Petrologia
Sommario: 1. Introduzione: definizioni e distribuzione delle rocce. 2. Il ciclo delle rocce: i processi petrologici. 3. I prodotti petrologici dei processi globali. 4. Petrologia delle dorsali medio-oceaniche e delle placche oceaniche. 5. Petrologia dei margini convergenti tra placche. 6. Processi di alterazione e rocce sedimentarie. 7. Classificazione delle rocce. 8. Strumenti e tecniche. 9. Teorie sulla petrogenesi di alcune rocce ignee. a) Basalti. b) Graniti. 10. Teorie sulla petrogenesi delle rocce metamorfiche. 11. La petrologia come scienza dei materiali della Terra. □ Bibliografia.
1. Introduzione: definizioni e distribuzione delle rocce
La ‛petrologia' è la scienza delle rocce, di cui studia l'origine, la storia, la distribuzione, la composizione chimica, la struttura, la tessitura e la classificazione. Essa rappresenta la ‛scienza dei materiali' della Terra solida, cioè applicata alla geologia. Con il termine ‛petrografia' si intende lo studio della costituzione chimica e mineralogica nonché della struttura interna delle rocce, cioè la loro descrizione e classificazione sistematica; la ‛petrogenesi' si occupa invece dell'origine e dell'evoluzione delle rocce. La petrologia deve basarsi su studi geologici sul campo; la petrografia si basa in gran parte su analisi e misurazioni di laboratorio; la petrogenesi, le cui radici affondano nella geofisica, è strettamente collegata alla geochimica e alla termodinamica e si basa sui dati della petrologia sperimentale. La petrologia, originariamente finalizzata alla scoperta e alla classificazione di migliaia di differenti tipi di rocce, si è quindi sviluppata trasformandosi in una scienza tesa a spiegare le cause delle differenze tra i vari tipi di rocce, divenendo infine una disciplina a cui la petrogenesi fornisce i dati di partenza per indagare i processi fondamentali che interessano le scienze della Terra: da quelli che avvengono nelle profondità della Terra, dove i cambiamenti di pressione e temperatura sono dovuti alla lenta convezione del mantello solido, a quelli che si svolgono a livello della superficie terrestre, dove le rocce vengono dilavate, alterate e ridistribuite per azione dell'idrosfera e dell'atmosfera, fino a formare nuove rocce. Lo scopo della petrogenesi è quello di chiarire tutti i passaggi della sequenza
roccia originaria → processo → roccia derivata
attraverso il tempo e in vari ambienti tettonici. Il processo può ripetersi: una roccia derivata può diventare, a sua volta, la roccia da cui trae origine un'altra roccia. La crosta terrestre è costituita da tutti questi prodotti.
Riteniamo utile definire brevemente i principali tipi di rocce descrivendone la distribuzione nelle croste continentale e oceanica, e quindi illustrarne succintamente l'origine nel quadro del ‛ciclo delle rocce'; in questo modo, infatti, si introducono i termini e i concetti necessari per comprendere le teorie attuali sui principali processi globali che controllano la formazione delle rocce. Dopo un breve cenno alla classificazione delle rocce, si esamineranno alcune importanti acquisizioni della petrologia che ne hanno promosso l'evoluzione e alcune delle controversie che hanno stimolato la ricerca.
Vi sono tre grandi tipi di rocce: le rocce ‛ignee', le rocce ‛sedimentarie' e le rocce ‛metamorfiche'. La crosta terrestre è composta prevalentemente da rocce ignee, con una percentuale molto minore di rocce sedimentarie e una quantità significativa di rocce metamorfiche derivate da altre rocce preesistenti (v. fig. 1). Le percentuali in volume dei principali tipi di rocce nelle croste continentale e oceanica sono mostrate nella fig. 2A. Vi sono notevoli differenze tra la crosta continentale (pari al 40% della superficie terrestre), che comprende anche la piattaforma continentale coperta dalle acque oceaniche, e la crosta oceanica (pari al 60% della superficie terrestre), che giace al di sotto dei bacini oceanici: quest'ultima costituisce il 20% del volume totale della crosta ed è composta da rocce ignee (18%) ricoperte da rocce sedimentarie (2%); la crosta continentale, pari all'80% del volume totale, è composta da rocce ignee (47%), rocce metamorfiche (27%) e rocce sedimentarie (6%).
È stato dato un nome a migliaia di differenti tipi di rocce, anche se per la maggior parte rappresentano solo una piccola frazione della crosta totale. Si noti che quasi tutte le rocce ignee possono essere raggruppate in due sole classi - quella dei graniti e quella dei basalti/gabbri (v. fig. 2B) - mentre le rocce sedimentarie in oltre il 99% dei casi rientrano nei tre gruppi delle argilliti e argille, delle arenarie e dei calcari (v. fig. 2C). Le rocce granitoidi e metamorfiche si trovano nella crosta continentale, ma non nella crosta oceanica, che è composta essenzialmente da basalti e gabbri.
2. Il ciclo delle rocce: i processi petrologici
I tipi di rocce elencati nella fig. 2 sono collegati tra loro attraverso il ciclo delle rocce, schematicamente illustrato nella fig. 3. Le variabili principali connesse alla loro formazione sono fornite nella tab. I. I processi di formazione sono associati al ciclo tettonico, sostenuto dall'energia costituita dal calore interno della Terra, e al ciclo dell'acqua, sostenuto dall'energia solare e dalla gravità.
Il ciclo delle rocce inizia quando la temperatura all'interno della Terra diventa, localmente, abbastanza alta da causare una fusione parziale del mantello (parte sinistra della fig. 3), con formazione di ‛magma' (materiale roccioso fuso in cui sono disciolte componenti volatili: piccole quantità di H2O, CO2, zolfo, alogeni, ecc.). Sono definite rocce ignee quelle che solidificano dal magma, lave quelle costituite da magma eruttato in superficie. La cristallizzazione del magma nelle profondità della Terra, in condizioni di alta pressione, dà luogo a una ‛roccia plutonica' (intrusiva), mentre il magma eruttato forma un vulcano o ‛roccia estrusiva', che espelle (a volte in modo esplosivo) i gas non appena la pressione diminuisce durante l'eruzione. Pertanto, le rocce ignee si formano a temperature molto alte e a pressioni che variano dalla pressione atmosferica alle migliaia di atmosfere esistenti entro e al di sotto della crosta terrestre (v. tab. I). I minerali che precipitano entro un materiale allo stato fuso possono raggiungere grandi dimensioni se il raffreddamento è lento, ma le lave eruttate si raffreddano rapidamente e perciò i loro minerali possono essere anche molto piccoli. Alcune lave si raffreddano così velocemente che il fuso solidifica in un vetro con pochi minerali.
I vulcani espongono nuovo materiale roccioso all'atmosfera e all'idrosfera e quindi al ciclo dell'acqua. L'energia solare fa evaporare l'acqua (dagli oceani, dai fiumi e dalla vegetazione) e produce i venti, che trasportano l'acqua atmosferica nei luoghi dove essa precipita sotto forma di pioggia, neve o rugiada. L'acqua causa l'alterazione delle rocce di superficie (attraverso processi chimici e fisici) e la formazione di suoli, mentre la gravità fa scorrere l'acqua all'interno del terreno o sulla sua superficie sotto forma di fiumi (o di ghiacciai nei climi molto freddi). Lo scorrimento dell'acqua (o del ghiaccio) erode le rocce e il suolo di copertura e trasporta i prodotti del disfacimento a quote più basse, dove vengono depositati e accumulati. Le ‛rocce sedimentarie' sono quelle che si formano per deposizione di particelle o precipitazione di minerali entro un mezzo fluido, soprattutto sul fondo dell'oceano (ma anche di laghi), su pianure alluvionali fluviali e in zone soggette all'azione del ghiaccio o del vento, come nel caso delle sabbie del deserto. I processi di alterazione, trasporto e deposizione sono rappresentati nella fig. 3. Le pressioni e le temperature sono basse, l'acqua generalmente è abbondante (v. tab. I). Queste rocce sono composte non solo da minerali, ma anche dai resti fossili degli organismi animali e vegetali della biosfera esistenti all'epoca in cui le rocce furono depositate.
Molte rocce sedimentarie e ignee vengono seppellite in profondità all'interno di zone subsidenti della crosta terrestre per azione del ciclo tettonico o durante i processi di formazione delle montagne (parte centrale della fig. 3). Per effetto dell'aumento della temperatura e della pressione durante il seppellimento esse ricristallizzano, dando luogo a nuovi minerali attraverso una serie di reazioni di disidratazione e decarbonatazione. I nuovi minerali crescono con morfologie influenzate dalla direzione delle spinte regionali nella crosta. Questi cambiamenti generano le ‛rocce metamorfiche', che sono spinte in superficie in seguito al sollevamento delle catene montuose, i cui strati più superficiali sono sottoposti al fenomeno dell'erosione.
Le rocce metamorfiche si formano a pressioni e temperature variabili, dai bassi valori caratteristici delle rocce sedimentarie agli alti valori tipici delle rocce ignee (v. tab. I). A elevati livelli di metamorfismo le temperature salgono a tal punto da permettere l'inizio della fusione di rocce crostali ricche di acqua (‛ultrametamorfismo') dando luogo a magma. Le vene di magma che si formano in tal modo possono risolidificare all'interno della roccia madre metamorfica, generando una ‛migmatite', o ‛roccia mista', oppure possono accumularsi e risalire sotto forma di un corpo distinto di magma igneo (parte centrale della fig. 3: da rocce metamorfiche a rocce ignee).
Le rocce possono subire metamorfismo o cambiamenti della composizione mineralogica e della struttura senza mutamenti nella composizione globale, ma in molti ambienti all'interno della crosta la ricristallizzazione avviene in presenza di fluidi (principalmente soluzioni di H2O e CO2) che non solo aumentano i tassi di ricristallizzazione, ma producono anche alterazioni nella composizione chimica delle rocce per effetto sia dell'introduzione che della rimozione di vari componenti in soluzione. Queste soluzioni metasomatizzanti formano le ‛rocce metasomatiche', che in un primo tempo furono identificate e definite come un gruppo particolare di rocce metamorfiche all'interno della crosta, mentre successivamente si è riconosciuto che il metasomatismo ha luogo anche nelle rocce più profonde del mantello terrestre. All'interno del mantello, i cambiamenti metasomatici possono essere dovuti, oltre che alle soluzioni acquose, anche a un magma silicatico o ricco di carbonati.
In alcuni ambienti, in condizioni di pressione e temperatura comprese tra i valori caratteristici delle rocce sedimentarie e quelli delle rocce ignee, si ha una precipitazione di minerali dai fluidi acquosi (in cui si trovano disciolti CO2, S e alogeni) in ‛vene idrotermali', che possono costituire depositi nei quali si concentrano minerali metalliferi o metalli nativi (rame, oro, argento). Non è sempre chiaro se e fino a che punto le soluzioni idrotermali vengano rilasciate dai magmi in via di cristallizzazione o se siano prodotte all'interno dei pori o delle fessure delle rocce sedimentarie o metamorfiche dall'energia fornita da un magma caldo intrusivo.
3. I prodotti petrologici dei processi globali
Il trasferimento di calore dal nucleo della Terra, attraverso il suo mantello roccioso e la crosta, fino alla superficie avviene in gran parte tramite processi di convezione che si svolgono nell'interno, prevalentemente solido, della Terra. Questo moto di convezione è associato a una migrazione laterale di placche tettoniche relativamente fredde, stabili e rigide (spesse circa 100-200 km) nel processo globale della tettonica delle placche. Il ciclo delle rocce (v. fig. 3) illustra l'origine delle rocce ignee, sedimentarie e metamorfiche, ma non spiega il fatto che particolari gruppi di rocce (associazioni petrografiche) si ritrovino in aree geologiche diverse. La teoria della tettonica delle placche offre una spiegazione di molti caratteristici ambienti tettonici sulla superficie della Terra e della formazione di particolari associazioni di rocce in questi ambienti. Pertanto, lo studio petrologico delle rocce delle aree geologiche antiche fornisce informazioni sull'ambiente tettonico all'epoca della loro formazione, a sua volta interpretabile nei termini della tettonica delle placche di quel tempo.
I principali ambienti tettonici della tettonica delle placche sono riportati nella fig. 4. Le estese e stabili placche litosferiche sono separate da margini di tre tipi: 1) margini divergenti, dove si verifica accrescimento per espansione del fondo marino (seafloor spreading) o frammentazione (rifting) dei continenti; 2) margini convergenti, dove la compressione causa la formazione delle catene montuose o la subduzione, cioè l'inabissamento di zolle litosferiche all'interno del mantello, con formazione di una fossa oceanica; 3) margini trasformi, dove le placche scorrono l'una lungo l'altra, con solo piccole compressioni o tensioni. In termini di caratteristiche di superficie, questi margini potrebbero trovarsi tra due placche affiancate, entrambe oceaniche o entrambe continentali o una oceanica e l'altra continentale (v. anche geologia strutturale). Ciascun ambiente tettonico è caratterizzato da particolari lineamenti fisiografici, da tipi specifici di attività sismica e da associazioni caratteristiche di rocce. Queste sono le zone petrologiche più attive, ma sulle placche stabili esistono anche altri siti - per esempio i margini continentali prospicienti le dorsali medio-oceaniche - che presentano associazioni caratteristiche di rocce.
Le principali variabili che controllano i processi petrologici sono la pressione (una funzione diretta della profondità), la temperatura, la composizione della roccia originaria e la quantità di acqua a disposizione. La fig. 5 mostra le variazioni di spessore della crosta e della litosfera (v. tab. I). Lo spessore della crosta aumenta da 5-6 km al di sotto degli oceani a circa 40 km nelle regioni degli scudi continentali stabili, e raggiunge 60 km o più nelle zone attive di sollevamento montuoso. Lo spessore della litosfera aumenta da circa 10 km nelle dorsali medio-oceaniche a circa 100 km nelle placche oceaniche, fino a circa 200 km nelle regioni degli scudi continentali.
La ‛geoterma', linea che indica la temperatura in funzione della profondità, varia moltissimo a seconda dell'ambiente tettonico e dello spessore della litosfera. La fig. 5 mostra le geoterme relative ai due diversi ambienti tettonici illustrati nella fig. 4 e permette un confronto quantitativo migliore di quello possibile sulla base dei dati riportati nella tab. I tra le condizioni di formazione delle rocce ignee e di quelle metamorfiche. Ciascuna geoterma mostra un andamento che è pressoché lineare attraverso la litosfera e una temperatura meno variabile al di sotto di essa, dove la convezione del mantello mantiene un profilo di variazione della temperatura approssimativamente adiabatico. Si noti che la temperatura alla base della litosfera continentale (che è profonda) è minore di quella osservabile al di sotto della dorsale medio-oceanica (a bassa profondità). La geoterma continentale si sposta verso valori più alti in ambienti tettonici attivi. Queste due geoterme divergenti tendono a convergere a una profondità di circa 400 km, a causa dell'azione di rimescolamento dovuta alla convezione del mantello.
La roccia più abbondante nella parte più esterna della Terra è la peridotite, che costituisce il mantello superiore. Un valore medio della sua composizione chimica è riportato nella tab. II insieme con la sua composizione mineralogica. La peridotite è una roccia ignea cristallizzata in una fase precoce della storia della Terra a partire da un mantello fuso e trasformata poi in roccia metamorfica a causa della convezione. Consideriamo due masse di peridotite, poste al di sotto l'una di un continente e l'altra di una dorsale medio-oceanica (rappresentate rispettivamente dai punti A e B nella fig. 5), le quali subiscono localmente un leggero riscaldamento che ne provoca la risalita lungo le traiettorie AB e CD. Mentre risalgono, la pressione diminuisce, ma esse si raffreddano solo di poco (perché le rocce sono cattive conduttrici di calore). Questo cambiamento di temperatura e di pressione causa la ricristallizzazione dei minerali in esse contenuti, accompagnata da un loro cambiamento di composizione che serve a ristabilirne l'equilibrio termodinamico.
Quando la peridotite situata al di sotto della litosfera si muove nel suo lento ciclo attraverso il mantello, è sottoposta a continui cambiamenti metamorfici. Alcune lave vulcaniche che risalgono da punti profondi della litosfera trasportano in superficie dei frammenti (xenoliti) di peridotite del mantello. Dal confronto tra la loro composizione mineralogica effettiva e i valori ottenuti in laboratorio è possibile stabilire la pressione (profondità) e la temperatura di ciascuno xenolito al momento in cui fu strappato dal mantello ed eruttato. Questo dato, che fornisce la geoterma del mantello fossile durante il periodo dell'eruzione vulcanica, costituisce un magnifico esempio di sintesi tra petrologia e mineralogia per l'acquisizione di dati geofisici. In petrologia questo approccio, che comprende la geobarometria e la geotermometria, è largamente usato nello studio delle rocce metamorfiche della crosta e nella ricostruzione della storia della formazione delle montagne.
La peridotite del mantello durante la risalita può o essere deviata e muoversi in senso suborizzontale mentre si avvicina alla litosfera - come è probabile che avvenga nel caso AB della fig. 5 al di sotto della litosfera continentale - oppure può continuare a dirigersi verso l'alto fino a raggiungere condizioni tali per cui la roccia comincia a fondere. Le condizioni per la fusione sono definite dalla ‛curva del solidus' (indicata con s in fig. 5) per la peridotite, che è stata determinata attraverso esperimenti condotti in laboratorio. La fig. 5 mostra che la continuazione della traiettoria CD fino ai livelli più superficiali interseca il solidus al di sotto di una dorsale medio-oceanica. È questo il processo che genera i basalti, le lave più abbondanti sulla Terra, la cui composizione chimica e mineralogica è confrontata con quella della peridotite nella tab. II. Il processo di fusione parziale causa una differenziazione chimica della peridotite. L'eruzione del basalto concentra SiO2, Al2O3, CaO, Na2O e K2O dal mantello nella crosta oceanica, mentre MgO viene lasciato indietro come residuo. Questo processo costituisce il primo stadio nella formazione della crosta terrestre, durante il quale hanno origine i basalti, in superficie, e i gabbri (rocce di cristallizzazione più lenta contenenti cristalli più grandi), nella parte bassa della crosta.
4. Petrologia delle dorsali medio-oceaniche e delle placche oceaniche
Le dorsali medio-oceaniche (v. fig. 4) sono prodotte dalla risalita di peridotite calda dal mantello e dalle eruzioni di lava basaltica che forma vulcani sottomarini. L'acqua dell'oceano viene risucchiata all'interno delle fratture della nuova crosta oceanica e quando si avvicina alla sottostante camera magmatica si riscalda e reagisce con le rocce, disciogliendo in modo selettivo molti componenti e diventando così una soluzione molto concentrata. Le soluzioni calde vengono respinte verso la superficie della roccia e, attraverso delle aperture, si riversano nelle acque oceaniche fredde. L'improvviso raffreddamento causa la precipitazione dei materiali disciolti nelle soluzioni, che risultano in tal modo intorbidite e danno luogo, allorché fuoriescono, alle ‛fumarole bianche' o ‛nere'. Un deposito caratteristico associato a queste fuoriuscite idrotermali sottomarine è l'accumulo di solfuri metallici. Questo importante processo sottomarino, scoperto solo un paio di decenni fa, ha fornito la risposta al problema della formazione di alcuni giacimenti minerari (che si ritrovano attualmente nelle rocce continentali). In questo caso l'interazione tra l'idrosfera e la crosta assume caratteri del tutto particolari, che rappresentano una forma estrema dell'alterazione che avviene sulla crosta continentale, dove l'acqua fredda reagisce con rocce fredde. La reazione tra l'acqua del mare e la crosta basaltica non solo discioglie selettivamente alcuni dei componenti del basalto, ma apporta H2O e CO2 attraverso la formazione di nuovi minerali idrati e carbonati. In questo modo la roccia calda viene metasomatizzata.
La nuova crosta oceanica, con i suoi depositi superficiali di rocce idrotermali sottomarine, viene trasportata, a causa dell'espansione del fondo oceanico, verso un margine di placca: un viaggio che dura al massimo 200 milioni di anni. Durante questo periodo la crosta basaltica viene ricoperta da sottili strati successivi di rocce sedimentarie formate da diverse particelle, tra cui cenere vulcanica e polvere che il vento trasporta dai continenti, micrometeoriti provenienti dallo spazio, particelle di precipitazione biochimica costituite da carbonato di calcio o silice, gusci di foraminiferi unicellulari o diatomee (alghe) che vivono in sospensione e muoiono nei livelli superficiali dell'oceano. Lo spessore di questi strati di sedimenti di mare profondo (‛sedimenti pelagici') aumenta progressivamente con il tempo fino a 0,5-1 km nelle vicinanze del margine continentale (v. fig. 4). Appena si formano, i sedimenti a grana fine sono costituiti da fanghiglie di fondo impregnate d'acqua, composte soprattutto da calcite o da minerali argillosi con tenori variabili di quarzo, ma quando raggiungono i margini continentali tali sedimenti si sono ormai compattati per seppellimento e fanno parte integrante della crosta oceanica.
Avvicinandosi ai margini continentali, l'oceano comincia a ricevere più particelle dai fiumi e, in condizioni geografiche e climatiche adatte, questi materiali terrigeni possono divenire più abbondanti dei sedimenti pelagici. Gli spessi strati di minerali a grana grossa e i frammenti di rocce strappati dai fiumi che erodono le catene montuose in sollevamento possono formare depositi sedimentari deltizi situati all'esterno del margine continentale, oppure spesse sequenze di grovacche nelle fosse oceaniche profonde associate alle zone in subduzione. La classificazione delle rocce che formano i sedimenti pelagici è ben nota: esse sono costituite, prevalentemente, da minerali argillosi, da calcite e da quarzo, mentre le grovacche sono costituite da sedimenti eterogenei e hanno una composizione media simile a quella delle montagne da cui derivano.
5. Petrologia dei margini convergenti tra placche
La fig. 6 mostra una rappresentazione schematica del margine convergente tra la placca oceanica e la placca continentale tracciato nella fig. 4, e illustra altri importanti processi di formazione delle rocce. I principali caratteri fisiografici di questo ambiente tettonico sono il bacino oceanico, la fossa oceanica, la adiacente catena montuosa con i suoi caratteristici vulcani e la piattaforma continentale. Le temperature sono rappresentate da isoterme. Al di sotto del continente stabile o dell'oceano la temperatura rimane quasi costante a una data profondità (si confronti con le geoterme della fig. 5). Con la subduzione - lo sprofondamento di una zona di litosfera fredda, spessa 100 km - le temperature in profondità diminuiscono e le isoterme sono pertanto spostate verso il basso. Al di sotto delle catene montuose attive le temperature aumentano, almeno localmente, in parte a causa della convezione di materiale più caldo del mantello all'interno del cuneo sovrastante la zolla in subduzione, e in parte a causa del calore fornito dai magmi in risalita; in queste zone le isoterme si spostano verso livelli più superficiali. La crosta oceanica si immerge al di sotto della fossa oceanica e del margine continentale, trasportando in un ambiente caratterizzato da condizioni differenti di pressione e temperatura basalto metasomatizzato, depositi di solfuri idrotermali, sedimenti pelagici e sedimenti terrigeni dilavati dalle catene montuose in erosione.
In questo ambiente avvengono molti processi petrologici diversi a seconda del grado di compressione tra le placche. Parte della crosta oceanica viene subdotta al di sotto del continente, ma una parte di essa può essere scalzata e accatastata contro il margine continentale e formare strutture geologiche molto complesse (v. fig. 4). Alcune rocce prodotte in questo ambiente vengono chiamate mélange, perché sono costituite da un insieme complesso di rocce ignee, metamorfiche e sedimentarie, metasomatizzate dall'infiltrazione di acqua oceanica e dalle soluzioni estratte dalle rocce sedimentarie subdotte. Esse non rientrano negli schemi classificativi più semplici (v. fig. 1; v. tab. I).
Consideriamo ora la crosta oceanica che viene trasportata in profondità dalla litosfera in subduzione. La fig. 6 mostra che, sebbene la zolla litosferica sia relativamente fredda, le rocce subdotte vengono sottoposte a condizioni progressivamente crescenti di pressione e temperatura. Così esse diventano, per definizione, rocce metamorfiche: infatti si trasformano in nuovi insiemi di minerali in equilibrio con le mutate condizioni chimico-fisiche. Tra le prime reazioni metamorfiche che si verificano vi sono le reazioni di dissociazione durante le quali vengono liberati H2O e CO2. Le soluzioni così prodotte vanno a incrementare il flusso di fluidi che risale lungo il margine della zolla in subduzione e lungo il lato oceanico del margine continentale sovrastante. Le rocce della crosta oceanica vengono trasportate a grandi profondità sotto pressioni molto alte, ma le temperature restano anormalmente basse. In queste condizioni si formano particolari sequenze di rocce metamorfiche chiamate ‛scisti blu', e la calibrazione delle condizioni di stabilità delle associazioni di minerali eseguita in laboratorio (petrologia sperimentale) conferma che esse possono formarsi solo ad alte pressioni e basse temperature. La presenza di scisti blu, che si ritrovano esposti alla superficie solo in zone occupate da catene montuose antiche ora erose, può pertanto essere usata per localizzare la posizione di antichi margini convergenti tra placche.
Rocce metamorfiche si formano anche nelle radici delle catene montuose continentali piegate e sollevate dalle forze compressive che si sviluppano lungo i margini convergenti tra placche. Le isoterme della fig. 6 mostrano che, a una data profondità, le temperature delle rocce continentali al di sotto delle catene montuose sono più alte di quelle della crosta oceanica in subduzione. A parità di profondità, le rocce metamorfiche sono pertanto diverse dagli scisti blu che si formano in condizioni ‛fredde' e comprendono gli scisti verdi e le anfiboliti. Queste rocce verranno descritte più in dettaglio quando ci occuperemo delle facies metamorfiche. Per ora notiamo che differenti tipi di rocce metamorfiche possono essere correlati con specifiche zone caratterizzate da particolari ambienti tettonici, come le zone di subduzione e le catene montuose.
La catena montuosa del margine continentale mostrata nelle figg. 4 e 6 è caratterizzata anche dalla presenza di tipi specifici di rocce laviche estrusive e di rocce ignee intrusive. In questi ambienti montuosi si formano enormi stratovulcani singoli, la cui lava, di tipo particolare, viene chiamata andesite (da Ande) e, rispetto al basalto, contiene più SiO2, più alcali (v. tab. II per le relative composizioni chimiche e mineralogiche medie) e anche più H2O, come dimostrato dalla presenza di minerali idrati che cristallizzano dal magma ad alta temperatura. Un'altra differenza tra questi vulcani e le eruzioni sottomarine delle dorsali medio-oceaniche è che le andesiti vengono spesso eruttate in modo esplosivo, poiché l'H2O (di origine inizialmente oceanica) viene espulsa sotto forma di vapore surriscaldato quando la pressione scende nel corso dell'eruzione. Durante le eruzioni esplosive sia il magma che le rocce vengono frantumati e le nuove rocce che ne risultano sono formate da strati di ceneri vulcaniche: si tratta di rocce ignee come origine, ma sedimentarie come modalità di deposizione, e ciò rende difficile la loro classificazione, specialmente se le ceneri vengono deposte in acqua, che rappresenta il tipico ambiente di formazione dei sedimenti.
I vulcani eruttano anche basalti, ma la composizione chimica complessiva delle lave eruttate in questo ambiente è diversa da quella delle lave sottomarine delle dorsali medio-oceaniche. Il fattore chiave nel determinare la formazione di andesiti anziché di basalti sta nella subduzione di crosta oceanica, parzialmente idratata e alterata dall'acqua marina, e nella quantità di H2O e CO2 rilasciata per gli effetti metamorfici durante la subduzione. Si ritiene che l'H2O abbia una certa influenza sui processi di fusione che avvengono nella crosta oceanica idratata in subduzione o nel cuneo di mantello e favorisca la produzione di magmi più ricchi in SiO2. Alcuni aspetti della petrogenesi delle andesiti restano controversi. L'attività vulcanica in questo ambiente rappresenta un secondo stadio di differenziazione chimica della Terra attraverso processi ignei; durante il primo stadio, la peridotite diede luogo ai basalti, mentre i processi che coinvolgono i basalti oceanici subdotti e la loro copertura sedimentaria produssero le andesiti. La composizione media calcolata per la crosta continentale è molto simile a quella dell'andesite (v. tab. II).
Al di sotto dei vulcani, in lenta ascesa attraverso la crosta, vi sono grandi colonne cilindriche attraverso le quali risale il magma, con una composizione che varia da quella dell'andesite a quella, più silicea, del granito; quest'ultimo (v. tab. II) è anche molto più ricco di K2O e più povero di MgO, FeO e CaO rispetto al basalto o all'andesite. Gran parte di questo magma non raggiunge mai la superficie e cristallizza, invece, in forma di rocce intrusive composte da cristalli di grandi dimensioni (tonaliti o graniti); tali rocce - che costituiscono il nucleo delle catene montuose, che viene esposto dal sollevamento e dall'erosione a formare enormi batoliti granitici - sono le rocce intrusive più abbondanti sulla Terra. Il magma granitico, ricco di silice, è diverso dal magma basaltico per le sue proprietà oltre che per la composizione: esso presenta temperature considerevolmente più basse e viscosità molto più alta nonostante contenga una maggiore percentuale di H2O disciolta. Se il magma di un'intrusione granitica raggiunge la superficie può essere eruttato in diverse forme, quali colate di lava riolitica, esplosioni vulcaniche cineritiche, pomice vescicolata, oppure ossidiana viscosa vitrea. Queste rocce ignee estrusive possono avere tutte la stessa composizione ma diversi contenuti di H2O; la variata nomenclatura con la quale vengono indicate riflette le loro diverse tessiture e strutture.
Il magma che costituisce i batoliti proviene da almeno due sorgenti differenti: il magma parzialmente siliceo, prodotto dalla zolla in subduzione e dal cuneo del mantello, e quello granitico altamente siliceo, derivato dalla fusione parziale della crosta continentale profonda (v. fig. 4). La fusione della crosta è facilitata dall'acqua che attraverso processi complessi viene liberata durante il metamorfismo della crosta oceanica subdotta e da quella contenuta nelle rocce metamorfiche della crosta continentale. Questo processo costituisce il terzo stadio della differenziazione chimica della Terra e della formazione della crosta continentale.
Quando i corpi magmatici granitici roventi risalgono nella crosta più fredda, riscaldano le rocce metamorfiche o sedimentarie all'interno delle quali si intrudono; queste - se il calore è sufficiente - subiscono dei cambiamenti mineralogici e vengono trasformate per contatto (‛metamorfismo termico'). Il magma granitico risalendo si raffredda e cristallizza lentamente, col risultato che i componenti volatili in esso disciolti possono essere espulsi e migrare all'interno delle rocce incassanti. Le soluzioni idrotermali possono migrare lungo fratture oppure per percolazione attraverso le rocce. La silice, i metalli, lo zolfo e altri elementi disciolti nelle soluzioni precipitano nel nuovo ambiente più freddo, cosicché intorno al corpo intrusivo si può produrre una distribuzione sequenziale di depositi minerali diversi. Il processo è simile, in linea di principio, a quello della deposizione dei giacimenti metallici dovuti a emissioni idrotermali sottomarine, descritto in precedenza: si tratta, cioè, di soluzioni calde iniettate all'interno di un ambiente più freddo, che precipitano minerali. L'ambiente più freddo nel primo caso è la roccia continentale, nel secondo l'acqua oceanica. I minerali nel primo ambiente vengono depositati in vene profonde all'interno della roccia incassante, nel secondo vengono precipitati in acqua e sono prima accumulati sulla superficie della crosta oceanica, poi incorporati nelle rocce continentali ai margini convergenti tra le placche.
6. Processi di alterazione e rocce sedimentarie
La crescita delle catene montuose lungo i margini convergenti tra placche espone le rocce a processi di alterazione più intensi. La pioggia, il ghiaccio e la gravità contribuiscono a erodere le montagne e a ridistribuire i materiali nel vicino oceano o, attraverso la piattaforma continentale, sulla piattaforma continentale di un altro oceano (v. fig. 4). L'alterazione delle rocce comprende le reazioni chimiche tra soluzioni di vari composti in acqua piovana resa leggermente acida da CO2 o da vegetazione in decomposizione. I minerali primari delle rocce ignee, cristallizzati ad alta temperatura, reagiscono nell'ambiente a bassa temperatura, relativamente ricco di acqua, producendo nuovi minerali idrati, principalmente minerali argillosi a granulazione molto fine. I minerali non reattivi, come ad esempio il quarzo, vengono staccati dalla roccia originaria per frantumazione meccanica. Nello stesso tempo l'acqua piovana si arricchisce leggermente in calcio, alcali, magnesio e silicio; sono questi i componenti in soluzione che rendono le acque più o meno ‛dure'. I prodotti di alterazione costituiti da argille, quarzo e suoli scivolano lungo i pendii per azione della gravità e vengono dilavati dalla pioggia o dal ruscellamento. La velocità di alterazione e di dilavamento delle rocce e dei minerali è funzione dell'altitudine e del clima, ed è molto maggiore nelle zone tropicali piovose che in quelle aride e fredde.
Si formano nuove rocce in ogni luogo in cui le particelle prodotte durante l'alterazione vengono deposte, in ambiente aereo o in acqua, dando origine a depositi o strati di sedimenti. I processi fisici dell'alterazione tendono a separare i minerali argillosi e i granuli di quarzo di piccole dimensioni da quelli più grandi; i corrispondenti depositi sedimentari sono rappresentati dal fango degli estuari fluviali e dalle sabbie delle spiagge o delle dune desertiche. I fanghi, una volta accumulati e compressi per seppellimento, diventano argilliti, mentre le sabbie vengono consolidate a formare le arenarie. Il terzo prodotto dell'alterazione, il soluto dei corsi d'acqua, viene trasportato negli oceani o nei laghi continentali, dove viene concentrato sotto forma di salamoie per effetto dell'evaporazione dell'acqua dovuta all'energia solare. Quando le salamoie diventano sature, i componenti disciolti precipitano sotto forma di minerali. La roccia sedimentaria più importante che si forma attraverso questo processo chimico è il calcare, dovuto alla precipitazione del carbonato di calcio. La biosfera prende parte attiva al processo di formazione delle rocce sedimentarie: il plancton, i pesci, le conchiglie e i coralli estraggono gli elementi dall'acqua marina per costruire le loro parti solide; quando queste creature muoiono, le parti solide (costituite comunemente da carbonato di calcio, ma talvolta da silice o fosfati) si accumulano negli strati sedimentari. I calcari possono pertanto essere costituiti da calcite di due tipi: una derivata da sedimentazione chimica, o precipitazione, l'altra costituita da frammenti biogenici. Alcune fanghiglie calcaree pelagiche sono costituite quasi esclusivamente dalla componente biogenica.
La rapida erosione delle catene montuose attive produce ‛grovacche' poco selezionate, costituite da minerali non trasformati e da frammenti di rocce. La modesta alterazione di rocce continentali produce le ‛arcose', costituite da minerali non trasformati e da frammenti di rocce granitiche. Il trasporto dei prodotti dell'alterazione attraverso un intero continente dà più tempo ai processi di trasformazione e di selezione fisica (per dimensioni delle particelle), per cui i sedimenti deposti sulla piattaforma continentale (v. fig. 4) consistono comunemente di strati di argilliti, arenarie e calcari. In circostanze particolari le lagune e i laghi chiusi possono evaporare completamente con conseguente precipitazione dei sali disciolti, tra cui i nitrati e il sale comune, il salgemma. Questi prodotti estremi della differenziazione sedimentaria sono chiamati ‛evaporiti'.
Il processo di alterazione, combinato con i processi fisici di trasporto, causa la separazione dei vari componenti, producendo una differenziazione chimica del materiale delle rocce molto maggiore di quella associata ai processi ignei della fusione parziale. I prodotti finali del processo sedimentario hanno composizioni chimiche molto diverse tra loro, potendo essere costituiti interamente da SiO2, da CaCO3 o da NaCl, contrariamente alle rocce ignee, la cui composizione è sempre complessa (v. tab. II). La composizione chimica di un'argilla, d'altra parte, non è tanto diversa, per molti aspetti, dalla composizione media di una roccia ignea.
La composizione chimica media di una catena montuosa è simile alla composizione media di un continente e a quella di un'andesite. La trasformazione di una catena montuosa composita in rocce sedimentarie può essere espressa con un'equazione. Una catena montuosa, reagendo con acqua leggermente acida, produrrà circa l'85% di argilla, il 12% di arenaria e il 7% di calcare, con una percentuale molto piccola di evaporiti. Queste rocce sedimentarie vengono distribuite attraverso tutta la piattaforma continentale, con spessori maggiori nei bacini subsidenti e sui margini continentali sommersi.
Gli strati di rocce sedimentarie conservano una sequenza temporale in successione stratigrafica, con i sedimenti più antichi in basso e i più giovani in alto. Una volta seppelliti, i sedimenti sono sottoposti alla ‛diagenesi', che comprende una serie di cambiamenti associati alla compattazione, all'espulsione dell'acqua contenuta nei pori e alla reazione con le soluzioni percolanti che causano la cementazione, la litificazione e la ricristallizzazione. La diagenesi continua fino al raggiungimento delle condizioni del metamorfismo: circa 100 °C e 10 km di profondità; durante i primi stadi del metamorfismo continuano ad aver luogo cambiamenti simili.
7. Classificazione delle rocce
Le classificazioni sono essenziali per poter confrontare tra loro le rocce e definirne i processi di formazione. Vi sono state accese discussioni su come classificare e suddividere i vari gruppi di rocce. Elementi di base per le classificazioni descrittive sono quelli relativi alla struttura, alla mineralogia e alla composizione chimica, e tutti hanno un significato genetico. I tentativi di stabilire classificazioni genetiche, sebbene stimolanti, non sempre hanno avuto successo, perché la nostra comprensione dei processi cambia e migliora col tempo. I nomi assegnati alle rocce possono mutare a seconda della situazione. È necessario che la classificazione si basi su dati osservabili sul campo con una lente di ingrandimento, ma tale classificazione può essere raffinata quando la roccia viene studiata al microscopio, ottico o elettronico, e utilizzando i dati ottenuti dall'analisi chimica. Le analisi con la microsonda e con lo spettrometro di massa forniscono le concentrazioni degli elementi in tracce, che servono a distinguere tra loro rocce altrimenti simili e rappresentano utili indicatori degli ambienti tettonici.
Nella fig. 7 è riportata una semplice classificazione mineralogico-strutturale delle rocce ignee. Sull'asse orizzontale sono indicati i tipi di rocce, in una sequenza che corrisponde approssimativamente a un contenuto crescente di SiO2 - il componente più abbondante e la variabile chimica principale delle rocce ignee - nonché altri cambiamenti chimici importanti nella sequenza delle rocce. Sull'asse verticale è indicata la percentuale cumulativa dei minerali presenti, mentre le percentuali dei singoli minerali si ricavano per differenza tra i valori relativi a curve consecutive all'interno del grafico. La composizione mineralogica di una particolare roccia è data dall'intersezione di una linea verticale con le curve dei minerali. Tutti i minerali di colore scuro (più ricchi in Mg e Fe) sono compresi nella zona ombreggiata al di sotto della linea più spessa, mentre i minerali più chiari (ricchi in alcali e SiO2) giacciono al di sopra di essa. Questa classificazione, per quanto sia puramente descrittiva, ha anche implicazioni genetiche, perché la sequenza dei minerali letta da sinistra verso destra corrisponde strettamente alla sequenza con cui essi cristallizzano da un magma.
Il primo passo da compiere per identificare una roccia sconosciuta è definirne la struttura, che può essere a grana grossa, nel caso di una roccia intrusiva, o a grana fine, nel caso di una lava estrusiva (vi sono però anche altre strutture intermedie, e le rocce vetrose, come l'ossidiana, richiedono una considerazione a parte). Il passo successivo è una stima della percentuale dei minerali scuri (l'‛indice di colore'), che una volta riportata sulla linea più spessa nella fig. 7 permette di correlare la roccia in questione con uno dei gruppi principali. Per le rocce con un contenuto di SiO2 molto basso o molto alto, ai due estremi della serie, è necessaria, rispettivamente, l'identificazione dei minerali scuri e del rapporto tra quarzo e feldspati. La classificazione internazionale delle rocce ignee, sulla quale vi è ampio accordo, è fondata sull'indice di colore e comprende una suddivisione molto più dettagliata, basata sulla quantità reale dei minerali (quarzo, feldspati e feldspatoidi) costituenti la roccia.
Vi sono alcune rocce ignee che non possono essere classificate con il diagramma della fig. 7: tra queste vi sono le anortositi, composte essenzialmente di plagioclasio, le kimberliti, magmi ricchi di olivina trasportati dai gas da profondità di 200 km o più, e le carbonatiti, composte essenzialmente da carbonati con pochi minerali silicatici.
I gruppi principali di rocce sedimentarie sono le rocce clastiche e le rocce chimiche, suddivise (v. tab. III) secondo la provenienza delle particelle clastiche che le compongono, i minerali precipitati dalle soluzioni e le dimensioni delle particelle. I due casi estremi sono rappresentati dalle arenarie, composte da particelle di quarzo, e dai calcari di origine chimica, dovuti alla precipitazione di calcite dall'acqua di mare. Gran parte dei calcari contiene una percentuale significativa di calcite biogenica che gli organismi estraggono dall'acqua degli oceani per la produzione di conchiglie o scheletri.
I sedimenti clastici vengono classificati secondo le dimensioni delle particelle che li compongono. I ciottoli formati da particelle di grandi dimensioni (da 2 mm fino a grandi massi) diventano conglomerati; le sabbie, costituite da clasti di dimensioni inferiori ai 2 mm, diventano arenarie, e i fanghi, costituiti dai clasti più fini, diventano argilliti, i cui costituenti principali sono i minerali argillosi. Vi sono molti tipi differenti di arenarie, che vengono classificate in base alla mineralogia delle loro particelle e alla loro struttura. Se le particelle vengono trasportate a grandi distanze risultano più arrotondate; un'alterazione più intensa e un trasporto su più lunghe distanze fanno sì che venga rimossa ogni componente eccetto il quarzo, più resistente, dando luogo a un'arenaria pura. Le grovacche sono arenarie che si formano in seguito alla rapida alterazione di catene montuose giovani in cui sono presenti rocce vulcaniche (lato oceanico delle figg. 4 e 6); esse contengono frammenti di roccia a spigoli vivi, quarzo e granuli feldspatici parzialmente alterati in una matrice argillosa. L'alterazione fisica e l'erosione dei graniti e delle rocce metamorfiche delle catene montuose in sollevamento (per esempio uno stadio maturo sul lato continentale delle figg. 4 e 6) producono le arcose, che sono argilliti contenenti oltre il 25% di feldspato.
Le rocce sedimentarie chimiche più abbondanti sono quelle carbonatiche, come il calcare (CaCO3) e la dolomia (CaCO3 + MgCO3). Le altre - cioè le evaporiti (depositi salini), la silice (SiO2), la fosforite e i sedimenti organici - costituiscono meno dell'1% delle rocce sedimentarie. La materia organica di origine vegetale, trasformata durante la diagenesi, è una componente di molte argilliti; il carbone è una roccia composta interamente da questo materiale. Il petrolio e gli idrocarburi gassosi prodotti durante la diagenesi di rocce contenenti resti organici possono migrare verso rocce porose quali arenarie e calcari, e la ricerca di formazioni in cui questi possono essere stati intrappolati fornisce un grande incentivo allo studio della petrogenesi e delle strutture delle rocce sedimentarie in molti ambienti tettonici, specialmente nei bacini sedimentari.
Le rocce di metamorfismo regionale hanno strutture caratteristiche perché sono costituite da minerali cresciuti in condizioni di sforzo direzionale durante il seppellimento e il piegamento. I nuovi minerali, prismatici o lamellari, si allineano durante la crescita in conseguenza della deformazione. La tab. IV mostra una classificazione basata sulla loro struttura, granulare o fogliata. Le quarziti e i marmi sono rocce granulari semplici. Le filladi, gli scisti e gli gneiss sono le rocce metamorfiche più comuni: gli scisti sono costituiti principalmente da foglietti di mica; negli gneiss, le rocce più trasformate, i minerali chiari e quelli scuri si dispongono in bande separate. Classificazioni più complete devono prendere in considerazione l'ampia gamma di composizioni di rocce differenti che possono essere metamorfosate. La tab. IV dà un'indicazione dei cambiamenti progressivi che avvengono nella mineralogia di un'argillite, la roccia sedimentaria più abbondante, sottoposta a crescente metamorfismo regionale (v. fig. 2C). Il concetto di facies metamorfica (v. fig. 8) permette una classificazione generale delle rocce metamorfiche, che include dati quantitativi sulla loro genesi.
8. Strumenti e tecniche
La geologia e la petrologia si svilupparono dalla mineralogia e dall'industria mineraria. Durante il XVIII secolo e la prima metà del XIX furono formulate le teorie che stabilirono i principî fondamentali della geologia, della classificazione e dell'origine delle rocce, e furono effettuati alcuni esperimenti pionieristici sulla fusione e sulla cristallizzazione delle rocce naturali. Come in molti altri campi, grandi progressi fecero seguito all'adozione di tecniche mutuate da altre discipline o all'invenzione di nuove apparecchiature. Qui di seguito verranno descritti alcuni degli sviluppi più significativi.
La petrologia subì una rivoluzione quando H. Sorby, nel 1851, cominciò a usare un microscopio polarizzatore (microscopio petrografico) per studiare le strutture microscopiche delle rocce in sezioni sottili, anche se ci vollero ancora circa vent'anni prima dell'inizio dell'era della petrologia microscopica, che si fa risalire alla pubblicazione del trattato sui basalti di F. Zirkel (1870). Questo approccio rese possibile l'identificazione della maggior parte dei minerali delle rocce e rivelò i complicati dettagli delle relazioni strutturali tra i minerali, che poterono così essere spiegate in termini di processi di formazione. Tra il 1870 e il 1890 l'impiego del microscopio scatenò una ricerca quasi frenetica di nuovi tipi di rocce e la petrografia si configurò come una lista, sempre più lunga, di descrizioni e di nuovi nomi di rocce; mancava, tuttavia, una classificazione razionale. Durante lo stesso periodo gli sviluppi della chimica analitica permisero di effettuare un numero abbastanza grande di analisi chimiche di rocce e di minerali su cui basare classificazioni chimiche.
Gli sviluppi della chimica fisica teorica durante la seconda metà del secolo scorso comprendono la formulazione, da parte di J. Willard Gibbs (1876) della ‛regola delle fasi', derivata dalla termodinamica, e la scoperta di altre relazioni quantitative tra componenti chimici. Già nel 1900 queste relazioni avevano fornito le basi relative ai principî degli equilibri eterogenei e alla costruzione dei diagrammi di fase dei sistemi contenenti liquido, minerali solidi e vapore. La chimica fisica teorica fu verificata sia sul campo sia con appositi esperimenti. Tra il 1910 e il 1920 V. M. Goldschmidt e P. Eskola confermarono che le rocce metamorfiche obbediscono alla regola delle fasi durante la loro ricristallizzazione, un principio che è ancora alla base della classificazione genetica delle rocce metamorfiche (facies metamorfiche). J. Vogt verificò poi la correttezza di questo formalismo anche nel caso della petrologia ignea, in una serie di ricerche sulla cristallizzazione di scorie metallurgiche. I progressi più significativi della petrologia sperimentale, comunque, cominciarono dopo la fondazione del Geophysical Laboratory della Carnegie Institution di Washington, nel 1905.
Un gruppo multidisciplinare di ricercatori del Geophysical Laboratory affinò la precisione e l'accuratezza metodologiche affrontando in modo integrato i problemi geologici. In particolare questi scienziati misero a punto nuovi forni e nuove tecniche per determinare in modo sistematico le relazioni di fase in una serie completa di sistemi silicatici, da quelli semplici a quelli complessi, che includevano tutti i principali componenti delle rocce ignee e metamorfiche. Nel corso della prima metà del secolo quasi tutti gli esperimenti erano eseguiti alla pressione di 1 atmosfera, ma vennero costruite anche alcune apparecchiature per le alte pressioni con cui determinare le relazioni tra i componenti volatili, come l'acqua e i liquidi silicatici, e la solubilità e la mobilità dei componenti silicatici nelle soluzioni sotto pressione. N. L. Bowen fu un maestro nell'applicazione alla petrogenesi dei risultati espressi dai diagrammi di fase; il libro da lui pubblicato nel 1928, The evolution of the igneous rocks, resta uno dei testi fondamentali della petrologia.
A partire dal 1950, l'aumentato numero dei ricercatori e la creazione di nuovi tipi di apparecchiature hanno determinato ulteriori sviluppi della petrologia sperimentale. La critica secondo cui gli esperimenti a secco su sistemi semplici non fornivano un buon modello per i magmi complessi con componenti volatili disciolti ad alte pressioni fu superata con la costruzione di svariati tipi di apparecchiature per le alte pressioni, che permettevano di bloccare tali componenti. L'autoclave idrotermica a giunto freddo, ideata da O. F. Tuttle nel 1949, divenne rapidamente uno strumento comune per le ricerche sulle reazioni metamorfiche alle pressioni e alle temperature della crosta, fino alle condizioni alle quali inizia la fusione del granito in presenza di vapore d'acqua. Un'autoclave a gas a riscaldamento interno permise di operare a temperature più alte e fino a 1,0 GPa, così da riprodurre le condizioni di fusione del basalto alla base della crosta continentale. A partire dal 1960 cominciò a essere usata la pressa a stato solido munita dell'accoppiamento pistone-cilindro, che permise di estendere gli esperimenti fino a 4,0 GPa e circa 1.800 °C, cioè alle condizioni esistenti a profondità superiori a 100 km nella crosta terrestre, ovvero nella crosta oceanica subdotta al di sotto dei vulcani dei margini continentali (v. figg. 4 e 6). A partire dagli anni sessanta cominciarono a essere determinati gli equilibri di fase nei sistemi costituiti da rocce naturali e, in parallelo, quelli dei corrispondenti sistemi sintetici semplificati.
Durante gli anni ottanta la costruzione di altri due tipi di apparecchiature per le alte pressioni estese ulteriormente il campo della ricerca sperimentale. In Giappone, per simulare le condizioni esistenti al livello della discontinuità sismica situata a 670 km di profondità nel mantello terrestre, furono progettate grandi presse dotate di incudini metalliche disposte secondo ingegnose configurazioni, che comprimevano un piccolo campione. L'uso di piccole incudini di diamante schiacciate tra loro in una piccola pressa ha consentito di generare pressioni ancora più alte, e precise tecniche sviluppate al Geophysical Laboratory hanno permesso di riprodurre le condizioni esistenti fino al centro della Terra (v. anche mineralogia). Per misurare le proprietà dei minerali, delle rocce e dei fusi alle condizioni esistenti nel mantello, sono state usate apparecchiature che utilizzano le onde d'urto dinamiche. Sebbene la petrologia ufficialmente si occupi delle rocce della crosta, come si è visto essa studia fenomeni che hanno origine all'interno della Terra e sono alimentati dall'energia proveniente dal mantello.
Molti nuovi strumenti analitici entrati in uso quasi contemporaneamente, dopo il 1950, ebbero effetti rivoluzionari sulla petrografia e sulla petrologia descrittive, sulla petrologia sperimentale e sullo sviluppo della geochimica. Tra questi strumenti si annoverano: lo spettrografo ottico e altre apparecchiature per l'analisi chimica rapida dei minerali e delle rocce, che permisero di abbandonare i tediosi procedimenti dell'analisi chimica per via umida e fornirono molti dati analitici sulle rocce; strumenti migliori per l'identificazione ai raggi X dei minerali in polvere; la microsonda elettronica, che sostituì le tecniche ottiche per determinare la composizione dei minerali in situ all'interno delle rocce; il microscopio elettronico a scansione, che rivelò dettagli strutturali invisibili con un microscopio ottico e che è stato migliorato tanto da poter effettuare analisi chimiche puntuali dell'interno dei minerali; gli spettrometri di massa, per misurare gli isotopi presenti nei minerali e nelle rocce, che hanno consentito di determinare con precisione le età delle rocce, di valutare i rapporti tra gli elementi per ricostruire i processi dipendenti dal tempo avvenuti nelle rocce, e di ricavare indicatori paleoclimatici. Oggi è possibile anche determinare la temperatura dell'acqua nella quale si svilupparono le conchiglie fossili. Tutte queste apparecchiature sono state molto migliorate dal punto di vista della configurazione, della risoluzione e della precisione nel corso degli ultimi quaranta anni. Gli investimenti fatti dalla NASA, tra il 1969 e il 1972, per raggiungere la Luna e riportare sulla Terra campioni di rocce lunari hanno impresso un forte stimolo alla progettazione di strumenti più precisi per misurare ogni possibile caratteristica chimica dei preziosi campioni. Durante l'ultimo decennio la microsonda ionica, quella protonica e quella a laser sono state perfezionate e calibrate per ottenere dati analitici di altissima precisione, come, ad esempio, le età di formazione delle differenti zone di un singolo cristallo di zircone. Infine, la disponibilità di calcolatori veloci ha permesso in questi anni di migliorare il funzionamento di molti strumenti.
La geocronologia, che data le rocce facendo riferimento a una serie di eventi, è ovviamente di importanza cruciale per poter attribuire valori quantitativi all'interpretazione dei processi petrologici basata su osservazioni sul campo. Le nuove tecniche analitiche a raggi e l'alta risoluzione dei microscopi elettronici a scansione si sono rivelate essenziali per la petrologia sperimentale, poiché molti esperimenti sugli equilibri di fase sono condotti su campioni molto piccoli, dell'ordine dei micron. La geochimica, il cui oggetto di studio è rappresentato in larga misura dalle analisi sistematiche di isotopi stabili e radioattivi, di elementi in traccia e, in particolare, degli elementi delle terre rare, è parte integrante della petrologia.
Il trattamento termodinamico degli equilibri di fase e delle reazioni delle rocce è progredito parallelamente all'acquisizione di dati termochimici e sugli equilibri di fase. Si sono andati perfezionando i calorimetri per misurare le capacità termiche dei minerali. I diagrammi profondità-temperatura per localizzare le facies metamorfiche erano basati, inizialmente, su osservazioni relative alle associazioni tra minerali riscontrabili in natura; a partire dagli anni cinquanta, invece, i limiti di fase per le reazioni tra le diverse facies sono stati ricavati attraverso studi sperimentali condotti in laboratorio e mediante modelli termodinamici elaborati utilizzando i nuovi dati termochimici e i calcolatori veloci. Analogamente si stanno facendo notevoli passi avanti nel calcolo dei percorsi di cristallizzazione di liquidi silicatici complessi sulla base dei dati termodinamici. L'applicazione di questi metodi ai sistemi magmatici è limitata dalla mancanza di alcuni dati, quali, ad esempio, quelli relativi alle attività di H2O e di CO2 in liquidi silicatici ad alte pressioni. L'uso dei calcolatori ha rivoluzionato la petrologia, ma bisogna pur sempre inserire nei calcolatori dati attendibili per ottenere buoni risultati.
I risultati degli studi sugli equilibri di fase, siano essi ottenuti sperimentalmente o sulla base di calcoli, rappresentano le condizioni di equilibrio per le reazioni, condizioni che non necessariamente si verificano nei processi petrologici. Quando una roccia omogenea si separa in due o più fasi, o attraverso una reazione di dissociazione con formazione di vapore, o per fusione parziale con formazione di magma interstiziale, quello che avviene dipende dalle proprietà di tutti i componenti. La possibilità che una fase fluida rimanga o meno intrappolata nella roccia, o che migri per percolazione lungo i margini tra i granuli o attraverso fratture dovute a processi di idrofratturazione, dipende sia dalle proprietà del solido sia da quelle del fluido.
I primi tentativi sporadici di misurare le proprietà fisiche dei liquidi e dei vapori silicatici ad alte pressioni e ad alte temperature sono divenuti più sistematici con il miglioramento delle apparecchiature avvenuto negli ultimi vent'anni. È risaputo da tempo che la lava riolitica è molto più viscosa della lava basaltica e che la viscosità diminuisce all'aumentare dell'acqua in soluzione. Le variazioni della viscosità e della densità dei liquidi magmatici sono state ora misurate in esperimenti statici ad alte pressioni. Esperimenti di compressione condotti con onde d'urto su basalti e komatiiti allo stato fuso tra 5 e 36 GPa indicano che a 13-14 GPa le densità di questi liquidi sono all'incirca uguali a quella del mantello terrestre alla stessa pressione, il che significa che i fusi formatisi nel mantello a profondità di 400 km o più non possono risalire in superficie. Questo fatto potrebbe avere conseguenze significative per la sistematica degli elementi in traccia presenti nel mantello superiore e nelle lave eruttate.
Il destino del fluido interstiziale presente in una roccia è influenzato non solo dalla viscosità del fluido, ma anche dall'angolo diedro compreso tra i minerali e il fluido. Se l'angolo tra il fluido e il minerale è inferiore a 60°, allora il fluido può percolare attraverso tubuli tra i granuli; se, invece, l'angolo è maggiore, allora il fluido rimane intrappolato sotto forma di piccole gocce lungo i margini dei granuli. Recentemente sono stati misurati angoli diedri tra svariati fluidi e minerali, ad alte pressioni e ad alte temperature. I risultati confermano che un magma basaltico o ricco in carbonati può percolare attraverso una matrice di olivina, ma non tutti i tipi di soluzione possono migrare liberamente attraverso tutte le rocce metamorfiche. Le condizioni per la migrazione del magma da una regione parzialmente fusa del mantello superiore o situata alla base della crosta sono critiche per i processi di segregazione e separazione del fuso prima dell'eruzione. Questi processi sono stati anche sottoposti ad analisi teorica basata sulla dinamica dei fluidi: i risultati indicano che le condizioni sono molto più complesse di quanto si ritenesse comunemente; infatti, la parziale o completa separazione di un fuso o di un vapore da una roccia cambia la distribuzione della densità, che, a sua volta, può influenzare la dinamica del sistema. Una migliore comprensione del processo potrà venire da uno studio combinato di dinamica dei fluidi, petrologia sperimentale e geochimica degli elementi in traccia nelle lave eruttate e nelle rocce incassanti residuali rimaste dopo l'eruzione.
Le velocità di diffusione sono fattori importanti in molti processi petrologici. Esiste una vasta letteratura nel campo delle scienze dei materiali sul ruolo della diffusione nella crescita dei cristalli, ma solo negli ultimi vent'anni sono state effettuate delle misurazioni su materiali di interesse petrologico. Le diffusività sono misurate determinando le reali distanze di trasporto e gli effettivi gradienti di concentrazione attraverso i limiti di separazione tra due solidi o tra solido e liquido o tra due liquidi, a contatto. Sono stati effettuati esperimenti a 1 atmosfera e in apparecchiature ad alte pressioni, anche con aggiunta di acqua e altri componenti volatili. Lo studio della diffusione nei fusi silicatici è stato reso possibile dall'uso della microsonda elettronica, e a partire dagli anni settanta sono stati effettuati esperimenti sempre più complessi.
Le nuove tecnologie recentemente adottate dai geochimici, che le hanno mutuate dalla scienza delle superfici sviluppata nell'ambito della chimica e della fisica applicata, stanno portando a scoperte fondamentali sul modo in cui l'idrosfera interagisce con le rocce di superficie durante la loro alterazione, lo sviluppo dei suoli, l'attività biologica e la formazione di alcuni depositi minerari o petroliferi; tali interazioni avvengono all'interfaccia tra i minerali e l'acqua. Per molti anni sono stati effettuati studi geochimici sull'interfaccia minerale/acqua, ma solo con l'avvento delle nuove tecnologie nell'ultimo decennio è stato possibile lo studio a livello molecolare delle superfici dei minerali e delle reazioni che vi avvengono. Tali superfici costituiscono il confine critico tra i cicli geochimici esterni, relativamente veloci, e i cicli geochimici interni, relativamente lenti.
9. Teorie sulla petrogenesi di alcune rocce ignee
La crosta continentale (v. fig. 2) è costituita prevalentemente da rocce ignee, che rientrano sostanzialmente in due gruppi: al primo appartengono le lave basaltiche e le intrusioni gabbroidi (meno diffuse); al secondo le intrusioni granitoidi (granito, granodiorite, tonalite) e alcune lave di composizione simile. Entro questi due gruppi, che contengono, in piccole percentuali, molti altri tipi di rocce, si registrano notevoli variazioni di composizione chimica e mineralogica. Alla metà del secolo scorso, molte delle teorie sui principali processi responsabili della diversità delle rocce ignee erano già state formulate, da quella che ipotizzava la modificazione di un unico magma originario, per esempio attraverso l'assimilazione di crosta silicatica in un livello profondo da parte di un magma basaltico di tipo universale, a quella della miscelazione (mixing) di due tipi estremi di magma (basico e acido) con formazione di tipi ibridi intermedi. Era stato anche proposto che la liquazione (immiscibilità tra liquidi) potesse essere responsabile della differenziazione della crosta terrestre in uno strato acido al di sopra di uno strato basico.
a) Basalti
L'idea che esistesse uno strato basico fonte di tutte le lave basaltiche fu sostenuta fin oltre l'inizio del XX secolo. Fino agli anni cinquanta, comunque, si prestò poca attenzione all'origine dei basalti, e i modelli proposti erano considerati mere congetture. Si pensava che i diversi tipi di basalti fossero stati prodotti nei primi stadi della storia della Terra e che fossero rimasti immagazzinati negli strati crostali o in strati più profondi. Molti petrologi condividevano l'ipotesi, formulata da R. Daly nel 1903, dell'esistenza di un substrato globale costituito da uno strato di basalto vetroso situato al di sotto della litosfera, finché lo stesso Daly, nel 1933, la abbandonò sostenendo invece che alla base della crosta vi fosse uno strato di basalto cristallino. Ancora nel 1962, comunque, T. Barth, in un suo libro, riprese l'ipotesi dell'esistenza di un substrato di basalto vetroso globale a una profondità compresa tra i 50 e i 70 km; tale substrato, che non si conciliava con l'evidenza sismica dell'assenza di uno strato fuso nel mantello superiore, avrebbe dovuto possedere le proprietà di un materiale altamente viscoso a causa dell'alta pressione.
L'ipotesi dell'esistenza di uno strato vetroso rigido situato in profondità fu respinta da N. L. Bowen (v., 1928) nel suo classico trattato, peraltro dedicato principalmente all'evoluzione e alla diversità delle rocce ignee; egli mise in discussione la possibilità che il magma basaltico potesse essere il prodotto della rifusione di uno strato basaltico cristallino, attraverso qualsivoglia processo, e considerò invece la possibilità che al di sotto della crosta, in analogia con le meteoriti, esistesse uno strato di composizione simile a quella della peridotite, concludendo che il meccanismo di produzione di magma basaltico più probabile fosse la fusione selettiva di una peridotite cristallina, a profondità fino a 75-100 km, per effetto di una diminuzione della pressione o per riscaldamento. Questa ipotesi non fu sviluppata ulteriormente e venne ignorata dai petrologi per i successivi venticinque anni. Alla fine degli anni cinquanta, invece, essa era ormai largamente accettata per svariati motivi: 1) un rinnovato interesse nei confronti dei modelli cosmochimici di composizione e di evoluzione della Terra; 2) il riconoscimento delle implicazioni petrologiche dei vincoli geofisici sulla composizione e sulla mineralogia del mantello; 3) infine, era stato ormai confermato che i noduli ultramafici contenuti nei basalti e nelle kimberliti, identificati come rocce del mantello, sono veramente diffusi in tutto il globo. I lavori di petrologia sperimentale ad alte pressioni che seguirono durante gli anni sessanta stabilirono che le relazioni tra il basalto e la peridotite sono fondamentali nella petrogenesi.
Alla fine del secolo scorso, i risultati della petrografia microscopica e della chimica fisica cominciarono a fornire dati più sicuri a sostegno delle teorie petrogenetiche, e già agli inizi del Novecento furono sviluppate diverse variazioni sul tema delle associazioni di rocce caratterizzate da aspetti chimici e mineralogici specifici, che si ritrovavano in particolari regioni geografiche, come le serie atlantiche, pacifiche e mediterranee. Tra i concetti impiegati vi erano quelli di ‛provincia petrografica' e di ‛affinità tra le rocce'. Bowen, a partire dal 1915 circa, fu il sostenitore più acceso della tesi secondo cui tutti i magmi di tali associazioni dovevano derivare dal basalto per cristallizzazione e differenziazione. La sua teoria era basata sulle curve di variazione sequenziale di composizione del liquido, determinate dai diagrammi di fase, e sul fatto che le composizioni delle rocce legate a uno stesso ciclo igneo tendono a raggrupparsi intorno a tali curve per tutte le composizioni meno basiche del basalto. Egli ammetteva, comunque, la possibilità che esistessero altri processi e osservò che i graniti derivati per cristallizzazione frazionata dai basalti potevano successivamente rifondere (per seppellimento a grande profondità) producendo in tal modo nuovo magma granitico.
La situazione divenne più complessa dopo la scoperta di due tipi di basalto, quello subalcalino e quello alcalino, che condusse alla formulazione dei concetti di ‛tipi magmatici' e ‛serie magmatiche', sviluppati negli anni venti e trenta. W. Q. Kennedy nel 1933 presentò uno schema petrogenetico globale che prevedeva l'esistenza di uno strato di basalto olivinico cristallino, che produce la lava olivin-basaltica (alcalina) nei continenti e negli oceani, e uno strato continentale più superficiale, costituito da basalto toleitico, che produce lave toleitiche (subalcaline) solo sui continenti. Questi due tipi erano considerati magmi primari indipendenti che si differenziavano in serie magmatiche distinte. Kennedy formalizzò anche i diffusi concetti di associazioni ‛vulcaniche' e ‛plutoniche': le associazioni vulcaniche si sarebbero sviluppate per differenziazione di basalti primari e comprenderebbero tutte le rocce intrusive connesse; le associazioni plutoniche, ristrette alle fasce orogeniche, comprenderebbero le rocce granitiche intrusive prodotte per fusione di materiale sialico nella crosta continentale al di sopra dello strato basaltico. Nel 1970 fu proposta una ‛associazione diatremica' per le rocce, come le kimberliti, che venivano considerate iniettate per fluidificazione gassosa.
La descrizione e la definizione di questi due tipi di magmi basaltici e dell'ambiente tettonico della loro formazione generò una gran confusione finché C. E. Tilley, nel 1950, non comprese che la chiave della loro distinzione non era la presenza o l'assenza di olivina, ma il grado di saturazione in silice del magma. Egli notò che molti basalti olivinici del bacino dell'Oceano Pacifico possedevano le caratteristiche chimiche delle toleiti e che l'olivina reagiva con il liquido durante la cristallizzazione, con produzione di pigeonite o iperstene. Questa reazione era stata ben caratterizzata negli studi sugli equilibri di fase effettuati da Bowen e dai suoi colleghi del Geophysical Laboratory. Tilley prospettò anche la possibilità che esistesse un terzo tipo di magma primario, un basalto ricco di Al2O3, in associazione con quelle rocce che egli definì ‛andesiti voluminose' degli orogeni. In questo modo contribuì a fare un po' d'ordine nell'intricata questione dei basalti primari e delle serie magmatiche.
Nei due decenni successivi vi furono notevoli sviluppi. In primo luogo, a partire dal 1954, si comprese il significato del rapporto esistente tra la peridotite e il basalto e, successivamente, con l'avvento di nuove apparecchiature e di raffinate tecniche analitiche - tra cui le analisi delle rocce, le analisi in microsonda delle associazioni mineralogiche, le analisi degli elementi in traccia e le misurazioni degli isotopi - si rese disponibile una grande quantità di dati di alta qualità. Nel corso degli anni sessanta il riconoscimento di nuovi tipi di equilibri di fase ad alte pressioni nelle peridotiti e nei basalti fu accompagnato da speculazioni sugli schemi petrogenetici che coinvolgono il mantello; la dimostrazione, avvenuta nel 1968, che i processi magmatici sono intimamente connessi con i processi della tettonica delle placche rivoluzionò il quadro di riferimento concettuale. I nuovi modelli petrogenetici furono ispirati e messi alla prova da studi intensivi sulle rocce basaltiche compiuti nell'ambito di due importanti (e ben finanziati) programmi di studio: quello riguardante i campioni basaltici della Luna, attuato a partire dal 1969, e quello relativo ai basalti della crosta oceanica ricavati dai carotaggi in mare profondo, realizzato a partire dal 1968. Durante gli anni settanta furono posti vincoli importanti ai modelli di genesi del basalto, dovuti agli importanti risultati ottenuti negli studi sugli elementi in traccia e sugli isotopi.
Gli esperimenti sugli equilibri di fase condotti ad alte pressioni fornirono una curva di solidus per la fase iniziale della fusione della peridotite (v. fig. 5) e informazioni sul cambiamento della composizione del liquido in funzione della pressione e della temperatura al di sopra della curva di solidus. Si appurò che i fusi parziali si arricchivano in magnesio all'aumentare della profondità e si dimostrò che la cristallizzazione frazionata del basalto in profondità produce basalti alcalini a olivina, mentre un magma primario che risale a livelli più superficiali si fraziona solo in toleite e nei prodotti normalmente a essa associati. Le composizioni dei liquidi ottenuti dalla peridotite ad alte pressioni non corrispondevano a nessuna delle lave considerate primarie, il che significava che i magmi avevano subito un frazionamento continuo o discontinuo lungo il loro cammino verso la superficie.
Una breve rassegna delle diverse interpretazioni dei basalti delle dorsali medio-oceaniche (MORB) fornirà un esempio di come si evolvano le teorie petrogenetiche. Nel 1965 si scoprì che i MORB erano toleiti con una composizione chimica tipica e costante. Tale composizione, caratterizzata da un basso contenuto di potassio e di altri elementi minori o in traccia, fu successivamente definita ‛geochimicamente impoverita', e si concluse che tali basalti derivavano da una peridotite del mantello che aveva già subito in precedenza fenomeni di fusione parziale. I basalti delle dorsali medio-oceaniche sono stati considerati tra i migliori esempi di magmi primari, mentre sulla loro profondità di formazione si è acceso un dibattito protrattosi per oltre vent'anni.
I punti essenziali del problema sono riassunti nella fig. 5. Le condizioni per l'inizio della fusione di un mantello peridotitico sono date dalla curva di solidus, determinata per via sperimentale per la prima volta alla fine degli anni sessanta e ottenuta nel 1986 per pressioni molto alte. Si notino le flessioni sulla linea di solidus in corrispondenza dei due limiti di fase che separano, rispettivamente, il campo della peridotite a plagioclasio da quello della peridotite a spinello e questo da quello della peridotite a granato. Il modello considera una risalita diapirica del mantello, una sua fusione in condizioni adiabatiche (per decompressione) non appena la peridotite attraversa il solidus, una segregazione di magma primario e, infine, un'eruzione di questo in varie frazioni distinte. Consideriamo ora due geoterme, una che attraversa il solidus nel campo della peridotite a granato e un'altra che lo attraversa a una profondità minore, vicino al limite di fase tra peridotite a plagioclasio e peridotite a spinello. Esse rappresentano due ipotesi contrastanti: 1) i magmi primari picritici (magnesiaci) formatisi a pressioni di circa 1,5-3 GPa subiscono un forte frazionamento dell'olivina durante la risalita o in una camera magmatica a bassa profondità, generando lave aventi la composizione di un MORB primitivo; 2) i MORB primitivi si generano o si segregano dalla loro sorgente nel mantello a una pressione piuttosto bassa, vicina a 1 GPa, e la flessione sulla curva del solidus che separa la peridotite a plagioclasio dalla peridotite a spinello si riferirebbe alla profondità di formazione e alla composizione dei magmi.
Le prove petrografiche e geochimiche dell'esistenza di un'estesa miscelazione di magmi nei MORB dimostrarono che i processi non sono così semplici. I modelli di fusione del mantello si sono evoluti trasformandosi da semplici modelli di fusione discontinua, ma statica, in modelli dinamici, i quali tengono conto dell'esistenza di fusi a basso grado di frazionamento che si formano in diversi intervalli di pressione e temperatura e che si separano progressivamente dalla peridotite durante la risalita diapirica e la fusione per decompressione. I fusi che si formano lungo differenti correnti di risalita attraverso il mantello hanno composizioni differenti, ma possono successivamente aggregarsi a profondità minori dando origine a camere magmatiche uniformi. L'aggregazione di tali magmi avviene a varie profondità sia durante il processo di produzione sia durante quello di modificazione del fuso. Le camere magmatiche possono essere periodicamente riempite e svuotate e andar soggette a un processo continuo di frazionamento. Questi modelli sono stati verificati sia mediante nuovi esperimenti nel corso degli anni novanta, sia mediante la parametrizzazione della composizione dei liquidi in un certo intervallo di pressioni e temperature e anche mediante il calcolo delle traiettorie della fusione frazionata. I modelli teorici di questi processi dinamici rappresentano progressi significativi rispetto alle teorie precedenti.
b) Graniti
Nella crosta le rocce intrusive granitiche sono abbondanti all'incirca quanto i basalti (v. fig. 2A), ma si nota una generale mancanza di rocce ignee con contenuti intermedi di SiO2, che si riflette anche sulle singole serie magmatiche specifiche. La maggior parte delle congetture sull'origine e sull'evoluzione dei graniti è stata formulata prima della fine del secolo scorso; tra queste ricordiamo l'ipotesi che un magma basaltico originario possa subire una liquazione (immiscibilità tra liquidi con separazione del magma granitico dal magma basico), quella che ci sia stata assimilazione di quarzo o di rocce silicee e quella che sia avvenuta una ricristallizzazione/differenziazione forse potenziata dall'assimilazione di crosta silicea. Altre ipotesi chiamano in causa il metamorfismo o il metasomatismo di rocce preesistenti.
Negli anni trenta le due teorie dominanti erano quella secondo la quale gran parte dei magmi granitici derivasse dai basalti attraverso cristallizzazione frazionata, formulata da Bowen, e quella che essi si formassero per fusione parziale (o anatessi) di crosta continentale, concepita da J. Sederholm in seguito agli studi che aveva condotto, a partire dal 1893, su gneiss, migmatiti e graniti della Finlandia. Gli argomenti a sfavore della teoria della cristallizzazione frazionata erano che il processo avrebbe prodotto solo piccole quantità di magma granitico, che invece è presente in gran quantità nella crosta, e la scarsezza di rocce con composizioni intermedie in associazioni di rocce basiche-acide. Per contrastare questi argomenti si ricorse a ipotesi di differenziazione-assimilazione.
Dagli anni trenta agli anni cinquanta vi fu una rinascita dell'interpretazione dei graniti come rocce metamorfiche, un'idea che aveva già incontrato il favore dei petrologi francesi dell'Ottocento, ma che era stata generalmente respinta e in gran parte dimenticata per mezzo secolo. Coloro che sostenevano la teoria di un processo di granitizzazione giunsero alla conclusione che potessero formarsi grandi batoliti attraverso processi di metasomatismo allo stato solido di rocce preesistenti. I componenti necessari si sarebbero aggiunti (per esempio gli alcali) o sottratti (per esempio Mg e Fe) alla roccia originaria o per diffusione di ioni attraverso i reticoli cristallini (la gravità veniva considerata da alcuni la forza motrice del processo) o per flusso di fluidi negli interstizi tra i cristalli (pori della roccia). Il dibattito fra ‛trasformazionisti' e ‛magmatisti' infuriò assumendo anche toni aspri, e portò a interpretazioni stravaganti basate su concetti quali quelli di ‛fronte basico' e di ‛corteo basico', utilizzati per indicare le rocce che subivano una trasformazione o una granitizzazione.
Questo acceso dibattito si smorzò in pochi anni, dopo che Tuttle e Bowen (v., 1958) riuscirono a determinare le condizioni di fusione dei graniti in presenza di vapor d'acqua sotto pressione. Fu provato che, alle temperature raggiunte durante il metamorfismo, la maggior parte delle rocce crostali deve cominciare a fondere se è presente un fluido acquoso nei pori. Dal momento che la presenza di un fluido nei pori della roccia era postulata dalla maggior parte dei ‛granitizzatori' per spiegare la granitizzazione, divenne impossibile negare la formazione del magma granitico. La calibrazione sperimentale dell'anatessi consolidò anche l'idea che gran parte dei grandi plutoni granitici si fossero formati per fusione crostale come conseguenza normale del metamorfismo progressivo regionale. Il metasomatismo fa parte dei complessi processi coinvolti nella formazione e nella consolidazione dei graniti, ed è causato dal movimento di soluzioni che migrano nei pori prima dell'anatessi, quando vapori acquosi vengono rilasciati dai corpi granitici in via di cristallizzazione. Il processo complessivo dura a lungo; a differenti profondità persistono differenti relazioni tra metasomatismo, formazione delle migmatiti, risalita e separazione del magma e intrusione di rocce plutoniche in camere magmatiche più superficiali, al di sotto delle caldere da cui vengono eruttate ossidiane e rioliti. Il ‛problema dello spazio' (come possano enormi masse di granito risalire attraverso la crosta) fu affrontato attraverso modelli di idrodinamica cinematica ed esperimenti con modelli in scala. L'ipotesi che esistano grandi bolle di magma che risalgono attraverso la crosta, seguite da scie di migmatite, trovò un riscontro negli studi sul campo, così come le interpretazioni che ipotizzavano la formazione di grandi e spesse bancate di magma granitico. Attualmente la dinamica dei fluidi è un settore molto attivo dello studio della petrogenesi dei graniti.
La rivoluzione concettuale determinata nel 1968 dalla tettonica delle placche, che introduceva una ulteriore fonte di materiale (la crosta oceanica subdotta) al di sotto di molti grandi batoliti, ravvivò l'intero problema dell'origine delle andesiti e delle rocce granitiche. Nello stesso tempo anche la geochimica degli isotopi e quella degli elementi in traccia cominciarono a fornire nuovi mezzi interpretativi, e si iniziò a focalizzare l'attenzione sulle sorgenti dei magmi granitici e sul calore necessario per generarli. Studi recenti hanno permesso di cominciare a capire la natura delle rocce provenienti da sorgenti profonde - interpretandole come appartenenti ad ambienti di un'antica tettonica delle placche (per esempio crosta oceanica o protolito sedimentario o crosta continentale) - e la misura in cui i magmi derivati dal mantello parteciparono al processo. I risultati degli studi geochimici sugli elementi in traccia e sugli isotopi indicano che molti batoliti contengono componenti provenienti da diverse sorgenti. La geobarometria sta fornendo dati per definire le profondità di solidificazione dei magmi. Dettagliate determinazioni dell'età di singoli plutoni appartenenti a un unico batolite composito consentono di delineare le storie dei processi di formazione delle catene montuose.
Gli studi sperimentali degli anni settanta hanno cominciato a esplorare le condizioni di fusione e cristallizzazione di magmi granitici sottosaturi in H2O, condizioni raggiunte sia usando bassi contenuti di H2O in partenza, sia riducendo l'attività dell'H2O con una fase vapore mista H2O-CO2. Alla fine degli anni ottanta e negli anni novanta si è prestata maggiore attenzione alla fusione in condizioni di disidratazione, cioè alla fusione parziale di rocce metamorfiche contenenti mica e orneblenda, ma prive di fluidi nei loro pori. La fusione inizia quando i minerali idrati si dissociano rilasciando H2O che va in soluzione direttamente nel magma sottosaturo in H2O.
10. Teorie sulla petrogenesi delle rocce metamorfiche
Lo sviluppo della petrologia metamorfica è strettamente correlato all'impiego della chimica fisica e della termodinamica per interpretare le associazioni tra minerali in termini di condizioni di formazione. Il fatto che le rocce vicine alle intrusioni ignee possano essere modificate dal calore del magma fu riconosciuto verso la metà dell'Ottocento, e tale effetto fu chiamato ‛metamorfismo di contatto': le rocce riscaldate ricristallizzano e si ha in tal modo crescita di nuovi minerali. L'idea dell'esistenza di un ‛metamorfismo regionale' progressivo è invece attribuita a G. Barrow che, nel 1893, indicò come sorgenti di calore le intrusioni magmatiche su scala regionale, come l'esistenza di enormi batoliti granitici nelle regioni della Scozia da lui studiate poteva far prevedere. Egli introdusse il concetto di ‛zona metamorfica': l'inizio di ciascuna zona è segnato dalla prima comparsa di uno specifico minerale indicatore (zona della biotite, zona del granato, ecc.). Più tardi, nel 1912, Barrow suggerì anche che tali zone fossero delimitate da isoterme. Il concetto di profondità delle zone (epi-, meso- e catazona, per profondità crescenti) fu introdotto nel 1903 da F. Becke e nel 1904 da U. Grubenmann, i quali posero l'accento sui cambiamenti mineralogici che avvengono in funzione della profondità di ricristallizzazione (e gli aumenti di temperatura associati). Tilley chiamò ‛isograde' (linee di uguale grado metamorfico) le linee cartografate per l'inizio di ciascuna zona metamorfica contrassegnata dai minerali indicatori di Barrow, sottolineando che tali linee rappresentavano una reazione avvenuta in un intervallo limitato di pressioni e temperature.
Furono Goldschmidt ed Eskola a gettare le basi della moderna petrologia delle rocce metamorfiche. Nel 1911 Goldschmidt scoprì che, in una serie di sedimenti diversi metamorfosati da intrusioni ignee vicino a Oslo, le associazioni mineralogiche sviluppatesi per effetto del metamorfismo di contatto erano semplici e coerenti e presentavano una correlazione costante tra composizione chimica e costituzione mineralogica. Egli trovò che le relazioni tra i minerali obbedivano alla regola delle fasi, il che significava non solo che le rocce ricristallizzate avevano raggiunto un equilibrio, ma indicava anche la possibilità che le rocce metamorfiche in generale potessero essere trattate teoricamente sulla base della regola delle fasi. Nel 1915 e nel 1920 Eskola osservò analoghe correlazioni tra composizione chimica e costituzione mineralogica in sedimenti metamorfosati per contatto associati a rocce granitiche in Finlandia, ma notò che rocce di composizione simile erano state metamorfosate nelle due diverse regioni dando luogo ad associazioni mineralogiche diverse. Egli attribuì queste differenze mineralogiche a differenze nelle condizioni fisiche di formazione (per esempio temperature simili, ma profondità diverse), e ciò lo portò a formulare il concetto di facies metamorfica, secondo il quale rocce di una data composizione, se metamorfosate alla stessa profondità e alla stessa temperatura, ricristallizzano nella stessa associazione di minerali. La mineralogia di una roccia metamorfica risulta così funzione diretta della profondità e della temperatura di formazione, e ciò fornisce una base genetica per la classificazione delle rocce. Il concetto di facies metamorfica, perfezionato sulla base di studi petrografici dettagliati, fu poi ulteriormente raffinato, ma anche reso più complicato, con la definizione di facies aggiuntive e di molte subfacies, e infine ricondotto di nuovo allo schema relativamente semplice suggerito da Eskola.
Gran parte del metamorfismo fu considerato isochimico, con piccoli cambiamenti nella composizione, finché i ‛granitizzatori' non svilupparono l'idea che enormi masse di granito si fossero formate attraverso il metasomatismo e la trasformazione di grandi volumi di crosta. Attualmente sono pochi i sostenitori della teoria della granitizzazione, ma vi è un crescente interesse per il ruolo della migrazione dei fluidi durante il metamorfismo. Nelle applicazioni della regola mineralogica delle fasi alle facies e alle associazioni metamorfiche, generalmente si considerava l'H2O come un componente presente ‛in eccesso' e rappresentato da una fase, una traccia lasciata dal fluido intrappolato nei pori. H. S. Yoder, nel 1955, sviluppò il concetto di ‛carenza' d'acqua e chiarì le condizioni perché si abbiano reazioni in assenza di vapore, mostrando che in un sistema chiuso, senza una fase vapore libera, piccole differenze nel contenuto di H2O possono causare un grande cambiamento della mineralogia. Nel 1936 D. S. Korzhinskii effettuò uno studio termodinamico sulle associazioni mineralogiche delle rocce metasomatiche, che lo indusse a riformulare la ‛regola mineralogica delle fasi' in modo da prendere in considerazione due tipi di componenti: quelli inerti, che rimangono fissi all'interno del sistema roccioso, e quelli del tutto mobili, i cui potenziali chimici all'interno del sistema sono controllati dalle condizioni esterne. Le condizioni esterne sono quelle imposte dalla disponibilità di soluzioni che permeano le rocce su scala molto più grande di quella del sistema roccioso considerato. Questa estensione della regola delle fasi a sistemi aperti metasomatici e, più tardi, magmatici fu accettata da una scuola molto attiva di petrologi russi che spiegarono la formazione di molte rocce metamorfiche e ignee con l'azione di soluzioni di varia composizione.
Le soluzioni presenti nella crosta più superficiale derivano in gran parte dalla compressione di sedimenti accumulati, mentre quelle della crosta più profonda sono costituite da fluidi espulsi dai minerali durante il metamorfismo e la dissociazione termica. Durante la subduzione, dalla crosta oceanica vengono rilasciate grandi quantità di H2O e CO2 che possono migrare verso l'alto nella crosta continentale soprastante o venire disciolte nei magmi che le trasportano dentro e attraverso la crosta. Nel corso degli ultimi vent'anni gli studi isotopici sull'ossigeno e sull'idrogeno di rocce crostali hanno mostrato l'esistenza di una diffusa interazione acqua-roccia in diversi ambienti tettonici: in alcuni casi le rocce sono state metasomatizzate con un cambiamento di composizione e di mineralogia, ma in altri casi la sola prova dell'interazione sta nel cambiamento del rapporto isotopico. Sembra che molto spesso i fluidi trovino canali relativamente permeabili per migrare attraverso la crosta. Nella crosta più superficiale è comune riscontrare la presenza di filoncelli riempiti da depositi mineralizzati precipitati da soluzioni, ma ne sono stati descritti anche nelle rocce della crosta profonda in facies eclogitica. È attualmente oggetto di dibattito la questione se le rocce charnockitiche di alta temperatura in facies granulitica siano state prodotte per disidratazione termica di anfiboliti o si siano formate per infiltrazione di CO2 proveniente da magmi del mantello.
L'importanza dei limiti di reazione tra le facies fu messa in evidenza da Bowen. Nel 1940 egli studiò il metamorfismo progressivo di rocce dolomitiche silicee sulla base della petrografia e di deduzioni teoriche su una serie di 13 reazioni di decarbonatazione nel sistema CaO-MgO-SiO2-CO2. Egli suggerì che la disposizione che le reazioni univarianti assumono su di un diagramma pressione-temperatura (P-T), intersecate da altre reazioni relative ad altre rocce (reazioni di disidratazione e solido-solido), poteva fornire una griglia petrogenetica per la calibrazione delle condizioni P-T del metamorfismo. Nei vent'anni successivi al 1950, quando divennero disponibili le apparecchiature sperimentali per la misurazione di tali reazioni, la griglia petrogenetica di Bowen si trasformò da concetto astratto in strumento per la calibrazione delle condizioni del metamorfismo. Nel 1962 la griglia petrogenetica fu ampliata fino a comprendere reazioni che implicavano la presenza nei pori di fasi fluide miste H2O-CO2, con reazioni che avvenivano per cambiamenti della composizione dei fluidi presenti nei pori, indipendentemente dai cambiamenti di pressione e temperatura. Sono ora disponibili dati termodinamici sufficienti per poter effettuare il calcolo delle griglie metamorfiche. Attualmente le predizioni sulle reazioni mineralogiche e sulla composizione dei minerali possono essere basate interamente su dati sperimentali e su dati termodinamici elaborati da appositi programmi di calcolo.
La fig. 8 mostra la posizione delle facies metamorfiche nella crosta continentale, individuata, come si fa di solito oggigiorno, in termini di profondità/pressione e temperatura (P-T). Le facies metamorfiche di Eskola sono state estese fino a comprendere la facies zeolitica, di bassa pressione e bassa temperatura, che segna la transizione tra sedimento e roccia metamorfica. Nel 1984 si è stabilito che alcune rocce continentali seppellite a profondità di 100 km e più costituiscono il fondamento degli scisti argentei di alta pressione (caratterizzati dalla presenza dei minerali talco e cianite) originatisi a spese di rocce pelitiche che si sono equilibrate nella facies eclogitica. Ciascuna facies è delimitata da reazioni mineralogiche legate alle isograde e ai minerali indicatori definiti dagli altri schemi; queste reazioni dividono l'area P-T in una serie di caselle (come le nicchie di una colombaia). Ciascuna casella, corrispondente a una facies, è occupata da una serie di associazioni mineralogiche, corrispondenti alle associazioni in equilibrio che si formerebbero a partire da rocce di una data composizione originaria che cristallizzano nell'intervallo di condizioni P-T definito dalla casella. Gli intervalli precisi di pressione e temperatura sono basati su calibrazioni sperimentali effettuate su associazioni mineralogiche naturali.
A. Miyashiro nel 1960 presentò uno studio sistematico delle sequenze di facies metamorfiche osservate in differenti ambienti geologici. Egli notò, per esempio, che alcune catene montuose erano caratterizzate da ‛cinture metamorfiche accoppiate' di cui una mostrava la nota sequenza di facies che passava dagli scisti verdi alle anfiboliti fino alle granuliti e corrispondeva alle zone metamorfiche di Barrow, mentre l'altra mostrava una sequenza che andava dagli scisti blu, attraverso gli scisti verdi, fino alle anfiboliti e alle eclogiti. Egli, inoltre, identificò delle serie di facies metamorfiche, di bassa, media e alta pressione, ciascuna delle quali corrispondeva a un differente ambiente tettonico e metamorfico. La tettonica delle placche, introdotta nel 1968, fornì una spiegazione illuminante degli ambienti tettonici a cui sono associate queste differenti serie di facies metamorfiche (v. figg. 4 e 6). Da allora molti altri petrologi hanno tracciato traiettorie P-T per le sequenze di rocce, ed è ormai chiaro che non esistono solo tre traiettorie semplici, come aveva indicato Miyashiro, ma molte diverse possibilità che dipendono dalla storia particolare della formazione della catena montuosa.
Il principio delle facies metamorfiche è basato sull'assunto che le rocce metamorfiche abbiano raggiunto un equilibrio mineralogico. Comunque bisogna anche tener presenti i fattori cinetici, nonché il fatto che molte rocce metamorfiche contengono minerali che non hanno reagito o inclusioni minerali intrappolate che conservano tracce degli stadi attraverso cui sono passate, sia durante il metamorfismo progrado (verso il basso) sia durante quello retrogrado, mentre risalivano verso la superficie man mano che avveniva l'erosione delle rocce soprastanti. Recentemente misurazioni effettuate con la microsonda ionica e la sonda laser su profili di crescita concentrica dei minerali e delle loro inclusioni hanno fornito informazioni sull'età e sulla geotermobarometria: da singole rocce metamorfiche sono state così ricavate informazioni sulle traiettorie pressione/profondità-temperatura-tempo (P-T-t). Questi risultati vengono correlati con modelli delle traiettorie P-T-t ottenuti con simulazioni al calcolatore di varie condizioni tettoniche. L'accumulo di questi dati e la loro integrazione con quelli ottenuti dalla geologia strutturale, dalla petrologia e dalla geocronologia stanno fornendo informazioni sui processi e sulle velocità di formazione delle montagne che integrano i risultati relativi ai bacini sedimentari circostanti, utilizzati per stimare le velocità di erosione delle montagne.
11. La petrologia come scienza dei materiali della Terra
La petrologia, che comprende la mineralogia e si riallaccia alla geochimica, resta una delle discipline fondamentali delle scienze della Terra. Essa si occupa dei materiali solidi che costituiscono la vera e propria base delle società umane e che forniscono gran parte delle risorse richieste dalla nostra società industriale. La petrologia sta avanzando rapidamente su tutti i fronti, grazie a una efficace combinazione di osservazioni, misure, calibrazioni sperimentali, teorie e applicazioni di altre discipline, come la fluidodinamica. I processi della Terra agiscono sulle rocce, che sono i materiali solidi che interagiscono con gli involucri fluidi dell'atmosfera e dell'idrosfera in prossimità della superficie terrestre. I vulcani sono il segno esteriore e visibile dei processi termici che avvengono all'interno del mantello terrestre e costituiscono i propulsori dei fenomeni geologici. I magmi ignei sono differenziati chimici delle rocce madri, derivati attraverso processi fisici che producono alte temperature e influenzati in alcuni casi da flussi di componenti volatili generalmente dominati dall'acqua. Le rocce metamorfiche e i loro minerali conservano il ricordo della storia dei cicli tettonici e dell'evoluzione delle catene montuose e dei continenti. Le rocce sedimentarie conservano la prova mineralogica e geochimica della distruzione delle catene montuose e dei cambiamenti ambientali avvenuti nell'acqua e nell'atmosfera nel corso del tempo. I materiali rocciosi sono legati tra loro attraverso grandi cicli geochimici: i lenti cicli interni dominati dalle rocce e i cicli esterni, più veloci, dominati dai fluidi. La biosfera prospera nelle zone di contatto tra questi cicli ed è causa di molte reazioni chimiche che interessano le rocce, il materiale solido della Terra.
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