persona
Dal lat. persona; voce prob. di origine etrusca, che propr. significava «maschera teatrale» e poi prese il valore di «individuo di sesso non specificato», «corpo», e fu usata come termine grammaticale e teologico.
Il termine latino persona fu usato anzitutto nella teologia trinitaria e servì a designare quello che i Greci indicavano con i termini ὑπόστασις (➔ ipostasi) e πρόσωπον; sembra sia stato Tertulliano a usarlo per primo. Sono state formulate tre ipotesi a proposito dell’introduzione di tale termine nel linguaggio teologico: la prima lo considera mutuato dal linguaggio giuridico, nel quale il termine indica il soggetto di diritto; la seconda, cosiddetta prosopologica, lo vuole derivato dall’esegesi biblica dei Padri, rivolta talora a individuare la p. a nome della quale fossero pronunciati alcuni passi biblici (in partic. dei Salmi); la terza ipotesi, infine, ritiene il termine derivante dal lessico comune del tempo, cioè come equivalente di individualità umana concreta ed empirica. Quest’ultima ipotesi (Nédoncelle) sembra la più probabile. Tertulliano fa del termine p. un uso non solo trinitario, ma addirittura cristologico, anticipando di due secoli la definizione del Concilio di Calcedonia: «Videmus duplicem statum, non confusum sed coniunctum in una persona, Deum et hominem Iesum» («Osserviamo una duplice condizione, non confusa ma congiunta in una sola persona, Dio e l’uomo Gesù»; Adversus Praxean, 27, 11). Il chiarimento definitivo del termine in ambito teologico si ebbe a Calcedonia nel 451, quando il Concilio distinse φύσις da ὑπόστασις e da πρόσωπον. La φύσις indica che cosa è Gesù Cristo, designando la sua duplice natura, umana e divina, mentre la ὑπόστασις e il πρόσωπον indicano chi è Gesù, designando la sua unica p. divina. A partire da Boezio, a cui risale la famosa definizione «persona est rationalis naturae individua substantia», la teologia scolastica ha sottolineato di più la sussistenza che la relazionalità dell’essere personale.
In ambito filosofico le critiche al concetto di p. sono determinate soprattutto dal carattere d’identità temporale a essa considerato intrinseco. In partic., la critica humiana, movendo dal concetto che la sostanza pensante si riduce a un semplice fascio di sensazioni interne, nega per ciò stesso la stabilità oggettiva della ‘persona’, e apre la via al nuovo concetto dell’Io trascendentale, avanzato da Kant ed elaborato dai postkantiani. Le caratteristiche di ‘dignità’ e di ‘insostituibilità’ della p. in quanto p. umana sono state particolarmente sottolineate nel pensiero etico di Kant; uno degli imperativi della ragion pratica suona infatti: «Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua come nella p. di ogni altro, sempre contemporaneamente come fine e non mai soltanto come mezzo». I temi della finitezza, della libertà e della responsabilità della p. hanno acquistato particolare rilievo nell’ambito del pensiero contemporaneo, soprattutto in quello francese (esistenziale, spiritualista, ecc.; valgano come esempio le teorizzazioni di Marcel e Lavelle). Una distinzione tra p. e individuo ha tentato Maritain, intendendo per individuo la materialità, per p. invece le caratteristiche spirituali, mantenendo peraltro l’inscindibilità delle due componenti. Una posizione originale, influenzata dalla tesi husserliana, è quella di Scheler, che definisce la p. fondamentalmente come «rapporto al mondo»; ne consegue che ciascuna p. in quanto individualità ha a suo correlato un mondo individuale ed è connotata dalla possibilità di agire sul proprio corpo e attraverso il proprio corpo. Questo concetto di p., intesa come «rapporto al mondo», ha costituito poi il punto di partenza dell’esistenzialismo heideggeriano, il quale si incentra appunto nella categoria del Dasein («esserci», «esserci nel mondo», ecc.). Il concetto di p. è stato riproposto, nell’ambito del dibattito sulla natura degli stati mentali tipico della filosofia analitica (➔), soprattutto da Sellars, Hampshire e Strawson, che con esso hanno inteso riferirsi all’individuo in quanto parte di un contesto socio-culturale e in quanto unità psicofisica cui si attribuiscono coscienza, desideri, credenze e responsabilità morale, caratteristiche non eliminabili a favore di una considerazione strettamente neurofisiologica dell’attività mentale, come vorrebbero i sostenitori del riduzionismo di tipo neopositivistico.