PERUZZI
– L’origine della famiglia dei Peruzzi risale alla seconda metà dell’XI secolo, quando è attestata a Firenze la presenza di Peruzzo, antenato eponimo della famiglia. Negli anni Trenta del XII secolo Giovannino di Peruzzo è ricordato in due testimonianze come cambiatore in relazione con il monastero femminile di S. Felicita, con compiti di agente e procuratore delle monache. La casata è riconoscibile dal XIII secolo, quando Arnoldo di Amideo di Peruzzo, nato probabilmente nei primi decenni del Duecento e morto il 1° dicembre 1292, diede origine ai rami della famiglia che fu poi tra i protagonisti della politica cittadina e dell’economia europea sino alla metà del Quattrocento.
La zona di residenza era il sestiere di San Pier Scheraggio, vero centro politico di Firenze per tutto il Duecento. La chiesa che dava il nome al sestiere era, infatti, il luogo di riunione del Consiglio dei Cento e del Consiglio del capitano del Popolo e si poneva così come alternativa al Palazzo del podestà.
Nel secondo Duecento Arnoldo e il fratello Filippo si trovarono politicamente su fronti opposti. Filippo appoggiò Manfredi di Svevia e giurò nel 1280 la pace del cardinal Latino in qualità di cavaliere ghibellino, mentre Arnoldo e i suoi figli militarono costantemente nella fazione opposta e negli anni successivi adattarono un’ala del palazzo di famiglia per ospitarvi i prigionieri catturati durante la battaglia di Campaldino (11 giugno 1289). Più tardi sostennero economicamente papa Bonifacio VIII nella lotta contro i Colonna. Il dissidio tra i due fratelli si ricompose presto; Filippo cambiò schieramento e aderì alla fazione guelfa con tale convinzione da divenire il primo esponente dei Peruzzi a ricoprire la carica di priore nel 1284, due anni dopo l’istituzione della magistratura.
La vicenda di Arnoldo e Filippo non fu un’eccezione; alla fine del Duecento la riforma degli uffici repubblicani e l’affermazione del corporativismo guelfo resero gli schieramenti di partito fiorentini molto fluidi. Non furono molte, però, le famiglie che, mutando orientamento ideologico, riuscirono a mantenere influenza, visibilità e partecipazione ai vertici del potere. I Peruzzi sono una delle eccezioni, dal momento che, dopo la promulgazione degli ordinamenti di giustizia, vennero annoverati tra i Popolani nonostante i trascorsi ghibellini.
Peraltro, la loro presenza negli uffici apicali dello Stato fiorentino fu in prosieguo di tempo assidua, ma non particolarmente incisiva. Infatti, nonostante la continuità dell’impegno pubblico che rese i Peruzzi costantemente membri delle magistrature fino agli anni Trenta del Quattrocento, soltanto due volte raggiunsero il gonfalonierato di Giustizia, nel 1394 con Rinieri di Luigi e nel 1403 quando fu eletto Niccolò di Rinieri; nel Trecento tra i pochi che assunsero cariche pubbliche vi fu Luigi di Rinieri che, nel giugno 1343, fu uno dei componenti dell’ufficio dei beni dei ribelli in rappresentanza del quartiere di Santa Croce.
A parziale spiegazione di ciò, va considerato il fatto che nei decenni compresi tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo i Peruzzi si dedicarono in modo pressoché esclusivo alla tutela degli affari, all’esercizio della mercatura e all’attività feneratizia con una chiara predilezione verso i mercati stranieri, scelta che, da un lato, giustifica il loro disimpegno in politica interna e, dall’altro, spiega in parte il dissesto finanziario cui andarono incontro alla metà del Trecento.
La parabola politica della famiglia fu dunque in quei decenni speculare alle vicende dell’azienda la cui prima traccia documentata risale alla fine del Duecento quando il titolare della società era Filippo di Amideo. Gli eredi di Arnoldo di Amideo entrarono a far parte della compagnia nel 1300 e alla morte di Filippo, avvenuta in tardissima età nel 1303, fu costituita una nuova società che, nei decenni successivi, fu rimodulata altre sei volte per consentire la partecipazione delle nuove generazioni. Il gruppo societario rimase inizialmente chiuso, riservato ai membri della famiglia e ai soci storici; fino agli anni Trenta del Trecento si registrarono pochissimi nuovi ingressi con il conseguente scarso innesto di capitali freschi. Soltanto nel 1331 i Peruzzi persero il controllo della compagnia il cui capitale, a quell’altezza cronologica, apparteneva per oltre la metà ai soci esterni.
Nel frattempo, non era stata abbandonata del tutto l’altra linea guida della politica mercantile e finanziaria dei Peruzzi: la presenza nel sistema delle arti (attestata precocissimamente dall’immatricolazione di Mazzetto Peruzzi nell’arte della seta, 1225). Dall’inizio del XIV secolo i Peruzzi furono presenti fra le matricole dell’arte della lana e di Calimala. Di quest’ultima, in particolare, ricoprirono la carica consolare in modo costante per tutta la prima metà del Trecento.
Dopo il fallimento di metà secolo sul quale ci si soffermerà a breve, uno iato cronologico di circa quaranta anni testimonia l’offuscamento delle fortune della famiglia. Solo alla fine del Trecento, i rami di Bonifacio, di Rinieri e dei loro discendenti – ormai non più associabili al terremoto finanziario causato dalla crisi della compagnia – tornarono a essere presenti con continuità fra i consoli di Calimala, riuscendo a sostenere l’impegno nella corporazione e la contemporanea carriera nelle magistrature fiorentine.
Nell’esercizio della mercatura e degli affari finanziari i Peruzzi guardarono sempre più dalle piazze forestiere che dal mercato interno. Già presenti in Francia a metà Duecento, all’inizio del secolo successivo sostituirono i Franzesi come banchieri di Filippo IV il Bello, da cui ottennero l’appalto della zecca. Legati ai pontefici avignonesi e creditori dell’Ordine dei cavalieri di San Giovanni, fu naturale per i Peruzzi entrare in affari anche con gli Angioini di Napoli. Dal 1303 diventarono appaltatori della zecca partenopea a discapito dei Bardi; cinque anni dopo ottennero il monopolio dell’esportazione dei cereali e della fornitura alla corte angioina di oggetti di uso quotidiano. La familiarità con gli Angiò sollecitò re Roberto ad accettare l’ospitalità dei Peruzzi quando, nell’autunno del 1310, si recò in visita a Firenze. Il palazzo della famiglia diventò la sede temporanea della corte napoletana e le ingenti spese sostenute per l’occasione ricaddero in parte sul bilancio della compagnia.
Il giro di affari aumentò proporzionalmente alla crescita della fama acquistata dai Peruzzi a livello europeo; nei primi decenni del Trecento i loro interessi spaziavano da Cipro alla Spagna, dall’Africa settentrionale all’Inghilterra. Proprio quest’ultimo spazio economico, particolarmente favorevole ai banchieri fiorentini grazie all’appoggio accordato loro dai sovrani, fece raggiungere ai Peruzzi l’apogeo della fortuna e diventò in seguito la ragione del loro fallimento. I prestiti che vennero erogati a Edoardo III dietro la garanzia delle entrate della corona andarono a finanziare le sue campagne contro la Francia e questa scelta chiuse ai Peruzzi il mercato francese, alienò loro il favore pontificio e mise in crisi i rapporti con gli Angiò di Napoli.
All’inizio degli anni Quaranta del Trecento erano già chiari i segnali della sofferenza economica dell’azienda e, forse per tale ragione, alcuni membri della famiglia cercarono di sfruttare gli incarichi politici per stornare fondi pubblici a favore della compagnia. Fu il caso di Pacino di Tommaso Peruzzi che nel 1341 era stato eletto con altri 19 fiorentini appartenenti alle più eminenti casate (Strozzi, Acciaiuoli, Medici, Rondinelli, Aldobrandini, Valori, Albizzi, Ricci) quale componente di una magistratura straordinaria deputata a occuparsi per un anno della politica estera di Firenze, dei rapporti con le comunità soggette e delle elezioni degli agenti diplomatici. I molteplici compiti attribuiti a questo ufficio straordinario giustificarono l’imposizione di nuove prestanze per assicurarne l’operatività, ma il flusso di danaro derivante dal carico fiscale non fu utilizzato tanto per ragioni ufficiali, quanto per incrementare i patrimoni dei membri della magistratura.
È quanto emerse dall’indagine condotta nel 1343 da Gualtieri di Brienne con la collaborazione del notaio delle Appellagioni Simone de Nursia. Sebbene l’andamento tumultuoso del governo del duca di Atene susciti qualche perplessità sulla correttezza dell’istruttoria e sulla condanna comminata ai venti accusati di restituire le somme sottratte, l’appropriazione indebita messa in atto da Pacino Peruzzi potrebbe essere posta in relazione con le difficoltà finanziarie della compagnia di famiglia.
Poco tempo dopo la conclusione delle indagini, infatti, la mancata restituzione dei crediti da parte del re d’Inghilterra e l’ormai obsoleto sistema economico gestionale della compagnia portò nel 1343 l’azienda al fallimento insieme con quella dei Bardi e degli Acciaiuoli. La crisi delle maggiori compagnie fiorentine rappresentò la rovina soprattutto per i piccoli investitori, il più illustre dei quali fu il cronista Giovanni Villani.
La liquidazione del fallimento richiese un paio di anni durante i quali furono vendute diverse proprietà immobiliari dei Peruzzi che, però, riuscirono a far accettare ai liquidatori l’emissione di buoni che avrebbero coperto l’80% dei debiti e sarebbero stati rimborsati non appena i re d’Inghilterra e di Napoli avessero onorato i loro obblighi. Dal momento che nessuno dei due sovrani coprì gli ammanchi, la maggioranza dei creditori dei Peruzzi perse il proprio danaro. È questa spregiudicatezza finanziaria a spiegare l’ancora ingente patrimonio immobiliare che si riscontra a disposizione delle nuove generazioni della famiglia nel Quattrocento. Il rilevamento catastale del 1427 riporta abitazioni in Firenze, beni fondiari nel contado e un palazzo a Pisa per il ramo di Varano Peruzzi. I fratelli Berto e Ridolfo di Bonifacio, immatricolati all’arte di Calimala, erano soci di una nuova compagnia che operava nel commercio delle stoffe.
All’inizio del Quattrocento, durante l’egemonia albizzesca, nuovamente si intensificò la presenza dei Peruzzi nell’esercizio delle cariche interne e territoriali di Firenze. A distinguersi fu la generazione ormai cronologicamente lontana dal fallimento della compagnia di famiglia di metà Trecento e, in particolare, i rami di Rinieri, di Bonifacio e di Verano. L’orientamento prevalentemente magnatizio che aveva spesso contraddistinto l’azione politica dei Peruzzi li rese naturali alleati degli Albizzi al punto di appoggiare Rinaldo e i suoi decreti antimedicei nel 1433 e da opporsi con lui alla Signoria che, nell’autunno del 1434, aveva deliberato il ritorno in Firenze di Cosimo de’ Medici. La vittoria di quest’ultimo significò il bando di esilio e l’interdizione dai pubblici uffici per quasi tutti i Peruzzi. L’inizio dell’egemonia dei Medici e la condanna all’esilio esclusero i Peruzzi da qualsiasi ulteriore coinvolgimento nella storia di Firenze. Nel 1458 la condanna venne confermata per altri 25 anni.
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