Piacenza
Quando si evoca la storia di Piacenza all'epoca di Federico II, è inevitabile tornare di continuo alle lotte tra fazioni che videro contrapposti milites e popolo e, a partire dal 1240, guelfi e ghibellini. All'indomani della pace di Costanza (1183), la città fu scossa dalle prime dimostrazioni di artigiani e negozianti che reclamavano la partecipazione al governo comunale, dominato fino a quel momento dagli aristocratici, le cui divisioni politiche diedero un crescente impulso alle rivendicazioni 'popolari'. I milites, ossia gli aristocratici che detenevano il potere comunale, si adoperarono per smorzare la tensione, rivolgendosi a podestà provenienti, in genere, da Milano o da città alleate al tempo della lotta contro Federico Barbarossa. Fu proprio l'alleanza con Milano a ostacolare il giovane Federico, quando nel 1212 decise di andare a procacciarsi la corona germanica. Risalendo dalla Sicilia, dopo aver toccato Genova e Pavia, cercò di raggiungere Cremona, rimasta fedele agli Svevi, mentre contingenti milanesi e piacentini tentarono inutilmente di sbarrargli il passo per impedirgli di attraversare il Lambro.
Non appena si assicurò il trono imperiale, nel 1220, Federico II si prefisse l'obiettivo di riorganizzare il Regno d'Italia ripristinando la situazione vigente all'indomani della pace di Costanza, a discapito delle usurpazioni compiute dai governi comunali. La riunione prevista a Cremona nel 1226 non ebbe alcun seguito; invece le agitazioni scoppiate a Piacenza all'inizio degli anni Venti determinarono l'arrivo di un podestà di origine cremonese, dietro pressione dei pedites raggruppati nella societas populi, in contrapposizione ai milites della societas militum. Il governo comunale di Piacenza non fu coinvolto nell'assemblea di Mosio, ai confini del contado di Brescia e Mantova, dove si ricostituì la Societas Lombardie, Marchie et Romanie, ovvero una rifondazione della Lega lombarda. La minaccia rappresentata da Federico II riportò la pace civile in città e inviati locali parteciparono all'assemblea convocata a Verona il 4 aprile 1226, durante la quale i podestà di Milano, Bologna, Brescia, Piacenza, Treviso, Vercelli, Verona e Vicenza si accordarono per mettere a tacere i loro dissidi; il 28 aprile dello stesso anno, a Mantova, i loro delegati stabilirono di non prestare più alcun appoggio ai partigiani di una fazione cittadina avversaria della Lega. Se pure Piacenza non fu nominata fra le città colpite dall'interdetto lanciato dal vescovo Corrado di Hildesheim a Borgo S. Donnino l'11 luglio 1226, nondimeno fu annoverata fra le città che avevano costretto l'imperatore a ripiegare, e l'autore del Chronicon Placentinum evocò con tono poeticamente ironico la ritirata di Federico, fin troppo felice della mediazione di papa Onorio III. Piacenza, nel febbraio 1227, figurò tra le sedici città alle quali l'imperatore aveva accordato il suo perdono.
Una volta ristabilita la pace, ripresero le lotte tra fazioni, segnate dall'alternanza al potere dell'una o dell'altra. In questo periodo la fazione 'popolare' della societas populi era capeggiata da un aristocratico, Guglielmo Landi, al quale si unirono altri membri della sua classe: erano inclini a prestare appoggio a Federico II, mentre i milites si schierarono con il fronte milanese della Lega e con il papa. Questi nobili erano intensamente coinvolti negli affari commerciali, animavano societates bancarie e mercantili, ben collocate sulla piazza ginevrina, da cui facevano circolare denaro e derrate commerciali tra le fiere della Champagne e il Mediterraneo orientale. Nel 1236, dopo che Federico II ebbe convocato una dieta da tenersi in luglio a Piacenza, il fallimento di una congiura ordita da Guglielmo Landi, Uberto Pallavicini e Corrado Malaspina provocò la messa al bando del primo, che tuttavia, dalle valli del Ceno e del Taro, il contado a est della città in cui era saldamente radicato, continuò a moltiplicare i suoi intrighi contro gli aristocratici che detenevano il governo del comune (il cardinale Jacopo Pecorara era stato l'artefice dello scacco di Guglielmo Landi).
Nel 1236 si riaccese il conflitto fra la Lega, animata da Milano e dai suoi alleati, e l'imperatore. Fino al 1250 il governo comunale di Piacenza rimase un membro fedele della Lega, ma dopo la disfatta milanese di Cortenuova, nel 1237, le milizie cittadine erano ormai timorose di scontrarsi con le forze imperiali in aperta campagna, tanto che le operazioni militari il più delle volte si ridussero a una serie di scaramucce che si ripercossero negativamente sul contado piacentino. Se Federico II non riuscì a impadronirsi di nessuna città importante della Lega (fallì l'assedio di Brescia nel 1238), ciò si spiega con il rafforzamento delle difese delle mura cittadine dietro le quali si trinceravano le armate comunali (v. Ingegneria). L'imperatore cercò comunque di riorganizzare l'amministrazione del Regno d'Italia attraverso la creazione di vicariati generali, affidati a parenti o a feudatari favorevoli alla politica imperiale. Questo progetto si configurò nel vicariato della Lombardia occidentale, di cui doveva far parte Piacenza, istituito nel 1247 e affidato a Uberto Pallavicini, discendente di una grande famiglia feudale insediata fra i contadi di Piacenza, Parma e Cremona.
A fronte della difficoltà di penetrare nelle città con le armi, come dimostrò lo scacco subito a Parma nel 1248, l'imperatore cercò di trarre profitto dalle lotte tra fazioni che divampavano all'interno delle mura, dove poteva contare su uomini che assecondavano le sue mire. Mentre a Genova gli uomini d'affari piacentini, in massima parte d'estrazione aristocratica, s'impegnarono risolutamente a finanziare la crociata di s. Luigi nel 1248, all'interno della città tessevano i loro intrighi i partigiani di Federico II, che si servivano degli ambienti 'popolari' per raggiungere i loro scopi. Nel marzo del 1250 esplose una rivolta provocata da problemi di approvvigionamento. Infatti, all'indomani della battaglia di Vittoria del 1248, che aveva messo fine all'assedio di Parma da parte dell'imperatore, i governi comunali di Milano e di Piacenza si erano impegnati a soccorrere i parmensi, il cui contado era stato duramente provato dagli eventi bellici. Il governo di Milano aveva approntato sulla riva sinistra del Po derrate alimentari dirette a Parma, ma il podestà di Piacenza Matteo da Correggio, originario di Parma, aveva dovuto affrontare il malumore della popolazione piacentina, risentita nel vedere che il grano e gli ortaggi del contado erano convogliati verso la città vicina mentre incombeva la minaccia di una carestia. Su istigazione degli Scotti, secondo il racconto dell'Anonimo ghibellino, un certo Antonino Saviagatta si mise alla testa del movimento popolare, con l'appoggio dei dirigenti della societas populi. Il capo prescelto per il governo comunale, denominato "rettore", fu Oberto de Iniquitate, malgrado fosse stato rapidamente richiamato in città Guglielmo Landi con il figlio Ubertino. Furono autorizzati a rientrare in città tutti gli esiliati della fazione 'popolare'; non soltanto i Landi furono riammessi, ma anche i membri delle famiglie Fontana e Pallastrelli. I congiurati dovettero comunque impegnarsi a giurare fedeltà e obbedienza alla Chiesa rappresentata dal cardinale Ottaviano Ubaldini. Di fatto, la città oscillava, ancora una volta, fra il campo guelfo e quello ghibellino.
I capi più insigni dei milites, come Filippo Vicedomino e Pietro Malvicini, furono messi al bando, e da questo momento la fazione si dimostrò impotente a riprendere in mano la situazione. All'indomani della morte di Federico, nel corso del 1251, Piacenza passò definitivamente in campo ghibellino e il cardinale Ubaldini fu costretto ad abbandonare la città. Quando Oberto de Iniquitate cedette la sua carica di rettore del popolo, nel 1252, fu sostituito da Uberto Pallavicini, vicario imperiale in Lombardia e già podestà di Cremona, che riuscì a costituire una potente signoria intorno alle città di Milano, Pavia, Cremona e Piacenza, in un periodo in cui gran parte dell'Italia comunale passava dalla parte dei ghibellini guidati da Manfredi, figlio naturale di Federico II, al quale era succeduto sul trono di Sicilia. A Piacenza Uberto Pallavicini era rappresentato da Ubertino Landi ‒ elevato da Manfredi al rango di conte di Venafro ‒ il quale si appropriò di uno degli introiti più redditizi della città, la riscossione dei pedaggi fluviali. La città sarebbe tornata in campo guelfo solo con la discesa di Carlo d'Angiò nel 1265, finanziata in gran parte da uomini d'affari piacentini, e allora Ubertino Landi fu costretto una seconda volta a prendere la via dell'esilio dopo la sua espulsione dalla città nel 1262.
fonti e bibliografia
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(traduzione di Maria Paola Arena)