pharming
<fàamiṅ> s. ingl., usato in it. al masch. – Termine derivante dalla fusione di farming (agricoltura) e pharmaceuticals (farmaci), che gioca sull’equivalenza nella pronuncia di f e ph nella lingua inglese. Con p. si indica l’uso di animali o vegetali transgenici (v. ) per la produzione di farmaci. Si tratta in sintesi di introdurre, con le tecniche dell’ingegneria genetica, geni (transgeni) che codificano proteine di interesse farmacologico nel DNA di animali di allevamento o di piante facilmente coltivabili. L’animale o la pianta così modificati diventano allora produttori della proteina-farmaco (biofarmaco) codificata dal transgene. Esistono oggi in commercio circa 200 biofarmaci ᅳ e oltre 400 sono in via di sviluppo ᅳ prodotti con le tecniche dell’ingegneria genetica. Solitamente si utilizzano a questo scopo organismi unicellulari come batteri (per es., per la produzione di insulina) o lieviti (per es., per il vaccino contro l’epatite B), oppure cellule derivate da tessuti animali coltivate in vitro (per es., per l’eritropoietina). L’uso di organismi superiori, come appunto animali o piante nel caso del p., può però offrire notevoli vantaggi, principalmente riguardo ai costi di produzione, alla facilità di estrazione e alle quantità ottenibili. Per capire meglio l’interesse del p. nella produzione di biofarmaci occorre ricordare che l’espressione di un gene, ossia la sintesi della proteina corrispondente, è regolata da una sequenza di DNA detta promotore, che si trova a monte del gene stesso. È questa sequenza che determina quando e in quale parte dell’organismo la proteina deve essere prodotta. Scegliendo un promotore opportuno, è possibile fare esprimere il transgene che codifica il biofarmaco in organi precisi dell’animale o della pianta nel quale il transgene è stato introdotto. Per il p. con animali vengono scelti solitamente mammiferi e i transgeni sono corredati di un promotore che fa produrre il biofarmaco esclusivamente nelle ghiandole mammarie dell’animale. Il biofarmaco può allora essere facilmente purificato dal latte dell’animale transgenico, che diventa così un reattore vivente a ciclo continuo per tutta la sua vita produttiva. Per produzioni su larga scala vengono scelti naturalmente i grandi mammiferi, come vacche o capre, mentre per alcuni scopi specifici vengono preferiti animali più piccoli come i conigli. Il primo biofarmaco da p. approvato in Europa (nel 2006) e negli Stati Uniti (nel 2009) è stato l’antitrombina-α, prodotta in capre transgeniche; viene usata nel trattamento delle deficienze ereditarie di antitrombina, specie in occasione di interventi chirurgici o durante il parto. Numerosi altri biofarmaci, tra cui i fattori di coagulazione VIII e IX per la terapia dell’emofilia, l’α1-antitripsina per il trattamento dell’enfisema polmonare, l’attivatore tissutale del plasminogeno per la dissoluzione dei trombi, e vari anticorpi, sono già stati ottenuti in animali transgenici e sono in via di sviluppo o in fase di sperimentazione clinica. Il biopharming mediante piante offre la possibilità di produzione su larga scala, grazie alla facilità di coltivazione su vaste aree. I vegetali generalmente presi in considerazione per la produzione di biofarmaci sono mais, tabacco, erba medica, patata, soia, canna da zucchero e pomodoro. Anche in questo caso, l’uso di opportuni promotori permette la sintesi del biofarmaco di interesse in parti prescelte della pianta. Quando è possibile, si preferisce che l’accumulo avvenga nei semi, che presentano notevoli vantaggi per la conservazione e per il trasporto ai siti di lavorazione. I biofarmaci attualmente in fase di ricerca e sviluppo per la produzione in piante sono vaccini (contro colera, diarrea virale, influenza ed epatite B), insulina, interferone ed enzimi per la diagnosi e il trattamento di alcune malattie ereditarie. Il primo biofarmaco prodotto in vegetali è stato approvato per uso farmaceutico negli Stati Uniti nel 2012: si tratta della taliglucerasi-alfa, un enzima usato nel trattamento della sindrome di Gaucher di tipo uno ᅳ una grave malattia ereditaria che causa accumulo di grassi nel fegato, nella milza e in altri organi. Questo biofarmaco, tuttavia, è stato prodotto in cellule di carota coltivate in vitro, anziché nell’intera pianta, e non si tratta quindi di vero pharming. L’uso di piante agricole per il p. presenta naturalmente il rischio di possibili contaminazioni di prodotti destinati all’alimentazione con prodotti contenenti biofarmaci. La contaminazione di coltivazioni convenzionali dovuta alla migrazione di pollini può essere evitata o ridotta a livelli minimi mediante l’uso di piante autogame, ossia autoimpollinanti, come per es. il riso. Per le piante allogame (in cui il fiore di una pianta viene fertilizzato dal polline di una pianta diversa) la coltivazione in campo aperto dovrebbe essere regolata da rigorose norme di contenimento. Altri tipi di contaminazione possono avvenire per mescolamenti accidentali durante il trasporto e l’immagazzinamento di raccolti. L’opinione più diffusa negli organismi di controllo e tra gli stessi biotecnologi è che il p. con piante agricole dovrebbe essere ristretto ad ambienti isolati e chiusi (serre) e che il raccolto e il trasporto ai siti di lavorazione debbano seguire un filiera completamente distinta da quella dei raccolti normali.