Pesca e caccia in laguna
È innegabile che nel periodo qui considerato l'alimentazione dei centri lagunari sia ancora largamente debitrice alle risorse spontanee offerte dalla caccia e dalla pesca, anche se sono ormai passati i tempi nei quali gli abitanti della Venezia marittima, nella loro generalità e indipendentemente dalle condizioni sociali, non vivevano d'altro e Cassiodoro poteva loro attribuire una monofagia ittica (1). Nel confermare che una cerchia amplissima di persone ne ricavava i mezzi di sussistenza, l'Origo civitatum Italiae (2) non lascia dubbi che gli obiettivi principali di queste forme d'approvvigionamento fossero pur sempre i pesci, e con essi i volatili palustri.
Piscare et aucellare: in questa formula le fonti diplomatiche condensano l'esercizio dei diritti sulle acque e su paludi, pantani, tombe, barene, ghebi. Mentre la caccia alla selvaggina dei boschi, pure di qualche rilievo, occupa in tali fonti un posto più marginale, in area lagunare pesca e uccellagione appaiono come due aspetti distinti ma complementari di una medesima attività, svolta nel medesimo sito. Sono raramente separate l'una dall'altra, donde la pratica di "ire et redire [...> tam pro carne quam pro pisce" (3) per carne intendendosi gli uccelli acquatici. Il binomio pisces e volucres della Genesi, due categorie di animali strettamente legate tra loro, perché create lo stesso giorno e dallo stesso elemento, purissimo e generatore di vita, l'acqua, può trovare la sua espressione più limpida proprio nell'ambiente della laguna.
Alla cattura degli uccelli erano interessati i numerosi conventi benedettini, in osservanza della loro regola che imponeva di non mangiare altra carne che quella di volatili o pesce, ma mentre l'uccellagione sarà destinata a perdere molto della sua importanza vitale, fu l'assurgere del pesce ad infungibile cibo quaresimale per tutto il mondo cristiano, ecclesiastico e laico, ad impedire che con il progressivo schiudersi di una più vasta gamma di fonti di sostentamento la dipendenza dalle risorse ittiche venisse meno. Il loro sfruttamento, anzi, non si esaurì nell'autoconsumo locale ma si poté intensificare per l'esportazione del prodotto salato verso il retroterra trevigiano e friulano. Al pasto di pesce come soluzione alimentare senza alternative si sostituisce insomma quello imposto dall'osservanza dei giorni di magro.
Testimonianza fedele di questa più complessa realtà sono obblighi come quello assunto da due conduttori torcellani di un'aqua seu palus tra Costanziaco e Ammiana, di fornire a casa del locatore per dieci anni a S. Michele cinquanta buratellos e ogni giorno di quaresima pesci del valore di quattro denari, ogni venerdì per almeno sei (4). E similmente l'impegno a dare ogni venerdì tre passere al pievano di S. Lorenzo di Ammiana lega tutti coloro che godono del permesso di pesca nelle acque della pieve (5). Nella parte meridionale del ducato sono i monaci di S. Giorgio di Fossone a ricevere dieci pisces capitaneos, "per totam Quadragesimam maiorem" (6).
Sono testimonianze tarde ma è lecito farvi riferimento, in difetto di fonti coeve, perché nei rapporti tra gli uomini e nelle tecniche, così come nelle condizioni ambientali, piscatio e aucellatio restano a lungo immutate, con poche modificazioni e obbedendo a ritmi e a pratiche che per la loro ovvietà passano spesso sotto silenzio.
Se della pesca nei siti marini non sappiamo molto, dipende in primo luogo dalle ben note caratteristiche della documentazione dell'epoca, che concentra la sua attenzione sui beni privati (7), i quali infatti non si spingono fin dentro nel mare aperto ma arrivano al massimo usque in pelagum, trovando i propri limiti naturali nelle unde maris. Le zone pubbliche, praticamente aperte a tutti, come appunto il mare, non danno occasione a disposizioni, rivendicazioni o controversie, né da parte di enti ecclesiastici né di privati. Anche le sentenze del Piovego hanno per oggetto piuttosto i publica comunis all'interno della laguna che non i beni al di là dei lidi, verso il mare, i quali restano come estranei al suo campo visivo.
Questa pesca marittima ha certamente la sua importanza, ma l'area in cui si esercitava era preservata da quell'intrecciarsi di interessi contrastanti tipico della zona lagunare e presumibilmente richiedeva imbarcazioni e attrezzature del tutto particolari. Poco documentata è anche la pesca lungo le coste e le spiagge, ma anch'essa largamente praticata, come si può rilevare dalle specie ittiche con dimora esclusivamente marina, scorfani, squadri, razze, delfini, tanto comuni nel consumo veneziano da venir ricordate nel calmiere del 1173 e nel capitolare dei pescatori del 1303 (8).
Anche l' Origo, nella descrizione del litorale tra Grado ed Equilo, aveva sottolineato l'abbondanza di pesci lungo il littus Biacianum e il suo sfruttamento da parte dei "piscatores Bibionensium" in quanto "hic illorum recia ponabantur" (9). Qui, comunque, si tratta di un paesaggio costiero caratterizzato da una sequenza di lagune e di stagni salmastri, che offriva un habitat non molto dissimile da quello della laguna veneta, in particolare nei luoghi segnati da catene di lidi paragonabili a quel lungo cordone litoraneo che la separava dal mare aperto, permettendone il collegamento diretto soltanto attraverso le poche imboccature (portus).
Ma sono proprio questi porti le zone più pescose, come conferma una serie di documenti riguardanti un'aqua adiacente a quello, nuovo, di Malamocco (10). Ciò in quanto è attraverso tali strettoie, abbastanza agevolmente controllabili, che passano numerose specie ittiche marine per la stagionale montata in laguna e, in senso inverso, per la "smontata" nel mare aperto. Grazie ai loro cicli vitali, legati ad esigenze fisiologiche, climatiche, di sicurezza, alimentari e di propagazione, il pesce poteva essere intercettato quando entrava in laguna, sia adulto sia allo stato di novellame, e quando - raggiunta la maturità, dopo uno stanziamento di mesi se non di anni, secondo la specie - ridiscendeva al mare per la deposizione delle uova (11). A ridiscendere era, naturalmente, quella parte che non era stata catturata in laguna, che era considerevole.
Molto più della pesca marittima, al centro dell'interesse della popolazione era quella lagunare, condotta tanto in forma vagantiva in acque aperte quanto nelle cosiddette valli da pesca, da intendersi nel senso di spazi d'acque circondati da steccati. È un termine comunque che non ricorre nell'epoca che qui interessa, se non si vogliono interpretare come tali i "canales et paludes de valle Ursina" testimoniati per il 997 da alcune sentenze del Piovego (12). I documenti appartenenti alla regione meridionale della laguna, al Cavarzerano, le designano col nome di nassarium (13), che rende con efficacia l'idea di chiusura, ma in ambito più vasto è usato quello di piscaria oppure ci si vale della denominazione estremamente generica ed ambigua di aqua, se addirittura non si preferisce porre l'accento sulla particolare conformazione dell'ambiente, ritenuta evidentemente più importante, ricorrendo a determinazioni quali palus, lacus, traglum et pantanum. Si tratta in questi casi di spazi riservati in godimento di privati e di enti ecclesiastici. Una delle prime testimonianze per l'uso del termine specifico ci viene appena dal Bertaldo, quando in una delle sue esemplificazioni sulla "divisio rerum immobilium" sceglie una ipotetica "vallis piscaria et aucellatoria cum sua casella sive metame in Pupillia posita" (14).
In laguna, come si sa, parlando di valli ancora oggi si intendono dei bacini morfologicamente complessi, poco profondi e forniti di canali ben scavati e alimentati dai flussi delle maree, sì da costituire per il pesce un'idonea dimora, indipendente da alterazioni meteorologiche e dalla salsedine. Sono bacini nei quali il novellame monta spontaneamente, ma per farne convergere il flusso si costruiscono anche recinzioni con arelle o reti fissate con pali ai fondali, i cosiddetti lavorieri. Quando i pesciatelli sono entrati, il bacino si chiude con grisiole, gli steccati di canne palustri poste verticalmente e in stretta connessione, così da impedire la loro uscita dalla valle ma non il flusso delle maree (15). Alla lavorazione delle grisiole accenna probabilmente l'Origo menzionando i "Cogodones Caprenses" che non sapevano "nulla laboracione alia facere, sed omnique omnino storiis erant laboratores et piscatoribus" (16).
Il complesso vallivo comprendeva canneti, indispensabili per la costruzione delle grisiole, e - come informa Bertaldo - anche delle capanne quale riparo per gli attrezzi da pesca e uccellagione e rifugio per gli uomini addetti. Le valli da pesca sono dunque spaziosi serbatoi o vivai, nei quali si tengono e si fanno maturare i pesci per attingervi a suo tempo a piene mani.
E probabile che nell'epoca che consideriamo il novellame venisse introdotto nelle valli, oltre che per naturale e spontanea montata, anche per semina, vale a dire catturandolo e immettendovelo artificialmente. Dobbiamo però accontentarci di congetture, perché notizie eloquenti come quelle offerte dall'attività legislativa in materia di pesca, regolativa e generalmente restrittiva, si hanno solo in periodo più tardo. Pensiamo ad esempio al divieto del maggio 1314 di catturare o vendere "pisces vaninos" - cioè novellame, in particolare cefali, dorate, barboncelli, passere, ghiozzi, tutti idonei alla vallicoltura - "cum trattis nec cum grisiolis nec aliquo modo" fino a S. Pietro, alla fine di giugno (17), finché, in altri termini, non avessero raggiunto una grandezza ragionevole. Comunque, quello della semina è un metodo che parrebbe superfluo qualora le valli vengano tenute aperte per la montata. Esso si diffonde con le valli chiuse ed è tuttora condannato per le forti perdite che comporta, dovute all'alta mortalità dei pesciolini (18).
Né sono sempre chiare le circostanze e i ritmi della chiusura delle piscariae, perché i documenti non vi fanno riferimento che occasionalmente e in modo piuttosto sommario, ad esempio nel 1058, quando un testimone afferma che, con altri, "claudebamus et piscabamus et aucellabamus, nemine contradicente", nei rivi di Bambadura e Domincello fino nel canale e fino alla cona Patriarchae (19). Così nel 11 96, parlando di coloro che "claudebant aquam [...> cum grisolis" e che "faciebant clusas" nell'aqua et palus tra S. Lorenzo di Ammiana e Costanziaco, cioè tra la tumba Ambrosii e la comenzaria publica (20). Ed è rimasto a lungo impresso nella memoria di vari testimoni che ai tempi del pievano Pietro Dondi, di S. Lorenzo di Ammiana, un certo Giovanni Naceni aveva osato "facere canoladam sine licentia" nell'acqua che si estende dalla bocca del canale di Capa fino ai Caleum Maiorem et Minorem, cosicché il pievano "tullit sibi grisolas suas" (21). Sono molti i documenti che ci pervengono dalla zona di Ammiana, forse privilegiata dalle vicende della loro conservazione.
Secondo una "regola antichissima", il periodo della chiusura sarebbe durato dal giorno di S. Marco a quello di S. Giovanni, in febbraio (22). Era adesso, infatti, che dopo i grandi freddi s'iniziava la montata in laguna, ma anche se la definizione dei due termini ha molto della pratica consuetudinaria, che essi cadessero con tanta precisione in determinati giorni suggerirebbe che alla sua radice fosse una misura imposta dall'alto e in epoca posteriore a quella in esame, nella quale infatti non si fissano dei termini, molto rare essendo le concessioni che stabiliscono l'inizio del diritto di pesca "ab istis primis venturis chalendis martii" (23) o che lo fanno decorrere "usque ad Nativitatem Domini" (24) o persino "usque in tempus ad mensem marcii qui advenire debet" (25), dunque anche d'inverno, presumibilmente in relazione a caratteristiche particolari delle singole peschiere.
In sintonia con altri cicli naturali, noti da sempre, erano regolati anche i canoni da versare in pesce di valle. Essi ricorrono di norma a S. Michele o comunque in settembre, e tale data, oltre che alla stagione del sale, occorrente alla conservazione di grandi quantità di pesce di valle, è chiaramente legata al raccolto del lotregano (mugil auratus), pesce tipico dei canoni, come qualità più apprezzata tra tutto il pesce bianco. Allora infatti raggiunge la massima maturazione stagionale e, con l'arrivo dei primi freddi, tende a smontare per svernare in mare.
La pesca della meno delicata verzelata (mugil saliens), invece, presente anch'essa nei canoni ma in quantità minore o quale alternativa in mancanza della specie più pregiata, si distribuisce su un maggior numero di mesi, come del resto quella della anguilla, altro protagonista della vallicoltura (26). I canoni in anguille ricorrono spesso nel periodo quaresimale, come ad esempio nel 1141 e nel 1162, a favore del monastero di S. Zaccaria, che per la concessione di un lacus maior presso Poveglia chiede tra l'altro "in cena Domini triginta bonas anguilas" (27). I due documenti sono particolarmente preziosi perché ci indicano che, oltre alle anguille, per la stessa peschiera si dovevano versare pure lotregani, il che attesta che nelle valli non c'erano delle monocolture di pesce, come potrebbe apparire dai canoni di sole anguille, più diffusi nella parte meridionale della laguna, o di soli cefali. Una conferma ci viene da un palus et aqua di S. Lorenzo di Ammiana, dato "ad fictum", dove insieme coi cefali del canone vengono prese almeno passere ed anguille (28).
La pesca valliva non è un'attività dei mesi freddi. Questa è la stagione dell'uccellagione, che le si alterna come se ne fosse un complemento. Ecco un atto del 1196 dal quale apprendiamo che una determinata aqua di S. Lorenzo di Ammiana viene concessa d'estate "ad piscandum", d'inverno per l'uccellagione (29), nel tempo cioè in cui vi stanziano in gran numero gli uccelli migratori, in particolare varie specie di anatidi. Nei mesi di grande freddo cadono i canoni in uccelli, non i canoni ittici: come già imputati ai loro padri almeno sessant'anni prima, così nel 1160 vengono "pro fato in estate constitutos pisces, et in iberno constitutas aucellas" a carico di tre conduttori di mezzo lago, mezza fossa e di un terzo di palude nel Muranese, appartenenti a S. Giorgio Maggiore (30). Tutto l'arco invernale è segnato dai canoni in volatili, che hanno la loro scadenza nelle feste di Ognissanti, di S. Martino, di S. Andrea, di Natale o dell'Epifania, talvolta però all'Annunciazione e fino a S. Giorgio, in aprile (31), lungo il periodo di pesca primaverile destinata al consumo quaresimale. È allora, infatti, il giovedì santo, che al doge viene portato il tributo del mare, che include lo squisito omaggio dei grandi rombi, dei quali "il en fait doner .XII. [...> as nobles consiliers, que sunt .VI., et l'autre done il a religious" (32).
Si richiamano ad una inveterata consuetudine anche le prime deliberazioni dell'inizio del Trecento sulla chiusura con "grisolle in publico comunis". Con attenzione al calendario ecclesiastico, esse stabilivano periodi molto più brevi di quelli in vigore per le valli private, con termini che variavano da otto giorni prima della Quaresima ad otto giorni dopo Pasqua, ispirandosi dunque a cicli diversi da quelli dei lotregani. L'apertura della laguna nei publica comunis era lo stato normale, mentre la sua chiusura veniva considerata una misura d'eccezione, per gli ostacoli che poneva alla navigazione, cosicché si richiedeva l'impegno a non chiudere "cum ipsis grisolis vel artibus viam taliter, quod exinde cum barchis et navibus transire non possit" (1239) (33).
Col tempo si farà sempre più viva la preoccupazione per l'incolumità della stessa Venezia, "cum ponantur grisolle in publico comunis de quo paludes et canalia portus deterrantur non sine damno civitatis" (1314) (34), perché in tal modo veniva ostacolato il naturale flusso delle maree. Questo, però, non vieterà che nella memoria collettiva si mantenga viva per secoli la convinzione "che le valli sono nate con questa Città, et hanno durato con la medesima" (35). Nate addirittura prima della città, secondo Cassiodoro.
Con le valli un'attività altamente aleatoria come la pesca, soggetta ad eventi naturali incontrollabili, viene convertita in un'operazione largamente governata dall'intervento umano, e una risorsa spontanea come il pesce si trasforma in un prodotto d'allevamento, per quanto possano sussistere dei limiti, soprattutto nella fase iniziale della propagazione. Ma che fosse possibile una certa previsione del risultato lo provano le quantità, anche ingenti, e le qualità ben determinate dei pesci da fornire sotto vari titoli ad una data precisa. L'adempimento di tali obbligazioni non viene mai messo in dubbio, come può invece accadere con i prodotti dell'uccellagione e della caccia.
Non c'è lembo d'acqua o di palude che non venga sfruttato per la pesca o che venga ritenuto sterile a questa finalità. Così, i pesci diventano un sottoprodotto persino delle saline e dei bacini costruiti perché il flusso della marea metta in moto i molini. Ogni concessione di molini o di saline include di per sé anche il diritto di pesca. Ecco, nel 1133, che acquistando dagli abitanti di Loreo "una posta de molendino in uno [...> canale de Anguillaria", la chiesa della SS. Trinità di Brondolo si può espressamente valere pure dell'acqua per l'esercizio della pesca (36). E la concessione del vescovo di Olivolo del 1105, di trasformare un "lacus mollendinorum" in un fondamento per saline, prevede che i concessionari vi peschino nei periodi in cui tengono "suprascriptum fundamentum clausum" (37). E diritti di pesca si possono persino costituire su terreni coltivati a vigna. Se ciò non sorprende in casi in cui il fondo sia non solo adiacente al mare ma anche percorso da "rivis et cum iaglacione et transiaglacione", come quello che tiene Flabiano de Luprino al Lido Albo (1084) (38), quanto sia intima la simbiosi tra agricoltura e pesca lo rivelano livelli di vigneti e di orti che non prevedono fitti in prodotti agricoli o in denaro ma, per esempio a Cavarzere (1136/37), "viginti pisces capitaneos" (39).
Come nella pesca in laguna e nelle zone costiere con le stesse caratteristiche, la chiusura delle acque è una condizione fondamentale per quella negli estuari e nei corsi più interni dei fiumi e dei canali. La concessione del diritto di pesca da parte del monastero dei Santi Ilario e Benedetto per "totum flumen qui vocatur Pulpaticus [...> usque in aquam salsam" prevede che il conduttore la eserciti "cum cogolidis et gradellis" (40), e una delle clausole sulle quali poggia il patto con Cittanova del 1109 è quella di "omnes paludes et ripas concludere cum grisolas" in una ben definita estensione del territorio e di collocarvi le "retia ad maseratam" (41).
Grisiole e cogolari figurano talvolta in cessioni e conferme di pesche in acque dolci, quasi fossero pertinenze inseparabili dal fondo, come in un privilegio di Berengario I per la tutela dei diritti su "paludes vel piscariis aut cuculariis " nel fiume Buriana (42) o in una ducale del 1168 concernente "unam cogolariam [...> positam in flumine qui vocatur Ceneza et Sile" (43). Similmente, nel 1182, alcuni testimoni di Ammiana dichiarano che "cogolarie et fluminis (sic) Çenere fuit de iure et pertinencie ecclesie Sancti Laurencii de Amiana" (44). Sarà Bertaldo ad ammonire che "artes vero auxellatorie et piscatorie non sunt immobilia" come le terre e le acque sulle quali sono installate, "quia non sunt consubstanciales terre sive aque", dato che possono essere rimosse senza alcuna alterazione del fondo (45).
Numerose ma generiche sono le elencazioni di diritti di pesca in acque dolci congiunti a diritti di caccia concessi al ducato e alle istituzioni ecclesiastiche veneziane come pertinenze di fondi nel retroterra, con estensione fin dentro i comitatus padovano e trevigiano. Tenuto conto che a trovarsi nel dominio del ducato sono i bassi corsi dei fiumi, come ad esempio l'aqua S. Cervasii "que est in bucca fluminis S. Ilarii" (46), le differenze tra pesca lagunare e pesca fluviale non sono nette ma graduali, come gradualmente la fauna marina va a confondersi con quella d'acqua dolce. Esempio tipico l'anguilla, presente in tutti e due gli ambienti. Neppure i pescatori fanno distinzione tra pesci d'acqua dolce e marini. Infatti, ancora nella seconda metà del Duecento, quando i processi di specializzazione appaiono ovunque in fase avanzata, davanti al doge neoeletto sfileranno insieme tutti coloro "que vendent les osiaus de riviere et li poisson de mer et de fluns" (47), senza alcuna discriminazione.
Una certa varietà si riscontra negli attrezzi da pesca, dipendenti dalle specie ittiche, dall'ambiente e dalle particolarità etologiche del pesce. Le fonti parlano genericamente dell'impiego di reti, tanto con riguardo alla pesca lungo le coste e in laguna quanto nei corsi d'acqua dolce. A quali tipi di rete si riferiscano precisamente si deduce però solo alla luce di notizie più tarde, perché per tutto il periodo ducale le varie concessioni di pesca non sembrano implicare l'uso di attrezzi determinati. Infatti non si pongono obblighi o delimitazioni alle modalità d'esercizio, ma una specializzazione parrebbe ovvia. Così, quando col crescente controllo esercitato col progressivo affermarsi delle istituzioni comunali si accennerà a tali aspetti, si potrà rinviare a pratiche consuetudinarie, come nel 1182: "ad eam (sc. aquam) piscandum et fruendum et utilitates faciendum secundum consuetudinem piscationis et aucellationis"; o si sottolineerà che al conduttore è lasciata mano libera di pescare "cum quibus artibus voluerit", "secundum quod bonum videbitur", e quindi per il periodo della concessione egli acquista anche sotto questo riguardo i diritti di pesca "potestative" e "nullo homine contradicente" (48).
In una testimonianza del 1151 su un'aqua nella diocesi Castellana, appartenente a Giovanni Moletario del confinio di S. Giovanni Decollato, il deponente afferma che, siccome in passato era stato suo padre ad avere tale acqua in concessione, nessun altro osava pescarvi, "nec cum retes nec cum fosfina" (49). Dobbiamo davvero ritenere che l'armamentario del pescatore si esaurisse in rete e fiocina?
Altre formule ricorrenti che parrebbero esprimere un incondizionato sfruttamento delle risorse ittiche sono quelle dell'esercizio dell'attività di giorno e di notte (50), oppure con alta e con bassa marea, "per plenam et sicca" (51), anche se quest'ultima clausola potrebbe voler indicare un metodo specifico, del resto molto efficace, di pesca, quello con la serraglia: quando l'acqua è alta, un tratto di palude viene chiuso con reti poste a siepe e tutt'intorno si collocano dei cogoleti nei quali, quando l'acqua cala, il pesce è costretto ad entrare, per restarvi serrato (52).
"Ad piscandum cum grisolis et senedilis et tractoribus et fusinis", determina la concessione di un traglum et pantanum tra Ammiana e Costanziaco nel 1193 (53), che forse racchiude l'insieme dei tipi correnti di attrezzi usati. È dalla seconda metà del secolo XII che si fanno sempre più frequenti precisazioni sulle artes maneggiate dai pescatori. Talvolta viene anche specificato in quale valle si doveva pescare con un certo attrezzo. Così, nel 1174, per due aque di S. Lorenzo di Ammiana: "hanc autem suprascriptam aquam piscare debeo a grisolis, aliam vero piscare debeo a tractorio de govis" (54). Ciò che emerge dalla documentazione è il largo e universale uso di graticci e di grisiole di vimini e di canne, che con giunture fitte erano idonei perfino alla pesca del novellame.
Ora gli strumenti indifferenziati sotto il nome generico di retia cominciano a specializzarsi per determinati pesci, come i "tractatorii" o "tractoria de govis" per i ghiozzi, i "tratorii de pasaris" per le passere. Questi passerarii erano delle specie di cogolarie usate prevalentemente come reti da posta. I pescatori, a piedi, li collocavano nelle paludi (55), o anche li manovravano in due, dall'alto della barca, come apprendiamo da una concessione dell'aqua Sucaleo fatta nel 1246 ad un Damiano Cavalero di S. Nicolò dalle monache di S. Lorenzo di Ammiana (56). Incontriamo "trozas" o "troias ", come reti di uso corrente, che vediamo adoperate la cattura delle passere (57). Le gettano anche gli abitanti di Ammiana nella loro aqua et palus, mentre chi ha la concessione "piscandi cum tribus barchis" in un'aqua del monastero dell'isola deve servirsi di "fosinis et triçolis" (1246) (58). Le triziole, usate anche in acqua dolce e con particolare profitto per le anguille, sono fatte di un lungo spago che tiene sospesa mediante fili una molteplicità di ami (59). Dell'impiego dell'amo semplice si ha occasionale notizia in un documento del 1196, che mostra dei ragazzi di Ammiana che pescano "in nocte cum canna per aquam" (60).
Sono comuni anche i "senedili", reti per cefali del tipo della sciabica, distese "in die et in nocte" e, come sembrerebbe, in particolare ad opera dei concessionari di valli. Quando nel 1131 e nel 1142 il vescovo di Equilo affitta la valle Tragulus a Pietro e poi a Leonardo Signolo di Dorsoduro, promette loro di difendergliela "ab omnibus piscatoribus huius terre nostre, quatenus nemo eorum predictam aquam piscare audeat cum senedogolis" (61). Infatti, proprio l'impiego o meno di senedili insieme alle grisiole parrebbe uno dei criteri discriminatori tra la grande pesca, che soprattutto nella laguna settentrionale includeva anche la salagione e l'esportazione del prodotto, e quella destinata all'autoconsumo o al mercato interno. La grande pesca era tanto ricca da essere in grado di pagare canoni annui dai mille ai tremila cefali o, come nel 1131 per la valle del Tragolo, quattromila e più cefali "ad salandum" (62) o addirittura - come nel 1164 - "miliaria .X. de pissibus litreganis" per tutte le aque de Sango (63).
Nelle zone di pesca del vescovado di Equilo si fanno delle distinzioni tra i canoni dovuti "de litriganes tales quales sunt usu nostre patrie sinderere" e quelli in "pisces ad insalandum", più di rado in già "salatos cephalos". Questi ultimi implicano uno stretto legame da parte del concessionario della peschiera con l'industria delle saline. Nel 1139, per la concessione della palude Tre Cavi, ammontano a seicento capi annui, relativamente pochi, certo perché si tiene conto del contributo in sale (64).
I ricorrenti accenni alla pesca notturna fanno riferimento soprattutto ai luminatores, che si valgono di luci artificiali sulle barche e gettano reti da fermo, ma possono servirsi anche della fiocina, adoperata innanzi tutto per catturare anguille e passere, con o senza barche.
Anche le notizie che abbiamo su determinati tipi di barca sono, come aveva già rilevato Cecchetti, soltanto di data alquanto posteriore (65). Nella documentazione più vicina alla nostra epoca le barche compaiono solo accidentalmente e in modo molto vago, a parte le sedici scaule con le quali, nel 1185, pescano gli uomini del Lido Maggiore nel Tragulus di Equilo (66). Per i proprietari delle aque un'importanza maggiore dei tipi di barca dovevano infatti averla gli attrezzi, perché, come si sa bene, sono soprattutto questi che caratterizzano i tipi di pesca. In una testimonianza del 1196 ad alcuni luminatores di Dorsoduro vengono sequestrati "caminos cum conducta sua et naves". Altrettanto generico il riferimento all'imbarcazione nella parte che riguarda i censi dovuti alla chiesa di Ammiana per il godimento di tale sua aqua et palus: "pro unaquaque navi [...> passerem unam per septimanam" (67).
La fauna acquatica della nostra documentazione, che necessariamente si limita ai pesci consumati, si compendia in un numero piuttosto limitato di specie ittiche, con una mancanza assoluta di crostacei, molluschi e conchiglie, se si prescinde dai gamberi dovuti al doge e dalle celebrate chiocciole marine, cotte, con le quali nell'immaginario racconto dell'assedio della laguna da parte di Carlo Magno, i Veneti avrebbero bombardato gli assalitori (68).
Simile delimitazione si spiega in gran parte con la relativa ristrettezza delle specie idonee all'allevamento nelle valli (69), che escludendo gli ittiofagi, in prima linea il pregiato ma voracissimo e perciò assolutamente sconsigliabile branzino (labrax lupus), si riassumono nelle anguille e nel pesce bianco, cioè nelle varie specie di mugilidi, già allevati ai tempi di Plinio (70).
C'è una certa abbondanza di passere, barboni, dorate, ghiozzi, ma si ha l'impressione che vadano considerati piuttosto come risorsa spontanea della pesca vagantiva che non come prodotto d'allevamento. Però anche le specie incluse nel calmiere inserito nella legge annonaria del 1173 (che, come si sa, fissava pure il divieto d'acquistare pesci e altri generi per rivenderli) sono "pochissime", come lamentava già il Cecchetti (71), per quanto comprendano promiscuamenti di pesci marini e d'acqua dolce. Il calmiere, formato dalla Giustizia Vecchia al tempo del doge Ziani, riporta infatti i nomi e i prezzi massimi delle specie che dobbiamo ritenere di consumo più corrente. In effetto, la stessa inclusione di "ogni altro pesce d'acqua dolce e salsa", che chiude la non lunga lista dà buona prova che non si aspirava affatto a fornire un elenco di tutte le specie pescabili e commerciabili. Per ciò si è ben lungi dalle più di duecento "osservate nella laguna di Venezia e nel mare Adriatico" degli Annali del Ministero dell'Agricoltura e dalle addirittura "444 Fischarten" e "850 Arten frutti di mare" che vi colloca il Kretschmayr (72).
Si sa bene che tra le classificazioni sistematiche e l'apparente trascuratezza di alcune distinzioni di specie simili presso i pescatori, e a maggior ragione presso i consumatori, c'è un divario abbastanza profondo (73), cosicché, rispetto alla tassonomia scientifica, nell'uso volgare si tende a livellamenti e contrazioni, ma è pure vero che le nostre fonti provano che all'occorrenza si sapevano distinguere benissimo varie sottospecie di mugilidi, nominando mugilles, cefali, barigani, litrigani, verzelati (74). Più delle classificazioni sottili, però, contavano i mutamenti, anche di sapore, che i pesci subivano nel corso della loro maturazione. Nei canoni era importante precisare che i pesci dovevano essere boni, e alla "bontà" potevano concorrere vari requisiti: che venissero presi nel posto e nel momento giusti, vale a dire prima o dopo la deposizione delle uova, in notti con o senza luna, che si prestassero alla salagione, che fossero possibilmente grandi, come i lucci e le tinche del fiume Pulpaticus richiesti nel 1190 dal monastero dei Santi Ilario e Benedetto (75).
Per concessioni di pesca in ambienti d'acqua dolce, quando i canoni vengono stabiliti in prodotti ittici si tratta infatti normalmente di pisces capitanei, talvolta con la specificazione della provenienza - "de piscibus capitaneis de Mardimago" (76) - talvolta della specie - "pisces capitaneos inter lucios et tencas" (77) - il che farebbe supporre che la denominazione capitaneus più che limitarsi ad una determinata specie, ad esempio alle anguille capitoni o al cavedagno (squalinus cavedanus), voglia indicare piuttosto, in modo più generico, la misura degli esemplari da versare, più apprezzati se di grande mole.
Il calmiere del 1173 parla di "grandis luciis cavedagnis". Comunque quasi tutte le specie che qui vengono elencate sono vendute a peso ed hanno un prezzo maggiore se grandi. I più cari - tre veronesi la libbra - sono gli storioni, le trote e i rombi, mentre ne costano due i vairoli (branzini), le dorate, le megle, i barboni, gli scorfani, le lucerne e nella pezzatura più grande le passere, le sogliole, le anguille, i lucci cavedagni, freschi o salati. Le tinche grandi costano la metà degli storioni, e per tutti gli altri pesci, d'acqua marina o dolce, il prezzo massimo è di un veronese (78).
Sulla determinazione del prezzo sembrano influire sia la bontà sia la quantità limitata, infatti è la minore disponibilità di pesci d'acqua dolce che spiega, secondo il Monticolo, il divieto d'esportazione di quelli di fiume, salati (79). E dove un prodotto offra un ampio ventaglio di scelta è inevitabile che presso i consumatori si formino degli ordini di preferenza che non tardano ad assumere colorito sociale. In cima alla piramide ittica, con la trota e col rombo, nel calmiere troviamo lo storione. Per tutto il Medioevo lo storione (acipenser sturio) viene considerato in assoluto il pesce migliore, come - secondo Plinio - già "presso gli antichi"; all'epoca del naturalista, invece, questo pesce non era più in nessun pregio, giudizio che desta la sua meraviglia in quanto, come afferma, era raro a trovarsi (80). A Venezia sono dunque gli storioni, le trote, i rombi "et autres grant poissons" che danno solennità e prestigio ad un pasto. Nel calmiere mancano del tutto i mugilidi, forse perché destinati preferibilmente alla salagione e all'esportazione, oppure perché compresi nella congerie degli "altri pesci" da vendere al prezzo di un denaro veronese (81).
L'uccellagione, come si è detto, appare quasi sempre associata alla pesca. Sono rare le connessioni di acque e paludi per uno soltanto dei due diritti. Le fonti, tutte relative a concessioni con conferimento di canoni, parlano generalmente di aucellatio, meno spesso di volucrum captio e solo eccezionalmente di aucupacio. Una donazione al monastero di S. Croce (1118) di un lacus in Diano, che comprende "aucupaciones, piscationes sive aucellaciones" (82), farebbe pensare a due forme distinte di caccia, una agli uccelli acquatici e l'altra a quelli non acquatici, del tipo dei fagiani dovuti al vescovo di Equilo per una terra a Musile (1112) (83).
Le specie che vengono conferite dai concessionari sono soltanto due, l'anitra selvatica (anas boscas, o maggiorino, il mazorin) e il fischione (mareca Penelope, il ciosso). L'opposizione è resa spesso in aucelli maiores e minores, oppure in anadres maiores e minores, oppure in aucelli e clausi. I canoni in anitre selvatiche sono talvolta designati come "de bonis aucellis russis pedibus" (1183) (84): sono le "osele salvadeghe dai piè rossi", i grandi uccelli acquatici per eccellenza, che non richiedono ulteriori precisazioni; "les osiaus de riviere que Franceis apelent 'malars'", preciserà Martin da Canal (85), le oselle che offerte al doge prima di Natale verranno da lui donate agli aventi voto in Maggior Consiglio (86).
Gallicciolli "sospetta" che i clausi fossero gli uccelli che solevano prendersi in acque chiuse, mentre gli altri lo sarebbero stati per lo più in acque aperte (87), ma questa facile etimologia non può essere accolta. Infatti ad Equilo, a metà del secolo XII, per una stessa acqua, aperta o chiusa che fosse, vengono date sia anitre grandi che piccole (88), e così pure nel 1214, per una concessione di un'aqua sive palus nella zona di Pellestrina sono richiesti sia aucelle che clausi, per di più con la stessa scadenza natalizia, ciò che esclude anche l'ipotesi di una differenziazione stagionale della cattura (89).
Oselle e ciossi provengono tutti da concessioni in laguna, nei lidi e in terraferma, su acque, paludi, saline, terre, interessando praticamente l'intero ducato fino ai confini meridionali, dove talvolta incontriamo dei ciossi persino nel pagamento del casaticum (1187) (90). Man mano che ci si discosta dall'epoca ducale, però, la richiesta di oselle sembrerebbe farsi più rara. Sono i ciossi a ricorrere con frequenza maggiore, e la ragione va forse cercata in una sopravvenuta difficoltà di reperimento delle oselle piuttosto che in un cambiamento di gusto. Infatti vediamo i fratelli Steno obbligarsi nel 1182 con la badessa di S. Lorenzo di Castello, per la concessione dell'aqua Promiga, Corbulo sive Corella, a conferire annualmente intorno al giorno di S. Andrea diciotto paia di buone oselle, con la facoltà - si legge - "si vero aucellos habere non poterimus, tunc dare et persolvere vobis debeamus pro quisque duobus pariis de aucellis, paria tres de bonis clausis" (91). Tre per due, osserviamo a conferma del tempo lungo in cui s'inseriscono questi rapporti, è la relazione consueta ancora nel XIX secolo, due mazorini ma tre ciossi per formare un mazzo (92).
Ma se si dà un significato analogo anche alla concessione di un'aqua et palus nelle vicinanze di S. Maria delle Vergini (1239), che impone un fitto di venticinque paia di buoni ciossi, sedici dei quali per Natale e nove per l'Annunciazione, "si potuerint inveniri", se ne deve dedurre che pure i ciossi sarebbero finiti col rendersi insufficienti. Si stabilisce infatti che se questi non si troveranno verrà dato "pro quolibet pario illud quod persolvent aliis suis patronis de Veneciis" (93).
Osservando che per una medesima acqua nelle pertinenze di Poveglia un canone in ciossi dalle iniziali dieci paia del 1216 diminuisce costantemente fino a ridursi, nel 1243, ad un paio soltanto, si è ipotizzato che "questo decadimento economico" potrebbe esser dovuto "ad una evoluzione delle condizioni fisiche dell'ambiente, con demolizione di terre e barene, approfondimento di fondali, aumento di velocità di corrente e conseguenti modificazioni della flora e della fauna, che abbiano portato ad una decadenza anche della caccia" agli uccelli (94). È vero che molto presto, dove è possibile l'agricoltura, agli uccelli selvatici si accostano gradualmente, nei canoni, volatili d'allevamento, espressione, anche questa, di una mentalità che preferisce la sicurezza del prodotto ad una cattura fortemente aleatoria. Così, nel 1147, per una terra e vigna in Fogolana, che comprende diritti di pesca e d'uccellagione "per terra et per aqua", vediamo i conduttori obbligarsi a corrispondere un terzo dell'uva e "pullos tres omnique anno" (95). Nel 1171 per un pezzo di terra, vigna e acqua in Pellestrina, in località di Rivo de Ponte, con diritto di pesca e di uccellagione, il fitto perpetuo consiste, oltre che nel solito canone in vino, in "parium unum de aucelles maiores vel unum parium de pulli veteres omnem annum" (96), dunque con piena equiparazione tra oselle e polli maturi.
Benché molte volte il numero dei capi da corrispondere fosse tale da assumere un valore poco più che simbolico, c'erano però anche canoni effettivi, con richiesta di 12-30 paia di oselle e di 50-100 paia di ciossi, che insieme ai volatili destinati al doge (secondo Martin da Canal "duemila e più") (97) e soprattutto al mercato e all'autoconsumo, raggiungevano quantità senza dubbio considerevoli e tali da eccedere le possibilità di rifornimento, soprattutto quando il loro ambiente naturale non venisse adeguatamente rispettato. Le concessioni di fondi "ad aucellandum cum omnibus artibus", "per terra et per aqua" e "in die et in nocte" (98), cioè in maniera illimitata, ancora a metà del Duecento, testimoniano uno sfruttamento intensivo al quale si dovrà aggiungere che coi praticanti abituali si cimentano pure i nobiles viri (99) ed ecclesiastici a far "solatium ad capiendum volatilia": per esempio il cappellano di S. Marco, Pietro Moro, che per diletto va abitualmente in compagnia di altri a cacciare volatili nella palude di S. Gregorio, consegnando però una parte della preda ai priori del monastero (100).
Numerosi sono i mezzi di cattura di volatili, che contrassegnano uccellagioni "ad formas", "ad ligna", "cum pertegariis" e soprattutto con "escaduriis" (101), cioè con richiami di uccelli imbalsamati o finti, con trappole, roccole e reti (102). Il diritto di "formas facere" è tra quelli riconosciuti a Cittanova nel patto del 1009 (103), e le "artes auxellatorie" installate fisse sul fondo, alle quali si riferisce Bertaldo (104), sono certo le "escadurie ". È quella parte verso una palude dove si trovano le loro "escadurie ad volucres capiendum" che si riservano le monache di S. Zaccaria in un compromesso coi monaci di S. Cipriano di Murano per la divisione di un'aqua (105), Tiene "escodorias " anche il presbiter Andrea Michiel, lungo il Rivum Covardum sul Lido Albo, di proprietà della pieve di S. Lorenzo di Ammiana, ed anche i nobili di Ammiana sogliono impiantare d'inverno le loro "excaturias" in un'aqua et palus appartenente alla detta pieve (106). Essi usano gli stessi strumenti adoperati per la caccia con finalità economiche.
Per le prime notizie sull'"auxillare ad falconem super nostris insulis" dobbiamo attendere il 1241, quando al Lido Piccolo tale esercizio viene permesso solo col consenso del podestà (107), indice, questo, di una sua troppo estesa diffusione, ciò che fa pensare ad una pratica introdotta già da tempo. Anche qui, come per la pesca, il panorama viene a delinearsi meglio con le regolamentazioni emanate in epoca comunale. In quanto alla venatio, esercitata per svago dal doge e dal patriarca (108) e presumibilmente anche dai nobiles viri, non abbiamo informazioni particolareggiate, né sulle tecniche né sulle prede. Vendite e donazioni di aree boscose di terraferma, dentro e fuori i confini del ducato, a privati o ad istituti monastici, includono sempre la venatio, ma non c'è una cessione separata di tale diritto, per affitto o in altra forma. Frequenti, invece, sono le testimonianze di godimento promiscuo da parte delle comunità locali, di tutti i loro membri, senza discriminazioni sociali.
In una carta securitatis del 1104 rilasciata al monastero di S. Giorgio Maggiore dalla vedova di Giovanni Navigaioso maior, vigne e parti di piscarie nel Lido Marcense appaiono trasferite nell'integrità dei diritti e con tutte le loro pertinenze "tam subtus celo quam subtus terra et tam subtus aqua quam supra aqua" (109). Così in altri documenti, dove pesci, uccelli, selvaggina vengono considerati alla stregua di frutti del fondo, ai quali possono attingere solo i titolari o chi per loro (110). Non vi hanno alcun diritto i sudditi dell'imperatore d'Occidente, soprattutto entro i confini del ducato e nemmeno dove - afferma Carlo il Grosso - i Veneti "infra ditionem imperii nostri proprietates habere videntur" (111), clausola che nella conferma dei privilegi del ducato da parte di Ottone II viene mitigata nel senso che i sudditi imperiali non possono esercitarvi piscatio, venatio e pabulatio senza espressa licenza degli aventi diritto veneti (112).
Di fatto, però, era normale che si cacciasse e si pescasse abusivamente nelle proprietà altrui, come apprendiamo da una vertenza tra i monaci di Pomposa e quelli di S. Cipriano di Murano per il possesso della terra di Costa, dove la pretesa dei primi che l'esercizio dei diritti di pesca, caccia e uccellagione costituisse una prova del loro diritto di proprietà viene respinta, perché queste cose "non valent vel ad dominium vel possessionem vel servitutem probandam, cum hoc in omnibus fere terris fieri soleat, ut illi, qui nec dominium vel possessionem habeant, pascunt et piscantur in possessionibus alienis" (113).
Una gran parte delle concessioni avevano forma di livello o di locazione a lungo termine. Ci sono famiglie che usufruiscono per generazioni della stessa area, come Orio Steno, Domenico Bosio e Domenico Steno di Cannaregio, i quali nel 116o dichiarano che sono più di sessant'anni che loro e i propri antenati tengono in fitto dal monastero di S. Giorgio Maggiore la metà di un lago e di una fossa de Campaudo e la terza parte di una palude (114); o la famiglia Signolo, di Dorsoduro, che nel 1131 fruisce da almeno tre generazioni dell'acqua Tragulus nel vescovado equilese (115). Nel 1141 la badessa di S. Zaccaria affitta per vent'anni a Felice Bendullo di Poveglia e ai suoi eredi il lacus maior presso Poveglia e nel 1162 la concessione viene rinnovata per altri vent'anni a Domenico Bendullo ed eredi (116). Questo vale tanto per le proprietà ecclesiastiche quanto per quelle di privati. Ad esempio, nell'eredità dei Flabianici, passata ai da Molin, si trova una piscaria e mezza a Pellestrina, che viene sfruttata per la pesca e l'uccellagione da Sambaitino e Lorenzo Boiso da Poveglia, i quali per oltre vent'anni versano l'aquaticum e l'aucellaticum a Gosmiro da Molin e successivamente alla vedova Agnese e ai suoi eredi (117).
Si può quindi osservare come tra proprietario e concessionario si stabilissero rapporti duraturi e preferenziali, di particolare rilievo per beni dalle caratteristiche delle acque e delle paludi. Un periodo lungo garantiva una buona gestione del bene, e dal lato del concessionario uno sfruttamento razionale delle sue risorse, per la conoscenza che si andava acquisendo delle condizioni per realizzarlo. L'aspettativa di tali benefici risulterebbe anche da contratti che prevedono un canone superiore per la seconda parte della decorrenza rispetto ai primi anni (118), sempre che tale riduzione iniziale non fosse dovuta a maggiori spese per la costruzione e la manutenzione delle chiusure proprio al principio della gestione. Che i costi per simili interventi non dovessero essere indifferenti lo proverebbe la concessione fatta nel 1094 agli abitanti di Loreo di calcolare l'ammontare dei loro tributi in anguille solo dopo aver "retracto [...> omni expendio clusure piscariorum" (119).
Ma è anche vero che accanto a queste abbiamo delle concessioni a breve termine, dai due ai cinque anni, con segmenti cronologici che non trovano nessuna giustificazione in cicli biologici inerenti ai prodotti principali, cefali e uccelli, che in effetto sono di maturazione e raccolta annuali. Sono concessioni che tenderebbero a diffondersi maggiormente in epoca comunale, tuttavia senza limitarsi a tale periodo. Esse fanno pensare ad una proprietà più vigile, più speculatrice, che segue più da vicino le sorti del bene, pronta ad approfittare della congiuntura, e permettendo inoltre al titolare di intervenire di volta in volta sul modo di sfruttamento ritenuto più opportuno. È significativo che ora pesca e uccellagioni comincino ad apparire separate.
Il genere e l'ammontare dei canoni erano normalmente stabiliti per contratto, di solito, come abbiamo visto, per un numero fisso di cefali, o di oselle o di ciossi o di altri pesci o volatili, meno spesso in quote della raccolta complessiva (un quarto o un quinto dei pesci) (120), da versarsi con frequenza annuale, più di rado con un'aggiunta o solo in denaro. Tale canone veniva indifferentemente definito censum, fictum, pensio, precium, redditum, aquaticum et aucellaticum. Queste espressioni vengono usate per i canoni di ogni tipo.
La concessione, come è naturale, resta valida anche quando cambiasse il titolare del bene. È il caso, seppure un po' particolare, della piscina al principio del ponte di Chioggia, di proprietà del gastaldo Uberto Bolla. Durante il dogado di Pietro Polani, Giovanni Carimanno soleva pescarla a nome dei Bolla, finché il veneziano Domenico Gradenigo, non senza "fortiter dishonorare et manaciare", dichiarò che era sua, per cui da allora in poi il concessionario " tenuit prefacta piscaria per manu de suprascripto Dominico Gradenico et piscavit eam ad suo iure" (121).
Le concessioni a breve termine non implicano necessariamente un alternarsi di beneficiari diversi. Molto interessante a questo riguardo è la documentazione della pieve di S. Lorenzo di Ammiana. Se qualche sua peschiera viene data appena per due anni, senza prolungamento, a Giovanni Sesenolo "cum sotiis suis" (122), nel 1172 il pievano Marco Greco fa una prima concessione, per cinque anni, a Marco Dedo ed eredi di "tota aqua" della chiesa, garantendogli l'esclusività del contratto; nel 1174 concede allo stesso, per la durata di tre anni, "duas aquas quae sunt de iure" della detta chiesa; nel 1177 gli assegna di nuovo le due peschiere, questa volta senza espressa scadenza. Le concessioni si riferiscono sempre alla sola pesca, ma mentre la prima ha per oggetto la pesca "cum senedilis in die et in nocte", da eseguirsi con persone scelte liberamente dal concessionario, contro un canone - caso rarissimo - di solo denaro, tre lire veronesi l'anno, la seconda prevede uno sfruttamento diversificato delle due peschiere. Il redditum della chiesa, che nel 1174 è fissato in otto soldi veronesi e trecento lotregani l'anno, nel 1177 viene maggiorato a lire veronesi tre e mezza, con la stessa quantità di lotregani, in aggiunta la clausola "salvos in terra", che trasferisce il rischio del trasporto sul concessionario (123).
Venti anni dopo, lo stesso Marco Dedo può dichiarare sotto giuramento di pescare ormai da cinquant'anni, per concessione dei vari pievani che si sono succeduti a S. Lorenzo, l'aqua della pieve chiamata Pantanum, come del resto già suo padre, prima di lui, "illam aquam piscavit" (124). Dalle deposizioni di altri testimoni si apprende però che tale peschiera - la più ricca di quelle di S. Lorenzo - oltre che dagli uomini "de domo Dedi" veniva sfruttata da altri, soprattutto di Ammiana e di Costanziaco, di una decina dei quali si fanno i nomi (125).
Dei beni di S. Lorenzo vediamo infatti fruire non soltanto i concessionari ma godere tranquillamente anche "omnes vicini de Amianis [...> qui volebant ibi piscari". Tanto i titolari della concessione quanto gli abitanti di Ammiana beneficiano della stessa peschiera ma in forma diversa, perché l'attività di questi ultimi ha una delimitazione nell'impiego degli attrezzi: "Vicini piscantur aquam istam [...> ad trozas et ad passerarios [...> excepto senedesi". Agli affittuari sono invece consentiti tutti gli strumenti, anche la pesca "cum grisolas et a senedese", intendendosi che il permesso o il divieto di determinati attrezzi implica quello di catturare determinati pesci (126).
Dal godimento promiscuo sono tenacemente escluse le altre comunità. Agli uomini di Dorsoduro, ad esempio, sorpresi mentre pescavano abusivamente, vengono sequestrati tutti gli attrezzi, che saranno restituiti solo dopo il loro giuramento ad Ammiana "coram bonis hominibus [...> quod de cetero non deberent piscari in predicta aqua" (127). Accadeva anche che la vertenza degenerasse in una lite, come quella del 1185 sul diritto di pesca nelle acque del Tragulus di Equilo tra l'affittuario Angelo Signolo, con i suoi uomini, e un gruppo numeroso di abitanti del litus Bovense. Sostenitori del libero esercizio di pesca, costoro non solo rimproverano aspramente al Signolo di pagare l'aquaticum "domino Equilensi episcopo", mentre potrebbe "piscari sine aliqua dacione sicut et nos", ma "quidam illorum [continua il concessionario la sua testimonianza> tulit fossinam cum qua me et sotios meos dicebat occidere" (128). Era inevitabile che con l'aumento della popolazione le concessioni esclusive di pesca dovessero cominciare a scontrarsi con le pretese di coloro che esercitavano la pesca vagantiva. Come si vede, i contrasti non di rado degeneravano in risse, con minacce di morte e con fiocine che da attrezzi di pesca si trasformano in armi.
I "vicini" intervengono anche per dare il loro consenso all'impianto di un mulino da parte del monastero di S. Felice, che comporta la chiusura del Pantanum e che darà luogo a numerose controversie, per le sopravvenute modificazioni alle condizioni ambientali (129). Un caso analogo riguarda acque sfruttate per esplicita concessione dogale dalla sola comunità di Loreo. Qui, dopo che "per iussionem tocius populi Laureti" il gastaldo e due giudici assegnano alla chiesa della SS. Trinità di Brondolo un fondamento nel canale di Anguillara per la costruzione di un molino, il mugnaio o altro incaricato della chiesa entrano a far parte della comunità, con obbligo di sottostare alle "consuetudines loci" e con la partecipazione a tutti i diritti, dunque anche a quelli di "piscare, aucellare et caciare sicut unus ex [...> vicinis" (130).
Il godimento promiscuo, largamente praticato per la pesca, lo era ancora di più per la caccia, condotta su fondi pubblici ed ecclesiastici riservati a determinate comunità locali, che ne traevano profitto in forza di consuetudini che si vogliono far risalire "probabilmente all'epoca romana", senza che "le comunità che di quest'uso godevano, avessero coscienza di tale trasmissione" (131). Una pratica stabilita, secondo l'Origo, alla costituzione del ducato veneto (132), con la finalità di regolamentare e coordinare i diritti e l'uso dei boschi e delle acque, soprattutto nelle zone periferiche, concedendo agli abitanti di quelle comunità una larga autonomia amministrativa e il loro godimento esclusivo, riservato però l'alto dominio del potere pubblico o dell'autorità ecclesiastica (133).
Che simile pratica fosse incontrastata e pacifica "fin verso il 1000 ", in quanto fino ad allora quei fondi incolti "non rappresentavano quasi un valore", per diventare successivamente "sempre più appetiti" (134), potrebbe trovare una sua prova nelle concessioni dogali a beneficio di comunità come Cittanova e Loreo, rispettivamente del 1009 e del 1094. Ribadendo l'alto dominio sulla "piscaria de Laureto, quae in nostra virtute remaneat", il doge riservava a quella comunità, tra gli altri diritti, l'uso delle acque, delle paludi e dei boschi, per la costruzione di valli da pesca, per l'uccellagione e per la venatio selvatica, in particolare ai cinghiali e ai cervi, con un elenco dettagliato degli obblighi e doveri che ne conseguivano verso il dogado e la chiesa. Per godere di benefici analoghi gli abitanti di Equilo dovevano dare "in omnique anno perfictum pro pensionis pellem unam marturinam et de pignis modium unum" (135).
Talvolta le comunità disponevano della concessione assegnando il compito ad un determinato numero di loro membri, i quali operavano a beneficio di tutti. Questa divisione del lavoro era stata realizzata a Malamocco dalla vecchia comunità, già prima della traslazione del vescovato dalla sede originaria a Chioggia. L'aqua adiacente a quella di S. Nicolò, la quale "comunis erat tocius Metamauci", era stata infatti affidata ad alcuni uomini del luogo perché vi pescassero "per licentiam tocius comunis" e rifornissero poi il mercato locale. Essi, apprendiamo da un testimone, "non audebant pisces vendere nisi in Methamauco" (136), ciò che inoltre proverebbe che non avrebbero trovato difficoltà a collocarli altrove. I godimenti promiscui, di lontana e spesso incerta origine, perduravano praticamente ininterrotti sulla base di pratiche consuetudinarie che difficilmente subivano modificazioni. A comprovarli era proprio questa rigidità nel tempo, a differenza delle concessioni a termine, che potevano essere ridefinite in relazione alle contingenze.
Ma di queste forme di godimento poteva anche perdersi la memoria, che bisognava all'occorrenza richiamare e confermare con l'ausilio di testimoni. Ne complicavano la natura le complesse relazioni che s'erano venute creando all'interno del ducato tra l'alto dominio e le varie comunità locali o istituzioni monastiche.
Accanto alle aree di pesca, uccellagione e venagione riservate agli abitanti del posto, molte altre erano publicae, cioè appartenenti allo Stato veneziano. Per l'epoca ducale è difficile localizzarle perché nella documentazione compaiono solo accidentalmente, quando confinano con beni monastici o privati, come il Pantanum di S. Lorenzo di Ammiana, che ha un lato contiguo alla "començaria publica"; o un rivus di proprietà di S. Giorgio Maggiore, dietro Dorsoduro, che confluisce "in palude publica que est de contra Luprio "; o una piscaria di Giovanni Navigaioso al Lido Marcense, che "firmat [...> in aqua publica" (137).
Col magistrato super Publicis, il Piovego, si cercherà di rivendicare tutti quei publica, acque, paludi, canneti, terre, "occupata seu occupate subtracta seu subtracte dicto comuni Veneciarum et que occupata seu occupate vel alias eidem comuni indebite detinentur per quascumque personas tam ecclesiasticas quam seculares" (138). I magistrati, che danno spesso l'impressione di muovere dalla presunzione che gran parte degli spazi lagunari siano tali quando i privati non dimostrino di averne titolo, troveranno allora la volonterosa collaborazione dei pescatori, incoraggiati in particolare da un loro auspicato ricupero delle acque pubbliche, pronti a scavare in una lunga memoria propria e trasmessa dagli antenati e a fare con vigore le deposizioni richieste.
Grazie a loro si accerterà che un'aqua della diocesi Castellana, confinante col rivus dei SS. Apostoli, con l'arsenale e col canale di Murano è sempre stata "publica et comunis", cosicché "ab omnibus piscare seu lumare volentibus publice piscabatur [...>, nullum fictum sive censum aliquibus persolvendo" (139). Egualmente, tra molte altre, che un'aqua che si estende dal porto di Malamocco verso la Punta Bianca della cona di S. Leone, in direzione di S. Nicolò, è sempre stata pubblica e aperta a tutti per la pesca: tutti quelli che lo desideravano potevano catturare pesci, senza dover pagare fitti o censi (140).
Opporranno ecclesiastici e privati, come l'arciprete Felice della chiesa di S. Maria di Malamocco o il nobiluomo Pietro Zeno, interessati a conservare le loro peschiere, che simili testimonianze non sono affidabili. Ad esse "non debeat fides aliqua adhiberi ", perché "illos fore piscatores et vilis condicionis homines", i quali non vedono altro che il proprio utile, e perciò vorrebbero "omnes aquas et paludes de Veneciis publicari et in comune et publicum conservari" (141).
Libertà "ab omni factione publica", come erano state concesse nell'819 al monastero dei SS. Ilario e Benedetto, con il divieto ai gastaldi o ufficiali del palatium di esigere "exenia aliqua" anche dai pescatori (142), contrastano ad esempio con le prestazioni dovute sin dal dogado di Orso Partecipazio I dai pescatori e uccellatori di Dorsoduro. Costoro, in quanto excusati ducatus e come tali obbligati a speciali servizi verso il dogado, gli dovevano un "tributum annuatim ", che a prova della tenace sopravvivenza di simili pratiche vedremo perdurare ancora ai tempi di Andrea Dandolo, espresso in 2400 cefali (143).
La comunità di Cittanova doveva conferire al doge una volta l'anno un pollo, una focaccia e vino per il valore di un denaro per ogni massaro quando andava alla Livenza per la caccia. Egualmente Cittanova doveva dargli un contributo di cento pesci l'anno (144) e Loreo fargli pervenire - dopo averne pagato la giusta decima alla chiesa locale un'undecima di capitoni ("de anguillis capitaneis quos venales vocatis") (145). Sono chiaramente exenia, con la funzione di tener vive subordinazioni e dipendenze politico-giuridiche.
Questi conferimenti "in signum subiectionis" (146) prendono connotati altamente espressivi soprattutto quando, nel trapasso tra epoca ducale e periodo comunale, le contribuzioni in denaro cominciano ad esser preferite a quelle in natura o alle prestazioni personali, e la decima, che viene imposta sui beni individuali pro salvatione patrie, offre una fonte di finanziamento più efficace dei contributi regalistici in natura (147). Infatti il loro significato diventa puramente simbolico, specie quando siano privi di valore economico, cioè quando si materializzano ad esempio nei "caput et pedes" di ogni cinghiale di almeno due anni o nella "sola patula" di ogni cervo catturato, che per il libero esercizio della caccia gli abitanti di Cittanova sono tenuti a consegnare al doge. "Si cenglarum aliquo venatu ceperitis, caput illius cum pedibus nobis nostrisque successoribus portaturi estis", ribadisce Vitale Falier agli uomini di Loreo (148). Non va tralasciato che la rete di tributi di provenienza venatoria si andava estendendo fin oltre i confini del dogado, arricchendosi ad esempio - con la sottomissione di Veglia (1018) - di trenta pellicce di volpe, e con quella di Zara (1203) di tremila pelli di coniglio (149).
Obblighi reali, ma anche personali, che ricorrono quando il doge si reca a "cacias bestiarum facere" alle rive della Livenza, nel territorio di Lignano dalla "luporum moltitudo". Allora, come racconta l' Origo e conferma il patto con Cittanova, alla venuta del doge "ad Liquentiam ad venandum", gli uomini del luogo sono tenuti a dargli assistenza personale e reale (150). Doveri analoghi dei Chioggiotti per la caccia ducale nelle zone boscose della fascia meridionale sopravviveranno in epoca comunale. Doveri, del resto, non solo per coloro che contribuiscono coi servizi ma anche per chi ne beneficia, un'attività di svago trasformata in dovere, come risulta dall'inclusione nelle promissiones ducali.
Il doge, infatti, non va a caccia per diletto personale ma per dovere pubblico: è il continuato esercizio venatorio svolto da lui stesso o a nome suo - "quando nos debemus venire [...> ad venandum", "quando volumus ire venatum aut mittere" (151) - che tiene saldamente in vita i vincoli tra il potere centrale e le comunità soggette, conservando inalterati gli equilibri politici una volta stabiliti all'interno del ducato. Era attraverso queste prestazioni personali e reali, tra le quali figurano in primo luogo quelle relative al godimento delle risorse dei boschi e delle acque, che s'esprimeva simbolicamente ma nitidamente la "visibile tendenza a unificare la struttura dell'organismo statale" sotto la sovranità ducale (152).
Perciò non crediamo di esagerare ritenendo che pesca, uccellagione e caccia abbiano potuto costituire un elemento di coesione del nascente ducato, per il flusso dei loro prodotti dalla periferia al centro, che stabiliva e rinsaldava i vincoli di dipendenza. Non è senza importanza che il rito della loro consegna venga rinnovato annualmente, perché non se ne perda il valore.
Strumento efficace per esercitare verifiche e controlli sull'effettiva dipendenza, è appunto per il loro significato simbolico che nelle promissiones ducali se ne vieterà rigorosamente la sostituzione in denaro (153). E con le istituzioni comunali, quando la struttura governativa diventerà più complessa, la ridistribuzione dei tributi derivanti dall'uccellagione e dalla pesca ai vari titolari di cariche, oselle e rombi, costituirà un altro elemento di strutturazione del comune secondo precise graduatorie d'importanza.
1. Cassiodoro, Epistulae variae, a cura di Theodor Mommsen, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, XII, 24, 1894, pp. 379 s.
2. Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), pp. 80, 165, 169 ss.
3. Luigi Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, relativi all'episcopato equilense, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti", 104, pt. II, 1946, nr. 23, p. 910 (pp. 891-915).
4. Codex Publicorum, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, I, Venezia 1985, nr. 17, p. 113 (1283).
5. S. Lorenzo di Ammiana, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1947, nr. 81, p. 92 (1196).
6. S. Giorgio di Fossone, a cura di Bianca Strina, Venezia 1957, nr. 9, p. 20 (1192).
7. Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia. II. Dalle origini del Ducato alla IV Crociata, Venezia 1958, p. 469 (pp. 67-476).
8. Bartolomeo Cecchetti, Programma della scuola di paleografia di Venezia, Venezia 1862, p. 49; Giovanni Monticolo, L'ufficio della Giustizia Vecchia a Venezia, dalle origini sino al 1330, in Miscellanea della R. Deputaz. Veneta di Storia Patria, 12, Venezia 1892, p. 83; I capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, a cura di Giovanni Monticolo, I, Roma 1896 (Fonti per la storia d'Italia, 26) pp. 60, 73.
9. Origo civitatum, pp. 79, 165.
1O. Luigi Lanfranchi - Gian Giacomo Zille, Il territorio del ducato veneziano dall'VIII al XII secolo, in Storia di Venezia. II. Dalle origini del Ducato alla IV Crociata, Venezia 1958, p. 28 (pp. 1-65).
11. Relazione della Sotto-commissione di Venezia, in AA.VV., La pesca in Italia. Annali del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, a cura di Adolfo Targioni Tozzetti, 1, 2, Genova 1872, pp. 325 ss. (pp. 325-379), Paolo Rosa Salva - Sergio Sartori, Laguna e pesca. Storia, tradizioni e prospettive, Venezia 1979, cap. I; Giustiniano S. Bullo, Le valli salse da pesca e la vallicoltura, Venezia 1940.
12. Codex Publicorum, nrr. 13, 14, pp. 83, 92.
13. L. Lanfranchi - G. G. Zille, Il territorio del ducato veneziano, p. 47; v. ad esempio S. Giorgio di Fossone, nr. 9, p. 20.
14. Jacobi Bertaldi Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, a cura di Francesco Schupfer, Bologna 1895, III, 3, p. 33.
15. Le lagune, le valli e la pesca nelle provincie venete secondo il D.D. Nardo, in AA.VV., La pesca in Italia, I, 2, pp. 417 ss.
16. Origo civitatum, p. 171.
17. A.S.V., Savii ed esecutori alle Acque, Capitolare nr. 5 (1314, 24 maggio).
18. Relazione della Sotto-commissione di Venezia, p. 370.
19. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, nr. 10, p. 43.
20. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, pp. 97, 104.
21. Ibid., nr. 8, p. 16 (1157), nr. 81, p. 92 (1196).
22. Relazione della Sotto-commissione di Venezia, p. 330.
23. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr.
23, p. 910 (1174).
24. Codex Publicorum, nr. 4, p. 37 (1158).
25. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr. 9, p. 303 (1096). L'apertura delle valli in primavera per la montata del novellame comporta in ogni caso la fuga di una certa quantità di pesce adulto che vi aveva svernato, in particolare delle anguille. V., su ciò, G.S. Bullo, Le valli salse.
26. La pesca nella laguna di Venezia, a cura dell'Amministrazione provinciale di Venezia, Mirano-Venezia 1985, pp. 135-148.
27. Codex Publicorum, nrr. 13, 14, pp. 85, 93 s. V. anche SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, II, Venezia 1981, nr. 90, p. 176 (1136 0 1137) "in festivitate S. Benedicti in marcio".
28. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, pp. 98-104. Nella vallicoltura moderna ci si vale deliberatamente di policolture, associando più specie ittiche non predatrici a diversi livelli della catena alimentare per una migliore utilizzazione delle risorse disponibili. Particolarmente idonei per queste colture sono cefali e anguille: Gino Ravagnan, Vallicoltura moderna, Bologna 1978.
29. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, pp. 104.
30. S. Giorgio Maggiore, a cura di Luigi Lanfranchi, III, Venezia 1968, nr. 289, p. 16.
31. Cf. ad esempio Codex Publicorum, nrr. 11, 13, 14, 15, 20, pp. 73-76, 84, 93 s., 102, 132; S. Giorgio Maggiore, III, nr. 481, p. 269, nr. CCLXXXIX, p. 545; S. Lorenzo, a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, nrr. 6, 12, 20, pp. 19, 28, 39.
32. Martin da Canal, Les estoires de Venise, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, p. 262.
33. Codex Publicorum, nr. 20, p. 132.
34. A.S.V., Savii ed esecutori alle Acque, Capitolare nr. 5 (1314, 30 agosto).
35. Relazione all'Eccell.mo Collegio dei Savi ed Esecutori alle Acque sulle Valli e Lagune, 1662, in AA.VV., La pesca in Italia, I, 2, p. 566.
36. Così in SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, nr. 80, p. 156.
37. Codex Publicorum, nr. 20, p. 128. V. anche i canoni in capitoni dovuti per varie saline in Chioggia, Vincenzo Bellemo, Il territorio di Chioggia, Chioggia 1893, p. 282, nr. 2.
38. Antonio Baracchi, Le carte del mille e del millecento che si conservano nel R. Archivio notarile di Venezia, "Archivio Veneto", 6, 1873, p. 320 (pp. 312-32I).
39. SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, nr. 90, p. 176. Le piante poste a siepe servono anche per protezione dei pesci dai venti, in particolare contro la bora e lo scirocco.
40. SS. Ilario e Benedetto, nr. LXIV, p. 148.
41. A.S.V., Pacta, II, c. 91v.
42. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al mille, a cura di Roberto Cessi, II, Padova 1940, nr. 28, pp. 38 s.
43. Bartolomeo Cecchetti, Il vitto dei Veneziani nel secolo XIV, "Archivio Veneto", 30, 1885, p. 45 (pp. 27-96; pp. 279-333).
44. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 70, p. 77.
45. J. Bertaldi Splendor, pp. 27 s.
46. SS. Ilario e Benedetto, nr. 30, pp. 92 s.
47. M. Da Canal, Les estoires, p. 298; v. anche I capitolari, p. 59.
48. S. Lorenzo, nr. 19, p. 38; S. Lorenzo di Ammiana, nr. 17, p. 25 (1172); L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr. 14, p. 906 (1131); SS. Ilario e Benedetto, nr. LXIV, p. 148 (1190); Codex Publicorum, nr. 27, p. 201 (1273), nr. 14, p. 92 (997).
49. Codex Publicorum, nr. 3, p. 30. Le fonti iconografiche veneziane dell'epoca non sono molto esplicite sulle reti. Ad esempio, tra i mosaici di S. Marco dei secoli XI-XII, nel transetto settentrionale, c'è la rappresentazione di una pesca miracolosa. Da una barca due uomini hanno appena gettato - o stanno per tirare - una rete, la quale non è visibile perché immersa nell'acqua. Dalle corde che si vedono nelle mani dei due pescatori, potrebbe trattarsi di una rete a strascico, come quella dei mosaici di Aquileia (aula cultuale), che qui però viene tirata già piena di pesci da due persone dalla poppa.
50. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 17, p. 25 ( 1172); Codex Publicorum, nr. 20, p. 129 (1181).
51. SS. Ilario e Benedetto, nr. L, p. 139 (1164); Codex Publicorum, nr. 4, p. 35 (1158) dove, però, è trascritto "per plenam et per fictam".
52. Pietro Guseo, Torcello e i suoi dintorni, "Ateneo Veneto", 21, 1888, p. 344 (pp. 318-346).
53. Codex Publicorum, nr. 21, p. 140.
54. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 19, p. 27.
55. A.S.V., Savii ed esecutori alle Acque, Capitolare nr. 5 (1314, 24 maggio).
56. Codex Publicorum, nr. 32, p. 234.
57. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, pp. 98, 101 (1196).
58. Ibid., nr. 87, pp. 98 s.
59. V. Piola - Alessandro P. Ninni, Relazione sulla pesca di fiume, in AA.VV., La pesca in Italia, II, 1, Genova 1874, p. 656 (pp. 643-666).
60. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, p. 103.
61. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nrr. 13, 16, pp. 906 s.
62. L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio del ducato veneziano, p. 20.
63. SS. Ilario e Benedetto, nr. L, p. 139.
64. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nrr.
9, 13-15, pp. 903, 906-907 (1096, 1131, 1139).
65. B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, p. 45.
66. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr.
25, p. 911.
67. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, p. 102.
68. La datio gambarorum è uno dei diritti ducali che sopravvivono nel periodo comunale. Le promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, p. 13 (Enrico Dandolo) e passim. Secondo B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, p. 39, al doge spettava il quarantesimo dei gamberi. Origo civitatum, p. 93: "cluces maris decocte eiecentes, eas valle iactabantur".
69. La triglia, ad esempio, secondo Plinio non cresce "nec in vivariis piscinisque": Naturalis Historia, IX, 30.
70. Ibid., IX, 26.
71. B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, p. 40.
72. Relazione della Sottocommissione di Venezia, pp. 336-53 (con 244 specie); Heinrich Kretsch-mayr, Geschichte von Venedig, Gotha 1905, I, p. 73.
73. Manlio Cortelazzo, Ittionomia veneta, "Bollettino dell'Atlante linguistico mediterraneo", 5-6, 1963-64, p. 160 (pp. 159-164).
74. V. ad esempio Codex Publicorum, nrr. 13, 14, 16, pp. 83, 93, 107 (997, 1225); S. Giorgio Maggiore, II, nr. 153, p. 333 (1128), III, nr. CCLXXXIX, p. 545 (1160); S. Lorenzo, nr. 6, p. 19.
75. SS. Ilario e Benedetto, nr. LXIV, p. 148 (1190).
76. SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, nr. 124, p. 230 (1151).
77. SS. Ilario e Benedetto, nr. LXIV, p. 148.
78. B. Cecchetti, Programma della scuola, p. 49.
79. I capitolari, p. 64.
80. Naturalis Historia, IX, 26.
81. La citazione è da M. Da Canal, Les estoires, p. 298. Il corsivo è nostro. Nei capitolari dei pescatori del 1268-1288 si vieta di "misare evallos de mallos buthellos cum bonos". I capitolari, p. 65.
82. S. Lorenzo, nr. XXV, p. 19.
83. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr. 12, p. 905.
84. B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, p. 52. Nei mosaici di S. Marco (atrio, volta meridionale, sec. XIII), tra gli uccelli nell'arca di Noè sono raffigurate, con grande realismo, ben cinque specie di anitre, differenziate anche tra maschi e femmine.
85. M. Da Canal, Les estoires, p. 252.
86. B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, p. 52.
87. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, I, Venezia 1795, p. 66.
88. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nrr. 18, 23, pp. 908, 910 (1146, 1174).
89. Codex Publicorum, nr. 11, p. 73 (1214).
90. S. Giorgio Maggiore, III, nr. 481, p. 269.
91. S. Lorenzo, nr. 20, p. 39.
92. Luigi Sormani Moretti, La pesca, la pescicoltura e la caccia nella provincia di Venezia, Venezia 1887, p. 39, con giudizi sulla bontà: il mazorin di "ottimo sapore", il ciosso "buono".
93. Codex Publicorum, nr. 20, p. 132.
94. Niccolò Spada, Contributo allo studio del bacino lagunare e del lido di Malamocco, "Archivio Veneto", ser. V, 52-53, 1953, p. 2 (pp. 1-27).
95. SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, nr. 103, p. 199. Tra i volatili d'allevamento dati in censo, oltre a varie specie di polli, ci sono pure oche, ma non si trovano mai anitre.
96. S. Giorgio Maggiore, III, nr. 330, p. 75. V. anche i numerosi canoni in polli vecchi e nuovi in S. Lorenzo di Ammiana, per terre sul Litus Maior, però con scadenze estive, cioè per le feste dei SS. Pietro e Paolo e di S. Lorenzo.
97. M. Da Canal, Les estoires, p. 252.
98. Codex Publicorum, nrr. 26, 31, pp. 190, 229 (1248, 1265); SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, nr. 103, p. 199 (1147).
99. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, p. 104.
100. SS. Ilario e Benedetto, nr. 37, p. 109 (del 1197, con riferimento ad avvenimenti di più di venti anni prima).
101. Codex Publicorum, nrr. 27, 31, pp. 200, 228 (1157, 1207); L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr. 21, p. 909 (1165). Nei mosaici dell'aula cultuale di Aquileia è rappresentata la cattura di un'anitra tramite un laccio gettato dall'alto della barca.
102. V. anche B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, p. 54; Id., La vita dei Veneziani fino al secolo XIII, Archivio Veneto", 2, 1871, p. 76 (pp. 63-123); Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo, dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, p. 6.
103. A.S.V., Pacta, II, c. 9IV.
104. J. Bertaldi Splendor, p. 27.
105. Codex Publicorum, nr. 23, p. 164 (1152).
106. S. Lorenzo di Ammiana, nrr. 18, 87, pp. 26, 104 (1173, 1196).
107. B. Cecchetti, Il vitto dei Veneziani, pp. 52 ss.
108. Origo civitatum, pp. 80, 166.
109. S. Giorgio Maggiore, II, nr. 90, p. 213; v. anche ibid., nrr. 220, 231, pp. 445, 464 (1146, 1150).
110. V. ad esempio SS. Ilario e Benedetto, nr. 10, p. 43 (1058).
111. M.G.H., Diplomata regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, II, Karoli III. Diplomata, 1936-1937, nr. 77, p. 126 (883, 10 maggio).
112. M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II, 1, Ottonis II. Diplomata, 1888, nr. 300, p. 354 (983, 7 giugno).
113. Nuovi documenti padovani dei secoli XI-XII, a cura di Paolo Sambin, Venezia 1955, nr. 38, p. 54 (1172).
114. S. Giorgio Maggiore, III, nr. 289, p. 16.
115. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nrr. 13, 14, p. 906.
116. Codex Publicorum, nrr. 13, 14, pp. 84, 93 s.
117. Ibid., nr. 11, p. 74 (1092, 1124).
118. Ibid., nr. 24, p. 172 (1229).
119. A.S.V., Pacta, II, cc. 29-30.
120. S. Lorenzo di Ammiana, nrr. 3, 87, pp. 10, 97, 100 (1152, 1196).
121. S. Giovanni Evangelista di Torcello, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1948, nr. 34, p. 59 (1162).
122. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, p. 104.
123. Ibid., nrr. 16, 17, 19, 24, pp. 24 s., 27, 32.
124. Ibid., nrr. 77, 83, pp. 88, 93 (1194: "iam sunt anni quadraginta et plus ", I 197: "iam sunt expleti quinquaginta anni").
125. Ibid., nr. 87, pp. 97 s.
126. Ibid.
127. Ibid. Su questo episodio di pesca abusiva, v. anche G. Cracco, Un "altro mondo", p. 5.
128. L. Lanfranchi, Documenti dei secc. XI e XII, nr. 25, pp. 911 s.
129. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, p. 102.
130. SS. Trinità e S. Michele di Brondolo, nr. 80, pp. 156 S. (1133); per le consuetudini locali, v. anche ibid., nr. 124, p. 172 (1151) e S. Giorgio Maggiore, II, nr. 236, p. 475 (1151).
13I. Giannino Ferrari, La legislazione veneziana sui beni comunali, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 19, 1918, pp. 5 s. (pp. 5-64).
132. Origo civitatum, pp. 75 s., 164 s.
133. R. Cessi, Politica, economia, pp. 98, 253.
134. Così G. Ferrari, La legislazione veneziana, pp. 5 s.
135. A.S.V., Pacta, II, cc. 29 s., 91v.
136. Codex Publicorum, nr. 4, p. 37 (1158).
137. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 79, p. 90 (1195); S. Giorgio Maggiore, II, nr. 90, pp. 212 s. (1104).
138. Codex Publicorum, p. 18.
139. Ibid., nr. 1, pp. 22 s. (1282).
140. Ibid., nr. 4, pp. 38 s. (1284).
141. Ibid., nrr. 2, 4, pp. 26, 39 (1283 m.v., 1284).
142. SS. Ilario e Benedetto, nr. 1, p. 10.
143. Andreae Danduli Chronicon, in R.I.S., XII, 1728, col. 188; v. anche Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, g), pp. 126 ss.; R. Cessi, Politica, economia, p. 361.
144. A.S.V., Pacta, I I, c. 91v; R. Cessi, Politica, economia, p. 253, sorprendentemente parla di porci anziché di pesci.
145. A.S.V., Pacta, II, cc. 29 s.
146. Cronache veneziane antichissime, p. 32.
147. R. Cessi, Politica, economia, p. 298.
148. A.S.V., Pacta, II, cc. 29 s., 91v.
149. Giuseppe Vassili, La storia della città di Veglia nei suoi momenti principali, "Archivio storico per la Dalmazia", 16, 1933, p. 26 (pp. 1-68); Historia ducum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 93.
150. Origo Civitatum, pp. 79, 165; v. Anche R. Cessi, Politica, economia, p. 253.
151. A.S.V., Pacta, II, c. 91v; Le promissioni del doge, pp. 13-111 (Iacopo Tiepolo - Giovanni Dandolo).
152. R. Cessi, Politica, economia, p. 107.
153. V. Le promissioni del doge, p. 129 (Giovanni Dandolo).