PESCA (fr. pêche; sp. pesca; ted. Fischerei; ingl. fishery)
S'intende per pesca lo sfruttamento degli organismi viventi nelle acque, siano eduli o no, cosicché ai prodotti mangerecci, prevalentemente costituiti da Pesci, Crostacei e Molluschi e, specialmente nei paesi nordici, dai Cetacei da cui si traggono sottoprodotti (olî e farine), si debbono naturalmente aggiungere quelli del corallo (v.), delle perle (v.), delle spugne (v.), della tartaruga (v.) ecc., per ricavarne oggetti di ornamentazione o di uso domestico. La pesca si distingue in pesca di mare e pesca nelle acque interne, e questa in pesca nelle acque salmastre, lacustri e fluviali.
Sommario: Naviglio da pesca (p. 923); Attrezzi da pesca (p. 926); Pesca di mare (p. 930); Pesca nelle acque interne (p. 933); Fondamenti biologici delle disposizioni protettive della pesca (p. 934); Legislazione e polizia della pesca (p. 934); Organizzazione di trasporto e vendita; porti pescherecci (p. 935). - Etnologia e folklore (p. 936).
Naviglio da pesca. - Svariati sono i tipi di battelli da pesca adoperati lungo il litorale; ciascun tipo è la risultante dei bisogni regionali e delle tradizioni costruttive mantenute dai maestri d'ascia del posto, mentre si adatta, prima di ogni cosa, alle esigenze nautiche locali. Anche le particolari attrezzature e le svariate dimensioni delle barche sono imposte da necessità pratiche; dalle usanze nel maneggio delle reti, dall'abbondanza della fauna in alcune stagioni dell'annata, infine dalle perturbazioni meteorologiche improvvise. Si aggiunga che l'esercizio economico di ogni pesca, che si traduce nel "rendimento alla parte", influisce pure sulle dimensioni dei battelli.
Tralasciamo quelli di minimo tonnellaggio che esercitano nei porti, negli estuarî, sotto la costa; essi rispondono, su per giù, a un tipo fondamentale. La propulsione dei battelli di maggiore tonnellaggio, sino a 4 o 5 tonn., non pontati (ma muniti di largo carabottino a poppa e a prua) del Tirreno, è affidata a una vela latina oltre che ai remi. I tipi più grandi servono per la pesca con i palangresi e per migrazioni lungo la costa.
Ciò premesso è opportuno accennare ai varî navigli pescherecci regionali. I gozzi liguri hanno l'ossatura molto robusta: i dritti di prua e di poppa si elevano dalla chiglia con direzione inclinata e convergente. Due o tre banchi; carabottino a prua, albero con scassa mobile molto a proravia e inclinato verso prora, ciò che diminuisce l'attrito di scorrimento dell'antenna e facilita la manovra nel virare di bordo. Nel Napoletano sono da menzionare la menaide (dimensioni m. 7,50 × 1,90 oppure 10,40 × 2,60 × 0,75 e dislocamento tonn. 3,60) e la barca pozzolana (m. 9,25 × 2,50 × 0,60) adoperata per nasse e tramagli. Tali battelli, partendo in febbraio, si spingono verso il Nord, lungo la costa romana, sino a raggiungere la Riviera ligure.
Nel naviglio peschereccio sardo si distinguono le barche carlofortine, addette alla pesca dell'aragosta con le nasse (contemporaneamente usano tramagli e bestinare); le carlofortine sono ordinariamente tutte pontate (alcune solo a metà); due o tre boccaporti lunghi 5 0 6 metri; albero spostato a proravia e inclinato verso prua; un piccolo vivaio a poppa, per le aragoste. Anche i battelli ponzesi vengono in busca dei crostacei predetti nelle acque sarde; essi hanno le linee della feluca, caratteristiche nelle barche napoletane. L'aragosta pescata in Sardegna, in Sicilia o alla Galita (Tunisia) è poi trasbordata anche su golette vivaio, sulle 20-40 tonn. che la trasportano viva sul mercato di consumo (Marsiglia, Barcellona); il vivaio costituisce uno speciale compartimento dello scafo limitato da paratie stagne e, nella parte superiore, da una seconda coperta, nella quale si aprono piccoli boccaporti; esso è in contatto diretto col mare mediante fori di 4 0 5 cm. di diametro.
In Sicilia oltre i vuzziteddi costieri (un albero a vela latina e due o tre banchi) si adopera, per la pesca in mare largo e per le migrazioni, la barca capaciota (nata a Isola delle Femmine, feudo dei conti di Capaci; donde il nome), lunga fra 6 e 12 metri, larga da 1,50 a 3, con albero a vela latina e fiocco; 4 0 5 banchi.
Nel Veneto, oltre i bragozzi e trabaccoli (v. appresso) si adoperavano sardellare e pieleghi (questi ultimi per la pesca con i palangresi) lunghi, generalmente, fra 6 e 9 metri; negli estuarî del litorale si hanno i topi (sino a 10 tonn. di stazza; in mare largo, nella buona stagione, pescano anche sardelle), le bragagne che sono le regine della pesca lagunare e i sandoli. La bragagna ha tre alberi con tre vele; è lunga sui 10 m., ha un carabottino e due banchi; nel sandola la parte prodiera assume forma acuminata, poiché le tavole del fasciame si riuniscono dritte costituendo il tagliamare a guisa di cuneo e determinando, sul fondo dello scafo piatto, una superficie triangolare. Il più veloce battello lagunare è la caorlina: prua e poppa ricurve all'insù che finiscono con ferro a rostro quasi verticale detto pinzo.
Nel golfo di Trieste e nell'Istria le imbarcazioni riprendono le forme consuete pur dominando ancora l'influsso del bragozzo. La barca di Muggia ha fondo piuttosto piatto, è semipontata con carabottino a poppa e prua, vela latina, 6-12 m. di lunghezza; la brazzera stazza da due a tre tonnellate; le battane, adoperate nel golfo di Trieste, completamente pontate, stazzano sulle tre tonnellate, hanno due boccaporti, due alberi con vele a terzo da bragozzo. Servono principalmente per la pesca delle sardelle, ma adoperano anche le strascicanti. S'usano anche le gaete e i leuti; le prime sono parzialmente pontate con un albero a vela latina (2-4 tonn.); il leuto, simile alla gaeta, porta un bastone di fiocco.
Esistono, lungo il litorale italiano, portolate che raggiungono al largo i battelli in pesca per portare il prodotto in terra. Il nome è originato a Chioggia, dove è chiamato portolata il brogozzo nel quale sta il padrone (che comanda altri bragozzi più piccoli, che costituiscono la compagnia) e che porta a terra la pesca.
I tipi pontati servono invece, generalmente, alla pesca con la rete a strascico; essi navigano, pertanto, a vela, trascinando normalmente a coppia la rete predetta. I due battelli tipo sono la paranza o paranzella del Tirreno, e il bragozzo o trabaccolo da pesca adriatico; la prima, santamargheritese, di Resina, siciliana, ecc., è dotata di due alberi o di uno solo e di un robusto bastone di fiocco, stazza da 5 a 6 tonn.; in pesca, navigando a due, di conserva, le paranze tengono assicurata a poppa una cima ciascuna, che si collega all'estremità di un'ala della rete a strascico.
"Differenza essenziale fra la paranza tirrenica, la barese e il trabaccolo da pesca o bragozzo dell'Adriatico, è la forma dello scafo e specialmente dell'opera viva, la quale nel tipo adriatico ha la chiglia piatta per adattare lo scafo all'entrata dei porti canali della costa occidentale dell'Alto Adriatico e anche per prendere costa, ormeggiandosi lungo il litorale e bussando sulla sabbia lungo le mareggiate che possono levarsi improvvise" (Baistrocchi). Il bragozzo è armato con due alberi, le vele sono a terzo; il timone, molto largo, scende oltre mezzo metro sotto la linea di chiglia, che è provvista di agugliotti lunghissimi che consentono di sollevarlo a mano o valendosi di robusti paranchi costantemente guarniti all'albero poppiero. Il timone è principalissimo arnese dell'armamento; infatti quando il battello raggiunge la bocca del porto canale oppure il limite di ancoraggio sia in rada sia in costa aperta dove il fondo diminuisce, l'equipaggio sospende il timone sugli agugliotti o anche lo mette a bordo: la manovra del bragozzo è allora esclusivamente affidata all'opportuno orientamento delle vele. Il bragozzo va notevolmente soggetto allo scarroccio; alcuni battelli di questo tipo, trasferiti durante la guerra mondiale (via terra), nel Tirreno, diedero minore rendimento delle paranze tirrene, poiché il maggior percorso in deriva li costringeva durante la navigazione in pesca a non scostarsi troppo dalla base, per non correre il rischio di non rientrare al tramonto in porto, essendo troppo scaduti sottovento. L'esperienza ha quindi dimostrato che il bragozzo è tipo esclusivamente adriatico.
Sino alla guerra mondiale, la pesca velica, a paranza, aveva assoluto predominio lungo il nostro litorale; nel dopoguerra essa è grandemente diminuita e tende a sparire a vantaggio dei mezzi meccanici.
È da premettere che, in Atlantico, la pesca a strascico è, da tempo, effettuata con chalutiers o trawlers, ciascuno dei quali traina, da solo, il chalut à perche o beam trawl. Per secoli lo chalutage non si allontanò molto dai litorali inglese e francese, a causa della insicurezza dominante sui mari; soltanto dopo il 1815 comincia ad allargarsi, ma i trawlers britannici non si arrischiano, o raramente, sul Dogger Banki che a datare dal 1830. I pescatori di Brixham più audaci, si allontanano sempre più dalla costa; si stabiliscono, verso il 1840, a Hull e Grimsby e gettano le basi della fortuna di questi due porti pescherecci; introducono, nel 1862, la pesca a strascico a Lowestoft, porto da aringhe. Frattanto, armatori di Hull che vogliono andare sempre più lontano e restare quanto più è possibile in mare senza giovarsi di portolate per mandare il pescato a terra, hanno già cominciato a imbarcare, dal 1860 al 1865, blocchi interi di ghiaccio. Ciò consente l'ampliamento del raggio di azione (nel 1875 s'inizia lo sfruttamento del Great Fisher Bank), cosicché, in conseguenza delle lunghe permanenze a mare e delle maggiori catture, aumentano le dimensioni dei pescherecci. E aumenta, concordemente, la grandezza del beam-trawl; il palo che ne tiene aperta la bocca, passa dai 6 m. del secolo XVII, a 10 m. nel 1830, a 15,30 nel 1860, per finire a 20 metri, massimo, nel 1894. Frattanto è entrata, timidamente, sulla scena la trazione a vapore; armatori di Sunderland escogitano, nel 1862, di trainare i loro battelli con gli chaluts per mezzo di un rimorchiatore a vapore. Nel 1865, ad Arcachon sono già direttamente in pesca due vaporetti; nel 1872 si vara lo Stuart a Boulogne che, malgrado l'insuccesso, è seguito, nel 1879, dallo Eurvin (176 tonnellate) e, nel 1881, dal Reine Berthe; soltanto nel periodo 1877-1880 entrano in lizza i primi trawlers britannici, nel 1884-85 i tedeschi e gli olandesi. Rapidamente le dimensioni dei pescherecci a propulsione meccanica passano da 30 a 90 tonn.; la conseguente introduzione di verricelli a vapore per salpare l'attrezzo consente di dragare fondali sino a 60 braccia; il veliero continua a perdere terreno, mentre il beam trawl che ha pure raggiunto la massima grandezza ed è, pur esso, tanto ingombrante, dà risultati non adeguati, se trainato a vapore. Ma nel 1895 entra in uso un tipo più perfezionato ed efficiente di attrezzo, l'otter board trawl o chalut à panneaux: la principale differenza dal vecchio attrezzo consiste non solo nelle maggiori dimensioni (la bocca è larga, ordinariamente, 30 metri e alta 7 nei tipi francesi), ma anche, e più, nel fatto che al palo è sostituito un cavo, assicurato alle due estremità a tavoloni rettangolari divergenti (che tengono bene aperta la bocca) di m. 3 × 1,40 circa, i cui lati inferiori sono pesantemente rivestiti in ferro. Il cavo di acciaio, guarnito con una catena e foderato di canapa, che limita la parte inferiore della bocca è talvolta munito, nella parte mediana, di rulli di olmo per fargli scapolare le piccole ineguaglianze del fondo. Ciò provoca la specializzazione decisa di un tipo di piropeschereccio: il trawler; quello tipico, in uso nel Mare del Nord e in Atlantico è nel dopoguerra, un piroscafo in acciaio a due alberi delle seguenti dimensioni: lunghezza fra le pp. 35 m. circa, larghezza m. 6,70 circa; altezza da 3 a 4 m. ed è fornito di macchine della potenza di 450 cavalli indicati. Scafo robusto, con buone linee nautiche ed accentuato cavallino con forte rialzo a prora. Stazza sulle 250-300 tonn. lorde. Il castello di prua è a dorso di tartaruga, e costituisce un deposito per gli attrezzi da pesca e forma un paraonde che impedisce d'imbarcare acqua. La coperta è completamente sgombra, dal castello alla timoniera situata a mezza nave. A diritta e a sinistra, a prua e a poppa, due strutture di acciaio sostengono le pulegge attraverso le quali i cavi di rimorchio della rete vanno fuori bordo.
Dal 1895 questo piroscafo altamente specializzato lascia ai velieri il beam trawl e adopera esclusivamente l'otter board trawl, che si va continuamente ingrandendo, sviluppando e perfezionando. L'aumento delle dimensioni, comunque, ha imposto un corrispondente incremento nella potenza dell'apparato motore e quindi nella stazza; il francese Marcella, recentemente allestito (dimensioni: m. 70 × 10½ × 6) sviluppa 1000 cavalli, ha 2340 tonnellate di dislocamento e 10,5 nodi di velocità; a Bordeaux ne è stato impostato un altro della velocità di 15 nodi. Il tedesco Volkswol sviluppa 600 cavalli, l'olandese Tarana 575. Il trawler a motore dell'avvenire prevede il Hardy, potrà essere un attrezzo peschereccio di alta potenza, con frigorifero, bussola giroscopica, scandaglio acustico e tutti gli aiuti scientifici per la condotta della navigazione e della pesca. Si aggiunge "l'adozione di speciali forme di scafo, poppa a incrociatore, timoni ed eliche speciali". Tutto ciò comunque ha consentito d'aumentare ancora la permanenza in mare, di spingersi sino a grande distanza dalla costa, di calare l'attrezzo anche in fondali di 600 m. Contemporaneamente alla specializzazione del trawler per la pesca a strascico, si venivano anche evolvendo e fissando sulle linee definitive due altri tipi specializzati a vapore, il liner o cordier (sulle 110 tonn.) per la pesca con i palangresi e il drifter o deriveur che cala reti alla deriva, lunghe da due a tre miglia, per la cattura delle aringhe (nel 1904-1905 lo chalutier si è anche dedicato alla pesca del merluzzo e dello sgombro; dal 1912 fa viva concorrenza ai drifters catturando, a strascico, aringhe).
Lo sviluppo dei mezzi meccanici nell'Atlantico aveva spinto a esperimenti varî anche nei mari italiani; nell'anteguerra navi tedesche trainarono l'otter board trawl in Adriatico; un piroscafo inglese tentò fra la Corsica e l'arcipelago toscano; industriali siciliani nello Jonio; tutti con risultati poco soddisfacenti. Nel 1912, un esperimento governativo di pesca meccanica in Adriatico (al largo di Ancona), condotto con serietà d'intenti dal Paolucci, non ebbe grande successo; anche la Nekton di Fiume fece analoghe esperienze, durante la guerra mondiale, ma con esito incerto. Altri tentativi fece il Police nel 1919 a Napoli, rilevando che i tavoloni erano troppo pesanti o troppo leggieri; in complesso i risultati furono scarsi. Né migliore esito ebbero gli esperimenti effettuati nell'immediato dopoguerra, d'accordo fra la R. Marina e il Ministero dell'agricoltura, da motoscafi tipo Elco (40 tonn. di dislocamento) lungo la spiaggia romana e l'Arcipelago Toscano, e quelli condotti dalla R. Squadriglia sperimentale di pesca, in Sardegna, sotto la guida del comandante Mancini. Evidentemente l'insuccesso era dovuto al fatto che la rete nordica riusciva troppo pesante nei mari italiani a causa della natura del fondo.
Per ottenere esito più soddisfacente occorreva dunque modificare l'otter trawl; il problema fu risolto brillantemente, nel 1921, da Umberto Lupi di Viareggio (varrà soltanto accennare che l'armamento francese Vigneron e Dahl di La Rochelle ha creduto di vantare la sua priorità), il quale, dopo aver tentato con i soliti attrezzi nordici, applicò divergenti, non già immediatamente alle estremità delle ali della comune paranza mediterranea, ma agli estremi di due cavi di canapa, lunghi 200 m., collegati alle stazze; ai divergenti predetti fanno poi capo i cavi di rimorchio, di acciaio, lunghi 800 m. circa ciascuno. Ebbe subito ottimi risultati e l'attrezzo da lui ideato è quello ormai in uso, lievemente modificato, nelle acque italiane, trainato in genere da un solo peschereccio a propulsione meccanica (ad Ancona piropescherecci pescano, a coppia, nella stagione adatta, il pesce turchino).
La pesca meccanica si è, nel dopoguerra, grandemente sviluppata in Italia; la motorizzazione del naviglio, che non appartiene, per ovvie ragioni, a tipi di costruzione definiti, continua (al 31 dicembre 1933 vi erano 1270 battelli motorizzati per 33.785 tonn. lorde); il governo l'ha agevolata con ogni cura, adottando tre ordini di provvidenze che si sono seguiti in ordine cronologico: a) premî all'esercizio di motopescherecci; b) premiazione dei migliori motopescherecci (per selezionare i tipi più adatti); c) standardizzazione del naviglio in quattro tipi fondamentali, che più si adattano alla pesca industriale nelle acque italiane: tipo per la pesca ravvicinata, per quella di altura, per la grande pesca oceanica, tipo adriatico. I tipi anzi diventano sei qualora si rifletta che il secondo e il terzo si possano realizzare o come piropescherecci o come motopescherecci; ci sono, anche in Italia, fautori dell'uno e dell'altro sistema, ma ormai generalmente si ammette che il motopeschereccio, ad esclusione della pesca di grande altura, sia più economico, rimanendo però sempre la difficoltà di avere buoni motori e buoni motoristi; nella pesca di grande altura, il piropeschereccio è più conveniente, a meno che non si tratti di campi di pesca ove occorrono installazioni frigorifere che, richiedendo grande spazio, rendono più adatto il motore a combustione interna. Nel Mediterraneo il prodotto della pesca giornaliera di un singolo battello si calcola normalmente in quintali; in quella oceanica e nordica si calcola, invece, in tonnellate; non sono quindi economici, nei mari italiani, le grandi portate del materiale atlantico; il tipo più adatto di motopeschereccio, per la pesca ravvicinata in Itafia, ha lunghezza di circa 18 m., lunghezza fuori tutto m. 20, immersione sufficiente a dare al battello una certa stabilità, larghezza di 5 m. circa, potenza 80-90 HP.
Negli ultimi tempi si è sviluppata la tendenza, sia nell'Arcipelago Toscano, sia nell'Adriatico, a costruire motopescherecci d'altura con motori di potenza variabile tra i 200 e i 250 HP, lunghezza 20-30 metri, sia per raggiungere campi di pesca lontani, sia per pescare in acque profonde.
Dopo l'adozione dei divergenti, la pesca a strascico ha tentato campi lontani dalle coste italiane, con risultati abbastanza incoraggianti. Ma, a breve distanza di tempo, anche i limiti mediterranei furono superati dalla flottiglia della I.P.E.S., costituita con piropescherecci di costruzione tedesca, che operarono prima nel mare del Nord, con base in quei porti, e poscia al largo della costa occidentale africana (lungo la regione del Río de Oro dall'altezza delle Canarie sino a Villa Cisneros e anche più a S. fino a capo Barbas e Capo Bianco) con base a Civitavecchia. Ogni unità si assentava dalla base predetta per un mese circa; venti giorni circa occorrevano per percorrere, in andata e ritorno, le 1600-1800 miglia intercorrenti tra la base e la zona di pesca; una diecina di giorni sul banco bastavano a catturare 40-60 tonn. di pesce di grosse dimensioni che veniva conservato sul ghiaccio con risultati poco buoni. Per ridurre le spese di esercizio e sbarcare il pesce in condizioni migliori, la società adoperò anche alcune sue unità da portolate, impiantò anche frigoriferi su qualche unità, ma andò incontro, in sostanza, a un insuccesso. Però l'esperimento non fu vano, perché dimostrò che l'introduzione in Italia di pesce congelato, direttamente pescato in Atlantico da flottiglie che hanno base in scali nazionali, dipende dalla soluzione di due complessi problemi: uno, naturalmente, che riguarda lo smercio del prodotto in paese; l'altro di località e distanza. Fu così possibile precisare i principî che devono presiedere alla costruzione di nuove unità adatte allo scopo e cioè: che abbiano buona velocità, impianto frigorifero che permetta rapido ed efficente congelamento dei pesci appena pescati, non sventrati.
Il Ministero dell'agricoltura bandì un concorso, nel 1931, per un premio al miglior progetto di battelli da pesca nell'Atlantico, da costruirsi con impianti adatti per il trasporto del prodotto in Italia; lo vinse la Italpesca di Umberto Lupi che fece costruire nel cantiere Breda, di Venezia, tre motopescherecci a carena Maier, già entrati in esercizio: Umberto Lupi, Alfa Romeo e Breda (dimensioni: m. 52,10 fuori tutto e 47 fra le pp. × 7,42 × 3,24; stazza lorda 400, netta 197; celle frigorifere della capienza di mc. 322 e impianto Zarotschenzeff, apparato motore Diesel, fornito dall'Alfa Romeo, a inezione meccanica, quattro tempi senza compressori, otto cilindri verticali, potenza normale HP 750, consumo a pieno carico per HP-ora gr. 170, velocità 12 nodi, apparecchio a scandagliare Marconi a ultrasuoni tipo ecometro, equipaggio 21, cioè sei in meno delle unità della I.P.E.S.).
La zona di pesca dei tre motopescherecci (ai quali è da aggiungere la Naiade, di stazza inferiore, trasformata testé in motonave) si estende a tramontana e occidente del bassofondo di Arguin, ossia fra 20° e 21° 30′ di latitudine Nord, approssimativamente. A Livorno, porto di base, furono sistemati ampî magazzini frigoriferi, alla cui porta, nella calata Sgarallino, i vagoni frigoriferi o refrigeranti possono imbarcare direttamente la merce.
Attrezzi da pesca. - Armi e ordigni varî. - In questa prima categoria sono inclusi attrezzi d'importanza tecnica ed economica minore, di costruzione e uso più semplici: essi ci richiamano il primo stadio dell'evoluzione della pesca.
L'uomo preistorico adoperava la fiocina o arpone indifferentemente per la caccia e la pesca; l'invenzione dell'amo, fra la fine del periodo paleolitico e il principio del neolitico, apportò un notevole progresso, consentendo una stabile differenziazione fra le attività predette.
La fiocina è ordinariamente adoperata mediante battellini manovrati da due pescatori: uno rema lentamente, l'altro, in piedi, manovra la fiocina. La pesca può essere effettuata di giorno con lo specchio (grosso cilindro di metallo provvisto sul fondo di un cristallo trasparente per scrutare il fondo), ma è più efficace di sera, con l'ausilio di una sorgente luminosa che rifletta la luce sull'acqua lasciando battello e pescatori nel buio più fitto. Attrezzi derivati dalla fiocina si adoperano per pesche speciali; per es., la delfiniera, per il pesce spada (v.). Il vero primo attrezzo specializzato per la pesca fu l'amo. In Italia si adoperano ami inglesi (i più usati), norvegesi, nazionali e francesi (meno adoperati); essi differiscono per il colore, le dimensioni, la fattura. Ma di qualunque forma o dimensione, occorre che l'amo non presenti irregolarità di fabbricazione; le gobbe o le detorsioni nonché la tempera influiscono sul risultato della pesca.
Nella sua forma più semplice la pesca all'amo ha bisogno della canna e della lenza; la canna, qualunque sia il tipo adoperato (metallica, non usata per pesca marittima, o vegetale, ottenuta dal culmo di Arundo donax) deve essere diritta, forte e flessibile; l'amo è collegato alla canna mediante la lenza, che viene appesantita da piombini perché resti verticale e non sia smossa dalle correnti. Le lenze oggi più frequentemente adoperate sono di crini di cavallo bianco o nero (i maschi giovani dànno i peli più robusti, quelli delle giumente si spezzano subito). Si hanno altresì lenze in seta (adoperate nelle acque interne), di metallo (rame a preferenza), di fili di canapa ritorti.
Perché il pesce abbocchi all'amo occorre l'esca, che, naturalmente, varia secondo il pesce da catturare.
Oltre il tipo di lenza semplice, già descritto, se ne hanno di speciali; notiamo, fra essi, i filaccioni, di canapa ritorta, di spessore e lunghezza variabili (da 13 a 25 m.) secondo le località e le specie da pescare; le togne, a più ami, che si calano dalla barca ferma; le pannole di lunghezza variabile fino a m. 100-150 circa, terminate da un altro cavetto ma assai sottile ricoperto solitamente da filo di metallo e che portano da 2 a 5 ami; esse si calano di giorno, generalmente, dal battello a remi o sotto vela, appartenendo quindi alla categoria delle lenze a traino. Fra queste ultime hanno importanza speciale le lenze di crini neri, terminate da 50 cm. di crini bianchi, per la cattura dell'alalunga (Thynnus alalunga); l'amo all'estremità è mascherato da piume bianche di colombo o gabbiano, e, saltellando sull'acqua, è abboccato con violenza dal pesce. Tale pesca è molto sviluppata in Atlantico dove battelli specialmente armati, provvisti di due lunghe aste protese fuori bordo a diritta e a sinistra, e guarnite con sei lenze ciascuna, si dedicano ad essa fra luglio e ottobre.
Fra le lenze hanno poi importanza specialissima quelle di fondo: palangresi o palamiti, costituiti da un cavo di canapa trasversale (trave, lungo circa 500 m.; unendo più travi, si formano palamiti anche da 5000-6000 metri) dal quale pendono cavetti longitudinali (braccioli o filaccioni, lunghi da 2 a 5 metri) armati di amo all'estremità. Gli estremi del trave vengono sostenuti da due cavi longitudinali (calumi) che affiorano alla superficie mediante galleggianti (panie); il trave è mantenuto al fondo da pesi. I palangresi sono calati (generalmente di sera, innescandoli a misura che la lenza entra in acqua, e salpati la mattina): a mezz'acqua; a ponte, ossia a zig-zag; a fondo, per la pesca di profondità effettuata oltre i 200 metri sino a 500 in genere, ossia nel declivio che dalla platea continentale va ai fondi abissali. La lunghezza e lo spessore del trave e dei filaccioni, le dimensioni degli ami, la qualità dell'esca, variano secondo il pesce da catturare (merluzzi, cernie, ecc.); il battello che adopera l'attrezzo (palamito) stazza da 4 a 5 tonn.; è armato da 5 0 6 persone e porta un numero variabile di ceste nelle quali sono abbisciati i travi. Data la conformazione della platea continentale dei mari italiani, la pesca a profondità potrebbe essere molto più sfruttata; il lavoro dei palangresarî è certo assai faticoso dovendosi salpare a mano l'attrezzo dagli alti fondali; un perfezionamento in tale pesca è stato costituito dall'arganello salpa-palangresi.
Attrezzi minori sono: i fusi o totanare, legni fusiformi, tinti di bianco e rivestiti di cotone od ovatta, che terminano con una serie di aghi di acciaio con le punte rivolte in fuori (corona), trainati nell'acqua a 10-35 metri catturano i cefalopodi. Simili sono i lateri; la purpara, piombo ovato cilindroide al quale sono assicurati tre ami; l'orciolo o langella, vaso di creta senza collo tenuto a fondo per adescare i polpi; le vorle, mazzi di lentisco o di corbezzolo, legati con funi di sparto, per adescare le seppie a deporvi le uova, prendendole facilmente con una rete calata sotto le vorle o con la fiocina; la seppiarola; la pesca a formella con l'uso della seppia femmina per adescare il maschio nel periodo degli amori.
La pesca dei Lamellibranchi si fa invece con attrezzi che ricordano le draghe: il ferro da calcinelli; la porazzara usata dai Marchigiani; il rullo e il rastrello a manganello in uso presso i Napoletani.
Grande importanza ha, però, la nassa; gabbia di giunchi, la cui larga apertura, alla base si prolunga in giunchi liberi che si spostano con facilità, permettendo così all'animale che s'intromette nello spazio da essi contornato, di penetrare nell'interno della nassa, attirato dall'esca. Ma appena esso è penetrato, i giunchi si riaccostano, avvicinano i loro estremi, entro i quali l'animale urta ogni qualvolta vorrebbe tentare di uscire rifacendo la via d'entrata.
Con le nasse si catturano palombi, gronghi, murene, aragoste, seppie.
Reti. - I più remoti esemplari di reti appartenenti al periodo neolitico sono comparsi nelle palafitte svizzere del lago di Pfaeffikon. Le reti neolitiche erano intessute di Linum angustifolium, avevano maglie grandi e a forma quadrata; erano mantenute al fondo mediante pietre o pezzi di argilla cotta; invece di sugheri si adoperavano frammenti di scorza di pino, di forma quadrangolare e bucati nel centro.
La rete odierna è formata da fili incrociati e annodati fra loro, che lasciano spazî liberi, di dimensioni eguali e determinate, secondo le differenti reti, detti maglie. La forma delle maglie è sempre la stessa: quadrata o a losanga, e il filo interposto fra nodo e nodo è detto lato, mentre le dimensioni costituiscono il lume (Cannaviello). I pescatori distinguono le reti dal numero dei nodi compresi entro una determinata misura che, per l'Italia meridionale e la Toscana, è il palmo (cm. 0,26).
Le reti sono fatte di cotone principalmente, di canapa, di lino (e, per la pesca di acqua dolce, anche di seta); il materiale deve essere sempre di qualità eccellente; ne dipendono resistenza alla rottura, elasticità, flessibilità e durata dell'attrezzo. Ma poiché questo, nell'uso, è sottoposto a molte cause di facile e rapido deterioramento (strofinio, azione chimica dell'acqua di mare, dell'aria, dei batterî) ne consegue la necessità di preservarlo. La rete nuova è quindi immersa, prima dell'uso, in un bagno di sostanze tannanti; molto adoperata è, all'uopo, in Italia, la corteccia, finemente pestata, dello zappino (Pinus halepensis) che ne contiene circa il 25%; altrove si adopera l'Acacia catechù (o un catrame). È necessario ripetere l'operazione parecchie volte entro l'anno (da otto a dieci e anche più). Recentemente, però, sono stati condotti esperimenti allo scopo di trovare preservativi più energici (circa 100 ne furono provati, nel 1927, alla stazione di Beaufort negli Stati Uniti) o di mantenere l'aderenza del tannino alla fibra; sembra che la durata delle reti di canapa e di cotone, trattate con sapone di rame (prodotto commerciale che contiene un miscuglio di stearati, palmitati e oleati) disciolto in benzolo grezzo, o petrolio, aumenti da 1,8 a 3 volte. Sarebbe anche efficace il metodo di Olié di Utrecht che consiste nel fissare il tannino con una consecutiva immersione in solfato di rame ammoniacale.
Nella ricerca di nuove sostanze preservatrici occorre anche tener presente che il colore che ne deriva renda la rete in pesca meno visibile e che la sostanza adoperata (come potrebbe avvenire col carbolineum usato in Olanda) non sia solubile nell'acqua e non metta in libertà composti la cui sgradevole presenza allontanerebbe i pesci dalla zona.
Le reti (un tempo fatte tutte a mano, l'arte va completamente sparendo uccisa dai retifici meccanici) s'intessono mediante l'ago (di legno, ordinariamente; e lungo una ventina di centimetri) e i mòdani. Del primo, indispensabile all'intessitura dell'attrezzo, e quindi noto anche all'uomo neolitico, si è trovato qualche esemplare in metallo a Thonon (Alta Savoia), qualche altro in ferro nelle stazioni di pesca di Dolina; altri in osso in Egitto (epoca predinastica). Il modano è un regoletto cilindrico, di canna o di legno, lungo una decina di centimetri e di diametro variabile secondo le dimensioni da dare alla maglia; su di esso si passa il filo per fare i nodi, con l'aiuto dell'ago. Naturalmente, la circonferenza del modano dà la misura della maglia; la circonferenza di quest'ultima, regola empirica esposta dal De La Blanchère, corrisponde al doppio di quella del modano; la lunghezza del lato della maglia corrisponde alla metà della circonferenza del modano stesso.
Fatta comunque la rete, occorre armarla; orlarla cioè di funicelle di canapa (cordelle in Toscana, bremi in Sicilia, lime altrove, ecc.) nelle parti superiori e inferiori. Al cavo superiore sono assicurati, a intervalli regolari, i sugheri il cui numero e grandezza devono essere proporzionati al peso della rete da sostenere (in qualche località, per ragioni di prezzo, si adoperano tavolette di abete o sfere di vetro spesso [Norvegia] serrate in un involucro di cavo). A quello inferiore vengono fissati i piombi. Cavi di canapa, manilla, spario, cocco o metallo, di spessore e lunghezza varî, servono infine a salpare o rimorchiare l'attrezzo.
Le reti si possono dividere nelle seguenti categorie: a) a strascico; b) di circuizione; c) da posta e alla deriva.
a) Le reti a strascico sono gli attrezzi più costosi e che raggiungono dimensioni maggiori, ed esigono una tecnica alquanto più complessa; hanno la funzione "di radere il fondo raccogliendo, nella porzione terminale della rete (sacco o manica), tutto quello che si trova su di esso o vi si muove a breve distanza e che, con l'aiuto di pareti laterali, che verso il sacco convergono, si limita e gradatamente si raccoglie" (Cannaviello). Le pareti, che in pesca formano due ali cadenti verticalmente, sono di lunghezza variabile secondo la rete, ma sempre notevole, costituite da maglie di dimensioni sempre minori a misura che si avvicinano al sacco che "solitamente è di forma conica, a fondo cieco, di lunghezza variabile e a maglie assai fitte". Quando la rete è in pesca il sacco si mantiene aperto per l'azione discordante dei sugheri e dei piombi.
La rete a strascico tipo, alla quale tutte le altre si riferiscono, è la paranza: una delle maggiori. Le pareti o braccia o vanne, sono rettangoli "allungatissimi, di rete, variabili da m. 50 a metri 120 secondo la località"; il sacco, conico, lungo m. 20-30, è diviso in settori variamente denominati secondo i luoghi; esso, in pesca, draga il fondo con la parte inferiore, il letto, mentre la superiore, il cielo, è sollevata. Il sacco è protetto da uno o più tratti sussidiarî di rete, cerbarina e delfiniera, a maglie larghe, per difesa contro gli ostacoli del fondo e per garantirne il contenuto contro i delfini; le pareti cominciano con due stazze di legno che servono a tenerle aperte nel senso della larghezza "in modo da far ala alla bocca della rete in trazione". Alle stazze è unito per davanti un sistema di corde o mazzette di sparto, formate da tre corde attorcigliate fra di loro, convergenti per ogni lato a un grosso cavo di canapa (sagola, saula a Napoli, resta ad Ancona) lungo da 800 a 1000 metri, con il quale la rete è manovrata. Dall'estremità del sacco a una delle stazze corre un cavo: ciuccio, che serve a ricuperare la rete quando essa s'impiglia nel fango o in ostacoli diversi. La paranza è manovrata da due battelli accoppiati: tartane, paranze, bragozzi, ecc., che di giorno, ordinariamente (ma anche di notte, col vento propizio) calano le reti nei fondali adatti, trascinandole di conserva. La manovra è diretta dal battello di sopravvento; si catturano in questa maniera pesci di fondo che si sollevano impauriti per l'intorbidamento dell'acqua, causato dal movimento di strisciamento delle mazzette sul fondo; mentre tentano di fuggire, incontrano le bande che li convogliano verso la bocca della rete che si avanza.
Altre reti a strascico sono: la coccia, veneta, simile alla paranza ma più piccola (lunghezza complessiva delle ali e del sacco: 30 m. circa, complesso del traino: 400-600 m. circa) pure trascinata a coppia; la tartana di Venezia, non più lunga di 12 m., manovrata da un solo bragozzo e tenuta aperta da due aste (suntieri) sporgenti fuori bordo, a prua e a poppa; il tartanone o tartarone costituito da due lunghe ali raccordate a una manica che comincia con maglie larghe e va a finire in uno spessore così fitto da prendere anche i pesci minuscoli. Il tartanone è manovrato da un solo battello a remi: si dà fondo ad un'ancora il cui ormeggio corrisponde, alla superficie, a un sughero al quale è dato volta uno dei cavi di rimorchio della rete: si fila quindi l'attrezzo, si torna al punto di partenza e si salpa. È anche adoperato, in alcune marine siciliane, un tartanone a volo, attrezzo di manovra delicata che pesca, fra due acque, asinelli (Smaris vulgaris) principalmente, ma anche altri pesci; simili al tartanone tipico sono le tartagne, corte o lunghe, spesse o chiare (secondo le dimensioni delle maglie); aggiungi la tartanella, più piccola ma simile alle precedenti, che si adopera tutto l'anno in fondali variabili da m. 20 a 60, salpandola da un battello ancorato (essa, che in alcune località è stata modificata, ha assunto denominazioni differenti come mestiere cattivo in Liguria, ecc.).
Più importante la sciabica, costituita da un sacco e due lunghissime ali che finiscono in stazze alle quali sono dati volta i libani di trazione; è attrezzo usatissimo nel Mediterraneo (issaugue, in Provenza) e si adopera in piccoli fondali per la cattura di acciughe, sardine, triglie, ecc.; due squadre di pescatori la alano dalla spiaggia, dopo che essa è stata calata da un battellino. Più piccolo è lo sciabichello, che si può quindi salpare anche dal battello; lo sciabichello di fondo ha il suo cavo inferiore marginale più appesantito da piombi per andare meglio a fondo e si salpa sempre da terra; la mazzonara è attrezzo da pesci minuti, da usare lungo la spiaggia.
Rete a strascico di tipo alquanto diverso perché privo di ali è il carpasfoglie, a forma conica, allungatissima, sul tipo di una draga, costituito da una parte anteriore, corpo, che finisce in un sacco o cova. La bocca è tenuta costantemente aperta da un palo di faggio lungo 2 m. circa; esso si adopera quasi esclusivamente nel medio Adriatico; di notte, usualmente trainato da un galleggiante (che spesso rimorchia più di un attrezzo) su fondali non superiori a 30 m.; cattura sogliole, passere, scorpene, ecc.
L'ostreghera è una varietà del carpasfoglie la quale è invece adoperata nell'alto Adriatico; ivi e nella Venezia Giulia sono anche usate, in alti fondali e al largo, la mussoliera e la mussoliera a piombo, a sacco, appesantite da una spranga di ferro nella parte inferiore per la cattura di pesci, crostacei e molluschi; si aggiunga l'angamo, attrezzo rudimentale, costituito da due semicerchi in ferro o in legno che si incontrano ad angolo retto; ad essi viene collegata una manica lunga da m. 2 a 3,50 a maglie uniformi. È trainato in bassi fondali, da gozzetti isolati, equipaggiati da una sola persona, per la cattura di novellame, di qualche scorfano, ecc.
L'uso delle reti a strascico ha provocato, e da tempo, vibrate proteste da parte dei pescatori con attrezzi diversi, i quali hanno sostenuto che le strascicanti impoveriscono il mare. L'accusa non sembra fondata (Brunelli, Fortini).
Le reti a strascico di cui si è fatto cenno sono quelle in uso, sotto varî nomi, in tutto il Mediterraneo; qualcuna è passata in altri mari: la paranzella net, ad esempio, introdotta in California nel 1877, da pescatori italiani. Ma in Atlantico lo strascicante tipo è il beam trawl inglese o chalut à perche francese: borsa o sacco triangolare di rete, lungo in genere da 14 ai 30 metri e la cui bocca larga da 7 a 15 m. è tenuta aperta in alto da una lunga pertica di legno ogni estremità della quale è sostenuta da un'ossatura di ferro a forma di staffa (nead inglese; patin, francese) di cui il lato piatto posa sul fondo. Niente ali, come si vede, e l'attrezzo che è stato, a datare del 1895, gradualmente sostituito dal più perfezionato otter-board-trawl potrebbe anche essere, secondo Jenkins, la filiazione di reti mediterranee.
Il primo attrezzo adoperato a strascico, egli osserva difatti, dovette essere una semplice seine o senna; una rete qualsiasi quindi, da aringhe o da sardelle, senza sacco, di cui il pescatore teneva un capo sulla spiaggia, mentre un battellino filava tutto il resto descrivendo un ampio semicerchio e tornando al punto di partenza per salparla. Da questo capostipite si sarebbero sviluppati attrezzi come la sciabica e la paranza (comparsa nel sec. XIII); donde, poi, il gangui, caratterizzato da ali più corte e sacco più lungo delle prime. Dall'idea di trainare l'attrezzo con un solo battello, applicando all'estremo delle ali superiormente un palo, si ebbe, nel sec. XVIII, il gangui di Narbona, Sète e altre città di Linguadoca. Un ulteriore stadio, nell'evoluzione verso il trawl si riscontra nelle reti usate in Normandia, Bretagna e altre località del litorale francese verso il 1776; una di queste era lo chalut del Poitou (che sembra un carpasfoglie adriatico); una maggiore rassomiglianza con l'attrezzo moderno si trova però in una rete adoperata a Saint-Brieuc nella seconda metà del sec. XVIII.
b) Con le reti di circuizione, tipo intermedio fra quelle strascicanti e quelle da posta, i pescatori circuiscono in tutto o in parte branchi di pesce. Fra esse: la cannara formata da due reti: una, bene appesantita da piombi, viene calata in modo da circuire la zona dove si pesca; l'altra, composta da un tramaglio (v. appresso) e canne, si depone orizzontalmente alla superficie, intorno allo spazio così delimitato. L'attrezzo cattura muggini, che, spaventati dal rumore che i pescatori vanno facendo intorno, con pietre o battendo i remi sul battello, saltano fuori dall'acqua, ricadendo sulla rete orizzontale.
Notevole importanza e posto a parte hanno fra le reti predette, la lampara, la ragostina, l'augugliara, la causterellara che il Police definì a fonte o a conca. "Due reti tese verticali e convergenti l'una con l'altra ad angolo verso un sacco, con una rete tesa orizzontalmente al disotto (letto) e che a un certo momento si rialza facendola inclinare verso il sacco del quale, poi, rialzata chiude anche la bocca, costituisce la lampara, che sarebbe stata inventata nel golfo di Napoli, verso il 1838, dal pescatore Matteo di Gregorio". La lampara è, in sostanza, una rete a imbuto con due ali o bande assicurate a due stazze di legno e formate da diverse parti che verso il sacco si continuano nel letto, nella fonte e nel cappuccio a maglie sempre più sottili. Come tutte le reti da incinta, la lampara è mantenuta in superficie da sugheri, mentre l'estremità inferiore del letto si avvicina al fondo, in profondità di 20-30 m. A mano a mano che il pescatore tira le bande a bordo, diminuisce il circuito della rete verticale, serrando lo stuolo dei pesci e proseguendo la manovra di alaggio del letto, che viene lentamente sollevato: tutto il pesce si raccoglie nel cappuccio. La lampara, che si cala di notte, era dapprima manovrata senza il sussidio della luce artificiale; presentemente si utilizza una sorgente luminosa ad acetilene, posta a poppa di una barca (battello guardiano o luce) per attirare il pesce (pelagico di preferenza: acciughe, sarde, sgombri, occhiate, ecc.) in una zona predeterminata; un altro battello frattanto circuisce la zona predetta con l'attrezzo; al momento opportuno si spenge e si salpa la rete.
La ragostina (che è stata adoperata con buoni risultati nel Golfo di Catania, accoppiata a lampada elettrica sommersa); l'augugliara (per la pesca del Belone vulgaris Cuv., con pareti a maglie uguali e fonte poco profonda); la causterellara (per la pesca dello Smaris Camperi Lacép.) sono tipi, più o meno modificati, della lampara; la fonte, che li caratterizza tutti (Police), si differenzia essenzialmente dal sacco di quelle strascicanti "oltre che per la mancanza della parete superiore, che nel sacco si riscontra e qui no, anche per il fatto che le braccia, anziché attaccarsi lateralmente, si attaccano al margine della parete inferiore della fonte (letto), margine il quale si presenta libero soltanto per un tratto minimo posto fra le due inserzioni delle braccia" (Brunelli).
La lampara, attrezzo italiano ed efficacissimo (malgrado l'ampiezza viene manovrato da un battello equipaggiato da sei o sette persone e da un battellino per la luce), accusata anch'essa come quelle strascicanti d'impoverire il mare, si è ormai diffusa in molti lidi italiani per la ferma azione adottata nel dopoguerra, in suo favore, dal governo che ne ha sanzionato legislativamente l'uso, pur con le dovute cautele. Ai nostri pescatori e a tale legislazione si deve se la pesca con la luce si è diffusa fuori d'Italia; in Francia, ad esempio, dove prima era avversata; in California, dove le lampara nets nel 1930 diedero il 54% del prodotto, nel distretto di S. Francisco, il 76% in quello di Monterrey, il 52% a S. Pedro e S. Diego, ecc. Un perfezionamento dell'attrezzo italiano è ivi, la purse seine, pure adoperata con il sussidio della luce.
È da aggiungere, fra le reti di circuizione, il giacchio o sparviero (antichissimo attrezzo noto agli Egizî), rete conica "ad apertura circolare di lungo raggio, che, carica di piombi alla periferia, è munita di cordicelle laterali collegate all'estremità della rete e di un lungo cavo assicurato al vertice per salparla" (Brunelli). Presa mediante il cavo, per il centro, roteata in aria e gettata da un abile pescatore si apre lontano nell'acqua, si distende, è tratta a fondo dai piombi, lentamente rinchiudendosi per il loro peso e imprigionando i pesci che incontra (muggini, sparidi, ecc.). Reti da circuizione si trovano pure in Atlantico. In Norvegia si adopera, ad esempio per la pesca delle aringhe, lo snurpenot che un battello fila rapidamente in acqua circuendo lo stuolo; a manovra ultimata si tira il cavo inferiore che, scorrendo in appositi anelli, chiude il fondo trasformando la rete in un emisfero. Il pesce è tratto fuori mediante retini (A. Gruvel, En Norvège, Parigi 1922).
c) Le reti da posta e alla deriva, dette anche di parata o da imbrocco sono molto semplici; costituite, usualmente, di una sola parete, a maglie di una sola dimensione; talvolta di più pareti sovrapposte a maglie di differente grandezza; esse sono formate da panni o pani relativamente poco alti ma molto sviluppati in lunghezza. Calate a distanza non molto notevole dalla costa, in modo da toccare il fondo con la parte inferiore oppure a mezz'acqua, stanno ferme o derivano con la corrente costituendo lunghissime barriere contro le quali va a urtare il pesce, rimanendo preso o ammagliato. Il numero dei galleggianti e dei piombi che si richiedono per la manovra varia secondo il tipo di rete e le dimensioni; barili vuoti, grossi pezzi di sughero assicurati a cavi fissati alle estremità dell'attrezzo servono a individuarne la posizione, alla superficie, perché la si possa salpare.
Fra le reti a posta fissa, che non derivano cioè con la corrente, sono da segnalare: la palamitara, la squadrara o bestinara (per pesce grosso: squadri, gattucci, ecc.), la palombara (per il palombo), attrezzi da sbarramento a maglie piuttosto larghe (v. palamita). Attrezzi analoghi ai primi sono la paurara (Catania, per squali e razze), la tonnarella (per alalunga, tonno, ecc.); la schetta, variamente modificata nelle diverse marine e che prende nome dai pesci che è destinata a catturare.
La rete di transizione fra questi attrezzi, a una sola parete e maglia unica, e il tramaglio è costituita dalla rete maritata che nella parte superiore ha una sola parete, mentre in quella inferiore è tramagliata (per triglie, scorfani, occhiate, ecc.).
Il tramaglio invece è costituito da una rete mediana a maglie sottili (mappa sottile) e di altre due esterne a maglia molto più larga. "Allora il pesce, se piccolo, investendo la maglia della rete di mezzo vi resta preso; se grosso, urtando in questa porta la rete fitta attraverso il vuoto di qualche maglia della rete più rada e vi resta preso come in una borsa" (Brunelli). Il tramaglio (che cattura triglie, scorfani, dentici, occhiate, ecc.) si modifica più o meno profondamente e assume denominazioni specifiche secondo le località e le specie di pesci per i quali si adopera. Da notare la mugginara, il cerberaio (per cefali e branzini), ecc. Il tramaglio si adopera anche accoppiato, come si è visto, alla cannara nonché ai saltarelli e tratturi: ordigni fissi disposti a semicerchio o a labirinto per la cattura dei cefali e delle anguille.
La rete tipica alla deriva è la menaide, attrezzo caratteristico per la cattura di alici e sardine, composta da otto a sedici pezzi detti spigoni, poste, coretti; quadrati di rete lunghi da 16 a 20 m. circa ciascuno e alti da m. 1,50-20 (Livorno) a m. 30-35. È fatta di "filo di rete (frese), di lino torto a tre capi, quindi molto resistente, e con maglie tutte uguali, di un centimetro di lato. Quattro spigoni formati insieme formano un giogo; alle poste estreme è fissato un pezzo triangolare di rete detto puntamaro" (Brunelli), al quale è assicurato il cavo, dato volta al barilotto vuoto che servirà da segnale. Piombi al margine inferiore e sugheri a quello superiore, in misura adeguata, servono a tenere la rete a mezz'acqua; calata che sia, il battello, con l'aiuto di un cavo all'estremità dell'attrezzo, si lascia derivare con esso.
Vi sono menaidi per alici, per sardelle, ecc.: la rete è molto diffusa; variamente modificata, ma sempre sugli stessi principî è conosciuta anche in Atlantico. In Francia, ad esempio, dove i pescatori per attirare le sardelle, gettano in prossimità del sardinal un'esca speciale, rogue (allo stesso scopo, in alcune località dell'Alto Adriatico si adopera la pastura, mangianza formata da granchi tritati, pestati e ridotti in poltiglia); in Inghilterra, dove le drift nets servono per le aringhe; così pure in Norvegia (drivgarn). L'uso della menaide va diminuendo nelle marine italiane ed estere che hanno adottato la lampara, naturalmente di molto più efficace; si è tentato di adoperarla mediante il sussidio di una sorgente luminosa, ma non si sono ottenuti risultati pari a quelli dell'attrezzo concorrente.
Questo l'elenco dei più importanti attrezzi da pesca. Basterà soltanto accennare ai mezzi di pesca abusiva: dinamite, succo della Thapsia garganica L., calce, ecc.
Pesca di mare. - La pesca di mare, rispetto ai luoghi in cui si esercita, si suddivide in pesca costiera e pesca di altura, e questa in pesca ravvicinata e grande pesca fuori dei mari territoriali.
La pesca costiera si esercita con piccoli natanti e speciali attrezzi dalla costa o lungo la medesima, con sciabiche, tartanoni, menaidi, tramagli, palangresi, nasse di fondo, e solo eccezionalmente come per le tonnare (v. tonno), con grandi impianti fissi.
Speciali forme di pesca costiera sono quella del pesce turchino, esercitata con reti da posta come le menaidi, o reti di circuizione come le lampare (pesca con sorgenti luminose), la pesca del pesce spada, esercitata mediante speciali imbarcazioni di vedetta (feluche) e di caccia (ontro [o lontro] lanciatore per la pesca col dardo).
La pesca di mare, rispetto alla natura dei mari in cui si esercita, si può dividere in pesca atlantica, pesca nei mari a bassi fondali, come nel Mare del Nord, e pesca nei mari chiusi a grandi fondali come nel Mediterraneo. Le caratteristiche fisico-chimiche dei mari chiusi, per la salinità e per la mancanza di grandi correnti, creano una condizione di vita del tutto differente e così la pesca del Mare del Nord e la pesca atlantica sono assai più ricche di quelle mediterranee: mentre nell'Oceano il valore delle pescate singole si computa in tonnellate, nel Mediterraneo si computa solo a quintali, e basta questo per far comprendere come tutta l'attrezzatura della pesca mediterranea debba corrispondere a rigidi criterî di economia, nei riguardi del tonnellaggio e della forza del motore.
Per i mezzi e i luoghi in cui si esercita, la pesca si distingue in pesca esercitata da terra mediante piccoli attrezzi o con reti a strascico (sciabiche), pesca con impianti fissi (tonnare, ecc.), pesca con reti da posta (menaidi, tramagli), pesca con reti di circuizione (es. lampara); secondo i natanti si distingue la pesca effettuata con piccole imbarcazioni a remi o a vela, pesca a vela con reti a strascico, pesca meccanica (a vapore o a motore).
La pesca costiera è quella di minore rendimento industriale, eccezione fatta per quella con impianti fissi come le tonnare e in parte con le grandi reti di circuizione, come le palamitare e le lampare, che pure possono catturare ingenti quantità di pesce. Essa però è di notevole importanza per un paese come l'Italia a grande sviluppo costiero, anche perché permette la vita di un numeroso artigianato di mare, diffuso anche nei più piccoli centri della costa.
La pesca con le menaidi è pesca di superficie per la cattura del pesce turchino (sarde, alici, sgombri), mentre la pesca col tramaglio si usa specialmente sui fondi rocciosi per la cattura di pesci, come la triglia, che frequentano i fondi costieri.
Le nasse variamente innescate servono pure alla cattura del pesce che frequenta le coste, come le vope, e anche dei crostacei, come le aragoste. Anche pescatori dilettanti, nei mesi estivi si dedicano al calamento delle nasse lungo i nostri lidi. Con gli ami in serie (palangresi o conzi) si catturano pesci anche di gran fondo, come cernie, merluzzi, squali di diversi generi. È pesca spesso aleatoria e che soprattutto richiede buona esca; talvolta la mancanza di esca o la difficoltà di procurarla la rende difficile.
Della pesca costiera fa parte anche la pesca sportiva alla traina, specialmente per la cattura del dentice, che in Italia si esercita in Istria e in Liguria; in molte nazioni estere è assai più diffusa, e meriterebbe incoraggiamento anche in Italia.
La pesca ravvicinata si esercita mediante battelli a vela (paranze, tartane, ecc.), oppure mediante battelli a vapore (piropescherecci) o a motore a combustione interna (motopescherecci). I battelli a vela possono essere provvisti di un motore ausiliario di piccola potenza, per uscire anche nelle bonacce.
Piropescherecci e motopescherecci esercitano di solito la pesca non a coppia, ma isolatamente, e allora la rete è tenuta aperta da speciali tavoloni (tavoloni divergenti; v. sopra: p. 926).
Mentre nei mari nordici in generale il prodotto della pesca a strascico è costituito da grandi merluzzi, grandi pleuronettidi, taluno come l'Hippoglossus di gigantesche dimensioni, e solo per piccola parte da altri pesci, nei mari italiani si cattura specialmente pesce più minuto, naselli, triglie, sfoglie, sarde, trigle e altro pesce piccolo (minutaglia) come suacie o zanchette, sogliole di qualità più scadente, seppie e insieme crostacei, come pannocchie, i prelibati scampi, peneidi (mazzancuogni) e altri gamberi.
Recentemente, essendosi con il motore sfruttati anche maggiori fondali, pesci i quali una volta erano ritenuti rarissimi, sono divenuti comuni sui mercati: Gadidi, come il melù o putassolo che prima erano ritenuti rari, e così tra i crostacei lo scampo, che prima si riguardava come un crostaceo dell'alto e al massimo del medio Adriatico, ora è catturato in molti paraggi del Tirreno, come per esempio la Liguria e l'Arcipelago Toscano, così che è divenuto comune in molti mercati d'Italia, Roma compresa.
La nostra pesca a strascico dà quindi un prodotto inferiore per quantitativo e dimensioni dei pesci catturati, rispetto al mare del Nord, ma enormemente superiore per la finezza dei prodotti; la grande pesca nordica è perciò pesca di quantità rispetto alla nostra che è pesca di qualità.
Lo sviluppo della pesca meccanica in Italia è opera soprattutto del dopoguerra. Nel Mediterraneo, la qualità dei fondali, con predominio del carattere abissale, la salinità, la temperatura del fondo, la mancanza di grandi correnti determinano una relativa scarsità di vita di tale mare, in confronto al Mare del Nord. Mancano così gli ingenti quantitativi di pesce di consumo popolare, come i merluzzi da salare e seccare e le aringhe, che prediligono mari freddi. Data poi la natura del nostro mare, la vela non è del tutto scomparsa: specialmente nell'alto Adriatico, il bragozzo è ancora la classica imbarcazione, perfezionato da una pratica secolare, atto a spiaggiare in costa aperta e a salvarsi in caso di tempesta.
La pesca di grande altura è più facilmente esercitata specialmente da piro o motopescherecci di grande potenza. Si esercita fuori del mare territoriale, specialmente nel medio Adriatico, vicino alle coste dalmate in fondali ricchi di grandi naselli, e così tra la Sicilia e Lampedusa, e tra queste e le colonie libiche e la Tunisia in fondali ricchi di pagelli e di triglie, e varcando Gibilterra anche nell'Oceano, dove poderosi battelli da pesca italiani hanno tentato con maggiore o minore successo la ricca pesca di gran fondo in prossimità del Marocco e delle Canarie, fin sui banchi di Arguin (dove si catturano dentici, boccadoro e altri pesci di grandi dimensioni), mari assai pescosi.
Anche la pesca vagantiva del tonno bianco, appartenente ad altri generi e specie del tonno comune (es. Parathynnus obesus), che si esercita nelle suddette zone atlantiche, è stata, e con successo, tentata dai pescatori italiani dando alimento alle fabbriche di conservazione del tonno all'olio.
La pesca delle tonnare è importante in Italia, specialmente in Sicilia, Sardegna, Calabria, dove sono molte tonnare; altre minori sono lungo la costa toscana-ligure, e istriana. L'epoca delle grandi pesche o mattanze è quella della corsa del tonno che si avvicina alla costa per la riproduzione, ciò che avviene in primavera. Ma altre minori pesche si fanno con le cosiddette tonnare di ritorno, dopo che i tonni hanno deposte le uova a distanza di qualche settimana (v. tonno).
Complessivamente l'Italia ha circa 40.000 scafi pescherecci, dei quali circa 1300 a motore. Il numero dei pescatori è di circa 160.000, con un prodotto annuo di circa 600 milioni di lire.
Il prodotto della pesca d'acqua dolce e salmastra è di circa 100 milioni di lire. A causa della sua configurazione geografica e della dispersione costiera della piccola pesca, questi dati sono approssimati. Essi però globalmente corrispondono al consumo medio pro-capite del pesce da parte del popolo italiano, che si può considerare di circa kg. 3, escluso il pesce seccato, salato e all'olio.
Fra le più ricche pesche di mare delle altre nazioni europee si debbono ricordare le pesche delle aringhe e del merluzzo nei mari del nord e nei pressi dell'Islanda. È anche sviluppata presso nazioni nordiche la grande pesca dei colossali cetacei, esercitata a mezzo di speciali battelli per la cattura delle balene, da cui si traggono ingenti quantitativi di olî e altri sottoprodotti. Anche la costa dell'Africa occidentale è specialmente ricca di Cetacei.
Ricca di svariate pesche per la vasta platea dragabile e per le sue correnti è anche la costa atlantica della Francia e della Spagna, che beneficia pure della pesca delle Canarie.
Le coste spagnole e portoghesi sono anche ricche di aragoste, oggetto di pesca anche da parte di pescatori bretoni.
Per l'America sono da segnalare la pesca del merluzzo sul banco di Terranova, dove mercé il possedimento coloniale delle isole di Saint-Pierre-et-Miquelon, i Francesi esercitano la pesca del pregiato merluzzo di S. Giovanni, e specialmente i Bretoni marinari che partono da Cancale e da altri porti coi loro arditi quattro alberi e poi mettono in mare i piccoli doris. Assai pescose sono pure la costa del Canada e quella dell'Alasca per il salmone, che risale i fiumi a frotte argentee, immolate nelle Canneries.
La costa californiana, dove pescatori italiani hanno portato il loro ardimento, è pure ricca di pesce, specialmente turchino, come la cerulea e gigantesca sardina di California, che però per sapore è inferiore a quella mediterranea e si usa come esca per la cattura dei tonni di cui è ricco il mare californiano.
Le zone più celebri per le grandi pesche nel mondo si possono col Kerzoncuf distinguere come segue: 1. Terranova; 2. zona d'Islanda; 3. zona delle Isole Færoer e del Dogger Bank; 4. zona della Mauritania e delle Canarie.
I principali porti di pesca per l'Inghilterra sono Grimsby, Yarmouth, Aberdeen, Lowestoft, Hull, Lerwick, Fleetwood, Peterhead, Fraurburg; per la Francia Boulogne, Fécamp, Saint-Malo, Saint-Servan, La Rochelle, Arcachon, Lorient; per la Germania, Geestmünde, Amburgo, Altona, Kuxhaven, Nordenham, Bremerhaven; in Olanda, IJmuiden.
Ricca pure in taluni fiumi d'America è la pesca del shad (Alosa sapidissima) che ricorda le nostre cheppie, e come queste risale le acque interne nel tempo degli amori.
Nelle nazioni più ricche di prodotti ittici, e dove vengono eseguite larghe catture di particolari specie in ingenti quantitativi e in limitati periodi, il pesce viene naturalmente sottoposto a conservazione mediante i diversi metodi dell'essiccamento (stoccafisso), della salagione (baccalà, aringhe), dell'affumicazione (aringhe, salmoni), della bollitura al naturale (salmone), della conservazione all'olio previa sterilizzazione (sardine, tonno) e della marinatura (aringhe, anguille), procedimenti ben noti dell'industria conserviera, che lancia sui mercati internazionali grandi partite di prodotto (v. conserva alimentare).
Fra queste nazioni primeggiano le nordiche per le aringhe, il baccalà e lo stoccafisso, mentre la Spagna, l'Italia e la Francia hanno il primato nella produzione del tonno e delle sardine in scatola, il Canada quello del salmone, affumicato o conservato al naturale, di qualità più o meno prelibate, secondo la specie dei salmoni e la loro freschezza
Il salmone, di cui si fa grande consumo per lo scatolamento, vive in mare e risale i fiumi solo all'epoca della riproduzione; a differenza della trota di lago, che si riproduce nelle acque dolci, esso è un pesce oceanico, e in ogni modo dei mari assai freddi, e manca quindi nell'ambito del Mediterraneo.
In nazioni a ricca pesca e dove essa si esercita prevalentemente con mezzi meccanici, questa si addensa specialmente in pochi porti, come sostanzialmente avviene in Francia, Inghilterra e Germania. In Italia, invece, data la piccola estensione della platea, la lunghezza enorme della costa e il moderato esercizio della pesca meccanica, questa tende a disseminarsi in piccoli porti lungo tutto il lido del continente e delle isole.
Soltanto in Adriatico, data la deficienza dei porti, si hanno notevoli addensamenti di pescatori, tra cui quelli di Chioggia e di Molfetta; ora, per il progrediente sviluppo della pesca a motore, anche Ancona va noverata tra i centri importanti dell'Adriatico, caratteristico anche per la cattura di ingenti quantità di una piccola sarda, detta papalina, che ricorda gli spratti norvegesi, ed è specie differente dalla comune sardina. La lunga estensione della spiaggia e la costa aperta hanno diffuso la piccola pesca che provvede con mezzi primitivi all'alaggio delle sue barche.
Questa differente distribuzione della pesca lungo le coste, causata da evidenti ragioni economiche, determina anche un diverso movimento commerciale. Mentre infatti pochissimi e poderosi sono i mercati del pesce delle nazioni nordiche, in Italia esistono numerosi mercati disseminati nei differenti litorali e anche in città interne, cosicché a differenza, per esempio, di quanto avviene in Germania e in Inghilterra, l'importanza di alcuni mercati di consumo, supera quella di alcuni mercati di produzione. Ne deriva uno speciale assetto commerciale, non scevro di inconvenienti, per le grandi distanze che separano alcune città italiane dai centri maggiori di pesca. A ciò ha cercato di rimediare la nostra legislazione dei mercati.
Per quanto riguarda la pesca nelle colonie italiane, le più ricche per tale riguardo sono la Libia e la Cirenaica, rispettivamente per la pesca del tonno e delle spugne. Questa, esercitata da pescatori greci e delle isole italiane dell'Egeo, tra i quali sono famosi i tuffatori di Coo e di Simi, è particolarmente ricca e soggetta a speciali regolamenti (v. spugne). L'Eritrea invece è nominata per la pesca delle perle e della madreperla, che si ricavano dalle Meleagrina e dai Trochus, molluschi di cui quel mare è ricco per la sua elevata salinità e temperatura. Minore interesse ha in Eritrea la pesca delle Oloturie che, seccate (trepang), vengono esportate in Cina, nonché del pescecane (di cui si commerciano le pinne, ritenute una ghiottoneria tra i popoli orientali). Di una certa importanza era la preparazione del cosiddetto fissik (cefali conservati in salamoia), ma le barriere doganali egiziane hanno quasi ucciso tale industria, che aveva il principale suo sbocco nei mercati egiziani.
La pesca in Somalia è ostacolata dalla tempestosità di quei mari, ma non è escluso che la pesca dello squalo, da cui la tecnica moderna trae pelli conciate di notevole valore, del pesce turchino, dei crostacei e della madreperla, possa, come già avviene per gli squali, formare oggetto di importanti iniziative industriali.
Tanto la pesca dell'Eritrea quanto quella della Somalia sono poi ostacolate dalle elevate temperature di quei mari che portano a un rapidissimo deterioramento del prodotto. Né quei pesci appartengono a specie così sapide da poter formare oggetto di conservazione e di congelazione, con successo commerciale. Più razionale sarebbe trasformare così ingenti quantità di pesce in olî e farine, ma allora, come è noto, il prezzo del pescato si deve tenere assai basso, per garantire un margine di utile necessario a far vivere l'industria, dato il basso costo a cui si vendono i sottoprodotti. In altri termini la pesca nelle colonie italiane ha problemi ancora in parte insoluti, non tanto dal punto di vista della tecnica, quanto da quello delle difficoltà dovute alle condizioni sfavorevoli dei mari in cui si esercita.
Pesca nelle acque interne. - La pesca nelle acque salmastre si esercita specialmente negli stagni litoranei, nelle lagune e nelle cosiddette valli nei limiti della laguna morta.
L'Italia è ricca di lagune e stagni distribuiti lungo il suo litorale; basti ricordare quelle di Venezia, del Ferrarese (Mesola e Comacchio), del Gargano (Lesina e Varano); lungo la costa tirrena sono celebri le lagune di Orbetello, quelle della regione pontina (Fogliano, Monaci, Caprolace, Paola), del territorio di Fondi sul confine dell'antico Stato Pontificio, gli stagni del Lucrino e del Fusaro; il Mare Piccolo di Taranto che ha carattere lagunare, poi gli stagni salsi della Sardegna, di cui alcuni celebri per le peschiere, come Cabras, Santa Giusta, Santa Gilla, Tortolì e altri minori.
Lagune e stagni litorali sono specialmente ricchi per la pesca di anguille, cefali, spigole (branzini dei veneti) e orate, e oltre minori qualità di pesce e di crostacei (granchi o masanette).
La pesca negli stagni salmastri è basata sul giuoco delle acque dolci e salse, che determina le grandi calate dell'anguilla, e si esercita mediante speciali ordigni fissi di cattura detti labirinti o lavorieri (v. vallicoltura).
Il pesce che risale dal mare allo stato di novellame, oppure come tale viene seminato, si pesca nelle epoche degli amori, dopo che si è impinguato nei pascoli lagunari, durante le calate, quando per riprodursi scende al mare e incontra sulla via percorsa gli agguati tesi dai pescatori.
Si chiama poi bonifica idrobiologica quell'insieme di opere rivolte al buon governo delle acque (regolazione delle foci, della salsedine, della vegetazione) che rendono possibile combattere la malaria, sfruttando nello stesso tempo la pesca.
Pesca d'acqua dolce. - La pesca d'acqua dolce è quella che si esercita nei torrenti, nei fiumi, negli stagni e laghi continentali. Tra questi nel nostro paese si debbono distinguere laghi alpini e laghi appenninici, alcuni dei quali di natura craterica (es. laghi laziali). Una categoria speciale è formata dai grandi laghi subalpini di origine glaciale, come i laghi Maggiore, di Como e di Garda. A tali laghi naturali vanno poi aggiunti quelli artificiali formati dallo sbarramento dei fiumi e dall'invasamento di valli montane. Tra di essi si debbono noverare per l'importanza quelli sardi del Tirso e del Coghinas, e quelli dell'appennino silano (Arvo e Ampollino).
Il pesce che forma oggetto della pesca nelle acque dolci si riproduce e permane in tal mezzo, oppure rimonta dal mare per riprodursi nei fiumi (cheppie e storioni) o viceversa cala al mare in veste nuziale (anguille). Si distinguono così pesci anadromi e catadromi che formano nelle montate e nelle calate oggetto di speciali pesche.
I più importanti pesci che si catturano in acqua dolce sono gli storioni (che rimontano dal mare), i salmonidi (trote di lago e di fiume), il temolo, i coregoni, il luccio e il pesce persico; seguono per importanza il lattarino, la carpa e la tinca e altri minori (barbi, cavedani, lasche, roviglioni, arborelle).
La pesca si esercita con lenze, oppure con reti fisse, oppure a strascico, con nasse o bertovelli, in sostanza, variando i nomi, con attrezzi che per il sistema fanno riscontro a quelli di mare. Bilance e giornelli si vedono poi lungo i fiumi e alle foci, delle quali, come a Marina di Pisa costituiscono una nota caratteristica.
La pesca d'acqua dolce, dato l'ambiente ristretto in cui si esercita, è protetta più severamente di quella di mare da speciali regolamenti, alcuni dei quali disciplinano la pesca nei grandi laghi con divieti di tempo, di luogo e di attrezzi, indicando di questi le dimensioni, la maglia della rete, ecc.
La pesca d'acqua dolce viene esercitata dai pescatori di mestiere, ma più ancora da pescatori dilettanti. Essa in Italia, come in qualche altro paese, viene assoggettata a una tassa di licenza, che serve anche a disciplinare, come per la caccia, tale campo di attività.
Ma oltre che con le leggi protettive, la pesca d'acqua dolce viene incrementata con operazioni ittiogeniche di ripopolamento, provvedendo alla fecondazione artificiale delle uova di trote, di coregoni, ecc., e poi seminando le giovani larve e avanotti ottenuti in speciali apparati di allevamento (v. trota e troticoltura) oppure seminando il novellame raccolto negli estuarî e nelle foci dei fiumi (anguilline di montata o ceche, cefaletti, ecc.).
La piscicoltura agricola riguarda lo sviluppo della carpa in risaia e di altri pesci d'acqua dolce, e costituisce una piccola industria rurale.
Vi è poi la piscicoltura ornamentale con l'allevamento dei ciprini o pesci dorati e di altri piccoli pesci esotici. Questa in Francia, e in qualche altra nazione, dà luogo a una vera industria con la coltivazione di pesciolini ornamentali allevati in piccoli acquarî a regolazione termica.
Finalmente la piscicoltura antimalarica (con la semina di carpe, di tinche e specialmente del piccolo pesce esotico Gambusia viviparo e capace di vivere in piccole pozze di acqua) si è rivelata come uno dei mezzi più adatti a combattere l'anofelismo e quindi la malaria.
Le opere di ripopolamento vengono curate e controllate dallo stato mediante l'Ufficio della pesca e le speciali stazioni di ripopolamenti (v. piscicoltura).
Fondamenti biologici delle disposizioni protettive della pesca. - In tutte le nazioni i divieti di pesca nel mare si distinguono in divieti di tempo e divieti di luogo, al fine di assicurare la riproduzione del pesce, con adatti temperamenti. Ma misure restrittive vanno prese solo oculatamente considerando i lunghi periodi di mare tempestoso, che costituiscono una difesa del pesce, e la grande prolificità degli animali marini in confronto di quelli d'acqua dolce. Questa prolificità è retta dalla legge di Spencer secondo la quale un animale è tanto più prolifico, quanto più la prole è soggetta alla distruzione. La prolificità dei pesci in cui le uova si contano a migliaia, centinaia di migliaia e milioni, è leggendaria.
Si deve poi nel mare tener conto della concorrenza vitale delle specie tra di loro; così vi sono squali e delfini che esercitano una tale distruzione di pesce, da superare quella esercitata dall'uomo. Esistono perciò in varî stati leggi rivolte alla distruzione di questi animali dannosi alla pesca. In altri termini, in ogni stato la legislazione peschereccia si basa sulla conoscenza delle leggi biologiche. Basta pensare agli assurdi divieti sulla rete a strascico, che esistevano nel tempo in cui si riteneva che le uova dei pesci eduli fossero deposte sul fondo, mentre ciò avviene solo eccezionalmente (per le aringhe ad esempio); come mostrarono le ricerche di Sars (1864), Ryder, Agassiz, Mc Intosh, Prince, Raffaele, sulle uova galleggianti dei Teleostei.
Di fondo invece sono le uova di squali dannosi, ed è provvidenziale che esista la pesca a strascico senza la quale le coste mediterranee sarebbero invase e infestate da pescicani.
Il progresso della pesca è dovuto in gran parte a queste progredite cognizioni scientifiche, non tanto perché nelle acque marine l'azione scientifica possa direttamente esercitarsi nell'aumento artificioso della produzione come nelle acque interne, quanto perché giova a rimuovere assurdi divieti basati su pregiudizî o erronee conoscenze, a escogitare nuovi e più razionali sistemi di cattura, ecc.
Ciò non toglie che la pesca non debba anche, per motivi di ordine sociale e politico come quello di contemperare la grande e la piccola industria, assogettarsi a discipline e temperamenti.
Negli equilibrî biologici va considerato il fatto che vi sono pesci che si nutrono a prevalenza di plancton (ossia di quel complesso di piccoli organismi galleggianti vegetali e animali che popolano le acque), altri raramente sono a prevalenza fitofagi (come le vope che si nutrono di alghe frondose). Altri sono predatori e si cibano a prevalenza di crostacei (come gli scorfani) o di altri pesci (ad esempio il nasello che si nutre a prevalenza di sardine). Di tutti questi fatti deve tener conto il legislatore, nel porre divieti e restrizioni di tempo e di luogo.
Speciali trattati d'indole internazionale regolano la pesca nei mari in cui si affacciano nazioni limitrofe, come avviene tra l'Italia e la Iugoslavia col trattato di Brioni, e tra l'Italia e la Francia per la pesca nello Stretto di Bonifacio; oppure provvedono a dirimere le controversie e a tutelare la grande pesca del merluzzo e delle aringhe (trattato di pesca per il Mar del Nord), o la pesca del salmone (trattato tra il Canada e gli Stati Uniti), ecc.
Lo studio del mare in tutte le nazioni più progredite, forma oggetto di importanti indagini da parte di adeguati organi scientifici. Celebre per la sua vasta, grandiosa organizzazione è il Bureau of Fisheries degli Stati Uniti, di natura tecnica. Esistono poi in varie nazioni numerosi istituti scientifici e musei che hanno lo scopo di promuovere e coordinare gli studî sulla biologia marina, e collaborano con gli enti deputati alla sovrintendenza della pesca (v. oceanografia). Ricordiamo l'Acquario di Napoli, il Marine Biological Laboratory di Woods Hole, (Mass.), la Stazione biologica di Helgoland, l'Istituto oceanografico di Monaco, il R. Laboratorio Centrale di Idrobiologia, gl'istituti del R. Comitato Talassografico (Messina, Trieste, Rovigno), ecc.
Legislazione e polizia della pesca. - Nell'ordinamento giuridico la pesca viene in considerazione quale oggetto di rapporti privati e di una complessa regolamentazione amministrativa, che ha le sue fonti principali nel testo unico delle leggi sulla pesca approvato col r. decr. 8 ottobre 1931, n. 1604, negli articoli 139-149 del codice per la marina mercantile, nel regol. 13 novembre 1882, n. 1090 per la pesca marittima e nel regol. 22 novembre 1914, n. 1486 per la pesca fluviale e lacuale.
La più importante distinzione per il diritto è quella fra la pesca nelle acque private e la pesca nelle acque pubbliche e nel mare territoriale. La facoltà esclusiva di pescare in uno specchio o corso di acqua privato spetta al proprietario di questo in conseguenza del suo diritto di proprietà. Egli può cederne ad altri il godimento, dando vita a un rapporto di locazione, o anche di servitù, se si ammette nel nostro diritto la possibilità di una servitù irregolare. Ma chi ha il diritto di pescare in acque private (o nelle acque soggette a un diritto esclusivo di pesca) non è senz'altro proprietario dei pesci che in esse si trovano, se non nel caso in cui le acque stesse per disposizione naturale o per opere manufatte si trovino chiuse in modo da impedire l'uscita del pesce (arg. art. 413, 462 cod. civ., art. 33 testo unico cit.); in ogni altro caso la proprietà del pesce non si acquista se non mediante la effettiva cattura (art. 711 cod. civ.); da ciò la conseguenza che colui il quale abusivamente pesca nelle acque sopra indicate, in quanto lede l'altrui diritto esclusivo di pesca, è tenuto al risarcimento dei danni ed è soggetto a un'ammenda; ma solo nel primo caso, non nel secondo, commette furto (art. 33 cit.).
La pesca nelle acque pubbliche è regolata in parte con disposizioni uniformi e in parte con norme distinte, a seconda che avvenga nelle acque del demanio pubblico marittimo e lagunare e nel mare territoriale ovvero nelle acque pubbliche interne, data la diversità delle specie acquatiche, dell'ambiente in cui vivono e dei mezzi di pesca. Alcune norme si estendono anche alle acque private in immediata comunicazione con acque pubbliche, per evitare che l'esercizio della pesca nelle prime danneggi la pesca nelle seconde. La pesca marittima si suddistingue in pesca di alto mare o illimitata e pesca costiera o limitata; quest'ultima è quella che si svolge nei limiti del distretto di pesca cui appartiene il battello che la esercita (art. 139 cod. mar. merc.); all'uopo il litorale dello stato è diviso in tre distretti di pesca, dei quali il primo comprende le coste tirrene dal confine a Torre del Greco e quelle della Sardegna, il secondo le coste dell'Italia meridionale fino a Brindisi e quelle della Sicilia, il terzo le coste adriatiche da Bari a Venezia (r. decr. 14 giugno 1914, n. 595); diversi sono i requisiti richiesti per i battelli addetti alla pesca limitata e per quelli destinati alla pesca illimitata e per i loro comandanti (art. 144-149 cod. mar. merc.). Alla pesca, infine, nel mare extraterritoriale si applicano, oltre che le norme di diritto interno sulle navi e sui naviganti, anche le disposizioni di alcune convenzioni internazionali (ad es. convenzione di Ginevra 24 settembre 1931 per la caccia alla balena, resa esecutoria col r. decr. 23 giugno 1932, n. 1044).
All'attività amministrativa in materia di pesca presiede il Ministero dell'agricoltura e delle foreste, presso il quale esistono l'ufficio centrale della pesca, organo deliberativo, la commissione consultiva e il comitato permanente della pesca, organi consultivi; ma per alcuni provvedimenti che riguardano la pesca marittima la competenza spetta al Ministero delle comunicazioni (direzione generale della marina mercantile). Cooperano allo svolgimento della suddetta attività varî organi periferici, quali le capitanerie di porto e gli uffici da esse dipendenti; gli uffici delle dogane; gli stabilimenti ittiogenici per i servizî di ripopolamento delle acque dolci; il laboratorio centrale d'idrobiologia per le ricerche scientifiche applicate alla pesca e per tutte le indagini relative all'incremento di questa industria; gli osservatorî limnologici per lo studio dei bacini lacustri; gli osservatorî di pesca marittima (art. 16 e 19 testo unico).
L'intervento della pubblica amministrazione si esplica al duplice scopo di proteggere le condizioni naturali esistenti favorevoli delle acque e lo sviluppo dell'industria peschereccia.
Sono norme protettive quella che vieta agli stabilimenti industriali di versare rifiuti nelle acque pubbliche senza il permesso del prefetto, che potrà prescrivere provvedimenti atti a impedire danni all'industria della pesca (art. 9); e quella per la quale nelle concessioni di derivazione di acqua devono essere disposte le opere necessarie nell'interesse della pesca (scale di monta, piani inclinati, graticci all'imbocco dei canali di presa), e, se non sia possibile la costruzione di opere speciali, può essere imposta al concessionario la immissione annuale di avannotti a sue spese (art. 10).
Per lo sviluppo della pesca la legge accorda alcune esenzioni tributarie (art. 42 e 43); dà facoltà al Ministero dell'agricoltura di promuovere e sussidiare la migliore organizzazione della pesca nelle acque dolci e l'incremento delle industrie a essa relative (art. 44); di concedere un concorso nel pagamento degli interessi per operazioni di credito che abbiano per scopo la costruzione di navi da pesca, l'impianto di magazzini o stabilimenti per la conservazione e la lavorazione del pesce, ecc. (art. 45); di riconoscere consorzî volontarî o costituire consorzî obbligatorî per la tutela e l'incremento della pesca nell'interesse generale senza fine di lucro (art. 53 segg.). Speciali agevolazioni sono poi concesse alle società cooperative fra i pescatori lavoratori, quando si riuniscano in consorzî aventi personalità giuridica e la cui costituzione sia riconosciuta con decreto del ministro dell'Agricoltura di concerto con quello delle Corporazioni su conforme parere della commissione consultiva (art. 47 e segg.; r. decr. 29 ottobre 1922, n. 1647). Al medesimo fine dell'incremento della pesca il Ministero dell'agricoltura può accordare a enti pubblici e a privati la concessione di eseguire lavori di acquicoltura nei tratti di corsi e bacini pubblici di acqua dolce privi o poveri di pesci di importanza economica; i concessionarî hanno il diritto esclusivo di pesca in quei tratti per il periodo di sei anni, ma la concessione è revocabile se non siano adempiute le norme del capitolato riflettenti il miglioramento della pescosità delle acque e l'approvvigionamento dei mercati nazionali (art. 11).
La pesca è libera, in via di principio, nelle acque pubbliche e anche in quelle appartenenti alle provincie, ai comuni e ai consorzî di scolo o d'irrigazione, che non se ne siano riservata l'esclusività mediante pubblica dichiarazione (art. 14); ma è soggetta a numerose limitazioni stabilite, soprattutto, nell'interesse della conservazione e della propagazione delle specie. Così sono vietate la pesca e il commercio del fregolo, del pesce novello e degli altri animali acquatici non pervenuti alle dimensioni indicate dai regolamenti (art. 5); è proibita la pesca con la dinamite e con altre materie esplodenti, ed è vietato di gettare o infondere nelle acque materie atte a intorpidire, stordire o uccidere i pesci e gli altri animali acquatici (art. 6); è fatto divieto di collocare attraverso i fiumi, torrenti, canali o altri corsi o bacini apparecchi fissi o mobili di pesca che possano impedire del tutto il passaggio del pesce; meno che nei bacini d'acqua dolce o salsa, ove se ne pratica l'allevamento (art. 7). Altri divieti riguardanti il tempo o il modo della pesca sono stabiliti nei due regolamenti citati in principio e in varie leggi speciali. Norme particolari sono dettate per l'impianto di tonnare e mugginare (art. 18 e segg. regol. 1882); per la pesca di crostacei e molluschi (art. 22 segg.); per la pesca del corallo (art. 26 segg.).
Per l'esercizio della pesca occorre una licenza dell'autorità amministrativa. Chi esercita il mestiere di pescatore nelle acque marittime o lagunari deve essere provvisto, per la pesca in alto mare e all'estero, del libretto di matricola stabilito per la gente di mare di prima categoria, e, per la pesca litoranea, del foglio di ricognizione prescritto per la gente di mare di seconda categoria (art. 20 testo unico; art. 18, 19 cod. mar. merc.; art. 101 e 103 regol. mar. merc.). Chi voglia esercitare la pesca nelle acque interne pubbliche o private per conto proprio o di terzi a scopo di lucro è considerato pescatore di mestiere e dev'essere iscritto nell'apposito registro esistente presso la prefettura. Chi invece eserciti la pesca, non per abituale professione e senza vendere il prodotto, nelle acque pubbliche in quelle private comunicanti con le prime, è considerato pescatore dilettante e dev'essere anch'egli iscritto nell'apposito registro presso la prefettura. Agli uni e agli altri, avvenuta l'iscrizione, è rilasciato un libretto con la licenza di pesca, che ha la durata di un anno ed è sottoposta al pagamento di una tassa (art. 22 testo unico). Tutte le imprese che esercitano la pesca di qualunque specie devono assicurare gli operai pescatori da esse dipendenti, qualunque ne sia il numero, contro gl'infortunî sul lavoro (art. 66 segg.).
Alla promulgazione della legge 4 marzo 1877, n. 3706, informata al principio della libertà di pescare nelle acque pubbliche, sopravvissero i numerosi diritti esclusivi di pesca preesistenti su larghi tratti di spiaggia o di corsi d'acqua. e derivanti da investiture feudali, o da una concessione dell'autorità, o dal possesso immemoriale, o anche dalla prescrizione ordinaria compiutasi sotto l'impero di una legge che la consentisse come modo di acquisto di questi speciali diritti. Norme successive, e specialmente il r. decreto 15 maggio 1884, n. 2503, disciplinarono il procedimento per la dichiarazione e l'accertamento dei diritti stessi, fino a che la legge 24 marzo 1921, n. 312 li sottopose, nell'interesse della libertà della pesca, a una generale revisione, determinò le cause della loro estinzione, e ne ammise l'espropriazione per pubblica utilità. I diritti esclusivi costituiti su̇lle acque del demanio marittimo e lagunare e nel mare territoriale, compresi quelli per l'impianto di tonnare e mugginare, che risalgano a una data anteriore alla legge 4 marzo 1877, sono dichiarati estinti: a) quando non siano stati effettivamente esercitati nel trentennio anteriore alla data del 24 marzo 1921; b) quando, in mancanza di un precedente riconoscimento, non sia stata presentata, entro il 31 dicembre 1921, la relativa domanda con i documenti atti a provare l'esistenza del diritto; c) per non uso durante cinque anni consecutivi, o per cattivo uso in relazione ai fini della legge sulla pesca, o per abituale negligenza e inosservanza delle disposizioni legislative e regolamentari attinenti alla pesca, previa la dichiarazione di decadenza, pronunciata con decreto ministeriale, contro il quale è ammesso soltanto il ricorso al tribunale superiore delle acque pubbliche. I diritti già riconosciuti sono soggetti in ogni tempo (legge 16 marzo 1933, n. 260) a revisione, a seguito della quale il riconoscimento è revocato o confermato con decreto del ministro per le Comunicazioni, che, nel caso di conferma, determina l'oggetto specifico d'ogni diritto e il suo modo d'esercizio in conformità ai titoli d'acquisto e al possesso goduto nel trentennio anteriore all'entrata in vigore della legge 24 marzo 1921. Contro la pronuncia di revoca è ammesso solo il reclamo al tribunale superiore delle acque pubbliche. Da ultimo i diritti sopraindicati possono essere espropriati per pubblica utilità quando, a giudizio della commissione consultiva, non siano esercitati in proporzione alla potenzialità delle acque sulle quali si estendono, o quando il loro esercizio sia riconosciuto contrario alle esigenze d'interesse generale. L'indennità è determinata in proporzione delle imposte pagate nell'ultimo decennio sul diritto espropriato e per l'esercizio di esso; contro la determinazione dell'indennità è ammesso solo il reclamo al tribunale superiore delle acque pubbliche (art. 23 a 25 testo unico). Nelle provincie annesse al Regno, alle quali le disposizioni sulla pesca marittima sono state estese col r. decr. 24 settembre 1932, n. 1540, i diritti esclusivi s'intendono estinti, qualora non siano stati esercitati nel trentennio anteriore alla data di entrata in vigore del decreto estensivo, ovvero quando non sia stata presentata la domanda di riconoscimento entro sei mesi dalla data medesima.
Disposizioni analoghe, estese alle provincie annesse col r. decreto 15 febbraio 1925, n. 767, vigono per l'estinzione, la revisione e l'espropriazione dei diritti di pesca nelle acque pubbliche interne; solo che alla revisione provvede il Ministero dell'agricoltura e la decadenza può essere pronunciata per non uso durante tre anni consecutivi. I termini, inoltre, per la presentazione delle domande di riconoscimento sono convenientemente spostati per i diritti esistenti su acque pubbliche iscritte in elenchi pubblicati dopo l'emanazione della legge 24 marzo 1921 o in elenchi suppletivi che siano pubblicati in avvenire (art. 26 a 29).
La costituzione di nuovi diritti esclusivi per concessione dello stato è ammessa dalle leggi vigenti; ma deve ritenersi solo per quelle specie di pesca che richiedono impianti notevoli o quando la concessione favorisca l'incremento della pesca. Possono quindi stabilirsi con decreto del ministro per le Comunicazioni tonnare o mugginare nelle acque dello stato, come pure costruirsi in mare o sulle spiagge le opere opportune per l'allevamento e la coltura dei pesci, dei testacei, dei crostacei, dei molluschi, del corallo e delle spugne (art. 141 cod. mar. merc.). La medesima amministrazione può dare in concessione per la durata non maggiore di 99 anni tratti di spiaggia, di acque demaniali e di mare territoriale a coloro che intendano intraprendere allevamento di pesci e di altri animali acquatici, nonché coltivazioni di coralli e di spugne (art. 12 testo unico). Inoltre lo scopritore d'un banco di corallo nelle acque dello stato ha il diritto di sfruttarlo per la durata delle due stagioni successive a quella della scoperta, purché ne faccia la denuncia e ne curi la coltivazione (art. 13).
Tutti questi diritti di pesca su acque demaniali hanno il carattere di diritti reali immobiliari, tutelabili con l'azione di manutenzione (Cass. 27 luglio 1933, in Rivista dei demani, 1933, 416).
Organizzazione di trasporto e vendita; porti pescherecci. - Non basta pescare, è essenziale conservare il prodotto per lo smercio. I principali metodi di conservazione che, per così dire, trasformano il prodotto sono: essiccazione, salagione, affumicazione, conservazione al naturale, conservazione all'olio, ammarinatura (v. conserva alimentare). La conservazione del pesce fresco si effettua invece mediante la refrigerazione e la congelazione.
Gli antichi praticavano la salagione e l'essiccazione; preparavano anche conserve all'olio, all'aceto, agli aromi; non ignoravano le salse di pesce (molto ricercati il garum, costituito da interiori di sgombro e di uno smaride macerati con olio, aceto e pepe); nella Scizia, d'inverno, si conservava il pesce esponendolo sul ghiaccio dei fiumi e dei laghi; del resto l'uso del ghiaccio era noto agli antichi. I Romani furono i primi a effettuare il trasporto rapido di pesce fresco; essi adoperavano anche battelli vivaio in collegamento con i vivai artificiali costruiti nei porti: Ostia, Napoli, Pozzuoli, ecc. Per trasportare oggi il pesce fresco, dal luogo di pesca al mercato, lo si sottopone ai trattamenti di refrigerazione o congelazione, già citati; quest'ultimo è più efficace poiché il prodotto si può conservare per lunghi periodi, mentre il pesce refrigerato non riesce a sorpassare otto-dieci giorni. Occorre però tener presente che non tutte le qualità si prestano ugualmente bene alla congelazione e che essa è economicamente conveniente soltanto nel caso in cui i quantitativi da trattare siano importanti.
Arrivato a terra, il pesce refrigerato o congelato deve essere avviato sui mercati interiori; occorrono all'uopo imballaggi adatti e mezzi di trasporto specializzati: vagoni ferroviarî isotermici, refrigerati con agenti frigoriferi; con impianto di refrigerazione autonomo. Delle due prime categorie sono in esercizio più tipi, in Italia; della terza un solo tipo, che, nel 1931, è stato immatricolato alla rete ferroviaria. Data l'ubicazione dei centri pescherecci italiani, i vagoni ferroviarî possono essere scarsamente utilizzati mentre si nota un progressivo aumento dei trasporti automobilistici, principalmente dovuto all'economia delle operazioni di carico e scarico e alla possibilità di combinare a piacere gli orarî di arrivo e partenza.
Ma lo smercio del pesce è, naturalmente, condizionato all'organizzazione dei mercati; allo scopo di risolvere il problema il governo italiano, con il decr. legge 20 agosto 1926, n. 1771, stanziava quattro milioni come contributo alla costruzione dei mercati; con un altro decr. legge 4 aprile 1929, n. 927, dava, fra l'altro, obbligo ai comuni litoranei nei quali il pesce annualmente sbarcato supera le 300 tonn. e a quelli in genere nei quali il consumo annuo supera 50 tonn., d'istituire mercati, retti da regolamenti approvati dal ministero, con un servizio di cassa per conseguire la regolarità delle rimesse ai produttori, il credito a essi e ai rivenditori, ecc.
Ma parte preponderante nell'organizzazione della pesca meccanica e del trasporto hanno i porti di pesca. Nei mari dell'Europa settentrionale se ne distinguono, in teoria, di due specie: da aringhe e da chalutage; in pratica la distinzione non è così netta esercitando qualcuno i due generi di pesca contemporaneamente. L'impianto di un porto di aringhe (Yarmouth, Aberdeen) non necessita molto lavoro né molte spese: quello da chalutage è grande, accessibile agli chalutiers a qualsiasi ora del giorno e della notte; impianti retrostanti alle calate consentono che il pesce sia sbarcato, selezionato, venduto, imballato e spedito al più presto, e col massimo rendimento. Nel porto stesso vi sono fabbriche di ghiaccio e celle frigorifere, fabbriche di conserve, di salato, di sottoprodotti (fish meal e concime), officine di riparazione, fabbriche di reti e cavi, un bacino e uno scalo di alaggio. E la differenzazione è tale che il porto di pesca moderno non saprebbe sussistere né impiantarsi in un grande porto mercantile. Hull, Grimsby, Fleetwod sono grandi porti da trawlers in Inghilterra; La Rochelle, Arcachon, Lorient in Francia; le esigenze dello chalutage hanno indotto a costruire in Europa cinque grandi porti specializzati: Nordenham inaugurato il 23 aprile 1896; Geestmünde, 1 ottobre 1896; IJmuiden, 1895; Kuxhaven, febbraio 1908; Lorient-Keroman, 23 febbraio 1927.
Nel dopoguerra alcuni porti italiani (Civitavecchia, Livorno) sono stati meglio specializzaii in funzione dell'incremento dei mezzi meccanici che in essi fanno base.
Per le pesche speciali v. corallo; spugne; tonno; ecc.
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Sulla legislazione v.: G. P. Gaetano, s. v. Pesca, in Digesto ital., XVIII, parte 2ª, Torino 1906-1912; E. Giacobini, Codice vigente della pesca, Napoli 1913; id., La pesca e la pubblica amministrazione, in Primo trattato di dir. amm. it., diretto da V. E. Orlando, V, Milano 1930, p. 1223 segg.; C. Corradini, La pesca nel diritto ammin., ivi, p. 1411 segg.; F. Cigolini, Il nuovo codice della pesca, Livorno 1933; M. Furgiuele, Sul r. decr. 15 maggio 1884, n. 2503, concernente i diritti esclusivi di pesca, in Boll. di pesca, di piscicoltura e di idrobiologia, Roma 1933, fasc. 6.
Etnologia e folklore.
Il sistema di pesca più primitivo, chiamato pesca-raccolta, consiste nella cattura di tutti i piccoli animali viventi presso la riva del mare: pesciolini, crostacei, molluschi e altri invertebrati, e anche di piante quali le alghe marine. Nessuna popolazione rivierasca ignora la cattura del pesce e della selvaggina acquatica, ma i procedimenti per essa seguiti sono molto varî. Saranno esaminati qui di seguito dai più semplici ai più complessi, il che però non vuol dire che i secondi derivino dai primi, né che siano regolarmente apparsi in tale successione.
Pesca a mano. - La pesca alla mano è per le popolazioni inferiori più fruttuosa di quanto possa sembrare a prima vista. Se già i ragazzi riescono talvolta lungo le sponde dei fiumi a prendere le trote con le mani, a più forte ragione le popolazioni incivili, più pratiche, potranno ottenere in questo modo raccolte notevoli. Nell'Australia e nella Papuasia l'indigeno, nuotatore e tuffatore abilissimo, si avvicina cautamente a un punto ricco di pesci e vi rimane immobile fino a che una bella preda gli passi accanto: allora allunga il braccio come una molla e l'afferra.
Pesca con armi. - La pesca con la mazza è ancora un procedimento quasi naturale, praticato da numerose popolazioni inferiori. Una fila di pescatori circonda un banco di pesci e lo sospinge verso terra, quindi getta sulla riva bracciate di acqua e con essa i pesci, i quali vengono tosto uccisi a colpi di bastone. Anche popolazioni di valenti pescatori, quali i Polinesiani, per quanto dispongano pure di altri mezzi, praticano tuttora anche questo sistema, sebbene con un procedimento più accurato: essi infatti pescano di notte in barca: la luce delle torce attira alla superficie; pesci i quali vengono così facilmente uccisi a colpi di mazza.
Gli Australiani uccidono spesso il pesce colpendolo con la loro zagaglia abituale a una sola punta. Pescano il dugongo con due zagaglie, lanciate l'una nel corpo, l'altra sul muso dell'animale per soffocarlo. Più di frequente però la punta della zagaglia è multipla, formata cioè da due o più punte, ed è detta allora bidente (a due punte), tridente (a tre punte) o fiocina (a molte punte disposte radialmente); l'uso di questa è assai diffuso su tutta la Terra. Abitualmente la zagaglia semplice è gettata a distanza; quella a bidente invece colpisce piuttosto il pesce senza che il pescatore abbandoni lo strumento.
Pure la pesca con il bidente o la fiocina può essere praticata con la torcia.
Man mano che la zagaglia assume maggiore solidità, dimensioni maggiori ed è destinata alla cattura di pesci più grossi o di mammiferi, si passa gradatamente all'arpone. L'arpone primitivo ha la punta fissa all'asta e, una volta lanciato, rimane collegato al pescatore mediante una corda che si svolge via via. Gli Ainu del Giappone settentrionale possiedono, per la pesca dei cetacei, speciali arponi primitivi a manico doppio. Merita tuttavia il nome di arpone in senso proprio lo strumento la cui punta, colpito l'animale, si stacca dall'asta ed è tenuta dal pescatore per mezzo d'una corda.
Per attenersi al principio di dare alle categorie della pesca il nome dell'agente che opera direttamente sull'animale, dovremo chiamare pesca con la freccia la pesca con l'arco. Gli Andamanesi pescano la tartaruga di mare lanciandole una freccia nell'occhio: questo prova non solo la loro abilità, ma anche il valore tecnico del loro speciale arco semiriflesso (v. arco).
Viene chiamata pesca con l'uncino quella che fa uso d'una specie di raffio o rampino, cioè d'uno strumento appuntito con lungo manico a punta ripiegata; con esso il pescatore infila il pesce tirando l'arnese presso di sé. Questa pesca è molto praticata sui fiumi gelati della Siberia, dagl'indigeni e dai Russi, i quali, fatto un foro nel ghiaccio, vi introducono la canna e attendono che il pesce passi accanto per arraffarlo. Esiste poi presso gli Ainu una specie di asta a uncino che ha il gancio mobile: il pescatore, in piedi sulla sua imbarcazione (si tratta in questo caso specialmente della pesca fluviale del salmone) tiene la canna verticalmente sotto l'acqua, pronto a piantarla nel pesce che passerà sotto la sua estremità. In posizione normale l'uncino mobile posto in fondo alla pertica rimane alzato, essendo lievemente forzato dentro a una scanalatura praticata nel manico: una volta infilato, il pesce dà una scossa che fa abbassare l'uncino, il quale lo serra tanto più forte contro la canna quanto più esso si divincola.
Un utensile di forma intermedia fra l'uncino e l'amo è la turlutte; sistematicamente esso va ancora classificato fra le armi da pesca essendo uno strumento attivo, mentre l'amo, strumento passivo, appartiene già alla categoria delle insidie. La turlutte si presenta come un amo multiplo, le cui punte, semplici, senza barbe, sono disposte radialmente, e, come esso, è sospesa a una canna da pesca. Se ne distingue però nell'uso, come risulta anche già dalla disposizione della canna a turlutte ainu, che è corta, rigida e doppia. Infatti la turlutte non ha galleggiante né esca; questa, invece, può essere messa nell'acqua in modo da attirare i pesci nel punto voluto. Il pescatore imprime allora alla canna un movimento verticale di va e vieni per "arraffare" il pesce, secondo l'espressione tecnica. Il numero notevole delle punte aumenta la probabilità di successo, probabilità che sono raddoppiate quando la canna è doppia e le due turlutte funzionano simultaneamente. Tale genere di pesca, quantunque sia infinitamente più raro di quello all'amo, tuttavia è stato riscontrato presso gli Ainu, in Cina, nel Portogallo e in Italia. La turlutte europea viene fabbricata di un solo tipo, insieme con numerosi altri articoli da pesca, dalla fabbrica d'armi di Saint-Étienne, in Francia. È probabile che per l'Estremo Oriente essa sia un prodotto della vecchia cultura sinoide: tanto là quanto in Italia essa serve principalmente alla pesca dei polpi, nel Portogallo invece a quella delle sardine. A seconda che lo strumento abbia una, due, tre o più punte, sia fornito o no di galleggiante, sia o no innescato, si hanno tutte le forme di transizione verso l'amo. Così nell'Alasca, nelle Hawaii, sul Lago Peipus esistono strumenti di questo tipo, a punte multiple, più prossimi all'amo che alla turlutte.
Pesca mediante insidie. - L'amo è lo strumento da pesca più caratteristico, ma non fu certo conosciuto fino dall'origine della civiltà. Ne esistono quattro forme: diritti o a bacchetta; ricurvi, a uncino semplice; a uncino con barba, che è l'amo comune; e formati di più pezzi, sempre a uncino, ma generalmente senza barba.
L'amo diritto è sempre a più punte, quelli ricurvi sono in genere a una sola punta, ma possono averne anche di più; l'amo di varî pezzi ne ha quasi sempre una sola. Di solito, ma non necessariamente, l'amo è innescato; l'esca manca specialmente nell'amo di più pezzi, tipico della cultura polinesiana; in esso infatti il luccichio delle varie parti fatte di materiali diversi (osso, guscio di tartaruga, madreperla) e le vibrazioni di alcuni crini attaccati all'amo sono sufficienti per attirare il pesce. Con questo mezzo i Polinesiani catturano in alto mare il tonno e anche altri pesci grossi. Così nella pesca che gli Europei praticano dalla barca in movimento, con un guscio di madreperla chiamato "cucchiaio", questo fa da esca.
Vanno considerati come ami gli uncini, unici o multipli, con barba o senza, di cui si servono i Polinesiani (Hawaii) per catturare i polpi; gli uncini non hanno esca, ma sono posti su una tavoletta accanto a una grossa conchiglia di varî colori che attira il polpo il quale facilmente finisce per infilarsi negli uncini.
L'amo diritto è una produzione delle ultime forme delle culture primitive (ramo australiano e fuegino); nella preistoria lo si incontra nel Paleolitico superiore. Gli ami ricurvi, con o senza barba, si incontrano fino dalla cultura totemica, e, nella preistoria, a partire dal Neolitico. L'amo di più pezzi, come si è visto, è un elemento della cultura polinesiana.
La pesca con tela di ragno è detta comunemente pesca col cervo volante perché la lenza è attaccata a un cervo volante a sua volta legato all'imbarcazione del pescatore. Ma sebbene esso sia l'elemento che più dà nell'occhio, ciò che caratterizza tale genere di pesca è l'esca, costituita dalla tela di un ragno, proprio dell'Indonesia e dell'Oceania, tela molto resistente e brillante che, ravvolta a palla e posta sull'acqua si sposta su essa seguendo i movimenti del cervo volante: il pesce l'afferra e vi resta attaccato con la bocca. Talvolta in fondo alla lenza sospesa al cervo, anziché una tela di ragno viene posto un amo (amo diritto nell'isola di Vanikoro, arcipelago di Santa Cruz). La pesca con la tela di ragno, propria della cultura polinesiana, è stata segnalata specialmente nelle vicinanze di Flores cioè nel mare di Banda e nell'arcipelago di Santa Cruz.
Il pesce può essere preso con il laccio. Questo di solito ha la forma d'un nodo scorsoio, ed è usato per la cattura di pesci di qualsiasi grandezza. I Ciukci per prendere le piccole trote usano un nodo scorsoio applicato a un'asta. Pure con un nodo scorrevole i Melanesiani nelle isole di Santa Cruz catturano il pescecane dopo averlo attirato col frastuono prodotto battendo fra loro gusci di noce di cocco; lo stesso procedimento seguono i Polinesiani di Tahiti. Ma il laccio può consistere anche in un nodo semplice.
I Kamalaig dello Stretto di Torres, per esempio, escono sulle loro piroghe per la pesca della tartaruga di mare, e allorché ne avvistano una, un tuffatore salta su essa, le passa una corda attorno al collo e la tira sulla piroga.
La pesca col recipiente, in genere occasionale, fa uso di recipienti di forma diversa, a pareti sia compatte sia traforate.
Allo scopo di non creare una classe apposita si comprenderà in questa categoria anche la pesca con la pinzetta uncinata cinese.
La rete è però, insieme con l'amo, lo strumento da pesca più usato. La forma più semplice di essa è il retino simile a una rete da farfalle: il suo impiego ha dovuto seguire quello di recipienti fatti a intrecciatura. La cultura cinese ha applicato il retino doppio alla pinzetta. La varietà di reti è grandissima; per la dimensione possono andare dal retino alla grande rete capace di abbracciare una porzione d'acqua di qualche centinaio di metri di diametro. Le forme principali sono: la bilancia, la rete a strascico e il giacchio. La bilancia ha forma quadrata, è tenuta aperta orizzontalmente fissandone le punte alle estremità di canne incrociate fra loro e viene alternativamente lasciata affondare e risollevata. La rete a strascico è una rete lunga che due uomini tendono attraverso una porzione d'acqua e che ripiegano gradatamente avvicinandosi l'uno all'altro per rinchiudervi il pesce. Le reti a strascico primitive, preistoriche, conosciute nel Neolitico erano fatte d'una corda alla quale erano appesi dei fascinotti d'erba. Il giacchio ha la forma di un ombrello: il pescatore, postosi su un punto elevato della riva o su un'imbarcazione, la tiene chiusa in mano serrandone il bordo, quindi la getta lontano: nel lancio essa si apre e scende nell'acqua abbracciando una vasta superficie.
Nella pesca con la rappola il pesce rimane prigioniero non perché non riesce a uscire, come avviene nelle nasse, ma perché la via d'uscita gli è impedita dal funzionamento d'un qualunque meccanismo. Mentre tale principio è assai sfruttato nella caccia per la costruzione di quasi tutte le trappole, è invece un'eccezione nella pesca. Tuttavia troviamo usata la trappola, da sola o insieme con sbarramenti, per la cattura del pesce e dei granchî (Laos, Camerun).
La nassa è una rete rigida e, quindi, di dimensioni relativamente ridotte. Come principio generico essa è costituita da un grande recipiente traforato con un'apertura a imbuto che il pesce, una volta entrato, non ritrova più per uscire. La nassa presenta generalmente una successione di compartimenti ai quali conducono imbuti successivi. Esistono infinite varietà di nasse.
Lo sbarramento è basato sullo stesso principio della nassa nel senso che anche esso tende a rendere difficile al pesce l'uscita da compartimenti nei quali si viene a trovare: questi infatti sono costruiti in modo che il pesce non ne ritrova l'ingresso. Lo sbarramento è, ben inteso, fisso; esso può essere costituito da una semplice diga o presentare una successione di bacini; assai di frequente esso è costruito come ausilio ad altri sistemi di pesca sia ad arma sia a insidia. Lo sbarramento presenta allora una o più aperture passando attraverso le quali il pesce viene colpito con l'arpone o preso in trappole speciali. Gli Jukaghiri della Siberia nordorientale, per esempio, costruiscono dei graticci, forniti di aperture, attraverso i fiumi per tutta la loro larghezza e pongono una nassa ad ogni apertura. Gli sbarramenti possono essere costruiti con materiale compatto o traforato, possono essere rigidi o flessibili. Nella Nuova Caledonia, per es., essi sono fatti di foglie di cocco e s'inclinano con l'alta marea lasciando così passare il pesce al disopra, quindi si raddrizzano. Lo sbarramento più primitivo è quello umano: una fila di uomini o di donne entra nell'acqua respingendo un banco di pesci verso terra, aiutandosi talvolta con frasche (Australia, Polinesia), quindi a manciate li getta sulla riva.
Pesca con animali e con veleni. - Conoscendo l'uso del falco nella caccia, praticato nel Medioevo in Europa e tuttora nell'Asia centrale, si comprende come sia possibile educare degli animali, e in particolare degli uccelli, che già allo stato naturale dànno la caccia al pesce (nibbio, ecc.), a pescare per l'uomo. Tuttavia l'uccello più usato a tale scopo non è un rapace, ma un palmipede, il cormorano, comunemente ammaestrato dai Cinesi e da alcuni sportivi inglesi. Perché il cormorano una volta preso il pesce non lo mangi, il suo padrone gli mette al collo un anello di diametro adeguato. Come si rileva da alcune pitture su ceramiche, è quasi certo che anche gli antichi Peruviani praticavano tale pesca; e può darsi che questa fosse introdotta fra loro attraverso il Pacifico insieme con altri elementi di cultura asiatica.
Oltre al cormorano, altri due animali, due mammiferi, sono stati impiegati dall'uomo nella pesca, tutt'e due nell'Estremo Oriente. Swinhoe poté osservare sull'Yang-tze-kiang, a mille chilometri dalla foce, una lontra addomesticata pescare per il suo padrone, un cinese. D. Howard osservò presso gli Ainu il seguente procedimento: un gruppo di pescatori accompagnati da una trentina di cani si separava in due gruppi distanti fra loro circa 200 m. A un determinato segnale dato dai pescatori i cani si precipitavano in acqua dalle due parti e respingevano il branco di pesci verso riva, circondandolo sempre più da presso: allorché i cani, vicini a terra, potevano poggiare sul fondo si gettavano sui pesci e li portavano ai padroni: questi in ricompensa davano loro le teste degli animali catturati; i cani che non avevano preso nulla restavano a stomaco vuoto. Però anche se tali osservazioni sono esatte, esse non possono riferirsi che a casi eccezionali di addestramento.
Sarebbe errore credere che la pesca per avvelenamento delle acque sia un mezzo puramente moderno: numerose sono le tribù primitive che si procurano così il pesce. I veleni usati a tale scopo sono vegetali. Generalmente viene avvelenata direttamente l'acqua, sia nella sua totalità, gettandovi il veleno preparato in poltiglia, sia limitatamente, facendo galleggiare un fascio di piante velenose; più raramente si getta nell'acqua un'esca avvelenata. La pesca col veleno non può effettuarsi altro che in acque stagnanti. I pesci morti salgono alla superficie, prima i più piccoli poi i più grandi e sono raccolti a mano o con recipienti qualsiasi.
Accessorî. - Oltre agli strumenti da pesca propriamente detti vengono usati anche numerosi accessorî. Questi dipendono prima di tutto dalla località dove il pescatore opera: egli può pescare dalla riva, sull'acqua e sul ghiaccio. Nella pesca dalla riva gli accessorî sono costituiti da scatole per gli ami e per le esche, da mazze per uccidere il pesce e da canestri per raccoglierlo; questi mezzi esistono presso le popolazioni inferiori. A queste è esclusivo un accessorio assai importante, rappresentato dai posti di vedetta, stabiliti sul corso inferiore dei fiumi, dai quali l'osservatore deve segnalare l'arrivo dei banchi di pesce, specie dei salmoni. Altri posti d'osservazione possono essere collocati lungo le rive per sorvegliare le imbarcazioni. Per la pesca sull'acqua due accessorî sono particolarmente frequenti, cioè la torcia per la pesca di notte e gli arnesi per fare frastuono, ambedue usati per attirare i pesci.
La pesca sul ghiaccio costituisce, per alcune popolazioni, il procedimento comune. Gli Eschimesi appostano la foca presso fori praticati nel ghiaccio ai quali l'animale si avvicina per respirare e l'uccidono con l'arpone. Il loro accessorio principale è la piccola slitta sulla quale si recano al luogo di pesca. La pesca sul ghiaccio è praticata anche dalle popolazioni siberiane, tanto russe quanto indigene, facendo uso sia di raffio sia di amo. Gli accessorî speciali sono allora una zappa per fare il buco nel ghiaccio, delle stuoie che permettono di stare a lungo seduti sul ghiaccio, e, eventualmente, degli schermi che vengono rizzati allo scopo di ripararsi dal vento.
Dall'osservazione degli utensili necessarî alla pesca si comprende già l'importanza notevole di questa industria per le popolazioni primitive. Ve ne sono perfino di quelle che vivono del solo suo prodotto: più ancora delle popolazioni dell'Oceania, le quali hanno a loro disposizione anche alcuni prodotti della natura tropicale, sono in queste condizioni certe popolazioni delle regioni artiche o subartiche come gli Jukaghiri e i Ghiliaki.
I primi a primavera si riuniscono lungo il corso inferiore dei fiumi della Siberia orientale che sboccano nell'Oceano Artico: allorché avvistano dei banchi di pesci che risalgono il fiume essi li lasciano passare, li seguono in barca e quando i banchi cominciano a ridiscendere il fiume costruiscono attraverso di essi degli sbarramenti. Anche i Ghiliaki di Sachalin sulla costa di fronte al continente come pure quelli insediati lungo il basso Amur vivono quasi esclusivamente della pesca, in dipendenza della quale stabiliscono i villaggi; così il numero delle agglomerazioni nell'Amur è due volte maggiore sulla riva destra che su quella sinistra a causa della maggiore profondità del fiume sulla riva destra e della maggiore quantità di pesci che passano da quella parte; per una ragione analoga i villaggi ghiliaki sono più numerosi verso le foci dell'Amur che verso monte.
Generalmente è l'uomo che prende il pesce e la donna lo ammannisce e prepara. Così pure è in genere l'uomo che costruisce gli sbarramenti, ma è la donna che prepara il filo necessario per la fabbricazione delle reti. La pesca fa dislocare la famiglia meno della caccia poiché le spedizioni di pesca di più mesi alle quali soltanto gli uomini prendono parte - per es., quelle dei pescatori bretoni, a Terranova - non sono praticate comunemente dalle popolazioni primitive. Nel fatto che l'uomo e la donna rimangono insieme durante le operazioni di pesca, e la donna non ha quindi modo di emanciparsi, si è voluta vedere una ragione del regime patriarcale dominante fra le popolazioni di pescatori.
D'altra parte i lavori relativi alla pesca e la pesca stessa non possono essere eseguiti da una sola famiglia: la costruzione di una piroga, di uno sbarramento, il portare a terra una grossa preda, cetaceo, pinnipede o grosso pesce, può necessitare l'opera di più uomini; la pesca favorisce dunque la formazione di piccoli gruppi di famiglie organizzate in comunità. Infine, allorché viene organizzata una spedizione in alto mare i partecipanti possono eventualmente essere scelti, come avviene fra i Ciukci, fra le diverse famiglie della comunità, in modo che in caso di disgrazia non ne rimanga colpita esclusivamente una famiglia. Quando la pesca ha per una popolazione tale importanza, è evidente che essa abbia anche la sua ripercussione nell'animologia del popolo stesso, nelle sue produzioni artistiche, per quanto povere, e specialmente in tutti i racconti e le leggende del suo folklore.
Folklore. - Attaccati, fino a tempi recentissimi, a sistemi e ordigni tradizionali, i pescatori conservano tuttavia svariate forme di reti, che distinguono con nomi diversi, a seconda degli usi (sciabica dicono la rete a strascico, bastimara la rete per la caccia ai bastimi, squadrara per gli squadri, bogara per le boghe, palamita quando si cala nei fondali rocciosi, tramaglio quando è a tre file parallele, ecc.). Come le reti, anche le barche da pesca hanno forme e nomi differenti. Sulle paranze o bilancelle che, come il nome dice, vanno a paio portando ciascuna un capo della rete, i pescatori sono riuniti in ciurme, con speciali gerarchie e turni di lavoro, agli ordini del capo, a cui si rimettono nelle questioni. Essi conoscono i luoghi dove è preferibile pescare e le zone dove vivono le differenti specie di pesci; tanto che in alcuni paesi, a evitare conflitti tra le ciurme, il mare è diviso in lotti, ciascuno dei quali è assegnato in sorte a ogni barca o coppia di barche. Regole speciali disciplinano la ripartizione della pesca, secondo non solo il numero dei pescatori, ma l'età e il grado.
Riti, cerimonie e superstizioni non mancano. Ogni barca è battezzata con un nome e porta l'immagine dipinta di qualche santo tutelare (S. Andrea, S. Nicola, S. Francesco di Paola, ecc.). La benedizione delle barche si ripete ogni volta che s'ha da incominciare la grande pesca, e spesso, in circostanze solenni dell'anno, si fa benedire il mare. Si evita di gettare le reti nella notte del 2 novembre per timore di ritrarle piene di teschi; come pure si evita, durante le operazioni, di nominare alcuni animali ritenuti malefici (cavallo, vacca, maiale, lepre).
Nelle marine nordiche è interdetto specialmente il nome del salmone. Amuleti e carmi sono adoperati per le barche e le reti, contro le fatture e le malie. Al ritorno dalla pesca, le donne dei pescatori scozzesi non debbono porre piede nelle barche, per timore di arrecare maleficio. I carmi sono in uso per allontanare le burrasche, "tagliare" i sifoni, scongiurare le apparizioni (sirene, orchi, dragoni, folletti, vascelli macabri, ecc.). I pescatori calabresi e siciliani hanno l'abitudine di recitare antiche formule gergali durante la caccia del pesce spada e del tonno; i pescatori veneti e istriani ne recitano, quando puliscono i buglioli, oppure quando dànno la pece alle barche.
V. tavv. CCXXXI-CCXXXIV.
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