perversioni
In psicoanalisi, messa in atto di impulsi sessuali ai quali corrisponde sia una specifica vicissitudine della pulsione, sia un’altrettanto specifica – seppure non esclusiva – struttura psichica difensiva. Questa accezione, utilizzata in psicoanalisi sin dalle origini, si differenzia da quella usata dalla psichiatria tradizionale, e conforme all’uso corrente, che fa riferimento a comportamenti sessuali aberranti. Nel catalogo delle varie manifestazioni cliniche viene rappresentato sempre lo stesso repertorio di comportamenti perversi: esibizionismo, voyeurismo, feticismo, pedofilia, sadomasochismo, ecc. Però, dietro il ventaglio variegato di orrori e miserie della sessualità umana, esiste una configurazione psicopatologica di base comune: frammenti di sessualità pregenitale immatura, pulsioni parziali non evolute e non represse che per regressione e fissazione prendono la leadership dell’organizzazione sessuale adulta. Sigmund Freud mutò lo statuto scientifico e culturale della p., che da ‘tara’, ‘crimine’, ‘peccato’ dell’epoca prepsicoanalitica, fu ricondotta nell’alveo dell’infanzia e della quotidianità, quale esito patologico del complesso di Edipo (➔). Ne conseguirono i noti assiomi (contenuti nei Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905): del bambino come «piccolo perverso polimorfo»; della p. come il ‘negativo’ della nevrosi (➔), in quanto non sono in opera né la rimozione né il conflitto; dell’assenza di p., o quasi, nel sesso femminile.p
Secondo la psicoanalisi, tutte le p. hanno alla base una specifica – seppure non esclusiva – struttura psichica difensiva: il diniego (➔) e la scissione (➔). Il diniego consiste nel rifiuto inconscio, in epoca infantile, di ammettere una percezione traumatizzante, in partic. l’assenza del pene nella donna che scatenerebbe l’angoscia di castrazione. Così, per es., la scarpa femminile, fonte di eccitazione, rappresenta inconsciamente per il feticista il pene materno. Come osservano Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis, Freud talora sembra intendere il diniego non tanto come un rifiuto della percezione, quanto del significato del fatto percettivo (per es., esistono esseri con il pene e altri senza, «ma non è importante »). Al diniego del fatto percettivo stesso consegue la tipica scissione diseguale dell’Io in una parte perversa, psicotica, che disconosce la realtà, e in un’altra relativamente ben funzionante, in contatto con il mondo esterno; motivo per cui i pazienti perversi riescono a funzionare relativamente bene nella vita di relazione e possono celare agli altri e a sé stessi la loro grave patologia.
Si è oggi consapevoli che ciò che muove il paziente perverso non è tanto la sessualità, quanto l’aggressività: la rabbia per l’inesorabile fallimento delle esperienze di soddisfacimento, che lo condanna alla ripetizione coatta. È in ragione di ciò che la pericolosità sociale di tali patologie è altissima e la recidiva pressoché obbligata. Nel vasto capitolo delle p. esistono grandi diversità sul piano fenomenico, dal banale voyeurismo al delitto; ma il criterio della pericolosità sociale non coincide con quello della gravità della patologia. L’ampliamento di orizzonte costituito dall’analisi dei livelli precoci dello sviluppo consente di comprendere che talora – sotto l’apparenza di comportamenti adulti – si celano bisogni molto più primitivi di fusionalità (➔ fusione) e di contatto, al servizio dei quali può andare la sessualità, compresa quella perversa. Dal punto di vista clinico, ciò che il perverso fa è meno significativo di ciò che non può fare: il suo comportamento sessuale è dominato dalla ripetitività, dalla coazione a ripetere (➔), dalla mancanza di consapevolezza della propria patologia. La psicoanalisi inoltre, a fronte del mero aspetto comportamentale sessuale, sottolinea l’importanza delle fantasie che l’accompagnano.
Attualmente, il concetto di p. si va allontanando dalle vicissitudini della sessualità per acquisire diverse accezioni, in una progressiva estensione e diluizione di significati. Alcuni autori (Wilfred Bion, Masud Khan) denominano come perverso un particolare funzionamento mentale distorto, segnato dal disconoscimento dell’altro, indipendentemente dalle scelte sessuali. Altri autori parlano di transfert perverso (➔ transfert), derivato da una modalità affettivamente distorta nel rapporto col terapeuta. Altri parlano di p. come di una caratteropatia o come di un’organizzazione di tipo borderline (➔). Altri ancora (Adam Limentani) pensano che le p. siano ormai solo sintomi, per lo più abbastanza generici e senza alcuna struttura specifica; ma a suo avviso, non è il concetto psicoanalitico di p. che è mutato, ma il panorama clinico. Il denominatore comune – generico, certo, ma comunque importante – delle varie patologie è costituito dall’autoreferenzialità e dal non riconoscimento dell’altro come soggetto di diritti e di bisogni. D’altronde, anche nelle forme più banali e marginali della sessualità ‘trasgressiva’ – per es., nella frequentazione occasionale di prostitute e prostituti – non si tratta di concedersi una libertà, ma dell’agire coatto di forme parziali e riduttive dell’erotismo, che eludono la pienezza dell’incontro con sé e con l’altro.
Nel passato si credeva che solo gli uomini, in ragione della loro biologia e del relativo sviluppo psicosessuale dominato dall’angoscia di castrazione, fossero esposti al rischio della soluzione perversa. Le donne, considerate prive di istinti, ‘già castrate’, erano esonerate anche dalle relative patologie (fatta eccezione per il masochismo). Oggi si pensa piuttosto che le p. femminili ci siano sempre state, ma non abbiamo voluto vederle. Secondo l’esperienza della psicoterapeuta forense londinese Estela Welldon, molte donne raccontano di avere cercato ascolto, ma che gli interlocutori – psicologi, assistenti sociali o giudiziari – le hanno sbrigativamente messe a tacere o superficialmente rassicurate. Il problema del mancato ascolto si verifica specialmente in ordine a impulsi sadici o incestuosi sui figli, sia perché l’angoscia è più forte rispetto alla figura femminile materna, sia perché le forme morbide della tenerezza e dell’intimità fisica erotizzata delle donne sono considerate – a torto – innocue e normali. Le positive trasformazioni socioculturali che nelle ultime generazioni hanno consentito alle donne uno sviluppo psicosessuale meno inibito nella normalità, si riversano inevitabilmente anche nella patologia, producendo quadri clinici inediti.
La questione più rilevante dal punto di vista clinico è se rimane valida la severa affermazione degli psicoanalisti dell’epoca classica, circa l’intrattabilità dei pazienti perversi. Oggi si tende a lasciare a margine i vari dati fenomenici delle p., valutando la serietà del caso clinico essenzialmente in ordine alla qualità della relazione oggettuale, relazione sessuale inclusa. In questa linea di pensiero, la diagnosi di p. – vera o sintomatica – diviene meno significativa, rispetto alla necessità di analizzare come e quanto il paziente abbia sostituito alla mutua libertà del rapporto sessuale – nell’interezza di emozioni, sensi, affetti, passioni – una modalità di coercizione dell’altro, mentale prima che fisica, fino a gradi estremi di umiliazione e violenza. Quindi i criteri di analizzabilità e curabilità – certamente opinabili e molto variabili da caso a caso – sono gli stessi che si riscontrano in tanti altri casi di patologie gravi.