PETRONIO
. Autore di un racconto, o, se vogliamo adoperare parola moderna, romanzo latino, che nei manoscritti porta il titolo di Satirae o di Satiricon ed è attribuito a un Petronio Arbitro. Pochi capitoli di Tacito (Ann., XVI, 18-20) ci fanno conoscere un Petronio contemporaneo di Nerone, d'ineguale indole e ineguali costumi, che fu operoso proconsole in Bitinia, favorito dell'imperatore e dittatore del gusto a corte (elegantiae arbiter). Accusato per ciò nel 66 dall'invidioso Tigellino d'intese con i congiurati del 65, caduto in disgrazia e guardato a vista, si diede da sé stesso intrepidamente e gaiamente la morte in Cuma, mandando nell'ultima ora a Nerone un elenco di tutte le sue aberrazioni e turpitudini con i nomi dei compagni e compagne di sozzura. L'identificazione dell'autore del Satiricon con questo P. suppone che nel cognomen di Arbitro dato dai manoscritti allo scrittore del romanzo ci stia dinnanzi consolidato, per così dire, l'attributo tacitiano di elegantiae arbiter, ed essenzialmente riposa su due argomenti probabili, se non sicuri: l'atteggiamento e diremmo quasi la configurazione spirituale dell'autore del romanzo, che pare perfettamente conforme a quella del P. di Tacito; l'età alla quale si può meglio far risalire lo scritto, nel quale occorrono allusioni allo sventurato inventore del vetro infrangibile nell'età di Tiberio (Petronio, c. 51; Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 195; Cassio Dione, LVII, 21), al mimo Apelle dell'età di Caligola (Petronio, c. 64; Svetonio, Calig., 33), al citaredo Menecrate dell'età di Nerone (Petronio, c. 73; Svetonio, Nerone, 30). L'opinione, che fu già del Niebuhr, per un'attribuzione al tempo di Alessandro Severo è stata in tempi a noi vicini ripresa, ma senza fortuna. Il racconto o romanzo non è giunto a noi se non in piccola parte: secondo il celebre manoscritto di Traù, frammenti solo dei libri XV e XVI. Ed è un romanzo di avventure, le avventure di tal Encolpio narrate da lui stesso in forma autobiografica con una tecnica non ignota certo né ai viaggiatori veri dell'età imperiale romana (basti citare le sezioni noi degli Atti degli Apostoli), né ai non veri (basti citare la Vera storia di Luciano), ma le cui origini rimontano all'Odissea.
Questo avventuriero, che vive ai margini del codice penale e della letteratura, ci appare al principio dei nostri frammenti, mentre in una città della Magna Grecia, che è detta colonia (Pozzuoli, sembra: altri pensa a Napoli o a Cuma o esclude un'identificazione precisa), declama sulla decadenza dell'eloquenza, imputandola alla scuola dalla quale nulla i giovani apprendono di quel che offre la vita vera; ma vengono trasportati in un mondo fittizio di pirati, di tiranni, di pestilenze scongiurate da sacrifizî umani. La declamazione è interrotta dalla contraria discorsa di un retore di professione, Agamennone, che a sua volta riconosce il male, ma ne vuole far ricadere la colpa sulle esigenze delle famiglie. Mentre Encolpio sta tutt'orecchi a sentire, un suo compagno di avventure e di vizî, Ascilto, scompare. Accortosene, Encolpio lo segue, ché sospetta non senza ragione di lui. E difatti quando ritrovatisi raggiungono insieme l'albergo, ove sono alloggiati con un ragazzotto, Gitone, che è il mignone di Encolpio, quegli racconta fra le lacrime che Ascilto ha tentato di fargli violenza. Bisticcio fra i due rivali, che per il momento si rappattumano e vanno in piazza insieme a vender un bel pallio rubato. Alla mercanzia s'accosta un compratore, un villano, accompagnato da una donna velata: egli vende a sua volta una lacera tunica perduta dai nostri messeri, che avevano cucito nella fodera di quello straccio (e il villano non se n'è accorto) un bel gruzzolo, evidentemente di non pulita provenienza. Riconosciuta la tunica, essi vogliono recuperarla, e ne nasce una zuffa tra le due compagnie che si dànno reciprocamente del ladro, poi, fattasi gente, per timore del peggio, si affrettano a restituirsi vicendevolmente gli oggetti contesi. Encolpio e Ascilto ritornano con la preziosa tunica all'albergo, dove trovano da Gitone preparata la cena. Ma, appena finito di rimpinzarsi, si picchia alla porta, la porta prima ancora di essere aperta cede, ed entra la donna velata di prima, che si rivela per ancella della sacerdotessa di Priapo, Quartilla. E anche Quartilla è lì, accompagnata da una fante settenne. I giovinotti hanno assistito, profani, a un rito priapeo e la sacerdotessa è angosciata dal pensiero che il mistero possa essere svelato. Molto rumore anche questa volta per nulla. Tutto s'accomoda e si va a finire col celebrare una sregolata e spudorata veglia di Priapo.
A questo punto s'inserisce la celebre cena offerta dal liberto Trimalcione ad altra gente della sua risma e, conforme la moda del tempo, agli uomini di lettere, ornamento della mensa, in questo caso Agamennone e, in grazia sua, Encolpio e Ascilto, che si sono fatti accompagnare da Gitone. La cena è pantagruelica; ma l'abbondanza e la ricchezza dell'apparato vi fanno a gara con la sguaiataggine e la presunzione ignorante dei convitati, liberti rifatti come il padrone di casa, che entra nel triclinio, quando gli ospiti sono già intenti all'antipasto, portato a suon di musica e carico di gioielli, e vi seguita il solitario che aveva incominciato. Le pietanze vengono presentate nelle forme più inaspettate. Con il lusso s'accompagna lo spreco. E come di ricchezza, così quel bestione fa pompa di letteratura e di dottrina, poiché possiede due biblioteche, una greca e una latina (c. 48) e professa la massima che a tavola non si deve dimenticare la cultura (c. 39: oportet etiam inter cenandum philologiam nosse). Una discorsa astrologica secondo il gusto del tempo gli è suggerita da una teglia, che viene in tavola ornata dei segni dello zodiaco (c. 39). Invasato di erudita mania, cita Virgilio, dichiara Mopso, scambiato forse per Museo, il sommo dei poeti, istituisce tra Cicerone e Publilio un confronto, che si conclude definendo il primo più eloquente, il secondo più morale (c. 55). Spropositando a tutto spiano, fa sapere di possedere un servizio di bicchieri d'argento, nei quali è effigiata Cassandra (e voleva dire Medea) che sgozza i suoi figli, e un boccale, nel quale si vede Dedalo, scambiato con Epeo, che chiude Niobe dentro il cavallo di legno (c. 52). Commentando un'azione pantomimica che viene rappresentata durante il banchetto, ci dice che Elena era sorella di Diomede e di Ganimede, e Agamennone la rapì sostituendole una cerva. Onde scoppiò la guerra fra Troiani e Parentini, terminata con la vittoria di Agamennone che diede sua figlia Ifigenia in moglie ad Achille, provocando così la pazzia d'Aiace (c. 59). Né la sua geografia è più solida delle sue conoscenze storiche; certo suo buon vinetto che, fa venire l'acquolina in bocca ai convitati, viene da un podere suburbano, che Trimalcione non ha ancora mai visto, ma opina si trovi ai confini di Taranto e Terracina (c. 48).
Per queste e simili corbellerie e per la mala creanza, di cui ha frequente occasione di fare sfoggio il padrone di casa, sino a gettare un bicchiere in faccia alla moglie gelosa (c. 74), i nostri scholastici ne avevano abbastanza di quel pranzo, ma non sapevano in che modo potersi mettere in salvo. Un'ultima trovata di Trimalcione li aiuta, ché costui si getta come morto sulla sponda del letto e fa intonare una marcia funebre; ma la marcia è sonata con tanta forza, che è intesa dai vigili come un appello al soccorso; essi penetrano d'un tratto nella casa per spegnere il supposto incendio. Nel subbuglio i nostri guadagnano l'uscita.
Tornati all'albergo, Ascilto ed Encolpio tornano ad azzuffarsi per il ragazzo; sicché questa volta si dividono. Encolpio s'imbarca con Gitone e con un nuovo personaggio, incontrato nella visita fatta a una pinacoteca in cerca di consolazione per le infedeltà del ragazzo. Il nuovo personaggio è un vecchio e sozzo poetastro, Eumolpo. Partono dunque i tre, ma (vedi caso) il padrone della nave e la sua donna, Trifena, hanno avuto che fare in passato con Encolpio e con Gitone: onde i due malcapitati, ravvisatili, s'adattano a rendersi irrieonoscibili, camuffandosi da schiavi fuggitivi del vecchio. Ma sono scoperti e si hanno a bordo prima baruffe e minacce, poi una rappacificazione, che si riattacca alle memorie dei passati legami. Se non che, quando tutto pare andare per il meglio, ecco una tempesta: la nave va alla deriva, Encolpio, Gitone ed Eumolpo giungono a salvamento su una spiaggia presso Crotone, città dove si vive con quell'industria di far la corte ai vecchi senza figliuoli, che doveva essere abbastanza diffusa, se. ripresa più d'una volta da Cicerone, la ritroviamo satireggiata da Orazio e poi da Giovenale e da Luciano. Informati dell'uso, i tre malandrini ordiscono un geniale complotto. I due giovani tornano a fingersi schiavi di Eumolpo e questi un ricco signore, che, viaggiando per distrarsi della perdita dell'unico figlio, sia stato sorpreso da un naufragio e abbia perduto quanto aveva con sé, ma gli restino ancora in Africa trenta milioni di sesterzî e tanto esercito di servi nei latifondi di Numidia, da poter espugnare Cartagine. Così riescono a passarsela bene in Crotone alle spalle dei gonzi che credono a cotesta finzione; ma Encolpio, richiesto d'amore da una bellissima signora del luogo, di nome Circe, non riesce con suo grande scorno a soddisfarla, nonostante il ricorso ai sortilegi di una vecchia maliarda. Poi il libro o meglio i frammenti nostri terminano da un lato col riacquistato vigore di Encolpio, dall'altro con la beffa suprema di un testamento cannibalesco di Eumolpo, il quale stabilisce che i legati ch'egli lascia in eredità ai suoi sovventori non possano essere riscossi da loro, se essi non taglino a pezzi prima il suo cadavere e non se ne cibino in presenza del popolo. Condizione macabra, che sembra accettata e doveva dunque preludere ad altra fuga e ulteriori avventure.
Questo riassunto si sforza di rendere una pallida idea dell'intreccio principale. Ma il narratore volentieri esce dalla via maestra e divaga per trasversali sentieri. Alla tavola di Trimalcione uno dei convitati, Nicerote, e l'anfitrione narrano l'un dopo l'altro due novelle attinte a credenze ancora oggi vive nel popolino dell'Italia meridionale e centrale, nell'una delle quali troviamo svolto il tema del lupo mannaro, nell'altra è questione di streghe e di malie. Ma, se conforme alla loro educazione e alla loro origine, i due liberti raccontano novelline di sapor popolare, il letterato Eumolpo racconta in due diverse occasioni due lubriche raffinate novelle. Nella prima, della quale egli stesso è l'eroe, il vecchio libertino ci narra la fine arte con la quale egli, guadagnatasi, col sembiante di austera virtù, la fiducia della famiglia, riuscì ad approfittare d'un suo scolaretto; nella seconda ragiona d'una bella vedova, i cui propositi di fedeltà inconsolabile caddero fragili dinnanzi alle seduzioni di un soldato: sì che per amor di lui finì per mettere il morto marito in croce. Non è mancato chi è andato a caccia di simile tema presso gl'Indiani, i Cinesi e gli Ebrei. Ma non importa per P. cercare così lontano. Un racconto analogo si trova nella tredicesima favola dell'Appendice di Fedro, le relazioni della quale con la novella di P. appaiono malcerte. Ora, poiché la scena dell'ironica novella è da P. posta in Efeso e il povero marito vi è detto inumato Graeco more, e d'altra parte in Pergamo è posta la scena dell'alunno sedotto accennata di sopra, il pensiero ricorre alla molle Asia e alla letteratura delle Milesie, che già al tempo della repubblica aveva fatto con Sisenna il suo ingresso in Roma. Petronio, movendo da Sisenna o dal genere di Sisenna, ha creato, a suo modo, nella sua bella infedele, una parodia della virgiliana Didone.
Alla prodigiosa varietà della narrazione corrisponde una non meno prodigiosa varietà di caratteri. Ché in fondo Agamennone, Ascilto, Encolpio, Eumolpo sono tutti hommes de lettres e quelli che parlano uniti nella comune dottrina che l'arte è in decadenza e bisogna tornare all'antico. Ma ciascuno di loro è anche figura diversa dagli altri. Intanto Agamennone è un buon uomo, che esercita l'arte condiscendendo, sia pure per vivere contro le sue convinzioni al gusto del tempo. Gli altri tre hanno in comune la vita extra legem tra l'arte da un lato, la truffa, l'avventura e la pederastia dall'altro. Ma anche tra loro tre per diversi gradi si passa dalla brutalità del primo alla sentimentalità del secondo, al cinismo del terzo. I commensali di Trimalcione sono tutti della stessa risma di lui; ma v'è tuttavia una differenza tra la sua spacconeria di ricco sopravvenuto, che si compiace delle basse origini e il sussiego del sevir in carica Abinna, che si presenta all'ora della commissatio, preceduto dal littore, in bianca veste di gala, parla di sua moglie come domina (c. 66) e da lei è chiamato dominus meus (c. 67). E nella serie dei discorsi che si fanno alla tavola di Trimalcione, mentre egli se n'è allontanato per le occorrenze sue, gli oratori che si seguono, parassiti e liberti come Dama, Seleuco, Filerote, Ganimede, Echione, rivelano ciascuno un atteggiamento e una disposizione dell'animo che non sono quelli di coloro che hanno parlato prima.
La prosa del racconto è variata d'inserzioni poetiche; onde pare che P. abbia modellato il romanzo sulla forma della Menippea. Tra queste inserzioni, due in bocca di Eumolpo hanno richiamato l'attenzione degli studiosi di storia letteraria. Una poesia in senarî, che ha tutta l'aria di un pezzo tragico narrativo sulla presa di Troia, è data come un'improvvisazione del poetastro innanzi a un quadro che ritraeva quel famoso evento (c. 89); un'altra, improvvisazione anche questa o quasi (c. 118: hic impetus... nondun recepit ultimam manum), è un epico racconto, in esametri, della guerra cìvile tra Cesare e Pompeo (cc. 119-124). Il primo era argomento quanto mai in voga, come dim0strano scritti contemporanei, la tragedia Troades di Seneca, i Troica (= Halosis Ilii?) di Nerone, gli Iliaca, nei quali Lucano giovinetto aveva rimaneggiato il contenuto degli ultimi libri dell'Iliade. L'altro argomento è anche quello dell'opera maggiore di Lucano. Siamo dunque nel vilis patulusque orbis della poesia neroniana, e già nella scelta dei temi che P. fece si può scoprire un'intenzione di umorismo che in Eumolpo vuol colpire i letteratucoli contemporanei, ricucinatori e rifrittori di trita materia. Ma più che dalla scelta di questo o di quell'abusato argomento scaturisce il comico riso di P. dalla frenesia, o, per dirla con l'autore, dal morbo poetico (c. 90), dal quale Eumolpo è posseduto. Questo morbo può condurre a pericolose conseguenze: quando Eumolpo ha finito la recitazione della sua Presa di Troia, la gente, che si trovava a passeggiare di là, lo mette in fuga a colpi di pietre.
Una tale caricatura generica dei mestieranti di lettere v'è, senza dubbio, in P. Ma si è voluto andare più in là, e scoprire nei due luoghi in questione parodie della Halosis Ilii di Nerone e del poema di Lucano. Ora, se s'identifica il P. del Satiricon con il P. di Tacito cortigiano di Nerone, la prima parodia va certo esclusa: la seconda invece appare suffragata dall'evidente forzatura nel poemetto di Eumolpo di alcune espressioni di Lucano, che sono sull'orlo del grottesco e così vi cadono in pieno. Ma P. si ride a sua volta del poeta e dei suoi critici: ché il poemetto sulla guerra civile, nel quale lo stile esagerato e ampolloso ricorda quello del Cordovese, è costruito con una tecnica ehe non è quella di lui, sdegnosa della vecchia mitologia. Qui invece, relegata nel fondo la storia, Eumolpo ci offre da prima un colloquio tra Fortuna e il padre Dite; poi la fuga delle miti divinità di Pax, di Fides e di Concordia dalla terra, l'irrompervi dall'Erebo di Erinys, Bellona, Megaera, Letum, Insidiae e lurida Mortis imago; infine un'omerica discesa dei celesti a parteggiare per l'uno o l'altro dei due contendenti, un discorso incendiario di Discordia.
L'opera di P., per adoperare una formula che tornerebbe gradita a uno dei suoi grandi ammiratori, è stata concepita di là dal bene e dal male: sicché il titolo di Satirae o di Satiricon va inteso non nel senso di una preoccupazione morale o didattica, quanto in quello etimologico di miscellanea, quale fu il carattere della satura antica e della menippea, trattata anche da Seneca. L'impero vedeva dal sottostrato sociale della schiavitù salire ormai alla superficie, a contendere con le classi dirigenti, una folla di sopravvenuti e di liberti, dinnanzi alla quale i superstiti dell'aristocrazia del sangue che veniva spegnendosi, e gli oriundi delle famiglie equestri, nelle quali era tradizione servire lo stato, erano costretti a cedere il passo, con sì diverso livello d'educazione, d'animo e di cultura. Onde si spiega il disgusto e il disdegno che è l'intima forza della satira di Giovenale. Ma P., forse perché ricchezza di averi o privilegio epicureo di natura lo mettevano fuori dalla concorrenza, non s'indigna a quello spettacolo: bensì si diverte a ritrarre le pacchianerie di coloro che, provenienti dalla servitù, come dimostrano i loro nomi greci o addirittura orientali (il nome di Abinna ha riscontro in Egitto e in Asia, Trimalchio è un composto di tri- e del semitico malk) e sposatisi in Italia con donne indigene (Fortunata, Scintilla) del populus minutus o addirittura di malaffare, giuocano adesso al romano, disprezzatore del graeculus e del circonciso (c. 68) e al gran signore. In rispondenza a questa società di pseudosignori, sta la bohème degli pseudoletterati, che campa d'imbroglio, prototipo il disgraziato Eumolpo, il quale fa precedere quel suo aborto di poema sulla guerra civile da un ampolloso preambolo, dove a modelli di vera e grande poesia cita Omero e i lirici greci, poi tra i romani Virgilio e la Horatii curiosa felicitas, "perché tutti gli altri o non videro la via che mena alla poesia o vista non osarono di calcarla". Cosicché il senso sarebbe che egli è l'emulo e l'erede di quei grandi: ironia che si rivela già nel nome impostogli di colui che il Marmor Parium fa figliuolo e editore di Museo. La stessa comica sproporzione di giudizio si ravvisa in Encolpio che, venutegli meno completamente le forze in un'avventura amorosa, trova un conforto alla sua sciagura facendola risalire a una persecuzione da parte di Priapo, analoga a quelle onde Ercole fu perseguitato da Giunone o Ulisse da Nettuno (c. 139).
L'abitudine invalsa nella critica letteraria di ricercare le fonti e nella critica della letteratura latina di rintracciarle presso i Greci, ritenuti soli capaci di libera invenzione, non ha risparmiato P. Poiché la sua fonte non si poteva trovarla nei romanzi greci, giunti a noi, che sono romanzi d'amore, mentre in P. non si potrebbe davvero dire che l'amor pathicus di Encolpio e di Gitone sia il centro dell'azione, si è supposta l'esistenza di un romanzo greco satirico del sec. II-I a. C. dipendente da Menippo. Altri si è contentato di trovare una fonte della cena di Trimalcione in uno scritto perduto di Menippo, del quale da Ateneo (XIV, 629f) ci è stato tramandato il titolo, Συμπόσιον, e una ricostruzione del supposto esemplare è stata tentata sulla scorta della cena di Nasidieno in Orazio, di quella di Trimalcione in P. e di quella di Aristeneto in Luciano. Ma la cena di Aristeneto è una cena di filosofi ingordi e screanzati, quella di Nasidieno, se anche ci presenta un ricco di fresca data e di basse origini, che manca di finezza in cospetto d'illustri ospiti come Mecenate, Visco, Vario, Fundanio, non ha niente a che fare con la volgarità di quella di Trimalcione. E in fondo tutto si riduce a poco più che alla presenza nei tre, del comune intento della beffa e della cornice del convito, della quale si potrebbero trovare troppi altri esempî, e non si spiega la meraviglia, chi ripensi alla parte che la cena rappresentava nell'antica vita sociale. La vera fonte d'ispirazione in P. è la vita vera (si pensi, per esempio, alle cene di Pisone nella Pisoniana di Cicerone, 67 segg.), anche se è fuori dubbio che egli ebbe presente, nella Cena, Orazio e ben conobbe Varrone e Lucilio e si possa supporre che abbia letto Menippo: forma di quest'arte l'assenza d'ogni artificio, la naturalezza che il nostro chiama simplicitas, anzi a buon diritto nova simplicitas (c. 132), ben conscio che di una naturalezza così spigliata gli antecedenti mancavano nelle letterature antiche.
Ma in questa simplicitas, in questa naturalezza schietta, limpida, sincera, non sta però tutta la virtù di scrittore di P. Essa sta nemmeno in una fantasia inesauribile che, come nei migliori romanzi cavallereschi, passa senza sforzo di trovata in trovata, d'invenzione in invenzione, onde il racconto si presenta a ogni pagina non meno che naturale, imprevisto. Federico Nietzsche ebbe a dire che P., a confronto di ogni gran musico, resta il maestro insuperato del presto. E attraverso l'imprevisto dell'intreccio permane vigile e chiara nell'artista la visione del carattere dei suoi personaggi, che si mantiene coerente nei successivi sviluppi, meglio determinandosi in essi, al contrario di quel che avviene nei romanzi greci, dove tutto l'interesse si porta sul lato esteriore e scenografico dell'azione.
Una parola ancora è da aggiungere a proposito del linguaggio di P., nel quale grammatici e glottologi vanno a cercare volentieri gli antecedenti delle lingue romanze. Ora è inutile dire quanto, nel trarre conseguenze da questa ricerca, un'estrema cautela sia necessaria. Occorre sceverare quel che è l'uso del narratore Encolpio, linguaggio di conversazione di persona colta, da quel che è l'uso delle persone che egli introduce a parlare, gente di varia origine e educazione, e non crearsi, dappertutto dove si esce dal normale, l'idolo, contrario insieme alla natura del fenomeno stesso linguistico e al mimetismo caratteristico dello scrittore, di un linguaggio unitario che nell'intenzione di P. si contrapponga al linguaggio normale. Per converso non è da supporre che colui il quale fu un artista dell'età neroniana, e non già un glottologo dei tempi nostri, abbia spinto il suo realismo di espressione a tal punto da distinguere rigorosamente tra latino volgare in bocca índigena e in bocca straniera.
Con tali avvertenze e riserve, che consentono un margine all'arbitrio dello scrittore, non si vuole però disconoscere l'importanza che ha per gli studiosi di oggi trovare in uno scrittore del sec. I dell'era nostra testimonianza, in bocca sia pure del populus minutus e di liberti di origine straniera, di un disordine morfologico flessionale e sintattico, quale risulta da forme e maniere come amphitheater, balneus, caelus, candelabrus, fatus, vasus, vinus, bovis (nominativo), triclinia (nomin. femminile), excellente (nomin. neutro), pauperorum, diibus (= diis), intestinas (sostantivo), schemas, stigmam, libra (= litros), loquis (= loqueris), loquere (= loqui), pudeatur, prae con l'accusativo, ecc. Certo, solo quelle anomalie possiamo ritenere per sicuramente vere che siano confermate per altra via o da riflessi romanzi. Ma con lieta meraviglia un Italiano sorprende, sia pur trasportate su labbro asiatico, le espressioni che il parlar di oggi ha ereditate dai latini, quando legge al c. 41: vinus mihi in cerebrum abiit; al c. 43 recorrexit costas illius prima vindemia; aetatem bene ferebat, niger tamquam corvus; al c. 44 si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret; al c. 45 qui asinum non potest, stratum caedit; al c. 71 unum lactem biberunt.
Un esplicito ricordo di P. non s'incontra negli scrittori posteriori fino alla fine del sec. II: la prima volta in Terenziano Mauro. Ma deve essere caso, e non bisogna dimenticare che la tradizione che noi possediamo è frammentaria. Ancor vivo era il romanzo quando scriveva il suo commentario al Somnium Scipionis Macrobio, che cita P. tra gli autori di fabulae tantum conciliandae auribus voluptatis gratia repertae (I, 2, 7 seg.). E nelle sue Mythologiae e altrove lo cita spesso un altro africano, posteriore a Macrobio, Fulgenzio il mitografo (fine del sec. V). Del sec. V è anche Apollinare Sidonio, che ne fa menzione sotto tutt'altro cielo, nella Gallia, e lo chiama "emulo dell'ellespontiaco Priapo, coltivatore del sacro palo attraverso i giardini di Marsiglia", sicché sembra si riferisca o a parte del Satiricon, non giunta a noi, dove l'azione si svolgesse in quella città, o a un soggiorno che in essa avesse fatto l'autore. Ancora nelle sue Etymologiae (prima metà del sec. VII) Isidoro da Siviglia cita P. Le tracce successive possono seguirsi attraverso gl'indici del Manitius alla sua Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters. Nel sec. XI l'aneddoto del vetro infrangibile vien raccontato dal famoso musicista Guido d'Arezzo nella sua lettera De ignoto cantu al mionaco Michele di Pomposa, e da S. Pier Damiani (Opusc., 40, 8). Nel sec. XII Giovanni di Salisbury ha una ventina di citazioni da P., delle quali tre dalla Cena di Trimalcione. Pare dunque che egli possedesse dello scrittore almeno quanto possediamo noi. Ma è un caso per la Cena isolato. Anche i nostri manoscritti quasi tutti presentano estratti (excerpta vulgaria) dell'opera, dai quali la Cena, sopravvissuta solo in qualche massima morale accolta nei florilegi, è regolarmente esclusa: caduta dall'uso forse a causa di quel suo bizzarro linguaggio d'illetterati che forma così grande attrattiva per noi. Essa riappare nel sec. XVI in assai piccola parte in un manoscritto di Leida di mano di Giuseppe Scaligero, e in edizioni di Lione (De Tournes, 1575) e Parigi (Pithou, Patisson, 1577 e 1587): poi intiera nel sec. XVII con la scoperta del manoscritto di Traù, ora Parigino 7989, tra i libri di Niccolò Cippico. La prima ristampa che se ne fece, a parte, è di Padova, 1664. Pare che il codice di Traù rimonti per la Cena a un manoscritto conservato in Inghilterra, dove essa era nota, come vedemmo, a Giovanni di Salisbury. Di là copia di questa particula fu spedita nel 1420 da Poggio Bracciolini a Niccolò Niccoli a Firenze. Qui di su quella copia e una degli excerpta vulgaria il P. di Traù trasse origine nel 1424 per mano di uno dei Cippico che vi era venuto a studiare. Così R. Sabbadini, in Rivista di filol., 1920, p. 27 segg.
Con la ricomparsa della Cena splendé di vivida luce la gloria di P. Il grande Condé assisté nel 1668 a sedute nelle quali si discusse dell'autenticità del frammento. Altra grande ammiratrice di P. fu Cristina di Svezia. La voga crebbe ancora quando, sulla fine del Seicento, comparvero le edizioni e traduzioni del Nodot, nelle quali questo ufficiale francese offerse colmate le lacune che il testo presenta, asserendo di derivare i suoi complementi da un nuovo codice trovato a Belgrado nel 1688. Da più parti si gridò al falso; ma i supplementi, innestati non senza abilità sul vecchio, assicuravano la continuità del racconto e soddisfacciano al gusto di un pubblico più largo, allettato dalla sensualità e dalla lubricità delle invenzioni. Così il nuovo, riconosciuto apocrifo, è rimasto tenacemente aderente al genuino dalla prima traduzione inglese completa del Burnaby (1694) all'italiana di U. Limentani (classici del ridere del Formìggini; 5ª ed., 1928) e alla francese di M. Rat (Parigi 1934).
Della fortuna posteriore dell'opera non è il caso di parlare, come di cosa più nota e che ci porterebbe assai per le lunghe. In tempi vicini fece rumore, per il nome dell'autore, la traduzione francese del poeta anarchico Tailhade (1902). Da P. è ispirata una delle scene più vive del romanzo La morte degli dèi, secondo della trilogia Cristo e Anticristo del grande novelliere russo Merežkovskij. Anche in terra slava, la Polonia, è venuto alla luce il Quo vadis? del Sienkiewicz, di cui P. è quasi l'eroe, ma un P. quanto diverso dal vero! Il che naturalmente nulla toglie al valore artistico del libro.
Edizioni e traduzioni: Edizione fondamentale di F. Buecheler (Berlino 1862, 6ª ed. riveduta dal Heraeus, 1922). Del 1922 è la 1ª edizione pubblicata dall'Ernout nella collezione de Les belles lettres di Parigi, del 1931 la 2ª. Buona anche l'edizione di Evan T. Sage (New York e Londra 1929). Delle ediz. parziali della Cena commentate va citata, perché ha aperto la via alle altre, quella del Friedländer, Lipsia 1891; 2ª ed., 1906; tra le più moderne quella di W. B. Sedgwick (Oxford 1925).
Alcune traduzioni sono state nominate nel testo. Ricordiamo ancora la tedesca del Heinse, pubblicata la prima volta nel 1773 col titolo Begebenheiten des Enkolp. Fra le italiane ha tenuto per molto tempo il campo e continua a stamparsi quella di Vincenzo Lancetti, apparsa nel 1806. Tra le recenti, oltre a quella sopra citata del Limentani, che contiene i frammenti nodotiani, va ricordata quella di G. A. Cesareo, che non li contiene (2ª ed. riveduta, Firenze 1930).
Bibl.: S. Gaeselee, The Bibliography of Petronius, Londra 1910, con la bibl. precedente; A collotype Reproduction of that Portion of cod. Paris 7989 commonly called the Codex Traguriensis which contains the Cena Trimalchionis of Petronius together with four Poems ascribed to Petronius in cod. Leid. Voss., 111, Cambridge, 1915. Buoni complementi a quest opere per quel che riguarda la tradizione del testo ha dato B. L. Ullman, in Classical Philology, XXV, 1930: Petronius in the Mediaeval Florilegia e The Text of Petronius in the Sixteenth Century. V. anche: Sage, The Text tradition of Petronius, in American Journal of Philology, 1929, p. 21 segg.
Tutte le questioni riguardanti l'autore e il libro si trovano ampiamente trattate in E. Paratore, Il Satyricon di P., Firenze 1933; H. Stubbe, Die Verseinglagen im Petron, in Philologus, Supplem. XXV, ii, 1933. Un gustoso profilo di P. ha tracciato C. Marchesi (Roma 1921). Degne ancor oggi d'esser lette restano le pagine dettate nel 1874 per la Revue des deux Mondes da Gaston Boissier, che le incluse poi nel suo bel libro L'opposition sous les Césars, Parigi 1875 (più volte ristampato). Una valutazione del libro, quasi parodia del romanzo erotico derivata da precedenti parodie greche, dette alla luce R. Heinze, in Hermes, XXXIV (1899), p. 494 segg.; contro di lui in Germania stessa una reazione si ebbe con i Beiträge zur Quellenskunde von Petrons Satiren (Berlino 1909), di Martin Rosenblüth. Per l'ipotesi di un anteriore romanzo greco satirico dipendente da Menippo, confronta Geffcken, Studien zur griechischen Satire, in Neue Jahrb. für klass. Altertum, XXVII (1911, p. 489 segg. Per la lingua si ha un Lexicon Petronianum di J. Segebade e E. Lommatzsch (Lipsia 1898), poi le dissertazioni di G. Suess, De eo quem dicunt inesse Trimalchionis Cenae sermone vulgari, e Petrone imitatio sermonis plebei qua necessitate, coniungatur cum grammatica ilius aetatis doctrina (in Acta et Commentationes Universitatis Tartuensis, 1926 e 1928). A differenza del Suess, che vede riflesso nel linguaggio de personaggi introdotti a parlare da Encolpio il sermo plebeius dei Romani, A. H. Salonius, Die Griechen und das Griechische in Petrons Cena Trimalchionis (Societas Scientificarum Fennica. Commentationes humanarum Litterarum, Helsinki 1927) sostiene che nell'uso di parole greche da parte dei liberti petroniani l'autore abbia voluto lasciar vivo segno delle loro origini non romane. La verità sembra nel mezzo. Lo studio più recente su questa materia linguistica è quello di A. Marbach, Wortbildung, Wortwahl und Wortbedeutung als Mittel der Charakterzeichnung bei Petron, Giessen 1931. Per la fortuna dello scrittore, interessante è il libro di A. Collignon, Pétrone en France, Parigi 1905.
Per le vicende della novella della matrona d'Efeso, cfr. in generale: E. Grisebach, Die Wanderung der Novelle von der treulosen Wittwe durch die Weltlitteratur, Berlino, 2ª ed. con appendice, 1889; e in particolare per l'Italia, Aug. Cesari, Come pervenne e rimase in Italia la Matrona d'Efeso, Bologna 1890. Un giudizio (severo) sul libro del Grisebach è stato pronunciato da J. Bédier, Les fabliaux, Parigi 1893, p. 418.