piacere
La sfera edonistica è un aspetto molto importante nell’esistenza di tutti gli organismi viventi. Le esperienze che danno piacere sono positive, garantiscono una migliore qualità di vita e un attaccamento ai propri consimili fondamentale per lo sviluppo della socialità; ricordarle e riviverle è una tendenza naturale dall’ovvio significato evolutivo di conservazione della specie. Date la soggettività e la complessità emotiva legate a un evento piacevole, lo studio di tale argomento presenta numerose difficoltà, ma dopo anni di ricerche si è arrivati a ottenere una discreta conoscenza dei circuiti e dei mediatori chimici che generano e regolano le sensazioni di piacere. [➔ droghe; dipendenza, tolleranza, sensibilizzazione; endorfine; omeostasi, controllo nervoso della; rinforzo] Il p., quel senso di appagamento e di soddisfazione che deriva dalla realizzazione di bisogni, desideri e di aspirazioni fisiche o intellettuali, è stato da sempre al centro della speculazione filosofica. Da diversi decenni, però, è anche oggetto delle indagini sperimentali indirizzate a individuarne i correlati fisiologici cerebrali.
L’ipotesi che potessero esistere aree cerebrali specificamente deputate al controllo del p. venne avanzata per la prima volta a seguito di fortuite casualità sperimentali. Queste portarono due ricercatori americani, James Olds e Peter Milner, a constatare che la stimolazione diretta di determinati circuiti nervosi porta alla generazione di sensazioni piacevoli. Intendendo inizialmente studiare altri tipi di fenomeno, essi impiantarono un elettrodo in alcune aree del cervello di un ratto e gli insegnarono a premere una leva ogni volta che desiderava autostimolarsi. Dopo breve tempo osservarono con grande sorpresa che l’animale tendeva ad avviare la stimolazione con una frequenza sempre maggiore, non lasciandosi distrarre da niente, nemmeno dall’offerta di cibo. Ne dedussero che il ratto, in questo modo, si procurasse una sensazione di p. che voleva poi ripetere e perseguire a ogni costo. Esistono diverse strutture cerebrali che, se attivate, inducono il fenomeno dell’autostimolazione; tuttavia, moltissime ricerche sperimentali si sono concentrate su una parte della via mesolimbica, in partic. quella che ha origine nell’area tegmentale ventrale e termina nel nucleo accumbens, e hanno dimostrato che essa svolge un ruolo di cruciale importanza per la generazione di tali eventi. Questa via è costituita da neuroni i cui bottoni terminali secernono dopammina come neuromodulatore (una leva che produce iniezione diretta di dopammina nel nucleo accumbens viene continuamente premuta da ratti addestrati); inoltre, la somministrazione di un antagonista dopamminergico nella stessa area interferisce con il comportamento di autostimolazione. Studi di microdialisi (una tecnica che permette l’analisi dei liquidi interstiziali in specifiche regioni cerebrali) hanno confermato che anche stimoli naturali come l’assunzione di acqua, di cibo o l’accoppiamento portano alla produzione di dopammina nel nucleo accumbens, fornendo un’ulteriore prova al fatto che tali circuiti sono ampiamente interessati alla generazione delle sensazioni di p. e nel rinforzo che le accompagna. Nonostante ciò, non si può escludere la partecipazione di altre aree cerebrali: per es., diverse zone del sistema limbico garantiscono la presenza di quella complessità emotiva che affianca la percezione del p. e, come si chiarirà in seguito, possono regolare gli stati mnemonici che lo accompagnano. Oltre a ciò, in questo contesto, possono dare un contributo fondamentale mediatori chimici differenti, quali la noradrenalina e la serotonina, essenziali nella regolazione dell’umore, dello stato attentivo e delle manifestazioni emotive. A seguito di un evento piacevole vengono anche liberate particolari sostanze che producono effetti di tranquillità e benessere: sono le endorfine (➔), neuropeptidi i cui recettori sono molto concentrati a livello del sistema limbico e che svolgono una duplice azione come antidolorifici naturali e come fattori euforizzanti. L’uso di sostanze che si legano ai recettori per le endorfine diminuisce l’attività sessuale mentre farmaci che inibiscono i recettori l’aumentano. Inoltre, si sa che negli animali, dopo l’accoppiamento, vi è un forte aumento di peptidi di tipo endorfinico in circolo. Se, quindi, la dopammina è riconosciuta come mediatore chimico importante nella preparazione dell’organismo a compiere un’azione che gli procurerà gratificazione (ricordo del p. provato in contesti simili e approccio volontario a tali contesti), le endorfine potrebbero partecipare attivamente alla fase successiva di godimento del p. stesso.
Il concetto di p. è intimamente connesso con quello di rinforzo (➔). Quest’ultimo si ottiene, infatti, nel momento in cui una determinata azione induce la comparsa di una ricompensa o la cessazione di un evento avversivo, a seconda che il rinforzo sia positivo o negativo. Se, per es., facciamo costantemente seguire al miagolio del nostro gatto una carezza, il suo comportamento di miagolare viene rinforzato positivamente dalla sensazione piacevole del contatto fisico. Allo stesso modo, il gatto subisce un rinforzo negativo se miagolando riesce a farsi liberare da un fastidioso collare. Il rinforzo negativo non deve essere confuso con la punizione: il primo porta all’aumento della probabilità che un determinato comportamento si ripresenti poiché causa la scomparsa di uno stimolo sgradevole, mentre la punizione porta all’estinzione di una risposta comportamentale perché essa scatena l’evento avversivo (se rimproveriamo pesantemente il nostro gatto ogni volta che miagola, smette presto di farlo). La stimolazione elettrica delle aree cerebrali coinvolte nella generazione del p. è un mezzo estremamente potente per indurre rinforzo. Al contrario, stimoli naturali (come l’assunzione di cibo) sono rinforzanti solo nel momento in cui l’animale si trova in un particolare stato motivazionale (cioè quando è affamato). La connessione tra rinforzo e motivazione sembra avvenire a livello ipotalamico (➔ omeostasi, controllo nervoso della). Grazie a studi condotti sulle scimmie, infatti, è stato dimostrato che un gruppo di neuroni dell’ipotalamo laterale può rispondere alla vista e al sapore del cibo solo quando l’animale ha fame, con una frequenza di scarica proporzionale alla propensione dell’animale a cibarsi con un determinato alimento. I meccanismi di rinforzo possono andare incontro a condizionamento classico, per cui uno stimolo precedentemente neutrale, se ripetutamente associato con un’azione che dà rinforzo, diventa esso stesso rinforzante e, se ripresentato in seguito da solo, porta all’attivazione dei centri del p. sopra menzionati. Lesioni all’amigdala basolaterale compromettono significativamente tale fenomeno, nonostante rimangano intatte le capacità sensoriali discriminative verso gli oggetti che dovrebbero dare rinforzo condizionato.
La maggior parte delle sostanze psicoattive (➔ droghe) che provocano dipendenza (➔ dipendenza, tolleranza, sensibilizzazione) agisce sui centri del p. aumentando i livelli di dopammina nel nucleo accumbens e, di conseguenza, porta a un rinforzo del comportamento individuale. Rispondendo alle regole del condizionamento operante, l’efficacia di un rinforzo è maggiore se l’effetto si verifica immediatamente dopo la messa in atto dell’azione. Questo fenomeno spiega perché le droghe che causano maggiore dipendenza siano quelle con conseguenze immediate e anche perché i tossicomani preferiscano continuare a fare uso di stupefacenti nonostante la consapevolezza degli effetti negativi a lungo termine. Oltre al rinforzo positivo della sensazione di euforia e p. derivanti dall’assunzione di una droga, la tossicodipendenza vede il coinvolgimento di diversi sistemi di rinforzo negativo: esempi sono la volontà di allontanarsi da situazioni ansiogene e psicologicamente problematiche o la tendenza a evitare gli sgradevoli ef fetti della crisi d’astinenza, i cui sintomi sono quasi sempre opposti rispetto agli effetti della specifica droga (per es., se questa determina rilassamento, la crisi di astinenza sarà principalmente caratterizzata da disforia e agitazione) e sono probabilmente il risultato di una naturale propensione dell’organismo a controbilanciare l’intossicazione cronica. L’utilizzo abituale di uno stupefacente, infatti, porta a una forma di desensibilizzazione: il rilascio di dopammina nel nucleo accumbens è sempre minore e possono persino verificarsi modifiche strutturali a carico delle arborizzazioni dendritiche della via mesolimbica, con riduzione della complessità delle loro ramificazioni. In mancanza della droga, il tono dopamminergico è esageratamente basso, tanto da provocare i sintomi dell’astinenza. Tutto ciò è anche alla base della tolleranza, fenomeno per cui sono necessarie dosi sempre maggiori di una sostanza per ottenere gli effetti iniziali. Farmaci che bloccano i recettori dopamminergici della via mesolimbica possono effettivamente annullare gli effetti rinforzanti di molte droghe. Tuttavia, essi determinano anche disforia e anedonia (➔), rendendo insopportabile il loro uso da parte dei pazienti. Allo stesso modo, sostanze che causano un aumento della dopammina o l’attivazione dei suoi recettori hanno un’utilità limitata poiché provocano esse stesse dipendenza. Nel corso degli anni sono stati tentati diversi approcci e alcuni di essi si sono rivelati promettenti, sebbene manchino ancora (2010) prove cliniche della loro efficacia. Per es., da studi nel ratto e nelle scimmie, è stato evidenziato che un agonista GABAergico può determinare una riduzione del rilascio di dopammina nel nucleo accumbens a seguito di somministrazioni di cocaina; questo porta effettivamente a una diminuzione degli effetti rinforzanti di tale droga.
La condizione di anedonia – ossia l’incapacità di provare p., gioia e benessere nelle situazioni di tutti i giorni, anche in quelle che vengono comunemente considerate gradevoli (cibarsi, dormire, l’attività sessuale ecc.) –, quando raggiunge un certo grado di cronicità può essere sintomo di malattie psichiatriche quali la depressione maggiore o la schizofrenia: in entrambi i casi, infatti, si possono evidenziare appiattimento emotivo, senso di vuoto e costante perdita di motivazione. È interessante notare che le due patologie sopra citate comportano il coinvolgimento di disfunzioni nelle vie dei neuromodulatori cerebrali (dopammina, serotonina, noradrenalina, ecc.). Nonostante il quadro psichiatrico sia estremamente complesso e oggetto di continui studi e dibattiti, un ridotto o anomalo funzionamento dei circuiti legati alla sensazione di p. e di rinforzo potrebbe spiegare, almeno in parte, l’anedonia associata a questi disturbi.
Da molto tempo è noto che l’esercizio fisico porta alla produzione di una certa quantità di endorfine endogene. I livelli plasmatici di β-endorfina dopo uno sforzo atletico possono aumentare fino a cinque volte e si pensa che essa sia coinvolta nello stato d’animo di tranquillità e di pace che segue l’allenamento. È stato dimostrato, infatti, che la somministrazione di un farmaco bloccante verso i recettori degli oppioidi durante l’esercizio fisico può prevenire tale senso di benessere e di soddisfazione. Tuttavia, il ruolo delle endorfine in questo contesto è molto più ampio. Lo sforzo a cui l’organismo va incontro mentre si pratica uno sport viene percepito come una situazione di stress e causa, quindi, una serie di effetti omeostatici volti alla stabilizzazione dei parametri corporei. Ne segue aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria e della pressione sanguigna, reazioni che hanno come scopo specifico il migliore utilizzo delle riserve energetiche corporee. Allo stesso modo, il rilascio delle endorfine sarebbe funzionale alla sopraggiunta necessità di sostenere la fatica; esse, grazie ai loro recettori sparsi sulla superficie delle fibre muscolari, aumentano l’ingresso di glucosio nelle cellule e possono persino interagire con i segnali noradrenergici a livello cardiaco per regolare la frequenza del battito. Addirittura la neurogenesi ippocampale, a seguito di esercizio fisico nell’adulto, richiede la presenza di β-endorfina. La sensazione di p. che l’allenamento sportivo porta con sé è tale che a volte sono state riscontrate vere e proprie sindromi di dipendenza caratterizzate dalla comparsa di crisi d’astinenza dopo 24÷36 ore di mancata pratica dell’attività; quando ciò accade, tutta la vita del soggetto viene programmata in funzione dello sport, con conseguenti gravi ripercussioni a livello lavorativo e sociale. Il sistema di ricompensa indotto dalle endorfine è sicuramente cruciale nell’insorgenza di tali effetti che, tuttavia, possono essere dovuti anche a disfunzioni nella trasmissione monoamminergica. In partic., è stato dimostrato anche nell’uomo che l’esercizio fisico incrementa la sintesi di serotonina. Coloro che sono dipendenti da sport potrebbero ricercare, in questo modo, un aumento dell’euforia e una riduzione dei livelli soggettivi d’ansia. Maria Spolidoro
Il piacere estetico
L’osservazione di un paesaggio, di un’opera d’arte, di un danzatore che compie i suoi esercizi, oppure la lettura di una poesia o l’ascolto di una melodia provocano in noi sensazioni complesse che coinvolgono i sensi a livello sia razionale sia vegetativo. Infatti, quando nasce un pensiero nel nostro cervello, l’attività da esso generata nel sistema nervoso può influenzare altre funzioni come il battito cardiaco, la sudorazione, la salivazione e il diametro pupillare. Alla fine dell’esperienza estetica ci sentiamo in uno stato di grazia e pervasi da emozioni che si riassumono nell’espressione di piacere estetico. È affascinante notare come tali impressioni somiglino a quelle suscitate da stimoli piacevoli di carattere più materiale come l’assaggiare il cibo preferito o l’immergersi in un rilassante bagno caldo. Come in questi casi, la vista di un bel quadro potrebbe portare all’accensione dei centri del piacere nell’area tegmentale ventrale e nel sistema limbico, con conseguente produzione dei mediatori chimici coinvolti in tali sensazioni. Tali mediatori appartengono principalmente alla classe delle catecolammine, che partecipano anche all’attivazione generale della corteccia nel fenomeno dell’arousal («risveglio»), che ci rende più ricettivi verso le esperienze sensoriali. Lo stadio che segue l’esperienza estetica è caratterizzato da benessere e soddisfazione e potrebbe essere dovuto alla produzione di endorfine (➔), che porta con sé rilassamento e pace.
L’idea di bellezza è stata da sempre oggetto di discussione da parte di filosofi, scrittori, poeti, artisti e critici d’arte. Che l’esperienza estetica sia qualcosa di soggettivo, primariamente determinata dalle emozioni contingenti e dai valori personali, è espresso al meglio dalla frase popolare «la bellezza è negli occhi di chi guarda», spostando i canoni estetici da un livello oggettivo a uno più individuale. Tuttavia, è innegabile che esistano criteri universali che definiscono le qualità estetiche di un paesaggio, di un’opera d’arte o di una persona. Vanno ricordate, a questo proposito, le leggi percettive della Gestalt, con il concetto della buona forma, che dimostrano l’esistenza di regole ben precise nell’ordinamento delle nostre percezioni. Quando si osservano semplici figure geometriche, come triangoli, cerchi o quadrati, che abbiano piccole irregolarità o asimmetrie, si tende sempre a percepire la forma nel suo aspetto più regolare e simmetrico. Questa tendenza è già presente nei bambini molto piccoli. Inoltre, siamo principalmente attratti da figure che abbiano una certa armonia nelle proporzioni. Sin dall’antichità è nota la cosiddetta sezione aurea di un segmento, ossia il rapporto fra due grandezze disuguali, delle quali la maggiore è media proporzionale tra la minore e la somma delle due. Tale rapporto, pari a 1,62, è stato ampiamente usato nella realizzazione di sculture classiche, oltre che in opere pittoriche e architettoniche rinascimentali. In uno studio del gruppo diretto da Giacomo Rizzolatti di Parma è stato dimostrato che il giudizio estetico su una scultura classica dipende fortemente dalle sue proporzioni, anche in soggetti completamente a digiuno di arte. Rizzolatti ha osservato che mostrando a un gruppo di volontari una serie di immagini raffiguranti il Doriforo di Policleto nella versione originale oppure in due versioni alternative in cui era stata modificata la proporzione, si ottiene l’attivazione di aree cerebrali distinte. Se ai soggetti si chiede semplicemente di osservare l’immagine non modificata, senza dare un giudizio estetico, si nota l’accensione dell’insula e di alcune delle aree della corteccia laterale e mediale. Quando, invece, i volontari devono indicare la figura che ritengono più bella si ha un’attivazione selettiva dell’amigdala. Il senso della bellezza artistica potrebbe, quindi, essere determinato sia dall’attivazione di aree implicate nella percezione della proporzione (bellezza ‘oggettiva’), sia dall’intervento degli stati emotivi individuali (bellezza ‘soggettiva’). Secondo questa interpretazione, i canoni di bellezza oggettiva sarebbero innati, anche se modellati sulla base di conoscenze acquisite. In una serie di altri esperimenti, alcuni volti umani sono stati sovrapposti ed è stato generato il cosiddetto volto medio. Se si chiede ad alcuni osservatori di indicare il volto che sembra loro più attraente, in generale essi giudicano più bello quello medio. Tale risultato è stato interpretato come la dimostrazione che certi modelli di riferimento si formano per somma di molteplici esperienze.
«Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere» (Stendhal, Napoli e Firenze: un viaggio da Milano a Reggio). Questa è la descrizione che Henri Beyle, in arte Stendhal, fa delle sensazioni provate dopo aver visitato la Basilica di Santa Croce a Firenze durante il suo viaggio in Italia nel 1817. In suo onore la psichiatra Graziella Magherini chiamò sindrome di Stendhal una patologia psichiatrica caratterizzata da tachicardia, vertigini, allucinazioni in soggetti esposti alla visione di opere d’arte. La malattia, piuttosto rara, colpisce principalmente persone molto sensibili e fa parte dei cosiddetti ‘malanni del viaggiatore’. Più della metà delle sue vittime è costituita da individui solitari, di formazione classica o religiosa, di origine europea (tranne gli italiani che ne sembrano immuni) e giapponese. Le manifestazioni più lievi sono simili a crisi di panico, mentre quelle più gravi possono portare ad attacchi di angoscia e sensi di colpa, allucinazioni e paranoia. A volte tale sindrome può sfociare in comportamenti aggressivi che conducono al tentativo di danneggiare l’opera.