Pia
D. fa di una P. senese la protagonista del terzo episodio del celebre trittico di Pg V (vv. 130-136), tanto breve quanto intenso, assurto a straordinaria celebrità e fortuna anche popolare. Dopo Iacopo del Cassero e Bonconte da Montefeltro, un terzo spirito della schiera dei morti per forza si rivolge al poeta, saldando la sua breve parlata a quella di Bonconte immediatamente e senza formule di trapasso. Il personaggio afferma di esser la Pia, ma tace sul suo casato, lasciando sé e la sua vicenda avvolte in un alone di mistero, che, dopo secoli di esegesi, è tutt'altro che diradato. Opportunamente, è vero, il Barbi osservò che per intendere la poeticità dell'episodio l'identificazione storica della sua protagonista può anche non essere indispensabile, ma è anche vero, come altri osserva, che " importano in maniera sostanziale le circostanze e gli eventi, a cui D. si riferisce e che sono indispensabili per intendere il significato delle sue parole ", ed è indubbio che " per conoscere gli eventi bisogna sapere chi fu la Pia " (A. Scolari, Nota dantesca, pp. 154-155 n. 1).
Si sa che il personaggio dantesco fu identificato da taluni antichi commentatori con una P. de' Tolomei, moglie di Nello, o Paganello, d'Inghiramo de' Pannocchieschi signore del castello della Pietra (a nove miglia a levante di Massa Marittima), che l'avrebbe fatta uccidere per poter convolare a nuove nozze con Margherita Aldobrandeschi, con la quale aveva già stretto relazione. Di una P. de' Tolomei, peraltro, non si ha traccia di sorta nella pur ricca documentazione riguardante quell'antica e nobile famiglia senese; così come non risulta dai documenti che Nello abbia avuta una moglie che così si chiamasse, appartenente o meno alla famiglia Tolomei.
In proposito, le più antiche testimonianze sono quelle offerte da Benvenuto e da alcune redazioni del commento di Pietro. " Et ut praesens littera sit clarior ", scrive Benvenuto, " est primum sciendum, quod ista anima fuit quaedam nobilis domina senensis de stirpe Ptolomaeorum, quae fuit uxor cuiusdam nobilis militis, qui vocatus est dominus Nellus de Panochieschis de Petra, qui erat potens in maritima Senarum. Accidit ergo, quod dum semel coenassent, et ista domina staret ad fenestram palatii in solatiis suis, quidam domicellus de mandato Nelli cepit istam dominam per pedes et praecipitavit eam per fenestram, quae continuo mortua est, nescio qua suspicione. Ex cuius morte crudeli natum est magnum odium inter dictum dominum Nellum, et Ptolomaeos consortes ipsius dominae ".
Più concisamente si esprime la redazione cassinese del commento di Pietro, pur facendo espressamente il nome dei Tolomei (" Ista domna Pia de Tholomaeis de Senis fuit uxor domni Nelli de la Petra de Senis qui eam occidit ita secrete quod numquam aliquis scivit et ideo dicit quod ille scit qui eam disponsavit et non alius, qui domnus Nellus iverat in offitium in Maritimam et ibi eam occidit "), così come quella attestata dal codice Laurenziano Ashburnhamiano 841 (" Ultimo tangit de umbra dominae Piae de Tholomaeis de Senis; occisae a domino Nello de la Pietra de Mariptima, eius maritus, ut dicit textus "), mentre la redazione vulgata cita soltanto una " domina Pia uxor... domini Nelli de Petra " senza specificarne il casato. Ma anche altri antichi chiosatori fanno il nome dei Tolomei. Ad es., l'anonimo del Laurenziano XLII 15: " In civitate Senarum fuit quaedam domina de Tholomaeis, excellentissima in pulcritudinem, quae dum fuerat in mundo, vixerat multum mondane usque ad diem mortis, vocata domina Pia, quae distulit poenitentiamusque ad diem mortis. Et fuit uxor domini Nelli de Petra de Senis qui cum ista haberet famam et nomen quod esset vana mulier et esset valde zeloptius de ea, deliberavit clam occidere eam et sic fecit. Quod cum quadam vice ipse dominus Nellus recepisset quoddam officium in Maritimam civitatis Senarum, ipse fecit ipsam Piam ita occulte ire ad eum, quod nemo sensit, et in medio itineris iugulavit eam ita secrete, quod nemo scivit nisi ipse. Propterea spiritus dictae dominae Piae recommendat se Danti, ut dicat novum de eo ".
Così pure l'Anonimo: " Questa fu una gentil donna de' Tolomei da Siena, la quale ebbe nome madonna Pia: fu maritata a messer Nello de' Panuteschi da Pietra di Maremma. Ora questa Pia fu bella giovane e leggiadra tanto, che messer Nello ne prese gelosia; et dolutosene co' parenti suoi, costei non mutando modo, et a messer Nello crescendo la gelosìa, pensò celatamente di farla morire, et così fe'. Dicesi che prima avea tratto patto d'avere per moglie la donna che fu del conte Umberto da Santa Fiora, e questa fu ancóra la cagione d'affrettare la morte a costei. Pensò l'Autore ch'ella morisse in questo modo, che essendo ella alle finestre d'un suo palagio sopra una valle in Maremma, messer Nello mandò un suo fante che la prese pe' piedi dirietro et cacciolla a terra dalle finestre in quella valle profondissima, che mai di lei non si seppe novelle ".
Di maggior interesse e molto particolareggiata è la chiosa, pure anonima, del Laurenziano XL 7, nella quale si cita la contessa Margherita e si fa il nome del sicario di cui si sarebbe servito Nello per l'esecuzione del criminoso disegno: " Sappi, lettore, che questa Pia si fue una fanciulla molto bella, nata d'i Tolomei di Siena, la quale fue maritata a uno messer Nello dalla Pietra de' Panochesi, il quale fue uno bello e savio cavaliere e in opera d'arme fece grandissime ispese. Fue vile uomo e poco leale, e dicesi che questa sua donna egli la fece morire in Maremma, e uccisela uno che ebbe nome il Magliata da Pionpino, famiglio del detto messer Nello, il quale Magliata quando la detta donna si sposòe a messer Nello, egli sì come suo procuratore le diede l'anello per lui; e però dice ‛ salsi colui che inanellata pria disposata m'avea colla sua gemma '. E dice che 'l predetto Magliata fue a farla morire, e la cagione il perché il detto messer Nello la fece morire si fue ched egli amava la contessa Margherita, moglie ch'era istata del conte di Monforte. Andò tanto la cosa innanzi che, per torre la detta contessa per moglie, egli fece morire la detta madonna Pia sua donna, poi tolse la contessa. Or odi come Iddio lo pagò: egli ebbe dalla contessa poi uno bello figliuolo, e quando fue d'etade di xjj anni, egli annegòe in uno pozo. Poi avenne che 'l papa, sentendo come il loro matrimonio era fatto e sotto che condizione, sìe il partio. Di che la detta contessa Margherita si partio dal detto messer Nello e per lo mondo andò con tristissima vita grande tempo, e dicesi che in ogni miseria finio la sua vita, bene che 'l dove non si dica. Poi il detto messer Nello gli fue tolto uno suo castello che aveva chiamato Monte Sasso, overo Montemasso, per uno suo nipote che avea nome Nello di Bandino da Sticciano, e caccionne fuori il detto messer Nello. Di che egli vivette poi poco tempo, e dicesi che in grandissimo brobrio finio poi la sua vita, e ciòe fue assai giusto ".
Sempre con l'espressa citazione del casato Tolomei, il nome di Margherita Aldobrandeschi, unitamente a taluni eventi della sua tempestosa vita coniugale (ad es. si accenna al matrimonio di lei con Loffredo Caetani bisnipote di Bonifacio VIII), ricorre pure nel commento anonimo contenuto nel Laurenziano XL 2.
Altri antichi commentatori, peraltro, non meno autorevoli di Benvenuto, non fanno parola dell'appartenenza di P. alla famiglia Tolomei. Ad es., il Lana parla solo di " una madonna Pia, mugliere di messer Nello da Preda da Siena "; analogamente l'Ottimo (la cui chiosa è vicinissima a quella del Lana), la citata redazione vulgata del commento di Pietro, le chiose attribuite a Iacopo, le chiose edite dal Vernon nel 1846, il Buti e altri ancora. Per quando riguarda poi i vari particolari, gli antichi commenti talora concordano, più spesso discordano; inoltre, le circostanze addotte non trovano conferma nelle testimonianze documentarie e cronachistiche del tempo (ad es. le contese e le guerre fra i Tolomei e Nello a seguito della morte di P., di cui fa parola Benvenuto). Opportunamente si è dunque osservato che gli antichi chiosatori ci dicono soltanto, di sicuro e d'indubitabile, che " Pia morì misteriosamente e che di lei nulla si seppe " (A. Lisini - G. Bianchi-Bandinelli, La Pia dantesca, p. 21). E cioè nulla sostanzialmente aggiungono al dettato dantesco. Né molto aggiungono i cronachisti senesi. Sigismondo Tizio (sec. XV) fa menzione di P., ma pone la morte della gentildonna nel 1181, molto prima dunque che Nello Pannocchieschi nascesse (lo storico, non allegando alcun documento e solo citando Benvenuto e la testimonianza orale di certi " peritissimi senes ", si meraviglia però che una peccatrice potesse essere uscita dalla famiglia Tolomei, le cui donne furono sempre di specchiata onestà [ms. B. III 6 della biblioteca Comunale di Siena I 567]). Tace Orlando Malavolti, ripete le notizie, desumibili dagli antichi commentatori Giugurta Tommasi.
Per contro, nel sec. XVIII, lo scrupoloso e attento Girolamo Gigli, cui era ben nota l'assenza di documenti attestanti la realtà storica di una donna uscita dalla famiglia Tolomei e vissuta nella seconda metà del sec. XIII, che si chiamasse P., ritenne di aver risolto il problema identificando il personaggio dantesco con una P. figlia di messer Buonconte o (Buonincontro) Guastelloni sposa, in prime nozze, di messer Baldo di Aldobrandino Tolomei, rimasta vedova nel 1290. Pareva al Gigli ragionevole supporre che, accertata l'esistenza di una gentildonna di nome P. che poteva esser detta de' Tolomei, essa fosse stata successivamente al 1290 rimpalmata da Nello de' Pannocchieschi (pur mancando in proposito testimonianze che non fossero quella di Benvenuto e di altri antichi chiosatori). L'ipotesi postulava ovviamante l'opzione per la lezione disposata (v. 136), in sé tutt'altro che arbitraria, tant'è vero che, come rileva il Petrocchi, essa risulta tramandata da codici ottimi. Sapeva dunque della fine della P. colui (Nello) che aveva sposato lei, già precedentemente inanellata (congiunta in legittime nozze con Baldo Tolomei). Stando così le cose, il mistero che avvolgeva la P. dantesca poté ben essere ritenuto dissolto; senonché, nel 1893, A. Lisini scoprì e pubblicò un documento dal quale risultava in modo inequivocabile che la P. Tolomei nata. Guastelloni viveva ancora nell'agosto del 1318, e non poteva per conseguenza essere identificata con un personaggio che D. sapeva già morto nella primavera del 1300. Sì che P. Spagnotti, sempre nel 1893, anche facendo conto del testamento di Nello Pannocchieschi, nel quale si ricordano donna Nera e donna Bartala mogli di lui, ma non P. (né, d'altra parte, Margherita Aldobrandeschi, da cui ebbe un figlio ma che è dubbio fosse stata a lui legata da legittime nozze), ritenne di poter concludere affermando l'inesistenza storica del personaggio dantesco.
Tesi, invero, del tutto inattendibile: D. non inventa mai gratuitamente i suoi personaggi, ma attinge alla cronaca e alla storia, o magari al mito (e in tal caso l'autorità della fonte garantisce il poeta), e se accetta tradizioni leggendarie, ciò non accade certo per personaggi e fatti vicini nel tempo; né è possibile che preesistesse a D., a distanza di pochi anni dalla presunta tragedia, una leggenda di P., di cui fossero all'oscuro cronisti, novellieri o chiosatori fra la fine del XIII e i primi anni del XIV secolo. Per contro, nel lavoro di D. Mori, pubblicato nel 1907, affiorò per la prima volta una tesi destinata a essere ripresa, in quanto attiene all'identificazione della P., da G. Ciacci (per il quale però il marito della donna sarebbe stato non già Nello d'Inghiramo, ma Nello di Mangiante, suo congiunto) e, successivamente, da A. Lisini e G. Bianchi - Bandinelli. Questi ultimi (in un volume se non altro prezioso per i numerosi documenti a corredo e notizie e precisazioni riguardanti la storia senese del sec. XIII) corressero, svilupparono e completarono la proposta secondo la quale D. avrebbe raccolto e adombrato nelle poche parole pronunciate dal suo personaggio la storia di una P. senese, non già de' Tolomei, inesistente, sibbene uscita dalla famiglia Malavolti, anch'essa nobilissima e potente. Come risulta da testimonianze documentarie, P. di Ranuccio di Filippo Malavolti sposò, fra il 1282 e il 1283, Tollo (o Bertoldo) dei signori di Prata di Maremma, ucciso a tradimento nel 1285, all'uscita della messa, dai nipoti ex fratre Fredi, Naio e Ceo, ostili alla politica filosenese del congiunto, reo, ai loro occhi, di essersi fatto promotore di un patto di amicizia con Siena, che ne presupponeva l'interessata protezione (1282). Si sa che all'uccisione seguirono una dispendiosa spedizione militare dei Senesi contro i ribelli di Prata e di Poggio Santa Cecilia e una lunga serie di fatti d'arme non sempre propizi al comune. Ciò rende possibile la supposizione che gli uccisori, allo scopo di allontanare dal castello di Prata l'incomoda vedova (fra l'altro appartenente a una famiglia senese tanto cospicua, e con ogni probabilità sposata da Tollo in forza del patto di amicizia del 1282), l'avessero affidata in custodia a Nello d'Inghiramo, forse parente e supposto procuratore di Tollo al tempo delle nozze, non amico, in questo periodo, dei Senesi. Egli, che forse proprio in questo periodo conosce Margherita Aldobrandeschi e ne diventa l'amante, avrebbe fatto sopprimere P. nel castello di Pietra, per motivi non chiari. O forse soltanto, morta la donna di morte naturale, avrebbe potuto essersi sparsa la voce dell'uccisione di lei da parte di Nello, colpevole dunque solo di negligenza nei suoi confronti; come avrebbe potuto essersi diffusa l'inesatta notizia di un matrimonio fra i due e della successiva morte della presunta sposa. Gli antichi commentatori (in primo luogo Benvenuto) avrebbero raccolto l'incerta notizia del fatto e riferito il nome di uno dei protagonisti (Nello, citato quasi da tutti), coinvolto sì nella vicenda, ma ad altro titolo. Attribuendo cioè al Pannocchieschi il ruolo di marito di P. anziché quello di antico procuratore del vero sposo all'atto delle nozze e successivamente di affidatario, avrebbero in certo modo, tratti in inganno dall'incertezza e dalla fluidità dei dati in loro possesso, optato per la versione facilior dell'oscuro episodio. E il nome dei Tolomei si sarebbe ben potuto introdurre nella vicenda a motivo della sua stretta connessione con le cose senesi e della fama della famiglia, accresciuta in quel torno di tempo dalla notorietà, in tutta la Toscana, dei fatti inerenti alla sfortunata spedizione di Andrea Tolomei contro il castello d'Elci dei Pannocchieschi. Il che spiegherebbe altresì quanto taluni commentatori soggiungono a proposito della guerra che sarebbe sorta fra i Tolomei e i Pannocchieschi per la morte di P. (Ciacci, Gli Aldobrandeschi, I 323).
Non sfugge, invero, in siffatta ricostruzione degli eventi, la natura meramente congetturale del punto di partenza, e cioè la qualità di procuratore assunta da Nello Pannocchieschi in occasione delle nozze di Tollo di Prata con P. Malavolti. Non possono evidentemente essere considerati indizi a favore della supposizione, ma solo circostanze che la rendono ammissibile in via ipotetica, il conseguente appianamento delle difficoltà che l'esegesi dei vv. 135-136 comporta (sàllosi colui che precedentemente, quando celebrai le mie nozze, mi aveva inanellato con la sua gemma, come procuratore dello sposo): né il fatto che il chiosatore del Laurenziano XL 7 parli di nozze per procura (ma lo sposo sarebbe stato Nello, e il procuratore Magliata da Piombino, che dipoi avrebbe ucciso la donna); né la frequenza con cui si ricorreva a tale tipo di matrimonio; né il pur interessante dettaglio dell'obbligo fatto ai signori di Prata di far pace con i Pannocchieschi, fedeli alleati di Siena, contemplato nel patto di amicizia del1282; né il raffreddamento di Nello con i Senesi nel periodo in cui gli sarebbe stata affidata la donna. D'altronde, è anche vero che l'accoglimento della tesi tradizionale (appartenenza di P. alla famiglia Tolomei, suo matrimonio con Nello de' Pannocchieschi, tragica e misteriosa morte di lei a opera del marito voglioso di contrarre nuove nozze) rende pure necessarie delle ipotesi, poco o scarsamente confortate da indizi. In primo luogo l'esistenza di una donna di una famiglia illustre, di cui altra traccia non sia rimasta se non nei versi di D. e nelle chiose di alcuni annotatori; in secondo un matrimonio di Nello di cui si tace completamente nei documenti riguardanti l'importante personaggio (e persino nel testamento di lui, nel quale pur si ricordano due sue mogli). Infatti la testimonianza degli antichi commentatori, giova ripeterlo, isolatamente presa e non suffragata da altri indizi, non sembra poter essere considerata come un sufficiente supporto. Abbiamo visto che alcuni fanno il nome dei Tolomei e altri no; alcuni alludono a un sicuramente mai avvenuto conflitto fra i Tolomei e il Pannocchieschi, altri introducono dettagli evidentemente erronei (ad es. l'Anonimo, secondo il quale Nello " avea tratto patto d'aver per moglie la donna che fu del conte Umberto di Santa Fiora ") o che possono anzi agevolare la formulazione dell'ipotesi riguardante le nozze per procura (v. il citato Laurenziano XV 7); alcuni introducono particolari concernenti le modalità dell'uccisione (la donna sarebbe stata precipitata da una finestra del castello o strozzata), altri ne tacciono. Si ha, insomma, leggendo le varie chiose, la netta sensazione che gli annotatori procedano a tentoni e cerchino d'integrare in qualche modo gli scarsissimi dati in loro possesso con ipotesi più o meno plausibili, in vista della dichiarazione di un testo obiettivamente difficile per loro non meno che per noi: poiché sembra certo che, di cose senesi, D. sapesse assai più dei suoi annotatori. Pur se manchi ogni documento che comprovi la presenza in Siena del poeta in un qualsiasi periodo della sua vita, è da presumere che se non anche in gioventù, come suppongono alcuni studiosi senesi (D. sarebbe stato studente presso il fiorente Studio generale della città), certo durante la maturità - ad es. sulla via del ritorno da Roma - egli abbia soggiornato forse abbastanza a lungo nella città toscana. Di soggiorni senesi. di D. fa d'altra parte menzione il Boccaccio. E fonte di conoscenze senesi poté essere, per D., il poeta Benuccio Salimbeni, marito di una delle figlie di quella Sapia (v.) sulla quale pure gli antichi commentatori non furono in grado di fornire che vaghe e sommarie notizie, inidonee a precisarne i contorni storici, e di cui solo recentemente i documenti hanno consentito la non dubbia identificazione con una Salvani, zia di Provenzano e sposa di Ghinibaldo Saracini.
Tutto sommato, pur se i più autorevoli studiosi moderni (in primo luogo il Barbi) propendano nettamente per le identificazioni tradizionali (e conseguentemente dichiarino i vv. 135-136: " sàllosi colui che prima mi aveva dato l'anello nuziale, celebrando il matrimonio "), le supposizioni dei moderni studiosi senesi non sembrano immeritevoli di qualche considerazione; diremo anzi, con lo Scolari, che è da ritenere " eccessiva " la " noncuranza " con la quale sono state accolte dai dantisti le ricerche del Mori, del Ciacci, del Lisini e del Bianchi-Bandinelli sull'infelice vedova di Tollo di Prata.
Ma altro è da aggiungere a proposito dell'interpretazione tradizionale. Il suo accoglimento presuppone difatti il superamento di talune difficoltà in relazione alle formalità proprie del rito matrimoniale qual era celebrato fra il XIII e il XIV secolo e al loro valore giuridico. Volendo tener fede agli antichi commentatori, che parlano di P. come " moglie ", " mugliere ", " uxor " di Nello, o usano espressioni equivalenti (" fue maritata ", " nupsit "), le parole disposando e 'nnanellata non possono che alludere a due " atti simultanei " (la promessa di nozze o desponsatio e l'anulatio), di cui l'uno è " compimento dell'altro ", aventi efficacia di matrimonio perfetto, come ritenne di aver dimostrato il Del Lungo, che fra i primi studiò il problema. Ma lo Scolari ha in proposito manifestato delle perplessità, osservando che i documenti dei primi del Trecento addotti dallo studioso " dicono forse qualche cosa di diverso di quanto egli intende ", e producendone un altro, coevo, dal quale si desume che la desponsatio, pur compiuta per verba de praesenti (e non soltanto per verba de futuro) e l'habere in uxorem erano atti distinti e non simultanei e che il primo di essi, pur accompagnato dall'anulatio (che comunque non era atto peculiare delle nozze), non poteva equivalere a un matrimonio perfetto e non escludeva un successivo scioglimento.
Affiora quindi la possibilità che D. abbia voluto alludere alla condizione di P. non moglie, ma solo fidanzata dell'uccisore (è la tesi cui si accosta il Pézard). E, in verità, anche a prescindere dalle modalità procedurali del matrimonio, che potevano anche non essere rigorosamente uniformi, può parere singolare che D., per dire semplicemente che P. era stata la moglie del suo uccisore, sia ricorso a una circonlocuzione che evoca sì, con opportuna delicatezza, il giorno delle nozze, ma che sotto altri rispetti può essere considerata sovrabbondante. Si aggiunge la rarità (o addirittura l'unicità, nell'intera Commedia) del costrutto, che contravviene alla norma, individuata dallo Scolari come propria dell'uso dantesco, " per cui l'inversione dell'ausiliare non consente l'inserimento di altra forma verbale dopo il participio " (Nota dantesca, p. 154). Sì che lo studioso è indotto ad avanzare ancora una volta, pur con cautela, l'ipotesi che la lezione poziore sia disposata e non disposando. E ciò darebbe al passo un senso del tutto diverso: " Sàllosi colui che con la sua gemma aveva sposato me, già precedentemente inanellata e quindi vedova ". Ma chi sarebbe, allora, la vedova? Non certo, come abbiam visto, la Guastelloni. Ipotesi per ipotesi, in mancanza di ogni prova documentaria, si potrebbe ancora una volta avanzare la candidatura di P. Malavolti, vedova di Tollo di Prata, supponendo non già che il Pannocchieschi fosse stato il procuratore di Tollo all'atto delle prime nozze della donna, ma il secondo marito di lei (o forse solo l'affidatario, creduto, per falsa fama, marito), e ovviamente supponendo che Nello, per oscuri motivi, avesse ucciso ofatto uccidere Pia.
Avanzate le varie ipotesi e fatta salva ogni possibile riserva, restano in ogni caso da chiarire due aspetti della vicenda: quali furono le colpe della P., che poterono indurre il marito a ucciderla o a farla uccidere o a lasciarla morire, e le modalità dell'uccisione. Alcuni antichi commentatori hanno, si è visto, spiegato il delitto perpetrato dal marito della P. con la sua volontà di unirsi a Margherita Aldobrandeschi: esplicitamente il Laurenziano XL 7, con maggior cautela il Laurenziano XL 2 (" auctor causam non ponit: sed dicunt aliqui quod dominus Nellus hoc fecit ut haberet postea comitissam Margaritam in coniugem "), con una vaga allusione Iacopo (" semel rediens domum de comitissa Margarita "). Altri, per contro, più o meno esplicitamente, accennano a colpe d'amore vere o supposte da parte della P.: " per alcuno fallo ch'el trovò in lei " (Lana); " per alcuni falli che trovò in lei " (Ottimo); " cum ista haberet famam et nomen quod esset vana mulier et [Nello] esset valde zeloptius de ea " (Laurenziano XLII 15); " per un certo fallo che trovò in lei " (Buti); " trovatala in adulterio " (Daniello); " fu bella giovane e leggiadra tanto, che messer Nello ne prese gelosia; e dolutosene co' parenti suoi, costei non mutando modo, e a messer Nello crescendo la gelosia, pensò celatamente di farla morire " (Anonimo); " visa fuit a marito suo tangi a quodam suo famulo in cruribus: propter istum actum, maritus fuit suspectus ex zelotipia " (Serravalle). E sarà probabilmente allusivo a presunte infedeltà il pur vago accenno di Benvenuto (" nescio qua suspicione "), mentre sembrano escludere colpe d'amore le chiose del Vernon (" feciela morire a mala morte in Maremma per cierti servigi ch'ella facieva altrui contro il volere di lui "). Altri, infine, tacciono in proposito (Pietro, sia nella redazione vulgata che nella cassinese, come pure nell'Ashburnhamiano 841).
I più, dunque, parlano di adulterio, o di contegno frivolo e vano. Non sembra dubbio che anche a questo proposito i chiosatori abbiano proceduto per induzione. Il fallo d'amore da parte della P. doveva loro parere la più logica e attendibile causa dell'uxoricidio perpetrato da Nello: prevale anche in questo caso la versione facilior. E mentre i più antichi si tengono sulle generali (" per alcuno fallo ", " per certi falli ", ecc.), gli altri aggiungono frange di vario genere: sino al boccaccesco particolare fornito dal Serravalle. Probabilmente D. non era in grado di precisare, né intendeva farlo: il poeta tace del tutto sulle colpe di Iacopo del Cassero e di Bonconte da Montefeltro, come su quelle di Benincasa da Laterina, di Guccio dei Tarlati, di Federico Novello e degli altri enumerati nelle prime terzine del canto VI. Opportunamente osserva il Barbi che il poeta accenna solo " a peccati in genere dei quali [queste anime] tardarono a pentirsi all'estremo della vita ", e soggiunge che " anche la Pia avrà avuto i suoi, senza che noi le attribuiamo colpe che sarebbero in contrasto col sentimento fondamentale dell'episodio " (Con Dante..., p. 339). E D. tace altresì sulle modalità dell'uccisione della donna: dice solo genericamente che perse la vita in Maremma, e lascia intendere che fu uccisa. Infatti, a parte il valore della locuzione per forza (Pg V 52), tutti gli spiriti del gruppo cui la Senese appartiene furono uccisi. L'unica eccezione potrebbe forse essere Guccio dei Tarlati, ch'annegò correndo in caccia (Pg VI 15): ma ciò avvenne nel corso di un'azione bellica; d'altronde, come dice Benvenuto, il suo corpo subì grave violenza subito dopo la morte (" suffocatus est in quodam pelago. Cuius corpus inde extractum Bostoli ludibriose sagiptasse dicuntur "). Per quanto riguarda la morte di P., forse D. non disponeva di dati certi e di precise notizie; nulla però gli avrebbe impedito di completare e integrare quanto sapeva, così come fa con la vicenda di Iacopo del Cassero e di Bonconte da Montefeltro, entrambi morti in circostanze misteriose. Ma mentre per i due ritiene di dover diradare il mistero facendo loro narrare nei dettagli la drammatica conclusione della loro esistenza terrena, intuisce che l'indefinito e il misterioso si addicono sommamente al terzo personaggio, non solo in quanto si riferisce alle colpe commesse, ma anche in ciò che attiene ai particolari della sua morte.
Prevalgono cioè, per la Senese, le ragioni della poesia: della poesia meglio rispondente alla delicatezza incomparabile dei suoi tratti spirituali, quali il poeta evoca con arte mirabile sin nell'attacco iniziale della breve parlata. " Dante disegna lievemente ", annota in proposito finemente il Bosco. " Giacché, se la struttura non può puntare sull'indefinito, vi punta decisamente la poesia. Vuol suggerire, non rappresentare; creare un alone poetico, non scolpire un'immagine rilevata " (D. vicino, p. 148). Ma il medesimo critico ammette che non è facile precisare " di che cosa quest'alone propriamente sia fatto ", pur tentando d'individuare le condizioni che ne determinano il formarsi: il " pianissimo " che succede al grandioso orchestrato della descrizione della bufera nell'episodio di Bonconte, il nome di P. collocato e sottolineato dall'articolo in posizione dominante (la Pia: " illa Pia "), la femminile sollecitudine espressa nel mirabile esordio (Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via, Pg V 130-131), che dà ai versi un timbro tutto particolare, sostanzialmente diverso da quello che è proprio delle pur cortesi parole pronunciate da Iacopo del Cassero (ti priego, se mai vedi quel paese, v. 68) e da Bonconte da Montefeltro (Deh, se quel disio / si compia che ti tragge a l'alto monte, vv. 85-86). Tale affettuosa e sororale premura, espressa con tanta soavità, è invero il tratto caratterizzante del personaggio, e insieme un'ulteriore testimonianza di come D. avvertisse il fascino di quella femminilità dai toni discreti che conosce la sua più compiuta incarnazione poetica in Piccarda, e di cui potremmo considerare come un lontano preannuncio l'esordio di una canzone famosa, Donna pietosa e di novella etate, non casualmente rivolta a una giovane sorella. Una femminilità pudica e riservata, volutamente collocata in una sorta di suggestiva penombra, opportunamente espressa attraverso sobri accenni e connotazioni sfumate, sentimentalmente arricchita, nel caso di P., se non da elementi autobiografici - presenti, invece, nella rievocazione della vicenda di Piccarda -, dall'affettuoso vagheggiamento di cui la fantasia del poeta fa oggetto una figura umana circonfusa di mistero e innalzata dal suo doloroso destino. Anche la P. trova così collocazione in quella zona ideale che D. riserva a taluni suoi personaggi che conobbero l'infelicità e furono oggetto di grave offesa e di persecuzione, fatti degni dell'alto compianto del poeta (con Iacopo e Bonconte, va citato soprattutto Manfredi).
All'esordio segue, mediato dalla sapientissima formula di trapasso, l'invito dolcissimo rivolto al poeta, ed espresso in un imperativo impersonale da cui è assente ogni accentuazione perentoria, a ricordarsi di lei: a differenza di Iacopo che può sperare nell'intercessione dei Fanesi, e di Manfredi che confida in Costanza, P. - come Bonconte - non ha nessuno a cui possa essere raccomandata: e confida nel poeta. A lui basterà conoscere i termini estremi della sua giornata terrena - la nascita senese, la morte, dovuta alla violenza altrui, nell'aspra Maremma, forse nel castello della Pietra - enunciati in un'antitesi che volutamente ricerca una dimensione epigrafica.
Subito dopo i due tormentatissimi versi, la cui interpretazione è strettamente connessa con l'identificazione dei personaggi e la conoscenza dei fatti e coinvolge, ovviamente, la possibilità, da parte del lettore moderno, di fruire compiutamente della poesia che D. intese esprimere. Tuttavia diremmo che, a ben vedere, l'intensità poetica dell'episodio non risulti offuscata (come pure è parso a illustri interpreti) ove si accetti un'interpretazione diversa da quella tradizionale.
D'altronde, optare per una proposta esegetica solo perché questa sembra meglio preservare la poesia può risultare criticamente scorretto. Il moderno interprete rischierebbe in tal modo di sovrapporre la sua sensibilità a quella, certo diversa, del poeta e di assoggettare conseguentemente il testo a una sorta di violenza. Vero è, peraltro, che il rifiuto dell'interpretazione, di cui più sopra si è detto, per la quale leggendo al v. 136 disposata, risulterebbe evocata la figura del primo marito, si fonda oltre che su un giudizio d'inopportunità, sull'affermata inattendibilità ecdotica della lezione (inattendibilità, però, contraddetta dal Petrocchi il quale, pur promovendo disposando e ragionevolmente ritenendo possibile una trafila disposando > disposado > disposato > disposata, agevolata dall'influsso del precedente participio, rileva che disposata è " lezione attestata da codici antichi e ottimi ": cfr. Introduzione 194). Così come la perentoria condanna dell'ipotesi del " procuratore " è motivata sì dalla " sconvenienza poetica di questa allusione invece del mesto ricordo del marito " (Maggini, recens. a La Pia dantesca, p. 198) ma altresì dalla gratuità della supposizione del Lisini e degli altri studiosi senesi. Ma risulterebbe poi compromessa, la poesia del celebre episodio, nell'uno e nell'altro caso? In entrambi l'allusione implicita nella parola 'nnanellata potrebbe esser considerata alla stregua di una pur discretissima precisazione riferentesi o alle prime nozze, o alle nozze per procura. E se, nel secondo caso, verrebbe certe meno il " mesto ricordo del marito ", resterebbe nelle parole di P. l'intenso e accorato compianto sul proprio doloroso destino, non dissimile nell'intonazione da quello di Manfredi (Se 'l pastor di Cosenza, Pg III 124) e da quello di Iacopo (quel da Esti il fé far, V 77). Par proprio che ove si debbano escludere, facendo credito alla più autorevole esegesi, interpretazioni diverse dalla tradizionale, ciò debba farsi meno per le ragioni della poesia, che comunque è salva, che per l'assenza di sufficienti prove di natura filologica o documentaria.
Osserva il Tommaseo che " il concedere tre versi alla preghiera e tre alla narrazione del fatto, è bellezza di quelle che si trovano, ma non cerche e le manda quel Dio che manda i poeti ". In effetti la concisione epigrafica favorisce in misura singolare l'intensità poetica e la suggestione che promana dal personaggio e dall'episodio. Le brevi parole della P. assumono una dimensione espressiva che le accosta, in qualche modo, a quelle iscrizioni versificate, di necessità succinte e compendiose, che nel Medioevo accompagnavano per fini didattici e ammonitori certe figurazioni allegoriche o i ritratti di taluni famigerati personaggi politici. Nella Commedia si ha qualcosa di non dissimile, ad es., nei rapidissimi e concentrati episodi che si susseguono nel canto XXXII dell'Inferno. Opportunamente, pertanto, il Sapegno parla di " struttura stilistica... elaboratissima e chiusa, che culmina nell'antitesi concettosa del v. 134 ".
È da credere che, oltre l'aura di mistero che avvolge il personaggio e la soavità che ne permea la raffigurazione, anche la dimensione epigrafica dell'episodio, che lo isola efficacemente e favorisce un'immediata evocazione della sua protagonista, abbia contribuito alla fortuna della P. dantesca, nota come ‛ Pia de' Tolomei '. Così la fantasia popolare chiamò ‛ Salto della Contessa ' una parte dello scoscendimento sul quale s'innalza il castello della Pietra in Maremma; e P. poté divenire la protagonista di una novella del Bandello, che il narratore immagina di aver appresa dal senese Niccolò Campano, detto lo Strascino; e fornire argomento a quelle rappresentazioni popolari e rusticane che nel senese chiamano ‛ bruscelli ' e a novelle in ottave, qual è quella, assai nota, d'impasto eminentemente romantico, di Bartolomeo Sestini.
Ma la P. è sostanzialmente diversa: la sua stessa fortuna ha fatto sì che i rielaboratori ne travisassero i lineamenti avvalendosi degli elementi, forniti dall'esegesi, di più facile e immediata fruizione. L'autentico personaggio dantesco, nella dolcezza ineffabile dei suoi tratti, come avvolti in una misteriosa penombra, resta solo consegnato ai celebri versi finali del canto V del Purgatorio.
Bibl. - G. Gigli, Diario Sanese, I, Lucca 1723, 324, 332 ss.; II, Siena 1874², 363; C.F. Carpellini, Rapporto della Commissione istituita dalla Società sanese di storia patria per la ricerca di tutto ciò che in Siena si riferisce a D., in " Boll. Soc. Senese St. Patria " I (1865) 56-57; B. Aquarone, D. in Siena, città di Castello 1889, 71-84; Bassermann, Orme 341; A. Lisini, Nuovo documento della Pia de' Tolomei figlia di Buonincontro Guastelloni, Siena 1893; P. Spagnotti, La P. de' Tolomei, Firenze 1893; I. Del Lungo, Dal secolo e dal poema di D., Bologna 1898, 441-443; D. Mori, La leggenda della P., Firenze 1907 (cfr. " Giorn. d. " XVI [1908] 139, 244-245); A. Scolari, Un nuovo documento a illustrazione di un passo dantesco, Ravenna 1920; P. Rossi, D. e Siena, in " Bull. Soc. Senese St. Patria " XXVIII(1921) 75-85; A. Lisini, D. e le sue relazioni con Siena, in " Diana " III (1928) 81-103; ID., La P. di D., ibid. (1928) 249-275; Barbi, Problemi I 279-280; G. Ciacci, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella D.C., I, Roma 1935, 303-334; A. Lisini - G. Bianchi-Bandinelli, La P. dantesca, Siena 1939 (recens. di F. Maggini, in " Studi d. " XXVI [1942] 198-199); M. Barbi, Con D. e coi suoi interpreti, Firenze 1941, 336-340 (recens. a G. Ciacci, Gli Aldobrandeschi, in " Studi d. " XX [1937] 94-97); G. Troccoli, Il Purgatorio dantesco, Firenze 1951, 53-55; A. Scolari, Nota dantesca (Pg V 134-136), in " Atti Ist. Ven. " CXXI (1963) 147-155 (recens. di F. Maggini, in " Giorn. stor. " CXLI [1964] 125-126). Tra le più importanti letture del c. V, cfr. C. Ricci, in Ore ed ombre dantesche, Firenze 1921, 249-283, in partic. pp. 271-277; C. Grabher, ibid. 1947; P. Vannucci, Roma 1951; H. Hatzfeld, in Lett. dant. 767-786 (in partic. pp. 116-118); U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 135-150 (in partic. pp. 148-150); M. Puppo, in Lect. Scaligera II 163-179 (in partic. pp. 176-179).