Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Peter Eisenman svolge un ruolo cruciale nella cultura architettonica degli ultimi 30 anni del Novecento. Durante un viaggio di studi in Italia scopre l’opera di Giuseppe Terragni, che studia approfonditamente e contribuisce a divulgare durante tutta la sua lunga carriera di teorico, critico e architetto militante. Eisenman si è distinto per una concezione dell’architettura come arte autonoma, con regole esenti da condizionamenti esterni. Alla sua attività di cantiere, ha sempre affiancato una notevole produzione teorica, in un dialogo costante con gli storici e gli architetti europei, e con filosofi come Jacques Derrida.
Non è facile classificare il pensiero e le opere di Peter Eisenman. Il ruolo che ha ricoperto nella cultura architettonica americana ed europea, a partire dagli anni Settanta, è stato nodale, grazie anche all’impegno costante esercitato a tutto campo, dall’insegnamento alla pubblicistica, dalla ricerca teorica alla pratica di cantiere. Nato nel New Jersey nel 1932, per tutti gli anni Cinquanta Eisenman studia a New York, se si esclude il periodo trascorso sotto le armi (1955-1957), in Corea. Nel 1960 Eisenman si reca in Inghilterra per terminare la sua formazione con un PhD a Cambridge. In quegli anni vi insegnano progettisti importanti come James Stirling e Peter Smithson, ma è soprattutto lo storico dell’architettura Colin Rowe che segnerà in modo incisivo l’educazione del giovane architetto americano. L’insegnamento di Rowe, a sua volta debitore dei Principi architettonici nell’età dell’umanesimo (1949) di Rudolf Wittkower, mira alla conoscenza delle regole compositive degli edifici e della struttura formale di un’opera di architettura. Ed è soprattutto con gli occhi di Wittkower che il maestro e l’allievo compiono insieme un lungo viaggio di studi, nell’estate del 1961, dall’Olanda all’Italia, simile nell’itinerario al Grand Tour ottocentesco. Eisenman vede dal vivo, per la prima volta, tutti gli edifici di Palladio e molti capolavori del rinascimento e del manierismo, ma è nella secondaria città di Como che viene colto da una sorta di epifania joyciana, davanti alla (ex) Casa del fascio. Più di tanti altri capolavori del movimento moderno, l’edificio di Giuseppe Terragni sembra infatti corrispondere perfettamente all’impostazione formalista di Eisenman: la sua geometria complessa e priva di risvolti semantici agli occhi di Eisenman sembra obbedire unicamente a regole formali, senza condizionamenti esterni legati al contesto, ai sistemi costruttivi o alla funzione – tanto che nel primo dopoguerra verrà destinata a casa del popolo, quasi naturalmente. È dunque del tutto logico che la tesi di PhD del 1963, sotto l’eloquente titolo Le basi formali dell’architettura moderna e tramite l’analisi di edifici di Wright, Le Corbusier e Aalto , si concluda sulle architetture di Terragni.
All’opposto di Robert Venturi e Denise Scott Brown, Eisenman per quasi tutti gli anni Sessanta e Settanta andrà alla ricerca di un’architettura concettuale dalla purezza incontaminata da fattori esterni, interessandosi pertanto più alla sintassi che alla semantica della disciplina, in modo non dissimile da altri giovani artisti americani come Sol Lewitt e Dan Graham, entrambi con studi di architettura alle spalle. Del resto solo così un ebreo liberal di Manhattan come Eisenman può eleggere un edificio simbolo del fascismo a suo riferimento principe e allacciare con l’architetto fascista Terragni un lungo rapporto di ambigua e consapevole sovrapposizione. Gli studi di filosofia del linguaggio di Charles Morris e di Noam Chomsky contribuiscono a dare sostanza e spessore alla teoria sintattica di Eisenman e anzi la stessa definizione di sintassi formulata da Morris per cui essa “si occupa delle combinazioni dei segni, prescindendo dai loro specifici significati o dalle loro relazioni con il comportamento in cui sono inseriti” sembra riassumere l’idea di architettura eisenmaniana di questi anni. Per tale ragione, nella rappresentazione dei suoi progetti Eisenman tenderà a evitare la prospettiva e i tradizionali alzati, privilegiando l’assonometria, sistema rappresentativo caro ad avanguardie quali De Stijl, che consente il massimo livello di astrazione. Per un decennio i suoi progetti saranno senza titolo, numerati progressivamente quasi fossero composizioni musicali, House I, II, e così via.
La House II (1969-1970) per esempio, a Hardwick, nel Vermont, presenta due sistemi strutturali, uno di pilastri e l’altro di setti murari. Nella loro commistione ridondante non è possibile distinguere quale dei due sistemi sia staticamente più rilevante e per questo la funzione di ciascun sistema sembra quella di significare la propria mancanza di funzione. L’assoluta assenza di dettagli o di valori di superficie, il candore monocromatico e l’ambiguità strutturale rendono la House II simile a un modello; in proposito egli stesso ha parlato di cardboard architecture, architettura di cartone. Le prime case di Eisenman sono dunque degli oggetti astratti e distanti anche dal proprio artefice, senza patria e senza nome; in esse ciò che conta davvero è il processo di generazione formale dell’architettura, la trasformazione che avviene secondo regole proprie, autonome: in questo senso l’opera realizzata è del tutto irrilevante. Manfredo Tafuri scriverà in proposito che “la spietata operazione di Eisenman consiste nel riconoscere che non si dà lingua architettonica se non al di fuori della prassi”. La questione dell’autonomia disciplinare è anche una delle affinità che legheranno Eisenman ad Aldo Rossi, sebbene questa li porti a esiti diversissimi tra loro. Nel frattempo, sempre a New York, viene fondato l’Institute for Architecture and Urban Studies (IAUS) e Eisenman, che ne è il direttore, lo trasforma in una testa di ponte della cultura europea negli Stati Uniti.
Quasi tutti coloro che vi insegnano sono o europei o di cultura europea. Ma è certo che negli anni Settanta la carriera di Peter Eisenman subisce una brusca accelerazione su tutti i fronti delle sue attività. Nel 1973 viene invitato da Aldo Rossi a esporre i propri progetti alla XV Triennale di Milano, Architettura razionale, rafforzando così i legami con l’Italia, insieme ai suoi compagni di strada di allora: il suo lontano cugino Richard Meier, l’ex compagno di università Michael Graves, John Hejduk, Charles Gwathmey & Robert Siegel, ovvero il gruppo che diverrà noto col nome di Five Architects New York. I Five alternano tutti l’insegnamento alla professione e per alcuni anni si riuniscono presso il Museum of Modern Art di New York con l’intenzione di elevare il dibattito della discussione architettonica e tentare un impatto sullo sviluppo urbano newyorchese. Una certa affinità di fondo copre le grandi differenze individuali: l’amore per le avanguardie europee, l’astrazione, l’insoddisfazione per il tradizionale professionismo americano, tutti aspetti che attireranno l’ironia di personalità realiste come Vincent Scully, Robert Venturi e Denise Scott Brown che accuseranno più o meno indirettamente i Five di essere dei radical chic. Per un certo periodo lo IAUS, in collaborazione con la Urban Development Corporation, riesce a realizzare alcuni progetti alternativi di edilizia popolare basati su aggregazioni basse e compatte, come il complesso residenziale Twin Parks nel Bronx di Meier (1969-1973). Si tratta di una nuova fase di engagement civico, che, per Eisenman, abituato a una committenza alto borghese, è pressoché inedita. Per incidere maggiormente nella società americana i Five e lo IAUS si dotano di uno strumento di diffusione delle proprie idee: nel settembre del 1973 esce infatti il primo numero di “Oppositions”, rivista di culto che introdurrà negli States gli scritti dei migliori teorici europei. Kenneth Frampton, Anthony Vidler, Rafael Moneo, Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Jean-Louis Cohen, Aldo Rossi saranno tutti collaboratori della rivista dalla raffinata impaginazione grafica di Massimo Vignelli.
Dal 1976, in seguito alla prima Biennale di architettura “Europa-America” diretta da Vittorio Gregotti e a un’edizione italiana della mostra sui Five, Eisenman conosce Manfredo Tafuri ed è un’altra folgorazione perché la critica dell’ideologia di stampo marxista di cui è intriso Tafuri mette a nudo tutte le differenze dei componenti del gruppo e le loro personali contraddizioni. Da allora nasce un rapporto privilegiato tra lo IAUS e l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV) dove insegnano, oltre a Tafuri e Rossi, gli storici Francesco Dal Co , Giorgio Ciucci, Georges Teyssot , il filosofo Massimo Cacciari e il pittore Massimo Scolari. Tutti pubblicheranno dei contributi su “Oppositions” che, fino al 1984, anno della chiusura, rimarrà una finestra aperta sul dibattito architettonico americano, introducendovi peraltro anche i poststrutturalisti francesi come Michel Foucault e Gilles Deleuze.
In questi anni Eisenman consuma lo strappo con il formalismo di Colin Rowe, il cui influsso si avverte in filigrana nei primi numeri della rivista, e opera una svolta radicale interrogandosi sul concetto di luogo. Le prime avvisaglie di questa svolta si possono leggere già nel progetto per l’ultima della serie delle House, la XI a Palo Alto in California per lo storico Kurt Forster, ma è con il progetto per l’area di San Giobbe a Cannaregio a Venezia (1978) che Eisenman si confronta per la prima volta con uno spazio urbano particolarmente carico di stratificazioni storiche. Rifacendosi al tracciato del progetto non realizzato di Le Corbusier per il vicino ospedale, Eisenman raccoglie la ricchezza delle opportunità formali che il contesto offre e per la prima volta lo considera come elemento fondante di un suo progetto, ma reinventandolo; non cercandone le tipologie, come avrebbe fatto Rossi, né utilizzandone gli elementi come citazione, come avrebbero fatto i postmoderni. D’ora in poi, da Cannaregio al progetto per il Wexner Center for the Arts a Columbus in Ohio (1983-1989), al complesso IBA presso il Checkpoint Charlie a Berlino (1981-1985) al progetto Moving Arrows, Eros, and Other Errors: Romeo + Juliet (che vince il Leone di pietra alla Biennale di architettura di Venezia diretta da Aldo Rossi nel 1985) il tema affrontato non ha più nulla a che vedere con Terragni e Rowe, sostituiti da Tafuri, ma si sposta sull’inutilità di ogni rappresentazione e sul contenuto ideologico dell’architettura. Dagli anni Ottanta in poi Eisenman si dedica soprattutto alla professione, in una prima fase in sodalizio col pragmatico Jaquelin Robertson, senza però mai perdere di vista la dimensione teorica del proprio lavoro. Nel 1984 pubblica appunto uno dei suoi scritti più importanti, La futilità degli oggetti, in cui è leggibile tutto lo scarto concettuale maturato con il periodo delle case in serie. È già netto l’influsso della filosofia decostruzionista di Jacques Derrida, secondo cui l’atto creativo avviene nell’interpretazione dei testi e per questo Eisenman introduce il concetto di “testo architettonico”. Il filosofo di origine algerina e l’architetto americano rimarranno legati da una schietta amicizia, tanto che in seguito scriveranno anche un libro assieme, Chora L Works (1997). Di conseguenza, nel 1988, Eisenman è in prima fila tra i sette architetti riuniti da Philip Johnson e Mark Wigley nella mostra del MoMA Deconstructivist Architetcture: Coop Himmelb(l)au, Gehry, Daniel Libeskind, Koolhaas, Zaha Hadid, Tschumi ed Eisenman, allora quasi tutti sconosciuti al grande pubblico che si affermeranno come lo star system dell’architettura fino a divenire, oggi, dei personaggi pubblici.
Nel 1991 Eisenman fonda con Cynthia Davidson, Anyone Corporation, istituzione culturale per promuovere un ampio confronto internazionale e interdisciplinare con le più avanzate tendenze contemporanee e che dà vita alla rivista “Any” (“Architecture New York”, 1993-2000), nella quale tornano a pubblicare molti dei protagonisti di “Oppositions” insieme a una nuova generazione di architetti e critici americani il cui lavoro è fortemente segnato dalla rivoluzione digitale generata dall’uso generalizzato del computer, come Greg Lynn e Robert Somol. Alla rivista Eisenman affianca alcuni libri che continuano a occupare il centro della scena architettonica quantunque in tono minore rispetto agli anni Settanta: Diagram Diaries (1999) condensa il rinnovato interesse sul diagramma ovvero sul processo di generazione dell’architettura utilizzato sin dagli anni Sessanta da architetti come Cedric Price e riattualizzato da Rem Koolhaas, anche se Eisenman cerca di inscriverlo nel suo universo concettuale malgrado qualche forzatura: “Il diagramma è il dispositivo di mediazione tra il fatto architettonico e quello che noi vediamo; cioè un altro modo di vedere che ci consente di apprezzare l’architettura al di là della pura dimensione ottica e rappresentativa”. Sembra quasi riecheggiare la tesi del ’63, quando Eisenman distingueva tra aspetti superficiali – tessitura, colore, forma – e aspetti concettuali dell’architettura – frontalità, obliquità, slittamento – non percepibili attraverso i sensi. Il suo Monumento agli ebrei uccisi d’Europa (1998-2005), inizialmente progettato in collaborazione con lo scultore Richard Serra, allinea migliaia di steli grigie e mute a pochi metri dalla porta di Brandeburgo di Berlino, senza alcuna apparente relazione con il contesto, per concentrarsi sul difficile tema della memoria. Ha scritto a riguardo Giorgio Agamben (1942-): “Nel monumento queste due dimensioni eterogenee della memoria – il memorabile e l’indimenticabile – sono distinte in modo topografico: in superficie le steli affatto illeggibili, sotto un centro informativo riservato alla lettura. La soglia immateriale che divide queste due dimensioni è il luogo vero e proprio del monumento”. Eisenman riesce infine a pubblicare, dopo 40 anni di gestazione, il travagliato volume Giuseppe Terragni: trasformazioni, scomposizioni, critiche (2003), che documenta ed esamina a fondo i due capolavori comaschi dell’architetto razionalista italiano: la Casa del fascio (1932-1936) e la Casa Giuliani Frigerio (1939-1940). Questa ricerca ad ampio raggio si avvale di quella che Eisenman chiama lettura critica e testuale dei due edifici, applicando una metodologia distante dagli approcci tradizionali – sociale, storico, estetico, funzionale. Al loro posto, le varie articolazioni e le aperture sulle facciate costituiscono una serie di segni e notazioni che sono alla base dell’analisi.
I primi anni del nuovo secolo sembrano dunque portare Peter Eisenman a una saldatura critica con i suoi esordi, sia a livello operativo sia a livello teorico.