PESCA
(XXVI, p. 922; App. I, p. 929; II, II, p. 528; IV, II, p. 768)
Nel corso degli ultimi anni, l'attività di p. ha dovuto tener conto prevalentemente di tre ordini di problemi: la ricerca di un nuovo assetto giuridico internazionale che ne regolamentasse l'esercizio; il confronto concorrenziale con le altre attività economiche che si svolgono nel medesimo spazio marino; il depauperamento delle risorse ittiche e la loro vulnerabilità per le accentuate condizioni di compromissione ambientale sopportate dall'idrosfera.
Per la soluzione di detti problemi un quadro di riferimento organico sembrerebbe delineato dagli accordi che hanno dato luogo alla Convenzione di Montego Bay (Giamaica) con la quale, nel 1982, dopo lunghi e difficili anni di trattativa, si è conclusa la Terza conferenza internazionale dei mari, convocata sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Tale Convenzione, infatti, benché stenti a entrare in vigore, non essendosi ancora raggiunto (nel 1994) il numero di ratifiche previste per le resistenze frapposte dai paesi sviluppati e segnatamente dagli USA, fissa i limiti delle acque territoriali e della ''zona economica esclusiva'' nella quale lo stato esercita diritti sovrani di sfruttamento delle risorse naturali, biologiche e non. Ma sancisce al contempo che i singoli stati, vuoi nelle zone di loro sovranità giuridica ed economica, vuoi nel mare libero, soggiacciano agli obblighi di conservazione delle risorse anche attraverso la cooperazione internazionale. Per lo specifico della p., la Convenzione muove dal presupposto che il patrimonio ittico, se sfruttato oltre le possibilità di rinnovamento, può esaurirsi e che lo stesso patrimonio non rispetta le frontiere. Ne consegue l'adozione del principio solidaristico della cooperazione internazionale, intesa come obbligo giuridico.
Produzione e commercio internazionali. − A conferma delle difficoltà incontrate, ma anche della rilevanza dei progressi realizzati già negli anni a cavallo del 1970, la produzione mondiale di pescato, nel decennio successivo, si è mantenuta su valori sostanzialmente stabili. Più recentemente, tuttavia, per la forte pressione esercitata sulle risorse dall'attività di p. dei paesi in via di sviluppo, si misura un apprezzabile miglioramento quantitativo, essendo stata raggiunta nel 1991 la soglia di 100 milioni di t di pescato: soglia che, peraltro, secondo le valutazioni degli esperti, difficilmente potrà ulteriormente espandersi negli anni futuri, ferme restando le attuali tecnologie e le pratiche non ricostitutive della fauna marina. Infatti, malgrado si siano venuti valorizzando alcuni nuovi distretti di p. (spazi marini al largo delle coste cilene e peruviane e del Mar Cinese Meridionale, nel Pacifico; spazi centro-meridionali sulle due sponde dell'Atlantico), ve ne sono alcuni in via di esaurimento, e anzi, di pari passo al crescente sfruttamento, diminuiscono le riserve potenziali complessive.
Di contro, più vivace è apparso il mutamento nel quadro dell'apporto dei singoli distretti di p., e delle flotte pescherecce nazionali che di norma vi accedono, anche se resta complessivamente inalterato il contributo al pescato fornito dai singoli spazi oceanici: poco più della metà dal Pacifico; circa i 4/10 dall'Atlantico; meno di un decimo dall'Oceano Indiano e dal Mediterraneo assieme.
È anzitutto da notare la minore incidenza relativa dei principali paesi a economia avanzata (Stati Uniti, Canada, Giappone, Norvegia ed ex URSS) il cui contributo è sceso a meno di 1/3 del totale, rispetto ai 2/5 della fine degli anni Settanta. Vi è quindi da considerare l'ancor più ridotta consistenza del pescato dei paesi dell'Africa, anche in quella parte del continente (regioni costiere di sud-ovest) dove più promettenti apparivano le prospettive di sviluppo e dove ci si attendeva un qualche contributo alla soluzione dei problemi alimentari tipici dell'area. Notevoli appaiono invece i progressi realizzati dai paesi latino-americani dove − sia pure in presenza di una certa variabilità annuale − l'apporto di quelli che si affacciano sul Pacifico (segnatamente Chile e Perù) ha raggiunto e superato il decimo del totale mondiale contro il 7% del decennio precedente. Ancora più cospicui gli avanzamenti realizzati dal continente asiatico che, a fronte di una stasi del pescato giapponese, registra un aumento generalizzato per tutti gli altri paesi, raggiungendo i 4/10 del totale mondiale. Considerando il contributo dei singoli paesi, è da sottolineare la perdita del primato da parte del Giappone a vantaggio della Repubblica Popolare di Cina, dove la quantità di pescato nel 1991 è risultata superiore al 13% del totale mondiale, a fronte del 7% della fine degli anni Settanta. La produzione nipponica risulta pari a quella dei paesi dell'ex URSS e condivide con quest'ultima una certa flessione, dovuta però a cause diverse: saturazione strutturale nel caso del Giappone, crisi dell'organizzazione produttiva per i paesi ex URSS.
Dato che la quantità totale di pescato rimane costante nel tempo e i paesi produttori sono anche i maggiori consumatori, rimane modesta la quota dei prodotti della p. destinati al commercio internazionale. Questa è attestata mediamente intorno al 7% del totale e di tale percentuale circa la metà è commerciata da operatori nipponici sui mercati europei e nordamericani. Di un certo significato, tuttavia, l'incremento registrato, in tale contesto, dall'import-export dei prodotti ittici destinati all'utilizzazione industriale (oli e farine) per i quali spicca l'apporto dei paesi latino-americani.
La pesca in Italia. − Collocata intorno al trentesimo posto della graduatoria mondiale, la produzione di pescato in Italia, che da circa un ventennio varia dalle 350.000 alle 400.000 t, resta assai modesta sia in termini assoluti che in relazione alla spiccata marittimità del paese. Allo scarso o assente incremento produttivo si è accompagnato un peggioramento della composizione qualitativa, essendo aumentata l'incidenza di specie ittiche meno pregiate. È diminuito di conseguenza il valore aggiunto del settore − in una misura superiore al 10% dal 1975 al 1990 −, in maniera più consistente nelle regioni del Mezzogiorno, dove la flotta peschereccia e le strutture di supporto risultano ancora scarsamente innovate. Inoltre, il pur significativo aumento su scala nazionale della potenzialità complessiva della flotta peschereccia e il suo ammodernamento, realizzato nel corso della seconda metà degli anni Settanta, coincidendo con il mancato incremento della produzione ha finito per irrigidire la struttura dei costi e alimentare la crisi di produttività.
La mancata espansione della quantità di pescato è da far risalire alla scarsità di risorse ittiche dei nostri mari, resa più rilevante dall'intensità dello sfruttamento e dall'aggravarsi dell'inquinamento. A ciò si sono aggiunte le limitazioni alla p. d'altura connesse all'ampliamento delle acque sottoposte a sovranità nazionale da parte di quei paesi mediterranei nelle cui acque abitualmente e con maggiore frequenza s'indirizzava il nostro naviglio man mano che si accrescevano la stazza media e la potenza e che si riducevano le opportunità nelle acque costiere nazionali. Il suddetto ampliamento delle acque nazionali ha, in vario modo, riguardato Libia, Tunisia, Algeria, Malta ed ex Iugoslavia, e ha determinato l'insorgere di un contenzioso internazionale ancora non del tutto definito. Pari limitazioni, inoltre, si sono avute in quei distretti di p. oceanica cui accedeva la nostra flottiglia attrezzata allo scopo (Golfo di Guinea) in conseguenza dell'adozione, da parte dei paesi interessati, della ''zona economica esclusiva'' di 200 miglia. Ostacoli mal superati da accordi privati di concessione dell'esercizio della p., come dimostra il drastico calo delle unità di navigazione italiane. La situazione appare destinata a un qualche futuro miglioramento in virtù dell'adozione di una politica comunitaria per la p. che opera fondamentalmente nella direzione di un risanamento delle condizioni ambientali dei mari; di una ricostituzione della fauna ittica attraverso il ''riposo biologico'', il divieto di forme di p. devastanti, l'adozione di idonei programmi di ripopolamento biologicamente selezionati; della stipula di accordi internazionali con i paesi terzi per la pratica della p. oceanica e nel Mediterraneo.
A fronte della stabilità nella quantità di pescato a livello nazionale, si è assistito nel corso dell'ultimo decennio a un certo spostamento del contributo regionale per il concorso di vari elementi: fattori socio-economici, disponibilità di risorse di capitale, diversa incidenza dell'acquacoltura, reperibilità di manodopera immigrata, competitività intersettoriale. È anzitutto diminuita l'incidenza del Centro-Nord (59% nel 1977; 45% nel 1990) a vantaggio del Mezzogiorno e delle Isole, ma si è anche modificata la graduatoria delle singole regioni. L'Emilia Romagna, che nel 1977 era al vertice con quasi 1/4 del pescato italiano, nel 1990 segue la Sicilia, passata, nello stesso arco di tempo, dal 16 al 30%. Modesti gli spostamenti relativi delle altre regioni, mentre si segnala il netto decremento della Campania, dal 6 al 2%, e il rapido avanzamento del Friuli-Venezia Giulia, dall'1,5 al 4,1%.
Da quanto precede, appare evidente che la maggiore domanda interna di prodotti ittici, conseguente all'innalzamento del reddito delle famiglie italiane, è sempre più soddisfatta mediante il ricorso all'importazione, in special modo dal Giappone e da altri paesi asiatici, che viene commercializzata nelle piazze specializzate dell'Adriatico e di paesi del Nord Europa.
Bibl.: J.E. Bardach, Y. Matsuda, Fish, fishing and sea boundaries, in Geojournal, 4 (1980), 5, pp. 467-78; Commissione Comunità Europee, The European Community's fishery policy, Lussemburgo 1985; E. Bonalberti, Sul tema pesca in Italia: una prima valutazione, in Studi Marittimi, 12 (1990), 36, pp. 45-46; La pesca e la conservazione delle risorse biologiche nel Mare Mediterraneo, Napoli 1993.
Diritto internazionale. - Nell'ultimo quindicennio il problema giuridico e diplomatico della p. è risultato particolarmente complesso a causa di molteplici fattori, di diversa natura: i nuovi stati formatisi dopo la decolonizzazione avvertono l'esigenza di riservare in modo esclusivo i loro mari all'attività ittica dei propri operatori (pescatori individuali e imprese organizzate); le delimitazioni sempre più rigide − stabilite dalle Convenzioni internazionali − delle zone marine riservate alla sola competenza degli stati costieri (zona contigua, zona economica, piattaforma continentale, ecc.) hanno determinato una restrizione ulteriore dei settori marini accessibili da parte di pescatori stranieri; le ragioni economiche e la determinazione degli operatori ittici si scontrano con l'intransigenza degli stati costieri interessati: onde incidenti locali che possono degenerare in incidenti diplomatici e anche in azioni militari. Al fine di prevenire, o porre termine, a codeste situazioni la diplomazia degli stati ha operato su due fronti distinti: quello degli accordi bilaterali o degli accordi plurilaterali.
Un esempio di accordi bilaterali è offerto dallo scambio di note italo-tunisine del 19 giugno 1976, attinente al Protocollo 20 ottobre 1975 in materia di p., allo scopo di realizzare una cooperazione generale economica e finanziaria. Accordi plurilaterali si sono avuti a seguito della partecipazione italiana alla Convenzione di Ginevra del 1958 in ordine alla p. in generale e alla salvaguardia delle risorse ittiche, e con l'assidua presenza italiana alle singole sessioni della Conferenza sul diritto del mare, conclusasi con la Convenzione di Montego Bay (dicembre 1982), recante specifiche norme anche in materia di pesca.
È da ricordare, inoltre, la Convenzione di Londra del 18 novembre 1980 sulla cooperazione multilaterale per la p. nell'Atlantico del Nord Est, cui ha aderito la Comunità economica europea in data 18 settembre 1981. E poiché la materia della Convenzione è competenza della Comunità come tale, anche per quanto concerne i connessi atti diplomatici conclusivi l'Italia si è astenuta dal procedere individualmente alla ratifica della Convenzione stessa.
Per l'importanza dei problemi non soltanto giuridici, ma anche e soprattutto sociali e umani, trattandosi di attività che dà lavoro a un numero assai rilevate di persone, la disciplina giuridica internazionale della p., sia sul piano bilaterale che su quello plurilaterale, impegna fortemente la diplomazia italiana e degli altri paesi interessati.
L'entrata in vigore della l. 17 febbraio 1982 n. 41, recante il "Piano per la razionalizzazione e lo sviluppo della pesca marittima" affidato all'elaborazione del ministero della Marina Mercantile, ha definito l'intera materia per quanto riguarda la p. nelle acque nazionali italiane, tendendo a realizzare i seguenti obiettivi: a) la gestione regionale delle risorse biologiche del mare; b) l'incremento della produzione e la valorizzazione delle specie massive della p. marittima nazionale; c) la tutela della produzione e del consumo dei prodotti ittici nazionali; d) l'aumento del loro valore aggiunto con conseguenti riflessi occupazionali; e) il miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro e di sicurezza a bordo dei pescatori; f) il miglioramento della bilancia commerciale nel settore.
Nel contesto di questa razionalizzazione del settore, ha assunto particolare interesse la regolamentazione della ''licenza di pesca'' attuata con i decreti ministeriali 5 e 7 maggio 1987: con il rilascio di tale licenza l'amministrazione, con una certa discrezionalità, deve accertare la compatibilità della richiesta avanzata dal privato con gli obiettivi perseguiti dal Piano e, innanzitutto, con l'accertata capacità produttiva del mare. A tutela di questa, il decreto ministeriale 21 luglio 1988 ha previsto la possibilità sia di un fermo temporaneo che di un ritiro definitivo delle navi adibite alla p. marittima, anche al fine di meglio proteggere gli equilibri ecologici. Nell'intento, poi, di favorire le condizioni di vita e di lavoro degli addetti alla p., la l. 28 agosto 1989 n. 302 ha disciplinato il credito peschereccio di esercizio a favore delle imprese singole o associate, delle cooperative di pescatori e delle associazioni di produttori operanti nel settore.
Bibl.: T. Scovazzi, Problemi della regolamentazione comunitaria della pesca marittima, in Rivista di diritto internazionale, 1978, pp. 28 ss.; F. Leita, T. Scovazzi, Il regime della pesca nella Comunità economica europea, Milano 1979; AA.VV., La disciplina della pesca in acque territoriali, Napoli 1988; A. Maresca, v. Pesca, in Dizionario Giuridico Diplomatico, Milano 1991, pp. 439 ss.