Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’ambito del pensiero novecentesco con l’espressione spiritualismo si deve intendere, più che una precisa dottrina filosofica, un movimento multiforme e una tendenza del pensiero che partendo da una decisa critica sia nei confronti del realismo materialista che del neoidealismo mette in luce come il soggetto non sia in primo luogo qualcosa di legato al pensiero astratto e alle categorie logiche dell’intelletto conoscente, ma sforzo interiore, soggettività incarnata e concreta, e proprio per questo aperta al mistero dell’essere. Si capiscono così le affinità con il movimento personalista, per il quale il soggetto diventa la persona umana, cioè quell’infinito approfondimento della propria interiorità su cui si fonda lo slancio al superamento continuo dei condizionamenti mondani, e insieme sintesi aperta di tensione etica e attività interpretante.
La visione marceliana
Thomas Eliot
La terra desolata
Aprile è il più crudele dei mesi. Genera
Lillà dalla terra morta, mescola
Memoria e desiderio, desta
Radici sopite con pioggia della primavera.
L’inverno ci tenne al caldo, coprendo
La terra di neve immemore, nutrendo
Una piccola vita con tuberi secchi.
L’estate ci ha sorpreso sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia;
Noi ci fermammo sotto il colonnato,
E procedemmo in pieno sole, nell’Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo per un’ora.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen,
echt deutsch. E quando eravamo bambini
E stavamo dall’arciduca, mio cugino,
Lui mi condusse in slitta,
E presi uno spavento, Maria,
Mi diceva, tieniti forte, Maria.
E ci lanciammo giù. Sulle montagne,
Là ci si sente liberi.
Leggo quasi tutta la notte,
E d’inverno me ne vado nel sud.
[...]
Città irreale,
Sotto la nebbia scura di un’alba d’inverno,
Una folla fluiva su London Bridge, tanta,
Che io non avrei mai creduto che morte
tanta n’avesse disfatta. Sospiri
Corti e rari, ne esalavano,
E ognuno andava con gli occhi fissi davanti ai piedi. Fluivano
Su per il colle e giù per King William Street, fino a dove
Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con suono morto sull’ultimo tocco delle nove.
Là vidi uno che conoscevo e lo fermai gridando: "Stetson!"
Tu che eri a Mylae con me sulle navi!
Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato in giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà
Quest’anno? Oppure il gelo improvviso
Ne ha danneggiato l’aiuola? Oh, tieni il Cane lontano,
Che è amico dell’uomo, se no con le unghie
Lo metterà allo scoperto! Tu,
Hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frère!
in Poesia europea del Novecento, a cura di P. Gelli, Milano, Skira , 1996
Lo spiritualismo novecentesco è un fenomeno soprattutto francese. Sotto tale denominazione si intende per lo più quell’ampio e multiforme movimento noto come Philosophie de l’esprit che trae origine in molte delle sue componenti essenziali dal pensiero di François-Pierre-Gonthier de Biran, detto Maine de Biran (1766-1824), il quale, partendo da una posizione critica nei confronti sia del realismo materialista che dell’idealismo, sottolinea che la dimensione fondamentale del soggetto non è quella di essere pur esprit nel senso di qualcosa di unicamente pensante (sola mens), bensì tensione, sforzo (effort). E in tal senso il soggetto non è mai disincarnato ma sempre intrinsecamente in rapporto con il corpo, che diviene il “corpo proprio”, che è insieme l’ostacolo e il punto d’appoggio della libertà del soggetto. Gabriel Marcel (1889-1973) parte precisamente da queste tesi per elaborare la sua personale prospettiva filosofica tesa a mettere in luce il filosofare come esperienza esistenziale “concreta” in cui sono a suo avviso contemporaneamente oltrepassati sia il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa sia l’opposizione tra immanenza e trascendenza. La coscienza è, come per Maine de Biran, sempre incarnata, ma nello stesso tempo, e proprio in quanto incarnata, continuamente esposta al “mistero ontologico”(forse la più celebre espressione marceliana). Per questo la filosofia viene “dopo”, cioè diviene operante soltanto nello spazio dischiuso da queste tensioni polari: “Una filosofia concreta è una filosofia del pensiero pensante” – Saggio di filosofia concreta (1967) – che egli stesso definisce “neosocratismo”. Sotto tale angolo visivo Marcel rilegge anche il rapporto pensiero/essere. L’essere non è una “questione” del pensiero, ma è il mistero che abita il pensiero, e in tal senso non può essere concettualizzato secondo le categorie della logica classica tipiche del pensiero metafisico – se non a prezzo di restare una vuota astrazione, ma messo in luce soltanto in un orizzonte esistenziale: il soggetto ha rapporto con l’essere solo in quanto è tale rapporto. Il filosofare non può quindi assumere una dimensione sistematica, ma si trova sempre in una condizione inaugurale, in cui il pensiero deve compiere una “riflessione seconda”, creativa e sovraconcettuale, che egli denomina “intuizione intellettuale” – Essere e Avere (1935) – in cui l’uomo rinnova continuamente la propria disponibilità alla partecipazione con l’essere.
Questo carattere antimetafisico della visione marceliana, è forse tra gli aspetti che maggiormente differenziano Marcel dagli altri due più significativi esponenti della filosofia spiritualistica in Francia: René Le Senne (1882-1954) e Louis Lavelle (1883-1951). Questi ultimi fondano nel 1934 una nuova collezione di opere filosofiche, per i tipi dell’editore Aubier, dal titolo Philosophie de l’Esprit, per contrastare soprattutto le dottrine positivistiche e materialistiche all’epoca molto forti in Francia. Nel Manifesto della Philosophie de l’Esprit, i due fondatori affermano la necessità che la filosofia si liberi dalla doppia minaccia rappresentata dallo scientismo e dallo statalismo o totalitarismo politico. Tra Stato assoluto e scienza assolutizzata si instaura “un’Alleanza mostruosa” che rischia di sacrificare la coscienza personale, di depauperare la forza del soggetto umano sradicandolo dal suo autentico rapporto con lo spirito e “dall’esperienza del pensiero e della vita” nel nome di un’oggettività concettualmente e tecnicamente dominabile, ma in realtà dominante, e di una meccanizzazione spersonalizzante della vita sociale. Viene inoltre sottolineata l’importanza del momento “speculativo” della filosofia allo scopo di favorire anche un riavvicinamento tra dimensione etica e dimensione metafisica.
Più che una vera e propria dottrina, la Philosophie de l’Esprit è un movimento, una tendenza del pensiero. In vent’anni di prolifica attività la collezione arriva a contare 60 volumi divisi tra opere originali e nuove traduzioni commentate di grandi classici del pensiero filosofico, da Eckhart a Hegel, da Berkeley a Kierkegaard. Orizzonte comune di questi lavori è la volontà di ritrovare lo Spirito (Esprit, in francese, indica sia spiritus che mens; di qui la duplice valenza psico-metafisica del termine) all’opera nei vari campi dell’attività umana, nonché il rapporto che l’uomo, in quanto spirito incarnato, intrattiene con l’Assoluto. Inoltre, secondo il parere dei suoi stessi fondatori, la collezione aveva contribuito a diffondere uno “spiritualismo ecumenico”, che, nel riconoscimento reciproco, di diverse vie alla spiritualità, metteva pure in luce la dimensione interumana di “riconciliazione” dell’uomo con l’uomo sul fondamento del valore spirituale dell’esistenza. Infine pur non negando diverse affinità con il cristianesimo, l’indirizzo della collezione è dichiaratamente aconfessionale.
Certamente sia Le Senne che Lavelle elaborano pure una loro visione filosofica affine al progetto ma in parte originale. Il primo, mette in evidenza il rischio connesso con l’interpretazione del soggetto umano come soggettività assoluta. A suo avviso va invece rilevato il piano di relazione universale tra interiorità ed esteriorità, finito e infinito, che è rapporto dialettico-vivente, sforzo inventivo continuo di collegamento tra la coscienza e il suo principio spirituale. Lo spirito è così per Le Senne ciò che ingloba tutto quello che può essere sentito, pensato o intuito. Tra gli aspetti tramite i quali lo spirito si manifesta nell’uomo, quello del valore è centrale. Diffidente verso ogni ontologismo Le Senne insiste sulla caratteristica fondamentale dell’essere come valore, che egli, nell’ultima fase del suo pensiero, definisce anche come “super-essere” – Il destino personale (1951). L’Assoluto, Dio è la fonte originaria di tutti i valori, da cui proviene la spiritualizzazione del mondo. Ciò avviene mediante la relazione interiore tra la fonte universale dei valori e le singole coscienze personali. L’uomo non crea i valori, ma crea uno spazio di accoglienza per la loro mondanizzazione, in cui, all’interno delle coscienze, l’assoluto assiologicamente inteso si declina nei valori essenziali per l’uomo: il vero, il bello, il bene, l’amore. In ultima analisi il primo e fondamentale essere-per-il-valore è proprio l’apertura di tale spazio. Le differenti (per quanto Le Senne insista sulla finezza e sull’intonazione sfumata di tali differenze) forme di ospitalità del valore designano i vari caratteri umani. In questo modo la caratterologia (caractérologie) diviene il necessario completamento dell’assiologia. L’io è quindi un insieme di strati (couches) in cui si combinano corporeità, interiorità e carattere, e in cui il valore opera la formazione della personalità. Sulla base di questa sinergia tra filosofia dei valori e psicologia dei caratteri ogni coscienza ha la possibilità di porsi psicodialetticamente, e cioè mettendo in comunicazione la propria differenza caratteriale-valoriale con il contesto storico-sociale del mondo, in una relazione “sinandrica”, cioè di comunione tra uomo e uomo, in cui non potrà trovare posto secondo Le Senne quella che è la più imperdonabile negazione dello spirito/valore e cioè il fanatismo che trasforma ogni valore in vuoto idolo dogmatico.
Rispetto a quella di Le Senne, la via filosofica di Lavelle è decisamente più ontologico-metafisica. La sua filosofia, come del resto egli stesso la definisce, è una “ontologia del concreto” in cui il mistero dell’essere fa tutt’uno con il mistero dell’esistenza, dell’io. Ogni filosofare si muove per Lavelle all’interno di una tensione polare tra “inquietudine” e “gioia” in cui è abolita ogni opposizione tra finito e infinito, relativo assoluto, particolare e universale: tutto è partecipazione all’essere e unità partecipata, poiché “l’essere è il termine primo, dato che ogni altro termine lo presuppone e lo esprime limitandolo” – De l’être (1928). L’essere quindi non è esterno a niente e niente è esterno all’essere. Il rapporto vivente tra l’essere dell’uomo e l’essere “che lo supera” presuppone un continuo movimento di partecipazione attiva e di attività partecipata: l’essere è il proprio atto di essere. La radice originaria di ogni agire è partecipativa: “non posso né porre l’essere indipendentemente dall’io che lo coglie, né porre l’io indipendentemente dall’essere nel quale esso si inscrive” – L’atto (1937). Ora l’atto più alto è l’atto d’amore, quello per cui la conquista di sé fa tutt’uno con la rinuncia a sé. La spiritualizzazione autentica non può prescindere dalla concretezza fenomenica dell’esistenza, al contrario, la fa propria per oltrepassarla, la supera attraversandola. Così la vita immortale dell’anima non è meramente a durata infinita, ma vita che comprende la morte e la supera. L’eternità stessa non è vista da Lavelle in opposizione al tempo, come la negazione assoluta del tempo, ma è ciò che attraversa e contiene il tempo, e in questo stesso essere attraversato dall’eternità il tempo non è più semplice serie cronologica di istanti, ma diviene “il veicolo della nostra eternizzazione” – De l’âme humaine (1951) – e quindi della suprema spiritualizzazione del concreto attraverso il concreto.
Anche il cosiddetto personalismo risulta essere, così come lo spiritualismo, un movimento difficilmente riducibile a una formula. Esso è legato soprattutto all’opera di Emmanuel Mounier (1905-1950) e al movimento Esprit, nonché soprattutto alla rivista “Esprit” da lui stesso fondata nel 1932. Egli contrappone al soggetto solipsistico astrattamente pensante di derivazione cartesiana il concetto di persona. Con il termine persona Mounier intende prima di tutto un io concreto, che vive di relazioni, e che ben lungi dal ripiegarsi riflessivamente su se stesso è “verso il mondo e nel mondo, prima di essere in sé” – Che cos’è il personalismo (1947). L’egoismo individuale che caratterizza la moderna crisi dell’uomo può essere superato solo da uno slancio che sia insieme personalista e comunitario, capace di mettere al riparo l’io, il singolo dall’isolamento e dall’alienazione, e la società, il “noi” dalla desolazione del conformismo e dell’incomunicabilità. Nella persona ogni moto di interiorizzazione contiene uno slancio solidaristico e viceversa: ogni atto verso il mondo è nello stesso tempo “movimento di personalizzazione”. Il personalismo di Mounier non è però affatto piattamente ottimistico, anzi è costantemente segnato da una venatura tragica che parte dalla consapevolezza dell’essere sotto scacco della condizione umana: la solitudine più solitaria può irrompere nella più intensa comunione, l’egoismo più feroce nel più benevolo solidarismo, la massificazione più spersonalizzante nella personalizzazione più profonda. Per questo più che un concetto il personalismo è un esistenziale, una tensione continua al superamento della propria individualità e fenomenicità, “un potere di approfondimento infinito”. Va infine ricordata l’analisi che Mounier compie nei confronti del comunismo marxista. A suo avviso le profonde intuizioni sulla natura umana presenti nella riflessione marxiana non hanno impedito la subordinazione della persona ai meccanismi economico-sociali, alla violenza della materia. Ciò nonostante Mounier non contrappone comunismo e cristianesimo, anzi egli vede nella comune lotta alla sopraffazione sui più deboli e nella promozione dell’umanità dell’uomo un legame misterioso e profondo tra cristiani e comunisti, tanto da affermare che forse la destinazione imperscrutabile e ultima del comunismo sia di diventare “una parte del regno di Dio” – Oeuvres, vol. III (1961-1962).
All’interno del personalismo possiamo pure ricordare la figura di Maurice Nédoncelle (1905-1976) che sviluppa una filosofia della persona in un orizzonte che vuole tenere insieme intersoggettività e ontologia, in cui l’essere si presenta soprattutto come piano di mediazione e di comunicazione tra gli essenti: l’essere è tra gli essenti. La posizione filosofica di Nédoncelle si presenta quindi come una desostanzializzazione dell’essere, che non può venire pensato senza e oltre l’essente. Quest’ultimo non è che l’individuo esistente concreto che trova la sua massima espressione nella persona.
Fin dall’anno della sua fondazione entra a far parte del movimento Esprit e della omonima rivista un giovane intellettuale, già impegnato politicamente ed eticamente nella sinistra socialista e pacifista, destinato a diventare una delle figure più significative della filosofia contemporanea e il cui pensiero rappresenta un crocevia a suo modo unico delle più importanti esperienze filosofiche del Novecento: Paul Ricoeur (1913-2005). L’influenza di un pensatore come Marcel, che insieme a Karl Jaspers (1883-1969) ed Edmund Husserl (1859-1939), costituisce il triplice patronage tutelaire della formazione e della convinzione filosofica di Ricoeur, è riconosciuta dallo stesso filosofo alla stregua di una vera e propria iniziazione socratica al filosofare: “una libera esplorazione delle questioni inquietanti sul crinale tra riflessione e vita”. A ciò si aggiunge la collaborazione diretta con Mounier, che Ricoeur definisce “un giovane maestro di tanti apprendistati intellettuali e morali” – Riflession fatta (1995). Questo straordinario clima filosofico viene però bruscamente interrotto dalla guerra. Il successivo e lunghissimo cammino di pensiero ricoeuriano, abbandonando definitivamente ogni pretesa di una “congiunzione tra ontologia e persona”, andrà ben oltre le categorie e anche i limiti del personalismo, ma conserverà sempre un’attenzione particolare per la dimensione valoriale e pratico-politica della persona, per concetti come “impegno”, “crisi”, “disposizione interiore” (“Meurt le personnalisme, revient la personne”), in cui l’umanità stessa si rivela come “la personalità della persona”, che a sua volta è sempre sintesi pratica e interumana “della ragione e dell’esistenza, del fine e della presenza” – Finitudine e colpa (1960).
Per quanto riguarda la filosofia della persona in Italia, si può dire che essa si sviluppi a partire dalle riflessioni provenienti dalla Francia, e non abbia certo una risonanza culturale e sociale paragonabile a quella francese, non uscendo quasi mai dai confini della discussione colta, probabilmente chiusa, da un lato, dal soggettivismo assoluto del neoidealismo attualista gentiliano e, dall’altro, dalla metafisica neoscolastica che domina il dibattito cattolico. Tra i pensatori che tentano di muoversi autonomamente rispetto a queste due tendenze imperanti si può nominare Armando Carlini (1878-1959). Allievo di Giovanni Gentile (1875-1944), a cui succede nella cattedra di filosofia teoretica alla Normale di Pisa, Carlini sviluppa una direzione di pensiero originale e eterodossa rispetto al maestro (nonché in polemica con la visione metafisica neotomista di Francesco Olgiati), che egli stesso indica come un tentativo di “esistenzializzazione del trascendentale”, e cioè il modo in cui il soggetto realizza la propria esistenza personale nella tensione vivente tra l’essere situato e limitato nel mondo esterno e la capacità di trascendere questo condizionamento attraverso la propria libertà interiore. Ciò nonostante Carlini rifiuta la definizione di personalista per la propria visione filosofica. Chi invece la fa esplicitamente propria è il trevisano Luigi Stefanini (1891-1956), nella cui sintesi di pensiero si rintracciano alcune delle più originali problematiche dello spiritualismo italiano. La teoria della persona di Stefanini coniuga esperienza interiore e strutture logico-conoscitive del soggetto e sfocia in una vera e propria metafisica personalistica: “L’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione e di comunicazione tra le persone” – La mia prospettiva filosofica (1953). Tra i pensatori italiani non espressamente “personalisti” ma che affrontano in modo non marginale il tema della persona soprattutto a partire dagli anni Quaranta possiamo citare: Augusto Guzzo (1894-1986) per la sua visione dell’io insieme concretamente esistente e principio di trascendenza, manifestantesi quest’ultimo nelle espressioni umane etiche, estetiche e religiose; Felice Battaglia che riconduce i temi personalistici all’interno della dimensione etico-politica e giuridica; Michele Federico Sciacca (1908-1975) che dopo un’iniziale adesione all’idealismo di ispirazione gentiliana si volge a un umanismo di matrice spiritualistico-cristiana centrato sull’idea di configurazione dialettica dell’esistenza come presenza-assenza di essere, e soprattutto Luigi Pareyson (1918-1991). Allievo di Guzzo, Pareyson introdusse in Italia le tematiche esistenzialistiche e nella sua opera giovanile Esistenza e persona (1950) si sforza di ricondurre le tesi personalistiche all’interno della problematica esistenzialista. Influenzato soprattutto dal pensiero di Karl Jaspers (1883-1969), egli afferma che la verità non è oggettivabile ma richiede un lavoro di interpretazione infinito. In questo contesto la persona coincide con l’attività interpretante, in quanto essa è sempre relazione con la verità, e ogni rapporto con la verità “è formulabile solo attraverso la personale via d’accesso a essa” (Esistenza e persona).
Pareyson sottolinea inoltre la stretta connessione che sussiste tra il piano teoretico e quello etico, e la persona diventa, nel suo processo ermeneutico di autorealizzazione, la sintesi aperta e sempre modificabile di valori etici non rigidamente normativi e di sforzo interpretativo. Tale dimensione creativa della persona trova nella attività estetica, intesa come fare formativo, la sua più decisiva espressione.