre le prime sono quelle che si autorappresentano attraverso le proprie parole e azioni, le seconde rappresentano azioni e parole di un altro soggetto, o anche di un’altra entità non umana. Come sempre avviene in Hobbes, la conclusione logica che ne discende risulta dirompente rispetto alla tradizione precedente: non solo viene meno il rapporto indissolubile che, all’interno del singolo essere umano, teneva pur sempre in rapporto il suo corpo fisico con la ‘maschera’ che indossava, vale a dire con la qualifica giuridica che gli era di volta in volta attribuita, ma è revocato anche il carattere necessariamente umano della persona. Se a costituire giuridicamente una persona non è altro che la sua funzione di rappresentanza, tale qualifica potrà essere riconosciuta anche ad associazioni collettive o a enti di carattere vario come un ponte, un ospedale o una chiesa. Da qui la scissione, ormai compiuta, nei confronti del referente biologico, dal momento che il meccanismo rappresentativo consente, o meglio prevede, l’assenza materiale del soggetto rappresentato. E anche il primato logico, dichiarato da Hobbes, della persona artificiale su quella naturale.
Ma l’elemento ancora più pregnante – in ordine alla dialettica tra personalizzazione e spersonalizzazione cui si è a più riprese fatto riferimento – è che, nell’impianto analitico hobbesiano, non solo le cose possono essere trasformate in persone, ma anche le persone spinte verso la dimensione della cosa. Ciò accade quando – nel momento cruciale in cui si passa dallo stato di natura a quello civile – entra in campo la persona destinata a rappresentare tutte le altre, vale a dire il sovrano, inteso come l’unità di tutti «in una sola e medesima persona» (Leviathan, II, 17). Definito altrove come «l’anima» del corpo costituito dai sudditi, da un lato essa li trasforma, da semplici esseri viventi, in soggetti personali capaci, almeno una volta, di decidere della propria condizione. Dall’altro, e nello stesso tempo, li priva di ogni autonoma personalità, incorporando i diritti che essi avevano nello stato di natura in cambio della protezione della loro vita. Da quell’istante il sovrano è l’unico a poterli legittimamente rappresentare – e dunque a potersi definire tecnicamente persona. Tale processo incrociato di acquisizione e sequestro della personalità politica trova il proprio epicentro nel paradigma di autorizzazione: attraverso di esso ciascuno autorizza la persona sovrana – definita, giusto l’antico etimo teatrale, attore – a rappresentarlo. Da quel momento non solo ognuno è sottoposto all’imperativo della propria sudditanza, ma, essendone l’autore, non può neanche lamentarsene allorché pensi di subire un’ingiustizia – anche perché l’unico criterio di definizione di ciò che è giusto è fornito dal sovrano medesimo. Che poi tale sudditanza riguardi la sfera pubblica del cittadino e non quella, privata, dell’uomo, comprova, da altro punto di vista, come il meccanismo della persona non possa funzionare che scindendo in due l’unità dell’essere vivente: se la persona ha perso il proprio corpo, questo, a sua volta, non ritroverà più la propria persona.
Del resto, a conferma del fatto che la filosofia politica moderna, nonostante le radicali trasformazioni del suo lessico, non abbia mai rotto i ponti con la divisione romana tra persona e uomo valgono gli espliciti riferimenti allo ius personarum dei giuristi di antico regime. Per tutti loro resta indiscusso l’assioma, formulato da Donellus (Hugues Doneau, 1527-1591), o forse Vulteius (Hermann Woehl, 1565-1634), secondo il quale «servus homo est, non persona; homo naturae, persona iuris civilis vocabulum». Nonostante le ingenti novità apportate dalla svolta giusnaturalistica, poi confluita nella pandettistica tedesca settecentesca e ottocentesca, impegnata ad assegnare a ogni uomo diritti equivalenti, la summa divisio romana tra persone e non persone sembra resistere a ogni contraccolpo. Ancora nel 1772, a pochi anni da quella rivoluzione che proclamerà i diritti inalienabili del cittadino, Robert Joseph Pothier (1699-1772), nel suo Traité des personnes et des choses, distingue le persone in sei categorie, assegnando a ciascuna di esse determinate prerogative in base alla definizione del loro status, che va da quello dello schiavo fino a quello nobiliare.
Ma forse ancora più sorprendente, da questo punto di vista, è il percorso di quella tradizione liberale che pure aveva decostruito il personalismo sostanzialistico di marca medievale, caratterizzando la persona unicamente in base ai suoi attributi funzionali. In realtà è proprio questa emancipazione dal sostrato corporeo a fare di questo proprietà insindacabile della persona che lo abita, senza, appunto, per nulla coincidere con esso. Sia per Locke sia per John S. Mill (1806-1873), la persona, non essendo, bensì avendo, un corpo, ne è l’unica proprietaria – autorizzata, dunque, a farne quel che crede. Torna il paradosso di partenza di un soggetto che può esprimere la propria qualità personale solo oggettivando sé stesso – scomponendosi in un nucleo pienamente umano perché razionale, morale e spirituale e in una falda animale, o addirittura oggettuale, esposta all’assoluta discrezionalità del primo. Il culmine di questa parabola – singolarmente vicina, nei suoi esiti estremi, alla biopolitica negativa dal cui rifiuto pure prende le mosse – è riconoscibile in quella bioetica, liberale secondo la sua stessa definizione, che trova in Peter Singer e Hugo Engelhardt i suoi massimi esponenti. Per entrambi non soltanto non tutti gli esseri umani sono persone – dal momento che parte non esigua di essi si situa in una scala discendente che va dalla quasi-persona come l’infante alla semi-persona come il vecchio, alla non-persona come il malato in stato vegetativo, all’anti-persona rappresentata dal folle – ma, quel che ancora più conta, tutte queste ultime sono esposte al diritto di vita e di morte da parte di coloro che le hanno in custodia, in base a considerazioni di carattere sociale e anche economico. Né è un caso che in particolare Engelhardt ricavi tali conclusioni da un raffronto esplicito con lo ius personarum di Gaio. Come un animale selvaggio catturato è preda del cacciatore, così anche il figlio difettivo (defective child) o il vecchio ormai inguaribile è sotto la ‘mano’ di colui che lo ha in tutela, legittimamente libero di trattenerlo in vita o di abbandonarlo alla morte. Ancora una volta quello di persona si rivela come il terribile dispositivo che, separando la vita da sé stessa, può sempre spingerla in una zona di indistinzione con il suo contrario.
Per una filosofia dell’impersonale
Se questi sono gli esiti del paradigma personalista, il meno che se ne possa dire è che esso non è riuscito a saldare in un unico blocco di senso spirito e carne, ragione e corpo, diritto e vita. Malgrado l’intenzione costruttiva e l’impegno meritorio dei suoi tanti interpreti esso, nel momento stesso in cui predica la pari dignità di ogni essere umano, non è in grado di cancellare le soglie attraverso cui li divide. Può solo spostarle, o ridefinirle, in base a circostanze di carattere storico, politico, sociale. E ciò perché la stessa categoria di persona si costituisce intorno a un diaframma che, fin dall’originario significato teatrale, la separa dal volto su cui pure è posata. Lo stesso contrasto di principio con la prospettiva biopolitica va riletto alla luce di tale antinomia – non per scioglierla, ma per riconvertirne i termini in una logica differente. Che la tanatopolitica nazista abbia portato a un apocalittico punto di non ritorno il primato del corpo etnico rispetto a ciò che una lunga e gloriosa tradizione ha definito persona, non comporta che si debba, o anche si possa, tornare a questa come se nulla fosse accaduto. Dopo le due guerre mondiali il lessico concettuale moderno, così potentemente imbevuto di categorie teologico-politiche, non è più in grado di sciogliere i nodi che da più parti si stringono intorno a noi. Il che non vuol dire rifiutarlo in blocco – e neanche nei suoi singoli segmenti, come appunto quello di persona. Ma inscriverli in un orizzonte a partire dal quale le sue contraddizioni più vistose vengano finalmente allo scoperto rendendo possibile, e necessaria, l’apertura di nuovi spazi di pensiero.
Già Friedrich Nietzsche (1844-1900), da una posizione che oggi certo non è possibile assumere in blocco, aveva colto l’irreversibile declino di quel lessico rifiutandone le tradizionali dicotomie, a partire dalla scissione metafisica di anima e corpo. Sostenendo che la ragione, o l’anima, è parte integrante di un organismo che ha nel corpo la sua unica espressione, egli rompe frontalmente con il dispositivo della persona. Dopo due millenni di tradizione cristiana e romana è per lui impossibile continuare a scindere l’unità dell’essere vivente in due falde giustapposte, e sovrapposte, la prima di carattere spirituale e la seconda di genere animale. L’animale, inteso come l’elemento insieme preindividuale e postindividuale della natura umana, non è il nostro passato ancestrale, ma piuttosto il nostro futuro più ricco. Che poi Nietzsche conferisse a tali intuizioni una declinazione altamente problematica – spinta dai suoi pretesi eredi in una direzione razzista che egli non aveva mai inteso imboccare – non ne revoca in causa la forza dirompente. Affermare – come appunto fece – di voler rileggere l’intera storia europea attraverso «il filo conduttore del corpo», significava inscrivere il suo discorso in una cornice espressamente biopolitica con una consapevolezza che nessun altro fino ad allora aveva manifestato. Contro ogni spiritualismo vecchio e nuovo, e con un apparato categoriale profondamente segnato (più di quanto egli stesso non fosse disposto a riconoscere) dalla svolta darwiniana, quello che egli coglieva era il nesso essenziale tra politica e vita biologica. Quando, anche attraverso la formula ambigua della volontà di potenza, riconosceva che la politica, come del resto il sapere, ha sempre a che fare con il corpo, Nietzsche intravedeva qualcosa che solo oggi è sotto gli occhi di tutti. E cioè che al centro dei conflitti presenti e futuri non vi sarebbe stata solamente una diversa distribuzione del potere. E neanche la scelta del migliore regime o del migliore partito – quanto piuttosto, e prima ancora, la definizione di cosa è oggi e di cosa può diventare domani la vita umana. Qualsiasi fosse il significato che egli dava all’espressione ‘grande politica’, è evidente come essa implicasse un’integrale decostruzione di quel paradigma di persona coinvolto pienamente nella crisi della doppia tradizione, teologica e giuridica, da cui proveniva. Se non esiste un soggetto individuale preformato rispetto alle potenze vitali che lo attraversano e lo costituiscono; se il sistema del diritto, con la sua promessa di equa ripartizione, non fa che esprimere e sancire, legittimandolo, il risultato, di volta in volta provvisorio, dei rapporti di forza scaturiti dagli scontri passati; se perfino l’istituzione dello Stato, come è pensata dai teorici della sovranità, non è che l’involucro immunitario destinato, più che a proteggere, ad assoggettare i propri sudditi a un ordine che a volte contrasta con il loro medesimo interesse; se tutto ciò è vero, allora la relazione tra gli uomini va sottoposta a un processo di radicale revisione che il dizionario politico moderno è del tutto incapace di mettere a fuoco.
La seconda, potente, decostruzione del paradigma di persona si deve all’opera di Sigmund Freud (1856-1939). Se esso si riconosce nel primato presupposto della scelta razionale e volontaria del soggetto agente, è fin troppo evidente che il rilievo assegnato dal padre della psicoanalisi a ciò che egli definirà inconscio ne costituisce una confutazione radicale. Ma ciò che va sottolineato è la precocità della sua intenzione critica – già operante nel saggio del 1904 sulla psicopatologia della vita quotidiana. Lo scritto ruota interamente intorno alla dialettica tra persona e impersonale in una forma che fa dell’uno contemporaneamente il contenuto e la negazione dell’altra. Non a caso il libro si apre sul fenomeno della dimenticanza dei nomi di persona, sostituiti da altri che hanno la funzione di coprire qualcosa che turba il soggetto in questione fino a fargli perdere la memoria di tutti i nomi propri. Dove è evidente che la perdita riguarda, prima ancora del nome o dei nomi, il ‘proprio’ in quanto tale: la presenza a sé di colui che, per sfuggire alla pressione di ciò che lo disturba, è colpito da un’amnesia che lo espropria della sua stessa capacità mnemonica, affidandolo a una potenza estranea. La conclusione che Freud ne trae è l’individuazione di un fondo impersonale in ciò che siamo abituati a definire personalità in uno scambio vertiginoso tra identità e alterità, proprietà ed estraneità: «È come se io fossi obbligato a paragonare alla mia persona tutto quel che sento di persone estranee – egli afferma –, e come se i miei complessi personali si destassero a ogni notizia concernente qualcun altro» (Zur Psychopathologie des Alltagslebens, 1904; trad. it. 1973, p. 77). L’elemento caratterizzante dell’esperienza giornaliera sta nella sovrapposizione enigmatica, che in essa si determina, tra persona e impersonale. Il titolo del libro – Psicopatologia della vita quotidiana – va, in questo senso, preso alla lettera. Che la vita di tutti i giorni sia il soggetto – non la semplice cornice o lo sfondo – della patologia della psiche significa che viene meno ogni figura soggettiva precedente, o ulteriore, all’evento che si vive o, meglio, da cui si è vissuti senza potersene mai appropriare.
Gli episodi raccontati con tanta dovizia di dettagli nel testo di Freud non sono atti, effettuati o mancati, di un soggetto personale, ma anonimi pezzi di vita che stanno sempre al di qua, o al di là, della persona. A mancare, propriamente, non è l’atto, ma l’intenzione cosciente di chi lo pone in essere, sempre attraversata, e sfigurata, dal proprio negativo. La vita quotidiana è la non-persona presente e operante nella persona – il flusso impersonale che ne stravolge la sagoma e ne strappa la maschera. Non destituendola del tutto, ma impadronendosi delle sue stesse forze e rivolgendole contro di lei. Freud non nasconde l’elemento inquietante di questa dialettica che spinge la persona verso la sua esteriorità impersonale o proietta questa all’interno di quella. Le forze occulte che insidiano l’autonomia della persona nascono dentro di lei – ne sono insieme il prodotto e la contestazione, l’esito e la ‘sconferma’, in una sorta di incessante battaglia. È vero che il sintomo psicotico non è il disturbo primario, ma la reazione con cui ciò che si definisce soggetto replica a una entità straniera che cresce al suo interno. Ma tale risposta, piuttosto che ricostruirne la padronanza, assume la forma di un ulteriore mancamento, finendo così per raddoppiare la perdita originaria. E infatti, per Freud, tra la nevrosi conclamata e le alterazioni lievi e temporanee che riguardano, in diversa misura, tutti gli uomini non passa una differenza qualitativa, ma solo quantitativa: in ogni caso la persona, malata o sana, è investita da una corrente psichica, a essa eterogenea, che ne perturba il comportamento. L’elemento ancora più pregnante dell’analisi sta nel fatto che tale eterogeneità, tutt’altro che esterna, nasce dallo stesso fondo inconscio da cui emerge anche la coscienza. Come altrove lo stesso Freud spiegherà, infatti, il perturbante, piuttosto che il contrario, è il ripiegamento su di sé di ciò che ci è da sempre più familiare. Certo non tutta l’opera freudiana è riconducibile a questo tratto decostruttivo – altri testi, e la stessa intenzione ‘terapeutica’ della sua teoria implicano la possibilità, se non anche la necessità, del controllo delle forze impersonali. E neanche la simbologia edipica si sottrae, nella definizione dei rapporti familiari, a una semantica della persona. E tuttavia il varco teoretico nel recinto di ciò che la filosofia moderna ha sequestrato nei confini, apparentemente invalicabili, del soggetto personale, è ormai aperto.
Chi penetra con decisione al suo interno è Simone Weil (1909-1943). Colpisce la nettezza della sua presa di posizione nel momento stesso – gli ultimi anni della guerra, quando già si annuncia la sconfitta nazista – in cui J. Maritain e E. Mounier chiamano a raccolta l’intelligenza europea intorno al vessillo di un nuovo personalismo. Quando ella, nella più assoluta solitudine, trova il coraggio di scrivere che «la nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali» (La personne et le sacré, in Écrits de Londres et dernières lettres, 1957; trad. it. in Oltre la politica, a cura di R. Esposito, 1996, p. 76), coglie il punto centrale della questione: persona e diritto – nella formula seducente del diritto della persona – si saldano nella doppia presa di distanza dalla comunità degli uomini e dal corpo di ciascuno di essi. Quanto alla prima, essa è raggiungibile solo da una giustizia capace di anteporre l’impegno dell’obbligo verso gli altri – la legge del munus – alla rivendicazione di determinate prerogative. Non certo da un dispositivo giuridico che funziona precisamente escludendo tutti coloro che restano fuori dalle sue categorie, a partire da quella, solo apparentemente universale, di persona. Il riferimento critico alla storia di Roma – paragonata con una evidente forzatura ermeneutica al nazismo – va collocato in questo orizzonte di pensiero: è proprio in quella civiltà che il diritto si lega indissolubilmente al possesso di persone ridotte a cose. La distinzione originaria tra liberi e schiavi, che fin dall’inizio specifica lo ius personarum, è l’architrave su cui poggia la potenza romana in una figura escludente che, attraverso profonde discontinuità, sembra ritornare, con modalità sempre diverse, a caratterizzare la storia dell’Occidente. È evidente che il filo tracciato dalla Weil dall’Impero romano ai progetti di dominio globale di Luigi XIV, di Napoleone, fino a quello di Hitler va interpretato in senso paradigmatico, o genealogico, piuttosto che storico, come il riaffiorare fantasmatico, spettrale, di un terribile arcaismo nel cuore secolarizzato della modernità. Ma non va tuttavia dimenticata la circostanza che l’istituzione della schiavitù, tutt’altro che un fenomeno primitivo, lontanissimo nel tempo e nello spazio, è durata fino a metà Ottocento. Per riapparire, come è noto, in forme diverse, quali quella della prostituzione obbligata o del lavoro minorile, anche nelle nostre città.
Ma la contestazione weiliana della categoria di persona non si ferma qui. Sostenere, come fa l’autrice, che «ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale» (p. 68) sembra inaugurare un discorso radicalmente nuovo, di cui al momento non possiamo che avvertire l’urgenza, pur senza essere ancora in grado di definirne i contorni. Un segmento di esso è, tuttavia, già riconoscibile nell’analisi della Weil. In particolare, in una notazione che riguarda il rapporto ancipite tra corpo e persona – il dominio sovrano di questa su quello, l’indifferenza che l’ideologia della persona riserva alle sofferenze del corpo e dei corpi non protetti dalla sua qualifica: «Ecco un passante per la strada che ha delle lunghe braccia, degli occhi celesti, una mente dove si agitano pensieri che ignoro ma che forse sono mediocri – ella argomenta – Se la persona umana in lui corrispondesse a quanto per me è sacro, potrei facilmente cavargli gli occhi. Una volta cieco, sarà una persona umana esattamente quanto lo era prima. Non avrò assolutamente colpito in lui la persona umana. Avrò distrutto soltanto i suoi occhi» (p. 65). Quello che si delinea in queste frasi, assunte nel loro rovescio, vale a dire dal loro lato affermativo, è lo scollamento, possibile e necessario, tra diritto e persona. Ciò che andrebbe pensato, è un diritto, così portato a giustizia, non della persona, ma del corpo. Di tutti i corpi e di ogni corpo singolarmente preso. Soltanto se i diritti – che pomposamente quanto inutilmente vengono chiamati umani – aderissero ai corpi, traendo da essi le proprie norme, non più di tipo trascendente, calate dall’alto, ma immanenti al movimento infinitamente molteplice della vita, soltanto in questo caso essi parlerebbero con la voce intransigente della giustizia. Allora anche un corpo, alimentato artificialmente o trattenuto in vita senza speranza, che non sopportasse più di soffrire inutilmente, potrebbe reclamare l’ultimo dei suoi diritti sfuggendo ai decreti inappellabili della persona.
Se in ordine alla riflessione sulla giustizia il riferimento all’impersonale è ancora confinato nel rovescio della persona, da tempo costituisce l’orizzonte semantico della grande letteratura – come, del resto, di tutta l’arte contemporanea, dalla pittura non figurativa alla musica dodecafonica, al cinema. Quando Maurice Blanchot (1907-2003) afferma che «scrivere equivale a passare dalla prima alla terza persona» (L’entretien infini, 1969; trad. it. 1977, p. 506) – convocando quella figura del ‘neutro’ che sottende, come un margine inafferrabile, la sua intera opera – si riferisce appunto a quel movimento sotterraneo che disloca l’esperienza letteraria novecentesca verso la terra senza approdo dell’impersonale. In essa, nelle sue prove estreme, ne va di qualcosa, di un «rapporto del terzo genere» – come si esprime lo stesso autore –, che si situa ben al di là della relazione dialogica e anche di ogni forma di interlocuzione tra personaggi dotati di una stabile consistenza. Da un certo momento in poi, situato tra la fine del 19° sec. e l’inizio di quello successivo, nessuno di essi, come anche ciò che si definisce voce narrativa, ha più la capacità, o l’intenzione, di dire ‘io’ – di parlare in prima persona rivolgendosi a una seconda a essa in ultima analisi speculare. Ciò che tutti li caratterizza, svuotandoli dei loro tradizionali connotati soggettivi, è quel passaggio alla terza persona cui Émile Benveniste (1902-1976), nel sistema pronominale del linguaggio indoeuropeo, aveva assegnato il ruolo peculiare della ‘non persona’, o, appunto, dell’impersonale.
Già il primo, e più noto, dei personaggi ‘senza qualità’, vale a dire l’Ulrich di Robert Musil (1880-1942), aveva sostenuto che «poiché le leggi sono la cosa più impersonale del mondo, la personalità non sarà ben presto che l’immaginario punto d’incontro dell’impersonale» (Der Mann ohne Eigenschaften, in Gesammelte Werke, 1957; trad. it. 1965, p. 460). È noto cosa egli volesse dire: dal momento che è venuta meno, esplosa in mille frammenti, l’unità soggettiva delle persone – tanto che, a distanza di qualche anno, alle volte si è più simili a un altro che a sé stessi – il mondo in cui ci muoviamo sfugge al nostro controllo e alla nostra capacità d’intervento per disporsi lungo linee imprevedibili nella loro origine e nel loro esito. Naturalmente tale dislocazione ha precise conseguenze non soltanto sul piano etico, ma anche su quello giuridico: una volta revocata in dubbio ciò che una valorosa tradizione ha definito persona, dotata in quanto tale di ragione morale e di libertà di scelta, si apre il delicato problema dell’imputabilità dell’azione – e cioè della responsabilità dell’agente. Ma insieme, e proprio per questo, non essendo imputabile a nessuno, l’azione, situata nel punto di tangenza tra pura contingenza e pura necessità, sperimenta per Musil la possibilità dell’assoluta perfezione.
Quanto a Franz Kafka (1883-1924), poi, l’impersonale non è più un’opzione che si possa adottare, ma la forma generale all’interno della quale ogni scelta ci è inevitabilmente sottratta ed espropriata. Il neutro, in questo caso, non è inteso come qualcosa che occupi il posto della persona e neanche come il suo rovesciamento esteriore. Esso è ciò che, mentre taglia ogni rapporto tra autore e testo, conferendo al racconto il carattere impenetrabile dell’assoluta oggettività, pone ogni personaggio – ormai non più definibile tale, perché privato di ogni frammento di soggettività – in un rapporto di non identificazione con sé stesso. Da questo punto di vista non soltanto le figure, preventivamente sfigurate, che si muovono senza direzione e senza meta nei testi di Kafka, hanno perso il potere di determinare ciò che loro accade, ma ciò che appunto accade non è che la ripetizione inesauribile di quanto è già da sempre accaduto. Da qui l’impressione di ‘inaggirabilità’ del problema che esse credono di trovarsi di fronte e che invece sta sempre alle loro spalle. Gli uomini non possono rendersene conto perché non hanno la memoria, necessariamente legata a un qualche principio di identità personale – percepiscono solo indirettamente ciò che sono oppure non sono. Ma colgono, opacamente, che in tale assenza di trasparenza, nella destituzione della loro medesima coscienza soggettiva, si gioca anche la loro unica destinazione possibile – la possibilità, appunto, se non della redenzione, almeno di avere, o meglio di essere, un destino. In ogni caso ciò che il testo kafkiano certifica è che non è più concesso, né avrebbe senso, riattraversare lo specchio all’indietro – rientrare in quello stesso mondo di soggetti razionali e di valori condivisi che ha messo in moto la macchinazione in cui siamo adesso afferrati.
Se non si può dire che l’insieme della filosofia novecentesca abbia una profondità di sguardo paragonabile a quella della letteratura, pure, in almeno uno dei suoi filoni più innovativi, ne risulta produttivamente contaminata. Ci si riferisce a quella linea sfrangiata che da Henri Bergson (1859-1941) a Gilles Deleuze (1925-1995), passando per Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), Gilbert Simondon (1924-1989), Georges Canguilhem (1904-1995) e lo stesso Foucault, ha pensato l’esperienza umana non nel prisma trascendentale della coscienza individuale, ma nella densità indivisibile della vita. Per tutti costoro, nonostante le profonde differenze di impostazione e di lessico, ciò che chiamiamo soggetto, o persona, non è che il risultato, sempre provvisorio, di un processo di individuazione, o di soggettivazione, del tutto irriducibile all’individuo e alle sue maschere. Tuttavia connotare tale processo con il primo o il secondo di questi termini – individuazione o soggettivazione – non è indifferente per la direzione che il discorso intende assumere. In ciascuno dei due casi a essere in gioco è una critica radicale della categoria di persona e dell’effetto separante che essa inscrive nella configurazione dell’essere umano. E in entrambi tale critica è condotta a partire dal paradigma di vita intesa nella sua dimensione specificamente biologica. Ma se in Deleuze – conformemente alla sua genealogia bergsoniana – la vita si rapporta solo a sé stessa, al proprio piano d’immanenza, in Foucault essa è colta nella dialettica, di assoggettamento e di resistenza, nei confronti del potere. Mentre nel primo caso il punto di approdo è una sorta di affermazione filosofica della vita – ben più radicale delle filosofie della vita che hanno segnato i primi decenni del Novecento in chiave di volta in volta storicista, fenomenologica o esistenzialista –, nel secondo si delinea il profilo più acuto di ciò cui si è conferito il nome impegnativo di biopolitica. Ciò che resta da pensare, una volta segnalata la differenza, è la possibile congiunzione di queste due traiettorie in qualcosa che potrebbe diventare una biopolitica affermativa – non più definita dal potere sulla vita, come quello che il secolo scorso ha conosciuto in tutte le sue tonalità, ma da un potere della vita.
Al suo centro, ma anche al suo estremo, non vi può essere che una netta presa di distanza da quel dispositivo gerarchico ed escludente riconducibile a ogni declinazione – teologica, giuridica, filosofica – della categoria di persona. Sia la nozione deleuziana di immanenza sia, quella, foucaultiana, di resistenza muovono in questa direzione: una vita che coincida fino all’ultimo con il suo semplice modo di essere, con il suo essere tale quale è – appunto ‘una vita’ singolare e impersonale – non può che resistere a qualsiasi potere, o sapere, ordinato a scinderla in due zone reciprocamente subordinate. Ciò non vuol dire che tale vita non sia analizzabile dal sapere – fuori dal quale, del resto, essa resterebbe muta o indistinta – o irriducibile al potere. Ma in una modalità capace di modificare, trasformandoli in base alle proprie esigenze, l’uno e l’altro. Producendo, a sua volta, nuovo sapere e nuovo potere in funzione della propria espansione quantitativa e qualitativa.
Questa possibilità, ma potremmo ben dire questa necessità, si rende chiara nella doppia relazione che congiunge la vita al diritto da un lato e alla tecnica dall’altro. In nessuno dei casi è immaginabile uno scioglimento del nodo millenario che la storia ha stretto tra tali termini. Ciò cui una biopolitica finalmente affermativa può, e deve, puntare è, piuttosto, il rovesciamento del loro rapporto di forza. Non può essere il diritto – l’antico ius personarum – a imporre dall’esterno e dall’alto le proprie leggi a una vita separata da sé stessa; ma la vita, nella sua grana insieme corporea e immateriale, a fare delle proprie norme il riferimento costante di un diritto sempre più conforme ai bisogni di tutti e di ciascuno. Lo stesso vale per la tecnica – diventata in questo terzo millennio l’interlocutore più diretto dei nostri corpi: della loro nascita, della loro salute, della loro morte. Contro una tradizione novecentesca che ha visto in essa il rischio estremo da cui salvare la specificità dell’essere umano, coprendolo con l’enigmatica maschera della persona, occorre renderla funzionale a una nuova alleanza tra vita dell’individuo e vita della specie.
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