PIACERE
. La considerazione filosofica della natura del piacere ha origini assai remote, e si può dire nasca, nel pensiero occidentale, insieme con le prime forme di riflessione circa il problema morale. Oggetto di discussione vivacissima essa è già nell'età socratica, in cui costituisce il tema fondamentale dell'antitesi fra etica cinica ed etica cirenaica. Per la prima, che presuppone l'ideale dell'autarchia, raggiungibile mercé l'indifferenza a ogni desiderio e bisogno, il piacere è il nemico massimo, appunto come motivo determinante di tutte quelle azioni che, presupponendo una dipendenza affettiva dalle cose, inducono l'animo in schiavitù: di qui la famosa frase di Antistene, che "preferiva diventar pazzo piuttosto che provar piacere". Per l'etica cirenaica, invece, che interpreta unilateralmente il concetto socratico dell'attraenza del bene, e insieme si riconnette alla proclamazione sofistica della spregiudicata ricerca della soddisfazione individuale, il piacere (ἡδονή, donde il nome di "edonismo"), è il movente fondamentale dell'azione: ed è concepito come attiva e diretta fruizione, che si realizza principalmente nell'immediata esperienza sensibile.
Tra queste due estreme valutazioni, il platonismo e l'aristotelismo assumono una posizione in complesso più equilibrata. Approfondendo il motivo socratico della necessaria attraenza, cioè piacevolezza, del bene, Platone finisce con accorgersi, al termine del suo periodo propriamente socratico, che a concepire la piacevolezza come essenziale al bene si rischia di risolvere addirittura (con i sofisti e con i cirenaici) il bene nel piacevole: e giunge quindi (tipico a questo proposito il Gorgia) a una prima svalutazione assoluta del piacere, la quale è più tardi idealmente continuata dalla sua dottrina della totale alterità dell'anima rispetto al corpo, e della conseguente mera corporeità di tutto il mondo delle "passioni", non escluso il piacere.
Come è noto, la teoria platonica della necessaria liberazione dell'anima dalla corporeità del piacere è principalmente esposta nel Fedone: ed è tipico che proprio in questo dialogo compaia quell'accenno alla relatività e presupposizione reciproca del piacere e del dolore che, essendo messo in bocca a Socrate e colpendo principalmente l'attenzione col tono negativo della sua osservazione della genesi del piacere dalla cessazione del dolore, ha poi influito sulla tradizione posteriore sotto l'aspetto di teoria socratica della negatività del piacere (v. più sotto). Ma altrimenti - e conforme alla stessa differenza onde alla psicologia del Fedone, per cui la passionalità è solo corporea, si contrappone la psicologia, per es., della Repubblica, per cui la passionalità è parte dell'anima e non può quindi essere da essa abbandonata - Platone tende piuttosto a regolare che a escludere il piacere: e nel Filebo (che del piacere analizza sottilmente le varie forme, nelle loro relazioni e mescolanze con quelle del dolore, facendo risalire queste ultime a disarmonie e le prime a restaurazioni di armonia) considera come ideale supremo la vita in cui la determinatezza della ragione compenetri e domini l'illimitatezza del piacere (il raggiungimento del quale è del resto considerato come fine ultimo d'ogni essere vivente dal platonico Eudosso). E Aristotele considera il piacere come un'integrazione dell'attività umana, che viene spontaneamente a perfezionarla, attestando la sua piena e naturale realizzazione. Stoicismo ed epicureismo rinnovano invece nella valutazione del piacere, l'antitesi cinico-cirenaica, ma su un piano meno elementare e unilaterale: se infatti lo stoicismo giunge ad ammettere, anche per influsso aristotelico, una certa giustificazione del piacere, l'epicureismo respinge l'attivismo edonistico dei cirenaici (che del resto, con Egesia, si convertiva in pessimistica sfiducia circa la conquista del piacere) preferendo al "piacere in movimento" il "piacere stabile" e concependo quest'ultimo soprattutto in forma negativa, come apatica assenza di dolore. È questa, come si è detto, la famosa "teoria negativa" del piacere, che il Fedone platonico fa enunciare scherzosamente a Socrate (e che difatto si collega piuttosto, storicamente, con la concezione platonica - v. il Gorgia - e parallelamente anche cinica del piacere come eterna soddisfazione di un'insoddisfazione, che deve perciò essere non meno eterna): teoria la quale, variamente ripresa da Cardano, Montaigne, Locke, Magalotti, ha infine trovato la sua più caratteristica formulazione moderna nel Discorso sull'indole del piacere e del dolore di Pietro Verri.
Nel Medioevo, la tendenza ascetica e la rinuncia ai beni transeunti per la conquista dei beni eterni conducono naturalmente a una svalutazione del piacere, nonostante che l'intrinseco volontarismo dell'etica e della teologia cristiana faccia maggior luogo a quei valori pratici, che il pensiero classico tendeva piuttosto ad escludere. La rivalutazione edonistica del piacere è quindi anche essa uno dei segni della riscossa contro il Medioevo, che si attua nell'Umanesimo e nel Rinascimento. Nel pensiero moderno il problema particolare del piacere si fonde in genere con quello più vasto della giustificazione pratica e morale dell'azione, e del posto che il movente edonistico o eudemonistico debba avere, o meno, in essa (cfr. etica; economia politica; edonismo).