PETROLIO (XXVII, p. 32; App. I, p. 931; II, 11, p. 530; III, 11, p. 401)
Origine del petrolio. - L'origine organica del p. è oramai provata senz'ombra di dubbio. Essa è confermata dall'associazione dei giacimenti petroliferi con strati sedimentari depositati in epoche caratterizzate da particolare diffusione degli organismi viventi; dalla presenza nel p. di composti le cui strutture possono essere interpretate in termini di un'origine biologica; dai rapporti 13C/12C; dall'analogia di costituzione fra alcuni composti complessi presenti nel p. e composti associati alla vita di animali e piante (un esempio è dato dalle vanadilporfirine, contenute nel p. in concentrazioni che vanno da qualche unità a 500 ppm, e la cui analogia con la formula della clorofilla è evidenziata nella fig. 1).
Contrariamente alle teorie un tempo prevalenti, si pensa ora che la materia organica che ha dato origine al p. derivi principalmente dal mondo vegetale (piante marine, ma anche piante terrestri), i cui detriti sono stati trascinati in depositi salmastri. Oggi si ritiene che trasformazioni biochimiche, come anche azioni radioattive o catalitiche delle argille, possono avere influito sul processo di maturazione del p., ma non in misura prevalente; è generalmente riconosciuto che i fattori più importanti di questo processo sono stati il tempo e la temperatura che hanno influenzato le reazioni chimiche caratteristiche della maturazione. Le diverse temperature che si hanno a differenti profondità hanno avuto una notevole influenza sulla costituzione dei prodotti derivati dalle sostanze organiche originali: così, negli strati più profondi possono essere presenti solo materiali grafitici. Si ritiene che il p. nella sua genesi non sia mai stato a temperatura superiore a 120 °C (200 °C per gas condensati).
Sono stati fatti molti studi sulla migrazione del p.: si ritiene ora che la migrazione sia avvenuta dopo che gl'idrocarburi, sotto l'azione di tensioattivi, sono stati trattenuti in soluzione micellare nel mezzo acquoso, di modo che gl'idrocarburi e la fase acquosa hanno subìto insieme l'azione di parametri (pressioni, gradienti termici) promotori della loro mobilità. Da queste pseudosoluzioni acquose gl'idrocarburi si sono poi separati, per aumento della salinità del mezzo acquoso o altre cause non sempre bene individuate.
Lavorazione del petrolio. - La capacità di raffinazione è passata da 1200 milioni di t nel 1960 a 3600 milioni di t nel 1975. Esclusi i paesi dell'Est europeo (per i quali i valori sono stimati), l'Italia con il 5,7% viene al terzo posto, dopo gli Stati Uniti con il 21% e il Giappone con il 7,6%, della capacità mondiale.
I principali progressi tecnici riguardano la ricomparsa dei processi di idrocracking, la raffinazione mediante idrogenazione e le modifiche nel cracking catalitico, nel reforming catalitico e nei processi di isomerizzazione.
L'idrocracking, che negli anni precedenti e durante la seconda guerra mondiale aveva come scopo di ottenere succedanei del p. dal carbone e dal catrame, ma pure era stato praticato in due raffinerie di p. in Italia, a Bari e Livorno, era scomparso dalle raffinerie nel dopoguerra. Invece nel decennio che segue il 1959, l'idrocracking ha visto un rapido aumento di capacità; in quell'anno era inferiore a 50.000 t/a, alla fine del decennio, 50 milioni t/a. Lo sviluppo di questa tecnica ha permesso inoltre, a partire dal 1967, di mettere in funzione impianti di raffinazione mediante idrogenazione che hanno raggiunto in pochi anni la capacità di 35 milioni di t/a. L'idrocracking serve per preparare gas petroliferi liquefacibili da cariche di benzina, benzina e oli medi da gasoli e residui. Si usano generalmente impianti a due reattori (fig. 2) nel primo dei quali si realizza sostanzialmente la desolforazione e la deazotazione rispettivamente di prodotti solforati e azotati, con formazione d'idrogeno solforato e ammoniaca, mentre nel secondo stadio il cracking, sempre in presenza d'idrogeno e catalizzatori, è più spinto. I catalizzatori hanno una duplice attività, di cracking e d'idrogenazione; la prima è ottenuta con alluminosilicati acidi (come i catalizzatori usati nel cracking catalitico), la seconda con elementi del VI (molibdeno) e VIII (cobalto, nichel) gruppo del sistema periodico. Le temperature sono intorno a 425 °C, le pressioni da qualche decina a 150 atmosfere. La raffinazione si compie invece a temperature più basse e con catalizzatori solo idrogenanti e non differisce molto dalla prima fase dell'idrocracking descritta prima.
Il cracking catalitico è stato in questi ultimi anni caratterizzato dall'introduzione di catalizzatori zeolitici molto attivi che consentono di lavorare efficacemente a temperatura più alta e con tempi di contatto più brevi. Ciò ha permesso di ridurre le dimensioni del reattore, che consiste essenzialmente in un tubo verticale sormontato da un ciclone. Dal punto di vista delle applicazioni, questo tipo d'impianto si presta al cracking, oltre che di distillati medi e pesanti, anche di residui deasfaltati o desolforati mediante idrogenazione.
Nel reforming catalitico, abbandonati i processi a catalizzatore in fase fluida, che del resto si erano poco sviluppati, tutti gl'impianti sono a letto fisso con catalizzatori a base di platino (0,2 ÷ 0,7%) e cloro (in percentuale circa uguale) su supporto di allumina. Recentemente il platino è stato sostituito da una lega platino-renio (Rheniforming), più resistente a un'operazione in condizioni più severe. Un'altra modifica è stata introdotta con il processo Magnaforming, in cui varia il riciclo del gas, nel senso che si mantiene il rapporto gas di riciclo (contenente idrogeno)/carica, più basso nel primo reattore (per favorire la deidrogenazione dei nafteni) e più alto nell'ultimo reattore (per contrastare la deposizione di coke).
Nei processi di isomerizzazione, mediante l'introduzione di catalizzatori, composti di platino e allumina trattati con cloruro di alluminio anidro o con cloruri organici, si è riusciti ad abbassare la temperatura da 400 a 200 °C, ciò che termodinamicamente è più favorevole alla formazione di idrocarburi ramificati.
Carburanti privi di piombo tetraetile e tetrametile. - Si è avuto in questi ultimi anni, soprattutto negli SUA, un movimento contro l'uso dei piombo-alchili nelle benzine e in genere un tentativo di ridurre le emissioni dannose nei gas di scappamento, come incombusti, prodotti organici ossigenati e ossidi di azoto.
Per la verità oggi si ha tendenza a rivedere la posizione concernente il piombo tetraetile, la cui soppressione porterebbe a un aumento del consumo di p., non essendosi potuta provare la dannosità del piombo contenuto nei gas di scappamento alla popolazione. Rimane contro il piombo il fatto che la maggior parte dei dispositivi proposti per favorire l'ossidazione completa dei residui organici e la contemporanea decomposizione degli ossidi di azoto, impiegano catalizzatori a base di platino che viene avvelenato dai composti di piombo. Alcuni però sostengono che l'anidride solforosa, che è anche presente nei fumi sia pure in concentrazioni bassissime, in presenza di platino passa ad anidride solforica e diviene per questo fatto ancora più nociva degli altri prodotti che si riescono a eliminare. L'intera questione è quindi ancora sub iudice.
Succedanei del petrolio. - L'aumento dei prezzi del greggio ha indotto una ripresa dello studio dei processi per ottenere succedanei del p., in auge negli anni precedenti la seconda guerra mondiale (v. carburanti, App. I, p. 367).
Tuttavia realizzazioni nuove ancora non si sono avute, se si eccettua un impianto di oltre 2 milioni di t/a dalle sabbie bituminose dell'Athabasca (Canada) e un aumento della produzione di benzina sintetica nella Repubblica Sudafricana (v. carbochimica, in questa App.).
Bibl.: Origine and refining of petroleum, in Advances in chemistry, s. 103, American chemical soc., 1971; ENI, Energia ed idrocarburi, in Sommario statistico, Roma 1976; Hydrocarbon processing, sett. 1974 (1974 Refining Handbook Issue).
Produzione e mercato mondiale del petrolio. - L'evoluzione dei consumi energetici mondiali dal 1960 al 1975 è stata determinata da un'ulteriore progressione della quota spettante ai prodotti petroliferi; la produzione e il mercato relativi si sono notevolmente espansi, ma le mutate condizioni politico-economiche dello sfruttamento e della distribuzione hanno conferito, specialmente negli ultimi anni, all'intera economia petrolifera mondiale notevoli elementi d'incertezza sulla valutazione delle risorse e quindi sulle concrete possibilità di approvvigionamento da parte dei paesi prevalentemente consumatori; dal canto loro i paesi prevalentemente produttori, facendo leva su questa situazione, stanno tentando di volgere a loro favore il rapporto di scambio del p., ormai fondamentale nei bilanci energetici di tutti i paesi industrializzati, con i beni di consumo e i beni strumentali d'importazione.
Ricerca e produzione. - Se si prende in esame il periodo considerato, si può affermare che l'evoluzione della disponibilità di riserve e quindi quella della produzione o del consumo, hanno proceduto in maniera abbastanza conforme; a un tasso medio d'incremento delle riserve del 6,5% circa, ha corrisposto un tasso d'incremento medio della produzione del 6%. Tuttavia si possono individuare due periodi nei quali il tasso di sfruttamento delle riserve, cioè il rapporto tra produzione e riserve disponibili, si è comportato in maniera diversa: negli anni Sessanta, infatti, il tasso d'incremento delle riserve è stato piuttosto moderato, mentre la produzione petrolifera si è incrementata a un tasso più elevato. Un equilibrio sostanziale tra l'evoluzione delle due grandezze si è verificato intorno al 1970, mentre una contrazione della produzione petrolifera negli anni successivi fino al 1975 riconduceva il tasso di sfruttamento al 3% circa, cioè ai livelli appena antecedenti agli anni Sessanta. La produzione mondiale di p., infatti, dopo un lungo periodo di crescita a tassi abbastanza elevati (da 800 milioni di t nel 1955 era passata a 1556 milioni nel 1965 e quindi a 2336 milioni nel 1970), ha subìto una forte contrazione nel 1975, con un decremento, rispetto all'anno precedente, di circa il 6% (vedi tab. 1).
Le riserve mondiali di greggio sono passate da 25.730 milioni di t nel 1955 a 48.110 milioni di t nel 1965, e quindi a circa 96.200 milioni, secondo le stime più recenti, nel 1975, con un incremento del 12% circa proprio nel periodo 1974-75, cioè di più intensa crisi dell'attività produttiva, dovuto in gran parte a un'espansione delle risorse medio-orientali e al naturale incremento delle nuove aree di prospezione dell'Europa occidentale, dell'America Meridionale e della Cina continentale. L'attività di prospezione si è estesa ulteriormente ad aree ritenute precedentemente marginali, cioè di scarsa convenienza, dal punto di vista economico, a seguito di un progressivo e talvolta rilevante incremento dei prezzi del greggio; ormai le ricerche si estendono all'interno delle calotte polari, nei punti più inaccessibili delle masse continentali, e in mare aperto, ai limiti delle piattaforme continentali più profonde. Con 490 milioni di t circa, l'URSS è passata nel 1975 al primo posto nella graduatoria mondiale dei paesi produttori; l'incremento medio annuo della produzione è da tempo superiore al 5%, grazie soprattutto all'apporto dei giacimenti siberiani nella provincia di Tjumen dove è ubicato l'enorme giacimento di Samotlor, che dovrebbe aver raggiunto una capacità produttiva di circa 100 milioni di t annue di greggio. Perforazioni con buone prospettive di ritrovamento sono in corso nel Mare di Barents, vicino all'isola di Kolgujev, e anche nelle regioni occidentali, in particolare nella regione settentrionale del Caucaso e del bacino del Volga.
La produzione degli SUA, dopo una punta massima di 533,6 milioni di t nel 1970, ha assunto un deciso andamento decrescente, per cui nel 1975, con circa 469 milioni di t, ha perduto la storica posizione di primato nella graduatoria mondiale; dopo aver sottoposto a intenso sfruttamento le risorse texane, l'industria d'estrazione statunitense punta ormai sui giacimenti alascani, scoperti nel North Slope, alla fine degli anni Sessanta, che tuttavia per tutta una serie di difficoltà, non ultime quelle del trasporto, potranno essere proficuamente sfruttate solo a partire dagli anni Ottanta.
Dopo una serie di ritrovamenti nelle regioni dell'Alberta e del Saskatchewan, il Canada tende a ridurre lo sfruttamento delle proprie risorse petrolifere; l'attività di prospezione più recente si è rivolta all'off-shore atlantico e alle regioni occidentali, dove non ha dato i risultati attesi; buone prospettive sono offerte dall'Ontario settentrionale, cioè dall'area circostante la baia di James, che si colloca in una posizione ottimale, rispetto ai luoghi di consumo.
Nell'America Settentrionale, sebbene di entità minore rispetto alle altre, la produzione del Messico è in progressione costante, e ha registrato incrementi rilevanti proprio negli ultimi anni di crisi generale della produzione mondiale.
Nell'area caribica la produzione venezuelana è ancora consistente, ma dopo qualche cenno di ripresa nel 1970, prosegue decisamente con andamento decrescente; il lieve incremento delle riserve non ha fatto desistere le autorità governative da un contenimento della produzione, che da 195 milioni circa nel 1970 è passata a 124 milioni di t circa nel 1975; nel 1972 è stata però intrapresa dalla compagnia nazionale (CVP) una vasta attività di ricerca nelle regioni nord occidentali, mentre ad altre compagnie straniere è stata affidata quella della parte meridionale di Maracaibo. Tra gli altri paesi dell'America Meridionale ha assunto negli ultimi anni una crescente importanza la produzione dell'Argentina, che ormai conta sulle discrete disponibilità delle province settentrionali di Jujuy e di Salta, di quelle centrali di Mendoza e di Neuquén e meridionali della provincia di Chubut.
Le produzioni del Brasile, iniziate negli anni Sessanta, e del Perù, si mantengono costanti, ma sono ancora di modesta entità. La posizione di rilievo assunta da tempo dalla produzione della regione del Vicino Oriente si è ulteriormente affermata negli anni Sessanta e ancor più nel decennio successivo, per cui è divenuta la più consistente tra tutte quelle che alimentano la produzione mondiale di p., con un'aliquota media del 38% circa dal 1970 al 1975. L'Arabia Saudita, dopo un avvio piuttosto lento dello sfruttamento delle sue imponenti risorse petrolifere, è divenuta il primo paese produttore del Vicino Oriente, passando da 62 milioni di t nel 1960 a 176,8 milioni di t nel 1970 e 416,6 milioni di t nel 1976; ugualmente rilevante è la costante ascesa della produzione dell'Iran con 294 milioni di t nel 1976; il Kuwait, che per lungo tempo ha detenuto il primato in quest'area, ha sensibilmente rallentato il suo ritmo di produzione negli ultimi anni, e dopo aver toccato una punta massima di circa 150 milioni di t nel 1972, nel 1976 è passato a 96 milioni di t. In notevole ascesa, anche negli ultimi anni di crisi, è la produzione dell'Iraq con 104,4 milioni di t nel 1976. Un consistente apporto alla produzione dell'area mediorientale è dato anche dagli altri produttori minori, come l'Abu Dhabi con 76,7 milioni di t nel 1976, il Qatar con 22,9 milioni, il Dubai con 12 milioni di t. Data l'attuale consistenza delle riserve, l'attività di prospezione, dopo i notevoli successi conseguiti negli anni Sessanta e Settanta, ha subìto un certo rallentamento, ed è rivolta soprattutto, come nel caso dell'Iran e dell'Arabia Saudita, ad accertare le effettive disponibilità di aree già fortemente indiziate. In Africa, dopo i primi inconsistenti ritrovamenti degli anni Cinquanta, si sono verificate una serie di scoperte, il cui sfruttamento contribuisce per circa il 10% alla produzione mondiale; i giacimenti sono distribuiti in una serie di stati che è possibile raggruppare in una regione dell'Africa settentrionale e una dell'Africa occidentale; nella prima spicca, con notevole margine, la produzione della Libia, che iniziata appena negli anni Sessanta, ha raggiunto 159,2 milioni di t nel 1970, per poi discendere a circa 92 milioni di t nel 1976; segue quindi la produzione dell'Algeria e con un certo distacco quella della Tunisia; tra gli stati dell'Africa occidentale, consistente e in continuo aumento è la produzione della Nigeria, dove i ritrovamenti in prossimità del delta del Niger hanno fatto sì che da una produzione inferiore al milione di t si passasse nel 1976 a 101 milioni di t circa. Ancora più recenti sono le produzioni del Gabon, dell'Angola e del Congo. Nel resto dell'Asia, cioè esclusi i paesi asiatici del Vicino Oriente e la Russia asiatica, l'area petrolifera più consistente è quella dell'arcipelago indonesiano, dove appunto l'Indonesia, da una produzione di 20,5 milioni di t nel 1960, è passata a 74,8 milioni di t nel 1976; l'attività di ricerca e di sfruttamento è iniziata anche nell'India, nelle regioni del Punjab e dell'Assam, e nel Pakistan lungo il bacino dell'Indo. In base alle ultime stime, la produzione di p. della Repubblica Popolare Cinese dovrebbe essere prossima agli 85 milioni di t; nuovi ritrovamenti, oltre a quelli già noti del Kansu, a Yümen, e del Hsinchiang a Wusu, si sono avuti a Tsinghai, nel bacino di Tsaidam e nello Ssu chuan centrale; tuttavia è difficile discernere quanta parte della produzione sia ancora da attribuire ai giacimenti petroliferi, e quanta agli scisti petroliferi che formano il tetto del grande bacino carbonifero di Fushun e a quelli del Kuantung.
In Australia, l'attività di estrazione è cominciata appena nel 1961, con qualche centinaia di migliaia di t dal giacimento di Moonie nel Queensland; altri giacimenti sono stati rinvenuti nell'isola di Barrow, nello stretto di Bass, mentre l'attività di ricerca off-shore si è estesa anche al bacino di Pasqua. Altre attività esplorative sono in corso in Tailandia, nella Corea del Sud e nell'off-shore del Vietnam.
Le riserve. - Nonostante siano prevalse le previsioni più pessimistiche sull'avvenire delle riserve mondiali di p., il loro ammontare complessivo si è talvolta incrementato in maniera superiore ai tassi di sfruttamento, per cui l'ipotetico periodo di durata futura si è mantenuto sempre, a seconda delle diverse stime, su valori compresi tra i 30-35 anni, secondo i valori di produzione correnti. Da 41.030 milioni di t del 1960, si è passati a 72.954 milioni nel 1970 e a 96.200 milioni, o 102.000 milioni, secondo un'altra stima, nel 1975. Si pensa inoltre che circa 300.000 milioni di t siano le riserve possibili, di cui circa un terzo sotto il mare, sulla piattaforma e sullo zoccolo continentali fino a 1000 m di profondità. Il loro costo d'estrazione sarebbe però molto elevato; per es. nei pozzi sottomarini attuali del Mare del Nord, l'estrazione di 1 t di greggio costa 75 dollari, contro i 10 dollari in media del p. arabo saudita; ma il continuo aumento della tassa imposta dai paesi dell'OPEC potrebbe rendere conveniente l'estrazione anche in giacimenti attualmente inattivi, perché troppo profondi o troppo distanti dai principali centri di consumo.
Tuttavia, se da una scala mondiale si passa a esaminare la possibilità di riserve nei grandi aggregati regionali, tenuto soprattutto conto della distribuzione dei consumi, l'evoluzione recente e degli anni precedenti ha delineato una serie di situazioni nettamente differenziate. Incominciando dall'America Settentrionale, si può dire che in quest'area, soprattutto in termini di grandezza assoluta, la situazione delle riserve appare da anni problematica: i lievi incrementi verificatisi nel periodo 1960-65 con le scoperte canadesi, e alla fine degli anni Sessanta con quelle alascane, hanno sensibilmente inciso sull'appesantimento del rapporto tra produzione e riserve, soprattutto per quanto riguarda la situazione statunitense. L'assottigliamento delle riserve venezuelane viene arginato con un contenimento della produzione, mentre da qualche anno le ricerche in parti del paese diverse da quelle tradizionali incominciano a dare i loro frutti. Malgrado l'intensa attività di sfruttamento degli ultimi anni, il Vicino Oriente, con circa 54.400 milioni nel 1975, deteneva la maggior quota, circa il 56% delle riserve mondiali; tra i diversi paesi anche nel caso delle riserve è l'Arabia Saudita che ha il primato, incidendo per circa il 32% su quelle totali; in complesso nel periodo 1955-75 le risorse del Vicino Oriente sono aumentate con un tasso medio vicino al 6%, valore abbastanza considerevole se si pensa già all'elevato valore di partenza. Un'altra evoluzione sensazionale hanno subìto le riserve dei paesi socialisti, soprattutto dell'Unione Sovietica, che ha ormai triplicato le riserve del 1960, mentre ancora poco conosciute sono le disponibilità effettive della Repubblica Popolare Cinese, che teoricamente dovrebbero essere enormi. Le riserve dell'Indonesia, già da tempo sfruttate, sono state recentemente reintegrate nella misura del 30% da nuove scoperte. In Europa, per il momento, soltanto le riserve del Regno Unito e della Norvegia, rispettivamente con 1300 milioni di t e 700 milioni di t nel 1974, hanno assunto una discreta rilevanza, soprattutto sul piano nazionale (v. tab. 1).
Trasporto. - Parallelamente all'attività di sfruttamento, quella del trasporto si è sviluppata considerevolmente, sia per quanto riguarda i trasporti marittimi che quelli terrestri.
È proprio sulla spinta delle commesse di enormi petroliere (superpetroliere) che l'attività cantieristica in generale tende a valori di stazza media ormai quadruplicati rispetto al 1960; per quanto riguarda il numero assoluto di petroliere esistenti, dalle 64.000 circa del 1960, si è passati a 256.000 circa nel 1974, con una portata media di circa 70.000 t; la stazza media delle unità costruite più recentemente o in costruzione si avvicina sensibilmente alle 200.000 tonnellate.
Accanto alle petroliere di varia dimensione, tendono ad acquistare sempre maggior importanza i combined carriers, navi speciali che possono essere impiegate in vari tipi di traffici, per usufruire delle migliori condizioni di nolo percepibile; la loro rotta può essere programmata in base a circuiti durante i quali trasportano consecutivamente greggio, minerali, merci alla rinfusa, riducendo così notevolmente i periodi di navigazione senza carico o in zavorra. Facendo riferimento alle bandiere della flotta cisterniera mondiale (v. tab. 2), si vede che la Liberia, con circa il 29% del tonnellaggio totale, è ancora al primo posto nella relativa graduatoria mondiale; seguono, con notevole distacco, quella del Regno Unito con il 12% circa e del Giappone con l'11% circa; l'Italia occupa il nono posto seguita dall'URSS e dalla Rep. Fed. di Germania. La posizione della Liberia si spiega facilmente se si tiene conto che circa il 64% della portata attribuita all'intera flotta mondiale è coperta da petroliere di armatori privati e il 35% circa da quelle delle compagnie petrolifere, che in genere preferiscono avere una bandiera ombra; quelle di proprietà delle compagnie governative non arrivano all'1%.
Per quanto riguarda gli approdi petroliferi, con l'aumento del valore medio di stazza, essi hanno subìto una profonda ristrutturazione, che va dai fondali alle banchine e al complesso infrastrutturale delle operazioni di trasbordo, spesso direttamente collegato agli stabilimenti di raffinazione, dando così vita a un complesso portuale-industriale già in grado di riesportare o inoltrare nel mercato interno i prodotti finiti. Nell'Europa occidentale il sistema di approvvigionamento è imperniato su sei porti fondamentali, che costituiscono anche i punti di penetrazione del greggio all'interno del continente. Tra questi il primato spetta a Rotterdam, seguita da Le Havre, quindi da Wilhelmshaven, verso i quali confluiscono i traffici petroliferi del Mare del Nord; nel Mediterraneo, la parte più consistente dei traffici riguarda, secondo l'ordine di capacità di attracco, rispettivamente Fos (Marsiglia), Genova e Trieste. Tra gli altri grandi approdi petroliferi sono da menzionare i porti di Finnart e Milford Haven, mentre è prevista la realizzazione di un porto petrolifero alle Maplin Sands, foce del Tamigi, per la ricezione di superpetroliere.
In Giappone, malgrado l'enorme quantità di greggio sbarcato, il trasbordo relativo si concentra, insieme con l'attività di raffinazione, in pochi porti, tra i quali emergono Okinawa e Kiire, mentre sta per essere ultimato un approdo per superpetroliere da 500.000 t di stazza a Sutsu Bay, nella baia di Tokio. Molto più a rilento prosegue l'evoluzione dei porti petroliferi statunitensi, che non sono in grado ancora di ricevere unità superiori alle 70.000 tpl, contro le 200.000-300.000 in media dei porti europei e le 300.000-400.000 di quelli giapponesi; l'orientamento futuro per diminuire le possibilità d'inquinamento è comunque quello di creare approdi intermedi di grandi dimensioni, con annesse raffinerie in aree prossime al continente nord-americano, sull'esempio di Porto Rico, dai quali far affluire all'interno i prodotti raffinati. Dopo un relativo periodo di stasi nella costruzione di oleodotti dai punti di penetrazione all'interno delle aree di consumo nonché dei luoghi di produzione e quelli di distribuzione, si può dire che recentemente un'intensa attività di progettazione e quindi di realizzazione ha interessato entrambe le due tipologie. Per quanto riguarda gli oleodotti dai campi petroliferi ai porti d'imbarco, si può dire che la realizzazione più interessante degli ultimi anni, relativa al Golfo Persico, sia stato l'oleodotto israeliano che va da Eilat ad Haifā, il quale, inaugurato nel 1970, ha creato un'altra alternativa all'oleodotto transarabico (TAPLINE); di notevole importanza appare anche il completamento dell'oleodotto dell'"amicizia", che dai giacimenti degli Urali e del Volga, dovrebbe rifornire la Russia Europea, la Polonia, la Rep. Dem. Tedesca, la Cecoslovacchia e l'Ungheria. In fase di costruzione è ancora l'oleodotto transalascano Trans Alascan System (TAPS) che dai giacimenti di Prudhoe Bay dovrebbe congiungersi con il porto di Valdez; notevoli indecisioni permangono sulla costruzione dell'oleodotto egiziano Suez-Mediterraneo (SUMED), che insieme con un potenziamento di quello israeliano potrebbe avere favorevoli ripercussioni sui costi di trasporto del greggio verso l'Europa occidentale. Per quanto attiene agli oleodotti che collegano i principali porti ai luoghi di grande consumo, notiamo che l'Europa occidentale è ormai attraversata da una serie di arterie principali che si diramano più capillarmente nei centri minori. Comunque le condotte si possono riunire in due gruppi principali, di cui uno, dai porti di Wilhelmshaven e Rotterdam, penetra nell'area Reno-Ruhr e l'altro, muovendo da Marsiglia, Genova e Trieste, alimenta i consumi di una vasta area che si estende dalla Francia sud-orientale all'Italia settentrionale, l'Austria, la Svizzera e la Germania meridionale.
Raffinazione. - L'industria della raffinazione dal 1960 al 1974 ha quasi triplicato la propria capacità annua, passando da 1214 milioni di t a 3362 milioni di t (v. tab. 3). Tale incremento è dovuto sia al numero dei nuovi impianti, sia all'aumento della loro dimensione media, che nei paesi della CEE ha raggiunto quasi i 7 milioni di t/annue (Italia 6,23 milioni di t/annue).
Gli SUA, malgrado la progressiva diminuzione della loro importanza relativa, detengono ancora la maggiore quota della capacità di raffinazione mondiale con il 22% nel 1974, rispetto al 39,6% del 1960; quindi la regione americana nel suo insieme, con l'apporto anche del Venezuela e dei Caraibi, detiene il primato mondiale nel 1974, con 1228 milioni di t; segue quindi l'Europa occidentale con 974,1 milioni di t (CEE 810 milioni di t); relativamente modesta e piuttosto stabile è ancora la quota dei paesi del vicino Oriente, mentre per il resto dell'Asia sono soprattutto il Giappone, con 256 milioni di t rispetto ai 375 milioni nel 1960, e l'Indonesia, che hanno contribuito a elevare il valore d'incidenza sul totale mondiale dal 6,3% del 1960 al 13,9% del 1974; l'evoluzione dei paesi socialisti è abbastanza buona, ma nonostante gli aumenti in valore assoluto, la capacità di raffinazione ha mantenuto quasi invariata la sua importanza relativamente ad altre aree.
Consumi. - Con circa 2742 milioni di t nel 1974, il p. concorreva ancora per il 45,7% al bilancio energetico mondiale. La sua importanza relativa, già evidente nei primi anni Sessanta, si è accresciuta enormemente negli anni successivi, con un ritmo di aumento abbastanza sostenuto; tale ritmo tuttavia è notevolmente rallentato, a cominciare dai primi anni Settanta, fino al 1975, quando si è verificata una flessione anche del valore assoluto. Secondo una tendenza delineatasi dai primi anni Sessanta, l'importanza degli SUA nel consumo mondiale dei prodotti petroliferi è sensibilmente diminuita: l'aliquota d'incidenza relativa al totale mondiale è passata dal 48,1% del 1960, al 33,1% nel 1970 e al 30,8% nel 1974. L'accresciuta importanza del p. nei bilanci energetici dei paesi industrializzati, o in corso d'industrializzazione, portava a un incremento dell'incidenza sui consumi mondiali da parte dei paesi della CEE e del Giappone, che tra l'altro ha visto incrementare i suoi consumi di p. dal 1960 al 1973 con un tasso medio annuo di circa il 18%.
Per quanto riguarda la destinazione del greggio, limitando l'analisi ai paesi dell'OCSE, vediamo che ancora permane un sostanziale equilibrio tra l'evoluzione dei consumi delle benzine, del p. e carboturbo, del gasolio e dell'olio combustibile. Tuttavia, scendendo ad analizzare la situazione all'interno dei singoli paesi, è possibile notare ancora sensibili differenze. Nei paesi della CEE, infatti, ancora è preponderante nella resa delle raffinerie l'incidenza dell'olio combustibile, circa il 35% nel 1973, come del resto è possibile riscontrare anche in altri paesi dell'Europa occidentale; seguono il gasolio e quindi le benzine, queste ultime con un'incidenza di appena il 18%. La mancanza di fonti alternative, e quindi la convergenza quasi esclusiva sul p. da parte dei paesi della CEE, è un fenomeno comune anche al Giappone, dove la preponderanza dell'olio combustibile è ancora più marcata; circa il 48% sulla resa totale delle raffinerie.
Negli SUA, dove da tempo si è proceduto a una diversificazione delle fonti energetiche, l'incidenza delle benzine sui consumi di greggio è la più elevata del mondo, con circa il 47,6% nel 1973; l'olio combustibile, con appena l'8%, segue infatti lo stesso gasolio che appunto nel 1973 incideva a sua volta nella misura del 21,2%.
L'industria e il mercato del petrolio nel mondo. - La struttura del mercato mondiale del p. ha mostrato un'accentuazione della tendenza, già delineatasi negli ultimi anni Cinquanta, a una riorganizzazione della produzione e quindi della distribuzione del greggio e dei suoi derivati. L'apparato oligopolistico, fondato su un accordo tra grandi gruppi privati, concretamente riconoscibile nelle ormai famose "7 sorelle", ha subìto profonde incrinature per la nascita e lo sviluppo di altri gruppi di operatori, in prevalenza pubblici, sia nella fase di sfruttamento delle risorse petrolifere, che in quella della loro commercializzazione. Infatti, dopo una progressiva applicazione tra compagnie minerarie e gli stati petroliferi della formula contrattuale fifty-fifty, si è proceduto, da parte soprattutto di altre compagnie confluite nell'attività di sfruttamento, prime fra tutte quella italiana dell'Ente Nazionale Idrocarburi e quindi altre compagnie giapponesi, a progressive modifiche tendenti ad assicurare al paese produttore una quota sempre più consistente dei profitti. Inoltre si sono sviluppate ulteriormente le iniziative tendenti a una progressiva nazionalizzazione delle attività petrolifere, soprattutto per quanto riguarda lo sfruttamento, mentre il peso delle partecipazioni estere è ancora rilevante nella fase di ricerca e in quella di commercializzazione. L'OPEC, sorta inizialmente per combattere la politica di bassi prezzi del greggio, per lunghi anni perseguita dalle compagnie petrolifere, con l'intento di demolire qualsiasi concorrenza da parte del carbone o dell'energia termonucleare, si è ulteriormente consolidata e si è posta la finalità permanente di accrescere il peso e il potere contrattuale dei paesi produttori nei confronti delle grandi imprese petrolifere.
L'eccesso di offerta, da lungo tempo caratteristica del mercato mondiale del p., dopo l'intenso sfruttamento dei giacimenti medio-orientali e nordafricani, costringe in un primo momento i paesi dell'OPEC a porsi l'obiettivo immediato di mantenere stabili i prezzi di listino, che costituiscono la base di riferimento delle royalties e income taxes; tuttavia i veri prezzi di mercato sono sottoposti a sconti piuttosto consistenti, per evitare che l'accumulo di offerta provochi una caduta dei prezzi e quindi un blocco per l'attività di produzione. Il conflitto arabo-israeliano del 1967 è stato uno degli avvenimenti che hanno avuto conseguenze politiche determinanti per un radicale mutamento del mercato mondiale del p.; processo questo che sarebbe comunque avvenuto, forse più lentamente, in conseguenza di una naturale evoluzione delle rivendicazioni dei paesi produttori nei confronti dei paesi consumatori. In tal senso vanno interpretate le nazionalizzazioni effettuate anche da quegli stati che costituivano lo schieramento più moderato come l'Arabia Saudita, l'Iran e il Kuwait e l'allineamento su di una politica di prezzi crescenti, come strumento di pressione indiretta sullo stato d'Israele, e come elemento di ritorsione nei riguardi dei paesi consumatori, che appoggiavano le sue posizioni, attraverso forniture belliche, come gli SUA, o che tendevano a mantenere un atteggiamento neutrale nei confronti dei paesi contendenti; da un punto di vista strettamente economico, questo orientamento era condiviso, di fatto, anche da altri paesi produttori estranei al conflitto, come per es. il Venezuela, per bilanciare il continuo aumento dei prezzi dei beni strumentali necessari alle rispettive politiche di sviluppo nazionale, e dei beni di consumo importati per elevare il livello delle condizioni di vita dei propri cittadini. Un ulteriore inasprimento delle condizioni poste dai paesi produttori si ebbe con la riapertura del conflitto arabo-israeliano dell'ottobre 1973, quando i paesi arabi seguirono una linea politica tendente a fare del p. (si parlò di una vera e propria "guerra del petrolio") un'arma di ritorsione che influisse in qualche modo e riequilibrasse le sorti del conflitto con Israele, risoltosi per loro in maniera disastrosa. Agli aumenti del prezzo seguirono infatti una riduzione dei ritmi di produzione, una riduzione delle esportazioni verso alcuni paesi e per un breve periodo un embargo completo nei confronti degli SUA e dei Paesi Bassi. L'intensa attività diplomatica sviluppatasi in quel periodo, soprattutto da parte degli SUA attenuò gli aspetti più drastici; infatti l'embargo fu sospeso e le esportazioni furono quasi normalizzate; ma tutto ciò non influì eccessivamente sulla volontà ormai palese dei paesi produttori, di contenere sensibilmente l'offerta di p., tramite una riduzione della produzione, e di realizzare il massimo profitto da una situazione che vedeva i paesi industrializzati ormai strettamente condizionati, nel loro ulteriore sviluppo e nel mantenimento di quello attuale, dalla posizione di primarietà che il p. aveva assunto nei loro bilanci energetici; anche l'attività di ricerca di giacimenti alternativi, incoraggiata da consistenti aumenti dei prezzi medio-orientali, almeno fino al momento, non ha dato risultati tali, da poter modificare la condizione di vantaggio che i paesi dell'OPEC hanno raggiunto in questi ultimi anni.
Inoltre gl'inconvenienti che ne sono concretamente derivati ai paesi forti consumatori con risorse interne limitate o quasi nulle, come le limitazioni dei consumi energetici privati e l'aumento di tutti i prezzi industriali dipendenti dal greggio, hanno determinato un generale convincimento dell'opinione pubblica mondiale, che il p. è una risorsa di vitale importanza, relativamente costosa e disponibile, per i prossimi anni, in quantità limitata. Esaminando più concretamente l'azione dei paesi dell'OPEC, si può dire che essi hanno completamente abbandonato il ruolo di esattori d'introiti fiscali, e hanno invece assunto un ruolo determinante nella gestione della produzione e nella fissazione dei prezzi del greggio, tramite una serie di accordi stipulati con le società petrolifere esterne all'organizzazione. Tra questi assumono particolare rilievo gli accordi del 1971 di Teheran (15 febbraio) e di Tripoli (20 marzo), e alcune decisioni unilaterali del governo algerino (decreti del 12 aprile); nel loro insieme i provvedimenti che ne scaturirono hanno comportato un aumento dei prezzi del listino; una maggiorazione in relazione alla qualità del greggio; l'eliminazione di sconti su prezzi imposti; notevoli aumenti delle income taxes, ecc. L'indebolimento del valore del dollaro che era appunto la valuta esclusiva di scambio, ha portato a una serie di nuove rivendicazioni da parte dei paesi dell'OPEC che vedevano così diminuire il potere di acquisto dei loro introiti valutari; si è proceduto quindi, attraverso una serie di riunioni, a ulteriori aumenti dei prezzi e alla elaborazione di clausole che comportassero un'efficiente forma d'indicizzazione dei prezzi del greggio, in riferimento all'aumento dei prezzi dei prodotti importati, di provenienza dei paesi industrializzati, acquirenti del greggio stesso.
L'azione dell'OPEC negli anni successivi è ancora più serrante; nell'ottobre 1973, in maniera unilaterale, i paesi membri decidono un aumento dei prezzi di listino, tali da portarli a un ammontare pari a 1,4 volte quelli di mercato, prevedendo anche un adeguamento automatico dei prezzi di listino, qualora i prezzi di mercato dovessero aumentare; e ancora all'inizio del gennaio 1974 l'OPEC decide che i paesi associati percepiscano 7 dollari su ogni barile di p. estratto e che si adeguino di nuovo i prezzi di listino a quelli di mercato. In un arco di tempo brevissimo, avviene così che i prezzi del greggio si triplicano e di conseguenza i profitti dei paesi grandi esportatori, soprattutto arabi, creano un accumulo valutario presso le banche americane ed europee (i cosiddetti petrodollari, v. in questa App.) la cui entità introduce nuovi elementi d'instabilità nel mercato valutario mondiale. Naturalmente da questa situazione traggono un grande vantaggio ancora le grandi imprese multinazionali che realizzano dei profitti nella fase di distribuzione, tali da compensare ampiamente le posizioni perdute per effetto della nazionalizzazione dell'attività di estrazione e di raffinazione in loco, attuata dai paesi produttori. Concretamente le entrate dei paesi dell'OPEC passano da 7729 milioni di dollari nel 1970 a 93.269 milioni di dollari nel 1975, cioè un introito medio per barile che passa da 0,95 dollari a 10,1 dollari. Negli anni più recenti tuttavia l'azione dell'OPEC, di cui fanno parte Algeria, Arabia Saudita, Ecuador, Gabon, Indonesia, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Unione degli Emirati Arabi e Venezuela, viene parzialmente contenuta da alcuni fatti nuovi quali: l'aumento dei ritmi di produzione dei giacimenti del Mare del Nord, del Messico e dell'Alaska, di proprietà di paesi non aderenti; un rallentamento dell'attività industriale in molti paesi consumatori e quindi una loro più accorta politica energetica; alcuni contrasti tra grandi e piccoli produttori membri dell'organizzazione. Malgrado sia stata da tempo prospettata l'ipotesi di ancorare il prezzo del p. a un "paniere" di valute forti, tra le quali il marco tedesco e lo yen giapponese, il dollaro resta, soprattutto per il desiderio dei grandi produttori come l'Arabia Saudita, la valuta di riferimento delle negoziazioni. Ciò ha comportato notevoli perdite in termini reali per i paesi dell'OPEC, in quanto mentre le entrate petrolifere, in genere la voce attiva più importante se non esclusiva della bilancia commerciale, sono in dollari, le uscite riguardano anche importazioni da paesi la cui valuta è più stabile o addirittura in ascesa, come appunto il marco e lo yen; tuttavia i paesi membri, almeno i più importanti, appaiono titubanti, in quest'ultima fase congiunturale, nell'accelerare la cadenza delle loro richieste che sembrano voler essere anche più contenute rispetto a quelle degli anni precedenti. In definitiva, però, si prevede che questa fase sia solo temporanea e i prossimi decenni vedranno senz'altro una considerevole ascesa dei prezzi del petrolio. Per quanto riguarda le imprese multinazionali e il processo di concentrazione oligopolistica che esse impersonificano, si può dire che dopo una progressiva erosione di mercato negli anni Sessanta da parte di compagnie indipendenti, la loro posizione si sia ulteriormente rafforzata a seguito degli avvenimenti più recenti, a partire appunto dal 1971.
È stato stimato che contro un tasso di crescita del mercato del 7,5% si è avuto un tasso di crescita delle maggiori otto compagnie mondiali del 9,2%. La quota di mercato che esse detengono, valutata in base al fatturato, è di circa il 66,5%, quota che a sua volta è detenuta per circa il 67% da cinque compagnie americane: la Exxon, ormai il più grande gruppo industriale del mondo occidentale in senso assoluto, la Mobil, la Texaco, la Gulf, la Standard Oil of California; seguono quindi le tre grandi compagnie europee, cioè la Royal Dutch Shell, la British Petroleum, e ultima ad affiancare le famose "7 sorelle", la Compagnie Française des Pétroles, che insieme detengono la restante parte di quota di mercato.
L'industria petrolifera in Italia. - Proseguendo nella politica energetica degli anni Sessanta, l'Italia si è orientata ancora di più verso una larga partecipazione del p. al proprio bilancio energetico fino a raggiungere un'aliquota massima nel 1971, quando il greggio copriva il 77,5% dei consumi interni di energia. Questa presenza massiccia del p. che è importato quasi globalmente, data l'esiguità della produzione interna, si è verificata per la carenza di risorse energetiche alternative anche nei paesi più vicini, come quelli della Comunità Economica Europea. La politica dei bassi prezzi del greggio ha consentito al p., tramite i suoi derivati, gasolio e olio combustibile, di sostituire agevolmente i combustibili solidi, che tra l'altro forse, in una visione alquanto limitata dell'intero problema, erano considerati i maggiori responsabili dell'inquinamento ambientale. Trascorso il periodo mitico del "carbone bianco", le centrali termoelettriche a olio combustibile si sono poste come capisaldi della produzione italiana di elettricità, con un costo medio per kWh sensibilmente più basso di quelle tradizionali a carbone, surclassando anche la nascente industria termonucleo-elettrica, soprattutto per i tempi eccessivamente lunghi che questa richiede tra il periodo di progettazione e quello di erogazione concreta; tuttavia queste scelte, come hanno dimostrato i recenti sviluppi delle vicende politiche italiane, oltreché da motivi di opportunità tecnica, furono influenzate anche da interessi privatistici di grandi compagnie petrolifere, che vedevano così aprirsi per l'olio combustibile e il gasolio un mercato in grande espansione. L'ulteriore privatizzazione di ogni tipo di circolazione soprattutto negli anni Sessanta e quindi la riconversione degl'impianti di riscaldamento domestici dal tipo a carbone a quello a gasolio, costituivano un'ulteriore spinta a una sempre più cospicua presenza del p. tra le fonti primarie del nostro bilancio energetico.
Anche se le nostre riserve di greggio sono veramente esigue, circa 30 milioni di t, la produzione nel 1974, data anche la qualità del greggio, è ormai notevolmente al di sotto delle possibilità teoriche; da 1.998.215 t del 1960, nel 1974 si è passati a quasi la metà, cioè 1.019.000 t; ormai da tempo la produzione più consistente proviene da giacimenti siciliani, circa l'85% di quella nazionale nel 1974. Ovviamente, data l'entità dei consumi, circa 96 milioni di t nel 1975, contro 32 milioni circa nel 1960, si può dire che il mercato petrolifero italiano, come del resto quello di molti altri paesi, dipenda completamente dall'estero; le importazioni di greggio sono passate da 29,5 milioni di t nel 1960 a 94 milioni di t nel 1975; riguardo alla provenienza si può dire che dopo un periodo di notevole ridimensionamento, dovuto in parte alla chiusura di Suez, dell'aliquota di pertinenza dei paesi del Golfo Persico, dal 59% nel 1960, si è passati al 30% circa nel 1970, quando circa il 31% proveniva dalla Libia, e il 25,1% dagli altri paesi arabi, gravitanti sul Mediterraneo orientale; durante gli anni Sessanta anche le importazioni di greggio sovietico hanno assunto un certo rilievo; nel 1965 esse hanno inciso nella misura del 20% circa su quelle totali; la situazione nel 1974 denotava comunque, salvo la rilevante presenza di nuovi fornitori come la Libia e l'Algeria, un ritorno all'egemonia dei paesi del Golfo Persico, che incidevano sul valore globale, nella misura del 56% circa. L'attività di ricerca e di sfruttamento sul territorio nazionale è svolta direttamente dall'ENI o sotto il suo diretto controllo nel caso di concessioni ad altre compagnie; l'ente energetico di stato ha esteso notevolmente, tramite la sua emanazione operativa, l'AGIP mineraria, le sue attività all'estero, allo scopo d'inserirsi più direttamente nella fase di prospezione, di produzione e di distribuzione del greggio, attività che sono state per molti anni incontrastato dominio delle società multinazionali americane e centro-europee.
Come riflesso positivo della favorevole posizione, rispetto ai traffici petroliferi, l'Italia fin dai primi anni Cinquanta ha sviluppato un'industria di raffinazione tra le più consistenti e tecnologicamente più avanzate di tutto il mondo; nel 1974, con una capacità di circa 206 milioni di t, rispetto ai 40 milioni di t del 1960, l'Italia era al quarto posto nel mondo, dopo gli SUA, l'URSS e il Giappone, con circa il 6,1% dell'intera capacità mondiale. Anche in questa fase l'ENI, tramite la sua emanazione, l'ANIC, cerca di aumentare la sua presenza al fine di svolgere una funzione di orientamento e di stabilizzazione di un'attività, quale quella di raffinazione, fondamentale ormai, non solo ai fini energetici, ma anche per l'approvvigionamento di materie prime per la chimica di base; in tal senso è da rilevare anche la presenza della Montedison per gl'impianti nei quali la raffineria è collegata con la produzione di etilene e dei suoi derivati; tuttavia la presenza anche nell'attività di raffinazione italiana, da parte delle otto grandi compagnie internazionali, con circa il 29% della capacità esistente e il 30,4% di quella autorizzata nel 1974, è ancora abbastanza consistente.
Da un punto di vista regionale, la capacità di raffinazione risulta ancora notevolmente accentuata: alla concentrazione nell'Alto Tirreno (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia occident.) si affianca adesso quella insulare della Sicilia, circa il 27,4% nel 1974 della capacità esistente, e della Sardegna; la tendenza già da tempo delineatasi delle localizzazioni costiere, con uno spostamento dei centri di consumo interni verso i punti di trasbordo del greggio, è ormai incontestabile, anche per i problemi idrici, risolvibili tramite il raffreddamento con acqua di mare, oltre che per i vantaggi relativi al trasporto dei prodotti esportati. Il bilancio import-export dei prodotti petroliferi segna ancora un attivo di 17,4 milioni di t nel 1974, dato anomalo che si discosta sensibilmente dai valori raggiunti alla fine degli anni Sessanta e primi anni Settanta, con 25,7 milioni di t, fenomeno strettamente legato ai recenti avvenimenti del petrolio. Tra le singole voci di esportazione, assumono rilevanza notevole quelle della benzina avio, la benzina auto e la virgin nafta, segue quindi il gasolio e l'olio combustibile, diretto in prevalenza verso i paesi della CEE, soprattutto la Rep. Fed. di Germania, gli SUA, e i paesi dell'Africa mediterranea. La rete degli oleodotti si è ulteriormente sviluppata e potenziata, non tanto per i consumi interni, data l'attuale localizzazione delle raffinerie, quanto per la funzione di penetrazione verso i paesi centro europei.
Riguardo alla composizione merceologica dei consumi di prodotti petroliferi, l'olio combustibile e il gasolio mantengono le quote maggiori con il 46,7% e il 19,3% nel 1974, seguite dalle benzine con il 10,5%; tuttavia, l'incidenza di queste voci, ormai storica, tende a diminuire, a eccezione del gasolio, mentre si assiste a un progressivo avanzamento dei prodotti destinati alla chimica di base. Un'analisi delle utilizzazioni rivela ancora che i settori domestico, del commercio e dei servizi, assommano, con quello dei trasporti, oltre l'80% dei consumi di gasolio, mentre la domanda dell'olio combustibile proviene in gran parte dal settore industriale, in particolare quello metallurgico e quello chimico.
La flotta cisterniera italiana, che è ormai da anni nelle prime 10 posizioni mondiali, è passata da 2,5 milioni di tpl nel 1960 a 9,7 milioni di tpl nel 1974; nello stesso periodo la portata media è passata da 18.550 a 41.800 tpl; ciò si è verificato contemporaneamente a un progressivo ringiovanimento delle unità di navigazione, la cui età media è passata da 9,7 a 6,9 anni.
Bibl.: D. Ruocco, Il petrolio nel Vicino Oriente, Napoli 1964; S. Piccardi, Geografia del mercato dell'energia, Milano 1966; E. Massi, Le riserve di energia delle grandi aree economiche, ivi 1967; G. Spinelli, Alcune osservazioni geografico-economiche a proposito della recente crisi petrolifera, in Notiziario di geogr. economica, VI (1975), n. 1-2; ENI, Energia e idrocarburi, annate varie; Ministero Ind. Comm. e Artigianato, Industria del petrolio in Italia, annate varie; Oil and Gas Journal, annate varie; The Petroleum Economist, annate varie.
Crisi del petrolio. - Il p. ha assunto un ruolo preminente nell'economia dei paesi industrializzati e negli scambi internazionali in quanto rappresenta la fonte di energia più importante (esso fornisce la copertura di circa il 50% dei consumi totali di energia per gli Stati Uniti e di proporzioni maggiori per gli altri stati industrializzati fino a circa l'80% per l'Italia e il Giappone) e costituisce la materia prima di un'industria-base dei moderni sistemi economici: la petrolchimica. La produzione di p. è tuttavia concentrata in larga misura in paesi non industrializzati, in particolare negli stati arabi: onde la dipendenza delle economie sviluppate dell'Occidente e del Giappone dalle importazioni di p. da tali paesi. Anche gli SUA che pure sono i secondi produttori di p. del mondo, data la dimensione dei loro consumi, devono ricorrere ampiamente alle importazioni: in valori assoluti sono anzi i maggiori importatori.
È quindi agevole comprendere il rilievo assunto dalla cosiddetta "crisi petrolifera" nella recente problematica dell'economia internazionale e il suo peso negli andamenti congiunturali e nelle modificazioni strutturali che hanno luogo nelle economie industrializzate.
Con l'espressione "crisi petrolifera" s'intende fare riferimento a quel complesso di sconvolgimenti nell'economia mondiale originati dall'embargo attuato dai paesi arabi produttori di p. nei confronti delle economie industrializzate dell'Occidente e giapponese in concomitanza con lo scoppio della guerra del Kippur, e dai successivi rialzi di prezzo decisi dall'OPEC (il cartello degli stati produttori di p.) nell'autunno-inverno del 1973, che quadruplicarono il costo delle importazioni di p. greggio nello spazio di pochi mesi. Mentre la misura delle restrizioni all'esportazione di greggio veniva rapidamente ridimensionata sia nella sua rilevanza quantitativa, sia nell'estensione al numero di paesi cui restava applicata (attualmente essa è caduta anche nei confronti dell'Olanda e degli SUA); il rialzo dei prezzi viceversa si è rivelato una vera e propria modificazione strutturale che ha trasformato radicalmente il rapporto tra paesi produttori e paesi consumatori di p., e ha posto termine all'epoca dell'energia a buon mercato.
È comunque opportuno considerare nel contesto della crisi petrolifera entrambi i fattori di crisi, perché anche se il blocco delle esportazioni di p. da parte dei paesi arabi fu una misura limitata e temporanea, gli effetti non furono trascurabili sul piano psicologico e le conseguenze sul piano reale si sommarono a quelle determinate dagli aumenti di prezzo del p. greggio. È dunque importante sottolineare che sotto l'impressione dello shock subìto, si ritenne che l'embargo minasse alla base uno dei fondamentali obiettivi di politica energetica, comune a tutte le economie industrializzate: quello della sicurezza degli approvvigionamenti; e data la generale dipendenza dal p. importato in misura più o meno accentuata, di tutte le economie industrializzate e la scarsa sostituibilità di tale fonte energetica, almeno nel breve periodo, con fonti alternative, sembrò seriamente minacciato il funzionamento dell'apparato industriale con conseguenze gravissime per l'economia mondiale.
Il ridimensionamento di taluni settori industriali, in particolare di quello automobilistico, iniziò a essere preso in considerazione immediatamente dopo le misure di embargo decretate dai paesi arabi. Diversi paesi industrializzati decisero l'adozione di misure di contenimento dei consumi petroliferi e di risparmio energetico, con ripercussioni sull'intero sistema economico. La necessità di ridurre il consumo di p. e i conseguenti mutamenti nelle aspettative relative al mercato dell'automobile incisero rapidamente sulla produzione di tale settore industriale.
Ben più vasti e soprattutto non legati a una decisione transitoria sono però stati e continuano a essere gli effetti determinati dagli aumenti di prezzo del petrolio. Si possono ricordare due decisioni fondamentali prese dall'OPEC nell'autunno-inverno del 1973.
Il 16 ottobre, con una decisione unilaterale, i paesi esportatori di p. stabilivano un aumento dei prezzi di listino (posted prices) tale che il rapporto tra essi e i corrispondenti prezzi effettivi di mercato risultasse pari a 1,4, con adeguamento automatico dei prezzi di listino nel caso i prezzi di mercato dovessero aumentare. Questa misura permetteva ai paesi membri dell'OPEC di accrescere il prelievo fiscale, dato che esso si commisura ai prezzi di listino. Infine il 23 dicembre l'OPEC stabiliva che i paesi membri percepissero, a partire dal 10 gennaio 1974, 7 dollari su ogni barile di p. (di qualità Arabian Light 340 Api) estratto dalle compagnie multinazionali e modificava corrispondentemente i prezzi di listino in modo da rispettare la precedente decisione del 16 ottobre. Con tali provvedimenti, l'OPEC quadruplicava in breve tempo il prezzo del p. e gravava di un improvviso e rilevantissimo onere le bilance dei pagamenti e le economie dei paesi importatori di petrolio.
Gli effetti di tali decisioni si possono rilevare sia con riferimento alle singole economie dei paesi importatori di p. considerati isolatamente; sia globalmente nelle più vaste ripercussioni di carattere internazionale: cioè in termini di contributo al tasso d'inflazione mondiale, d'incidenza sui recenti andamenti congiunturali, di creazione di nuovi circuiti di capitali collegati al riciclaggio dei surplus in dollari incassati dai paesi esportatori di p. (il cosiddetto riciclaggio dei petrodollari), di trasformazione dei rapporti internazionali e di modificazioni strutturali nella ripartizione internazionale delle specializzazioni produttive. Tutti questi problemi possono essere qui solo enunciati. Dal punto di vista del singolo paese importatore di p., analisi ormai approfondite hanno distinto gli effetti primari sull'economia, causati dall'aumento del prezzo del p., dagli effetti secondari collegabili a interventi compensativi di politica economica o posti in essere per far fronte a squilibri della bilancia dei pagamenti che l'accresciuto costo delle importazioni di p. avesse reso insostenibili. Questi ultimi interventi, resi necessari dall'esistenza di limiti al finanziamento dei disavanzi delle bilance dei pagamenti, hanno talora aggravato gl'impulsi recessivi iniziali prodotti dalla crisi.
Va premesso che un tratto caratteristico delle economie degli anni Settanta è la coesistenza di un cospicuo tasso d'inflazione con una situazione di non pieno utilizzo della capacità produttiva (stagflazione). Il maggior costo del p. ha contribuito a rafforzare tale quadro, alimentando spinte inflazionistiche dal lato dei costi e al tempo stesso inserendo spunti recessivi nelle economie. Il rialzo del p. è infatti assimilabile, secondo la teoria economica, a un'imposta indiretta esterna: tutto è avvenuto come se i paesi produttori di p. avessero avuto il potere di elevare un'imposta indiretta sul p. del 400%, pari a un prelievo del 3-4% sul prodotto lordo dei paesi europei e del Giappone. Le conseguenze in termini di tenore di vita sono immediatamente intuibili. In ogni paese colpito dalla crisi, l'imposta petrolifera da un lato ha creato una spinta inflazionistica con l'aumento di prezzi cui ha dato vita, aumento che è andato propagandosi all'intera economia; d'altro lato, sottraendo potere d'acquisto, ha indotto una riduzione nella domanda globale e quindi sviluppato un vuoto deflazionistico. Se teoricamente sembrava agevole compensare la caduta della domanda con interventi stabilizzatori di segno opposto, concretamente tale manovra si scontrava con l'obiettivo di smorzare la spirale inflazionistica e di contenere il deficit della bilancia dei pagamenti. Per taluni paesi questi obiettivi erano vincolanti: tra essi, l'Italia, la cui bilancia dei pagamenti era stata sconvolta dalla crisi petrolifera. L'impatto della crisi sui conti con l'estero delle economie industrializzate è stato globalmente severo, ma non uniformemente distribuito, in relazione al diverso peso delle importazioni di p. nelle diverse economie e dell'andamento più generale dei rapporti con il resto del mondo. Gli effetti sono stati molto penosi anche per i paesi in via di sviluppo, non produttori di p., che hanno visto ulteriormente ostacolato il loro sforzo contro l'arretratezza. La gravità dei problemi emersi ha però resa esplicita la necessità di approntare nuove forme di cooperazione in favore dello sviluppo e di compiere passi decisivi nella riforma del sistema monetario internazionale. È anche maturata la coscienza che squilibri di dimensioni come quelle originate dalla crisi del p. richiedono interventi coordinati e una strategia globale. Si è così aperto un dialogo tra paesi produttori e paesi consumatori di petrolio. Da quando l'idea del dialogo si è fatta strada, il contesto generale della crisi petrolifera ha tuttavia subito alcuni mutamenti sostanziali. La situazione dei pagamenti internazionali è notevolmente migliorata per le economie industrializzate, grazie anche a tassi d'incremento delle importazioni da parte dei paesi esportatori di p., assolutamente imprevedibili durante la fase calda della crisi. Le più recenti previsioni fanno anzi ritenere che i surplus dei paesi OPEC, globalmente considerati, siano destinati a tramutarsi in deficit a partire dal 1979. Il tasso di crescita dell'offerta di p. sembra inoltre sopravanzare i prevedibili sviluppi della domanda, cosicché il cartello dell'OPEC potrà incontrare serie difficoltà per mantenere la compattezza iniziale. La crisi petrolifera, ritenuta in un primo momento ingovernabile, si avvia dunque a una soluzione relativamente rapida per le economie industrializzate, pur non potendosi escludere qualche recrudescenza. Molte questioni restano invece ancora irrisolte per le economie arretrate. La crisi ha comunque prodotto alcune trasformazioni interne e internazionali che possono considerarsi irreversibili; ma soprattutto ha segnato l'avvio a un nuovo modo di affrontare e gestire i rapporti internazionali. Vedi tav. f.t.
Bibl.: Morgan Guaranty Trust Co., World Financial Markets, Rassegne mensili dal nov. 1973; M. A. Adelman, S. Friis, Monopoli in via di trasformazione e rifornimenti europei di petrolio: si sposta nel panorama petrolifero mondiale la bilancia del potere economico e politico, in Economia internazionale delle fonti di energia, n. 1-2, 1974; L. Izzo, L. Spaventa, Alcuni effetti interni ed esterni dell'aumento del prezzo del petrolio, in Moneta e credito, n. 105, 1974; F. Masera, La crisi petrolifera e l'Italia, in Quaderni della Fondazione L. Einaudi, 1974; Banque de Paris et des Pays-Bas, Conjoncture, marzo 1974; M. Arcelli, Riciclaggio dei petrodollari e aggiustamenti delle bilance dei pagamenti, in Rivista di politica economica, n. 1, 1975; G. Frankel, Chi ha paura dell'OPEC?, in Mondo economico, n. 3, 1975.