Persona giuridica
di Ettore Gliozzi
Persona giuridica
Nel linguaggio giuridico s'intendono per 'persone giuridiche' certe organizzazioni costituite per perseguire determinati fini. A seconda che i fini siano pubblici o privati si distinguono le persone giuridiche pubbliche dalle persone giuridiche private. Appartengono alla prima categoria gli enti pubblici territoriali (lo Stato, le regioni, le province e i comuni) e gli altri enti pubblici costituiti per legge (quali le università o gli enti pubblici economici). Appartengono alla seconda categoria le organizzazioni costituite da privati cittadini a scopo di lucro (le società di capitali), a scopo mutualistico (le cooperative e i consorzi), oppure a scopo non di lucro, ma culturale, scientifico, politico, ricreativo, religioso e così via (le associazioni e le fondazioni).
Per quanto costituite da privati cittadini, anche le persone giuridiche private devono adottare schemi organizzativi predisposti dalla legge. Il loro atto costitutivo deve poi essere sottoposto a un controllo pubblico volto ad accertare se la costituenda organizzazione si adegui alle condizioni stabilite dalla legge. Questo controllo spetta in taluni casi all'autorità giudiziaria (così è per le società, le cooperative e i consorzi), in altri casi all'autorità amministrativa (per le associazioni e le fondazioni): se dà esito positivo, il controllo si conclude con un atto che si chiama di riconoscimento della persona giuridica. Soltanto dopo aver ottenuto il riconoscimento, l'organizzazione può usufruire di una prerogativa tipica, comune a tutte le persone giuridiche: si tratta della prerogativa che i giuristi chiamano dell'autonomia patrimoniale, in virtù della quale dei debiti assunti in nome dell'organizzazione da chi la rappresenta risponde soltanto il patrimonio dell'organizzazione stessa.
Negli ordinamenti che consentono ai cittadini di associarsi liberamente per il conseguimento di fini leciti, riconoscere un'associazione come persona giuridica non significa autorizzare la costituzione di quell'associazione: subordinare la costituzione di un'associazione a un'autorizzazione amministrativa sarebbe infatti contrario alla libertà di associarsi. Quel riconoscimento comporta soltanto il privilegio di poter operare nei rapporti patrimoniali con il beneficio dell'autonomia patrimoniale. Ma un'associazione può costituirsi e operare liberamente per perseguire fini leciti senza godere di questo beneficio: in tal caso, viene chiamata 'associazione non riconosciuta' (non riconosciuta appunto come persona giuridica) e a questa categoria appartengono le associazioni più importanti di uno Stato moderno, quali i partiti politici e i sindacati. L'assenza di personalità giuridica implica che dei debiti assunti in nome dell'associazione rispondano personalmente i rappresentanti dell'associazione stessa (ma solo i rappresentanti e non gli associati), oltre all'eventuale fondo comune di cui l'associazione sia dotata.
Perché vengono chiamate persone giuridiche organizzazioni che, pur presentando aspetti simili, sono per altri aspetti così diverse tra di loro?La risposta a questa domanda divide oggi i giuristi in due contrapposte scuole di pensiero.
Secondo una teoria tradizionale, elaborata essenzialmente dalla pandettistica tedesca dell'Ottocento, possibili titolari di diritti o destinatari di doveri sono non soltanto gli individui ma anche altri enti, quali appunto le organizzazioni cui ho appena accennato: a questi enti l'ordinamento giuridico riconosce diritti e attribuisce doveri che non possono considerarsi diritti e doveri degli individui membri dell'organizzazione. È questo un dato che fa parte dell'esperienza comune: tutti sanno, ad esempio, che i debiti dello Stato o di una società per azioni vanno distinti dai debiti dei singoli cittadini o degli azionisti della società; che se un edificio scolastico appartiene al comune, non appartiene a tutti gli abitanti del comune e se una fabbrica è di proprietà di una società per azioni, gli azionisti non sono legittimati a farne uso in qualità di proprietari pro quota. Il linguaggio giuridico non fa che riflettere questo dato normativo: esso infatti usa consapevolmente il termine persona in un significato di genere, per indicare tutti i possibili soggetti di diritto, vale a dire tutti i possibili titolari di diritti e destinatari di doveri. A seconda poi che il soggetto di diritto sia un individuo umano o un ente diverso, il linguaggio giuridico distingue tra persone fisiche e persone giuridiche.
Persone giuridiche sono dunque, secondo questa corrente di pensiero, tutti i soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche. La riconduzione delle organizzazioni di cui ho detto nella categoria delle persone giuridiche si giustificherebbe quindi per una caratteristica che le accomuna alle persone fisiche: quella di essere autonomi soggetti di diritto, distinti dai membri delle organizzazioni stesse. La particolare disciplina alla quale queste organizzazioni sono sottoposte si spiegherebbe perciò con il loro essere autonomi soggetti di diritto. Così, se il rappresentante di un'organizzazione dotata di personalità giuridica agisce in nome dell'organizzazione e stipula, ad esempio, un contratto, la sua azione non produce gli stessi effetti giuridici di quelli derivanti da un contratto stipulato da un comune rappresentante di una o più persone fisiche. Il contratto concluso da quest'ultimo vincola direttamente i rappresentati uti singuli, per cui costoro diventano titolari dei diritti o destinatari dei doveri derivanti dal contratto stesso. Il contratto stipulato dal rappresentante di una persona giuridica non vincola invece uti singuli i membri dell'organizzazione; esso non ha effetti soltanto nei confronti dei membri attuali dell'organizzazione perché si riflette anche sui membri futuri; infine, il contratto è perfettamente valido anche se il rappresentante della persona giuridica che lo ha concluso in nome di quest'ultima non ha in realtà dietro di sé nessuna persona fisica da rappresentare, come accade quando la persona giuridica è una fondazione. Tutto ciò, dunque, si spiega soltanto ammettendo che il rappresentante dell'organizzazione sia un soggetto giuridico distinto dai membri dell'organizzazione stessa e che il rappresentante altri non sia che l'organo deputato a manifestare la volontà di questo autonomo soggetto. D'altro canto, anche l'autonomia patrimoniale della quale godono le organizzazioni dotate di personalità giuridica deriva logicamente dalla loro natura di soggetti di diritto: ogni soggetto di diritto, sia esso una persona fisica o giuridica, risponde dei debiti che assume con il proprio patrimonio; di questi debiti non rispondono dunque con il proprio patrimonio i membri dell'organizzazione perché si tratta di debiti di un soggetto giuridico distinto da loro.
Questa opinione tradizionale, un tempo dominante, non gode più oggi di un consenso diffuso nella teoria giuridica, anche se continua a produrre i suoi effetti nella pratica. Già nell'Ottocento non erano mancate voci dissenzienti, ma il dissenso si è sviluppato nel corso di questo secolo e la critica ha convinto la maggioranza dei giuristi da quando è stata svolta con strumenti mutuati dalla filosofia analitica. Hohfeld, Kelsen e Hart sono stati i più noti esponenti di questa revisione critica, ma le loro idee sono state sviluppate e talvolta anticipate da molti altri studiosi.
Secondo questa scuola di pensiero, diritti e doveri hanno sempre per contenuto un comportamento di individui umani: perciò si deve in via di principio escludere che i diritti e i doveri che vengono attribuiti nel linguaggio giuridico a enti diversi dagli uomini non siano in realtà diritti e doveri di individui umani. Così, è vero che un contratto stipulato in nome di un'organizzazione dotata di personalità giuridica non vincola i membri dell'organizzazione uti singuli, ma ciò per la ragione che li vincola come membri dell'organizzazione: il che vuol dire in base alle regole interne all'organizzazione stessa. È vero che se da quel contratto derivano dei diritti, quale ad esempio un diritto di proprietà su un certo bene, quel diritto non spetta uti singuli e neppure pro quota ai membri dell'organizzazione, ma ciò perché quel diritto spetta ad essi sempre in base alle regole interne all'organizzazione. Sono le regole che disciplinano l'organizzazione di una società per azioni a precisare sia i diritti spettanti agli azionisti su di una fabbrica acquistata in nome della società, sia i modi in cui gli azionisti devono partecipare al pagamento dei debiti sociali; e sono ancora le regole che disciplinano il funzionamento di una fondazione a determinare sia i diritti dei suoi amministratori sui beni acquistati in suo nome, sia i loro doveri in ordine ai debiti in suo nome contratti. Allo stesso modo, sono le regole che disciplinano l'uso di un bene pubblico a determinare i diritti dei cittadini su un edificio acquistato in nome di un comune per destinarlo a una scuola, così come sono le regole dell'imposizione fiscale a determinare i modi di partecipazione dei cittadini al pagamento dei debiti contratti in nome dello Stato.
Non è dunque necessario postulare l'esistenza di soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche al fine di spiegare il significato di proposizioni con le quali attribuiamo diritti o doveri non già a singoli individui umani, ma a organizzazioni di individui. Il senso di queste proposizioni sta tutto nel richiamo, in esse implicito, alle norme interne che determinano l'effettiva posizione giuridica dei membri dell'organizzazione: sì che, alla stregua di queste norme, noi possiamo sempre tradurre le proposizioni che attribuiscono diritti o doveri a un'organizzazione in altre proposizioni, di significato equivalente, che attribuiscono altri diritti e altri doveri agli individui umani che sono attualmente o che saranno in futuro membri dell'organizzazione stessa. In altre parole, quando diciamo ad esempio che, a seguito di un contratto stipulato dal suo rappresentante, la persona giuridica X ha acquistato questi diritti e assunto quei doveri intendiamo soltanto dire che, a seguito di quel contratto, i membri della persona giuridica si vengono a trovare in certe posizioni giuridiche determinate dall'ordinamento interno della persona giuridica stessa; perciò la proposizione 'la persona giuridica X ha acquistato questi diritti e assunto quei doveri' svolge soltanto la funzione di abbreviare l'esposizione dei veri effetti giuridici di quel contratto: vale a dire, le posizioni giuridiche individualmente acquisite, a seguito di quel contratto, dai membri presenti e futuri della persona giuridica.
La dimostrazione della traducibilità delle proposizioni con le quali si ascrivono diritti e doveri a organizzazioni in proposizioni con le quali si ascrivono certe posizioni giuridiche agli individui membri dell'organizzazione ha determinato, da un lato, l'esclusione di queste ultime dal novero dei soggetti di diritto: veri soggetti di diritto sono soltanto gli individui umani; non sono invece tali le organizzazioni umane, anche se figurano come soggetti di molte proposizioni sia del linguaggio comune, sia di quello giuridico. D'altro lato, questa conclusione ha posto in luce il significato metaforico che assume la parola 'persona' quando venga usata per designare le organizzazioni, anziché gli individui umani.
La risposta che viene data da questa corrente di pensiero alla domanda formulata all'inizio del presente paragrafo è dunque completamente diversa da quella fornita dalla teoria tradizionale: chiamando persone giuridiche diversi tipi di organizzazioni di individui, il linguaggio giuridico ricorre a una metafora antropomorfica che è suggerita dalle norme che disciplinano il funzionamento di queste organizzazioni; una metafora che serve dunque a sintetizzare in un'immagine gli aspetti salienti di questa disciplina, ma che non aggiunge nulla alla disciplina stessa. Così, in virtù di espresse norme di legge, la costituzione di una società per azioni, dotata di amministratori che agiscono in suo nome, consente agli azionisti di rispondere dei debiti sociali soltanto con il proprio conferimento in società. Si può dunque esporre questa peculiare regola posta a vantaggio degli azionisti dicendo che, dopo la stipulazione di un contratto di società, la situazione giuridica nella quale si vengono a trovare tanto gli azionisti quanto i creditori della società si presenta come se fosse nato un soggetto giuridico nuovo o, il che è lo stesso, una nuova persona (appunto, la società), responsabile con il proprio patrimonio dei debiti assunti in suo nome dagli amministratori della società. Questo modo di esporre quella regola può avere il pregio di colpire l'immaginazione; ma induce in errore se si dimentica che stiamo ricorrendo soltanto a una metafora: ovviamente, la nascita di un nuovo soggetto giuridico e la costituzione di una società sono fatti da non confondere tra di loro.
Orbene, si ritiene oggi che proprio questo errore stia alla base della teoria tradizionale sulle persone giuridiche. Riconducendo queste ultime nella stessa classe dei soggetti di diritto alla quale appartengono le persone fisiche, quella teoria avrebbe trasformato una metafora in un mito: dalla constatazione che la disciplina di certe organizzazioni di individui si presta a essere sinteticamente descritta ricorrendo alla metafora del soggetto di diritto diverso dai suoi membri, si sarebbe passati all'erronea convinzione che soggetti di diritto diversi dagli individui umani esistano realmente e che la disciplina delle organizzazioni non sia che la conseguenza logica di questo dato di fatto (v. D'Alessandro, 1969).
Seguendo un topos della filosofia analitica le correnti revisioniste imputano l'origine della teoria tradizionale sulle persone giuridiche a un uso acritico del linguaggio: in particolare, la trasformazione di una metafora in un mito sarebbe stata agevolata dalla ingenua ma erronea tendenza a supporre che dietro ogni sostantivo vi sia un'entità denotata dal sostantivo stesso. Restando vittime di questa ingenuità, i seguaci dell'opinione tradizionale avrebbero fatto l'errore di supporre che espressioni quali 'la S.p.A. X', 'la associazione Y', 'la fondazione Z' svolgano la funzione di denotare enti diversi dagli uomini e si sarebbero posti perciò il compito di definire questi enti: un compito vano (dato che enti di questo tipo non esistono) che ha prodotto però molte contrastanti descrizioni della natura delle persone giuridiche.In questa diagnosi vi è del vero: ma la teoria tradizionale sulle persone giuridiche ha un'origine culturale non riducibile a un uso acritico del linguaggio. L'idea dell'esistenza di soggetti di diritto diversi dagli uomini diventa infatti dominante nel pensiero giuridico a partire dall'inizio dell'Ottocento, e in questa vicenda si riflette la svolta antilluministica che ha segnato il passaggio dal giusnaturalismo al positivismo giuridico.
Sebbene sia solita cercare nel diritto romano la prefigurazione delle proprie tesi, è evidente che la teoria tradizionale sulle persone giuridiche non usa la parola 'persona' nel significato, che aveva originariamente nella lingua latina, di uomo che porta una maschera (vuoi nel teatro, vuoi nella vita sociale) e quindi nel significato di attore, di uomo che recita un ruolo. In questo significato la parola viene ancora usata da Hobbes nel Leviatano (cap. XVI) per definire lo Stato come persona, senza peraltro contraddire il postulato giusnaturalistico per il quale solo gli individui umani possono essere titolari di diritti e destinatari di doveri. "Una persona - affermava Hobbes - è lo stesso che un attore [...] e personificare è agire o rappresentare se stesso o altri": se chi agisce rappresenta se stesso, la persona è chiamata naturale; se rappresenta altri, se agisce in nome di altri, la persona è allora chiamata finta o artificiale. Perciò, "una moltitudine di uomini diventa una persona quando è rappresentata da un uomo": infatti, "l'unità del rappresentante, e non quella del rappresentato, fa la persona una [...] né altrimenti può intendersi l'unità di una moltitudine". Costituire uno Stato non significa dunque, per Hobbes, dare vita a un nuovo soggetto di diritto che si aggiunga agli individui che costituiscono lo Stato stesso, ma semplicemente trasferire tutti i diritti di cui gli individui godono nello stato di natura a un unico rappresentante, affinché costui "possa usare la forza ed i mezzi di tutti loro, secondo quanto crederà opportuno, per la loro pace e per la comune difesa". Lo Stato si può dire perciò una persona solo in quanto in esso una moltitudine di individui conviene di considerare come propria la volontà di un unico uomo o di un'unica assemblea di uomini deputati a rappresentarli.
Basta questo breve cenno per capire che la teoria tradizionale sulle persone giuridiche, lungi dal derivare dal giusnaturalismo razionalistico, ne costituisce un rovesciamento: contraddicendo un postulato giusnaturalistico, essa sostiene infatti che esistono altri soggetti di diritto che si aggiungono agli individui umani; capovolgendo poi la tesi di Hobbes, essa ritiene che è l'unità del gruppo di individui rappresentati, e non già l'unicità del rappresentante, a far sì che il gruppo possa essere considerato come una persona: è la pretesa irriducibilità dei diritti e dei doveri verbalmente attribuiti al gruppo in diritti e doveri degli individui membri del gruppo che ci costringerebbe a riconoscere nel gruppo stesso un nuovo soggetto giuridico diverso dai suoi membri.
L'espressione 'persona giuridica' usata dalla teoria tradizionale ha dunque un significato del tutto diverso dall'espressione 'persona finta o artificiale' usata da Hobbes: questa seconda espressione stava a denotare un uomo o un'assemblea di uomini che pretendono di agire in nome di altri uomini o anche, aggiungeva Hobbes, di cose inanimate o di entità immaginarie; l'espressione 'persona giuridica' denota invece, nella teoria tradizionale, un'entità diversa dagli uomini, che si manifesta attraverso l'agire di uomini che la rappresentano.
Questo diverso significato dell'espressione 'persona giuridica' proviene in realtà dalla tradizione canonistica. Furono infatti i canonisti del secolo XIII a parlare per primi di persona ficta et rapraesentata per indicare appunto soggetti di diritto diversi dagli uomini che potevano agire soltanto tramite uomini che li rappresentassero, ricomprendendo in questa categoria tanto le associazioni quanto le fondazioni. E furono ancora i canonisti a introdurre nel linguaggio giuridico l'espressione 'corpus mysticum', già usata dalla Patristica per indicare la Chiesa, donde derivano espressioni come 'corpo morale' e 'ente morale' usate fin dal Medioevo per indicare associazioni o fondazioni approvate da un'autorità superiore e dotate quindi di autonomia patrimoniale e di rappresentanza processuale (v. Ruffini, 1936). Si può discutere - e si è in effetti discusso - se tutte queste espressioni venissero allora usate con la piena consapevolezza della loro natura metaforica o se, al contrario, questo modo di esprimersi fosse favorito da una cultura nella quale trovava largo spazio il soprannaturale. La seconda ipotesi potrebbe essere avvalorata, da un lato, dalle discussioni che si svilupparono sul problema se una universitas, in quanto persona, potesse essere scomunicata, potesse tenere qualcuno a battesimo, potesse giurare sull'anima propria, potesse commettere delitti; dall'altro, dal fatto che un giurista laico come Bartolo sentisse il bisogno di precisare che "universitas [...] proprie non est persona; tamen hoc est fictum pro vero, sicut ponimus nos iuristae" (Prima super Digesto novo, commento al Digesto, libro 48, titolo 19).
Comunque sia, questa è la tradizione sulla quale, all'inizio del secolo XIX, si basarono Arnold Heise e Friedrich Karl von Savigny per formulare quella teoria sulle persone giuridiche che ben presto doveva diventare dominante: Heise ebbe la sorte di coniare l'espressione 'persona giuridica' (juristische Person), derivandola dalla più antica espressione 'persona ficta'. Sviluppando le idee di costui, Savigny formulò per la prima volta il fondamento della teoria: senza il diritto positivo, egli sostenne, soltanto gli uomini avrebbero la capacità di essere titolari di diritti; ma il diritto positivo ha il potere di estendere questa capacità a qualunque altra cosa, elevandola così al rango di un soggetto di diritto che si aggiunge agli uomini: a questi nuovi soggetti, creati artificialmente per una finzione voluta dal legislatore, doveva dunque riservarsi il nome di 'persone giuridiche'.
Anche dietro queste tesi possiamo vedere una particolare cultura. Ma non si tratta tanto della cultura del romanticismo politico che, da un lato, fuori dagli studi giuridici, aveva già indotto Adam Müller a sostenere che anche le cose hanno veri e propri diritti, e che, dall'altro, avrebbe più tardi fornito ad alcuni giuristi - guidati da Otto von Gierke - gli argomenti organicistici adatti a sostenere che le persone giuridiche sono realtà antropomorfiche preesistenti a ogni riconoscimento legislativo. Si tratta piuttosto della cultura formalista che non a caso si manifestava in uno dei più radicali avversari dell'illuminismo e del giusnaturalismo, qual era appunto il Savigny.
Per fondare la teoria tradizionale sulle persone giuridiche, Savigny infatti ricorreva a uno strumento tipico del formalismo giuridico qual è quello della fictio iuris. E quando affermava che il diritto positivo ha il potere di estendere la capacità giuridica a entità diverse dagli uomini e di creare così soggetti giuridici artificiali, egli in sostanza enunciava un canone ermeneutico ancora oggi accolto dalla dottrina giuridica che si professa fedele esclusivamente al diritto positivo. Si tratta del canone per il quale la fedeltà al diritto positivo richiederebbe anche la fedeltà alle finzioni in esso incorporate; sì che le finzioni volute dal legislatore sarebbero vincolanti per gli interpreti della legge, nel senso che essi sarebbero obbligati a equiparare la finzione alla realtà quando l'equiparazione è imposta dalla legge.
Per richiamare tacitamente questo canone i giuristi cominciarono fin dall'Ottocento a proclamare - in polemica con i canoni giusnaturalistici - la loro esclusiva fedeltà alla 'realtà giuridica': ricomprendendo in questa 'realtà' non soltanto la volontà della legge, ma anche la visione del mondo che l'aveva ispirata, per quanto fittizia essa fosse. In nome di questa fedeltà essi adottarono la teoria tradizionale sulle persone giuridiche: queste ultime, essi sostennero, sono realtà giuridiche o, il che è lo stesso, idee del legislatore, alle quali occorre piegarsi se non si vogliono sostituire proprie opinioni personali alla visione del mondo del legislatore.
Possiamo dunque vedere che l'origine della teoria tradizionale sulle persone giuridiche non va tanto ricercata in un uso ingenuamente acritico del linguaggio, quanto piuttosto nel prevalere di una cultura giuridica formalista che apre deliberatamente la porta ai miti e alle finzioni in nome della fedeltà al diritto positivo.In questa apertura si coglie l'opzione antilluministica che sta alla base del positivismo giuridico. Nel contrapporre la ragione ai miti e alle superstizioni imposte da autorità tradizionali, l'illuminismo operava come erede di un antico precetto giusnaturalistico: veritas, non auctoritas facit legem. Ma, fin dagli inizi dell'Ottocento, il positivismo giuridico non si è limitato a far proprio il precetto opposto, già enunciato da Hobbes, per il quale auctoritas, non veritas facit legem: esso ha anche interpretato questo precetto nel senso che è la sovranità della legge che impone la verità; ed è perciò la sovranità della legge che ci può imporre il rispetto anche di miti e finzioni che contrastano con la ragione.
Alla base della teoria tradizionale sulle persone giuridiche vi è dunque una particolare interpretazione del principio della vincolatività della legge. Si tratta dell'interpretazione, tipica del formalismo giuridico, per la quale vincolanti sarebbero non soltanto le norme formulate dalla legge, ma anche la visione del mondo in esse incorporata: per cui, anche le finzioni incorporate nella legge richiederebbero lo stesso rispetto dovuto alle norme immediatamente precettive della legge stessa. In questa interpretazione, evidentemente, è implicita la convinzione che rientri tra i poteri di un legislatore stabilire una specie di verità legale che dovrebbe essere vincolante per tutti, per quanto fittizia essa risulti al senso comune: sì che ogni controversia sul carattere fittizio di una determinata rappresentazione della realtà potrebbe essere risolta con il principio di autorità, imponendo per legge la rappresentazione contestata.
La giustificazione ancora oggi data a questa interpretazione formalistica del principio di obbligatorietà della legge è la stessa già in passato addotta a sostegno della teoria tradizionale sulle persone giuridiche. Si sostiene infatti che soltanto la completa adesione alle idee incorporate nella legge potrebbe garantire un risultato di interesse generale, qual è la certezza del diritto: una mortificazione eventuale del senso comune sarebbe perciò il prezzo da pagare per ottenere questo risultato. Il rifiuto del postulato della vincolatività delle idee fatte proprie dal legislatore - qualunque consistenza esse abbiano - ci esporrebbe in definitiva al rischio di decisioni imprevedibili da parte dei giudici, perché basate su convinzioni del tutto private; l'accettazione di quel postulato ci consentirebbe invece di ottenere decisioni prevedibili perché motivate alla stregua di criteri pubblicamente riconosciuti.
Dunque, si argomenta, se, in ossequio a un'idea incorporata nella legge, consideriamo certe organizzazioni come veri e propri soggetti di diritto distinti dai membri dell'organizzazione stessa, potremo poi avere in ogni momento la soluzione certa di ogni questione giuridica posta dall'attività di queste organizzazioni: sarebbe a tal fine sufficiente trarre tutte le conseguenze logiche dall'idea dell'esistenza di soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche.In realtà, proprio l'incertezza delle conseguenze che si possono trarre da questa idea dimostra, da un lato, come non si possa difendere la teoria tradizionale sulle persone giuridiche in nome della certezza del diritto; e mostra anche, dall'altro, come un'interpretazione formalistica del principio di vincolatività della legge porti a legittimare l'arbitrio e la manipolazione della realtà mascherati come applicazioni della legge.
L'incertezza delle conseguenze logiche deducibili dall'idea dell'esistenza di soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche si è infatti manifestata, nell'ambito della teoria tradizionale sulle persone giuridiche, non appena quest'ultima ha dovuto affrontare il problema di stabilire quali diritti e quali doveri originariamente previsti dall'ordinamento giuridico per le persone fisiche possano spettare a una persona giuridica. È questo un problema pratico che i tribunali dei più diversi paesi hanno dovuto più volte affrontare, dando luogo a una copiosa casistica giurisprudenziale. Ci si è dovuti ad esempio domandare se una persona giuridica possa agire in giudizio per farsi risarcire i danni subiti da pubblicazioni diffamatorie; se possa essere convenuta in giudizio per essere condannata a risarcire i danni causati da reati compiuti dai suoi amministratori; se possa essere nominata amministratore di una società; se possa essere revocata per ingratitudine una donazione fatta a suo favore; se possa incorrere nelle limitazioni previste dalla legislazione di certi Stati a danno di cittadini stranieri; se possa vantare tutti i diritti costituzionali spettanti ai cittadini. E così via.
Per risolvere problemi di questa natura, la teoria tradizionale sulle persone giuridiche ha formulato un principio generale che consente in realtà ai tribunali di decidere come meglio credono, nascondendo però i motivi effettivi delle loro decisioni dietro argomenti fittizi messi a loro disposizione dalla teoria stessa. Quest'ultima infatti sostiene che le persone giuridiche, in quanto soggetti di diritto, possono essere titolari degli stessi diritti e degli stessi doveri spettanti alle persone fisiche, a eccezione di quelli incompatibili con la loro particolare natura. Ma, poiché sulla natura di questi enti immaginari chiamati persone giuridiche si può dire tutto ciò che l'immaginazione può suggerire, è evidente che questo principio non fornisce in realtà nessuna guida pratica alla soluzione dei problemi cui si è accennato. La sua funzione reale - nonostante ogni buona intenzione - si riduce a far sì che i tribunali possano decidere quei problemi secondo il proprio arbitrio, nascondendosi però dietro un principio giuridico apparentemente solido.
Basta scorrere la nutrita giurisprudenza dei più diversi paesi per constatare che i giudici hanno fatto un largo uso di questa possibilità. Per motivare le loro decisioni essi sono ricorsi infatti alle descrizioni della natura delle persone giuridiche fornite dai fautori della teoria tradizionale: e, in vista del risultato che volevano raggiungere, essi hanno potuto liberamente scegliere di volta in volta tra le diverse opinioni dottrinali sull'argomento. In applicazione dello stesso principio i giudici hanno così risolto lo stesso problema in modi opposti: il che vuol dire che, fingendo di applicare un principio giuridico, essi hanno in realtà deciso in base a motivi non formulati e rimasti perciò del tutto privati.
Si è così potuto nello stesso tempo sostenere, da un lato, che le persone giuridiche sono bensì soggetti di diritto come le persone fisiche, ma, a differenza di queste, sono entità artificiali, prive di natura corporea: in quanto tali, esse non possono subire nessuna diffamazione, perché incapaci di percepire un'offesa; né possono rispondere di atti delittuosi dei loro amministratori, non avendo la volontà necessaria per compierli; né possono essere nominate come amministratori di una società, non potendo sedersi nei consigli di amministrazione; né sono capaci di manifestare ingratitudine, essendo questo un vizio dal quale soltanto gli uomini in carne e ossa possono essere affetti. D'altro lato, per giungere a soluzioni opposte, si è sostenuto invece che le persone giuridiche, pur non avendo un proprio corpo, sono assai più simili agli individui umani di quanto risulti dalla teoria che le descrive come enti artificiali: esse hanno un loro onore che può essere leso da diffamazioni; hanno una volontà, elaborata dai loro organi, che consente loro di compiere anche atti delittuosi; hanno qualità professionali in ragione delle quali possono essere scelte come amministratori; e possono anche avere difetti tipicamente umani come l'ingratitudine.
Questi modi di argomentare hanno suscitato la giustificata ironia delle teorie revisioniste sulle persone giuridiche. Ciò non di meno, motivazioni di tal natura continuano a comparire in molte sentenze. Viene perciò spontaneo domandarsi perché permangano nella giurisprudenza le idee della teoria tradizionale sulle persone giuridiche.
Orbene, è chiaro che questa permanenza non si giustifica con il desiderio di rimanere fedeli a una teoria tradizionale - evocata dal linguaggio delle legislazioni statali - in modo da garantire la certezza del diritto: è evidente infatti che quella teoria, lungi dal garantire questa certezza, favorisce decisioni giurisprudenziali del tutto imprevedibili. Neppure si può dire che quella permanenza si giustifichi con il desiderio dei giudici di motivare le loro decisioni esclusivamente in base a norme di legge, poiché il ricorso alla teoria tradizionale consente di formulare motivazioni fittizie che nulla hanno a che fare con le norme che i giudici sono chiamati ad applicare: infatti, la soluzione dei problemi cui si è accennato sopra può essere razionalmente trovata non già ricercando la natura immaginaria di enti immaginari, ma individuando la ratio delle norme che attribuiscono certi diritti e certi doveri agli individui umani e domandandosi poi se la ragione che sta alla base di quelle norme giustifichi una loro applicazione anche a organizzazioni di individui.
La permanenza di idee tradizionali sulle persone giuridiche è dovuta dunque al permanere di una cultura giuridica formalista che preferisce l'argomento di autorità agli argomenti razionali; che muove da un'idea mitica di autorità, in virtù della quale un legislatore avrebbe il potere di imporre come vere delle finzioni; e che perciò usa l'appello alla sovranità della legge come un facile espediente per motivare decisioni arbitrarie con argomenti fittizi.
(V. anche Diritto; Fondazioni; Società commerciale).
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