Piacere
Il piacere è il senso di viva soddisfazione che deriva dall'appagamento di desideri, fisici o spirituali, come pure di aspirazioni di vario genere. Nel suo significato più immediato e corrente il termine è sinonimo di godimento o, più esattamente, di esaltazione dei sensi.
La semantica del termine piacere è connessa originariamente, almeno nelle lingue indoeuropee, alla sfera del gusto. Infatti la parola greca ἡδονή, "piacere", discende dalla radice suad da cui derivano il greco ἡδύς, "dolce", e i termini latini suavis, suavitas, che conservano il senso proprio del piacere sensibile, per es. nella formula suavitas odorum; l'accezione di dolcezza assume poi il significato esteso di 'gusto', riferibile alla sensibilità in generale. Inoltre il verbo greco ἥδομαι, "addolcire", significa anche "condire", ed è perciò relativo non solo al provare piacere ma al procurarsi piacere. Da notare infine che la Bibbia dei Settanta traduce con ἡδονή la parola ebraica ta'am di Numeri (11, 8) nell'accezione di 'buon sapore': il passo in questione descrive la manna e dice che aveva l'aspetto di resina odorosa e il sapore di pasta d'olio. Il Nuovo Testamento invece impiega il termine plurale ἡδοναί per designare in generale i piaceri sensibili; le ἡδοναί assumono qui un'accezione negativa in quanto espressione dell'ἐπιθυμία, della brama, del desiderio, del dominio irrefrenabile dell'istinto, ma sono comunque relative alla sfera del sensibile, alla fisicità in senso stretto. A partire dalla sua valenza semantica, il piacere designa dunque un qualcosa che ha a che fare direttamente con l'esperienza dell'Io corporeo. Essere corpo significa esperire il mondo e insieme essere collocati in esso. La sensazione traccia un confine tra il dentro e il fuori, è un punto di tensione ove l'oggetto - o l'alterità di cui si ha percezione - si formula come termine di repulsione o di desiderio. La sensazione, indice di esteriorità, si esplica poi come sensibilità, come esperienza di gradevolezza (piacere) o di molestia (dolore) rispetto al circostante, cose o uomini che siano. La sensibilità corrisponde dunque al modo di relazionarsi del soggetto con il dato e viene perciò a coincidere con la sua determinazione attiva rispetto all'esteriorità, con l'affetto piacere/dolore; è la linea di confine dell'Io, superficie di eccitazione, campo d'implementazione del piacere: quello proprio attraverso quello dell'altro. Nel piacere l'altro è esperito come momento e occasione della propria crescita e insieme come termine della propria fruizione. Nel piacere, dunque, si fa esperienza dell'Io corporeo perché si fa esperienza dell'esteriorità. Il corpo, infatti, è situato nello spazio mondo, non però come semplice cosa, ma come spazio di transitività. In termini di teoria dei sistemi l'Io corporeo è autopoietico e relazionale: è, infatti, un sistema biopsichico chiuso e insieme aperto, resistente o adattativo a seconda dei casi, permeabile o non all'ambiente a seconda del grado di pressione che questo esercita su di esso. Infine è 'corpo pulsionale', energia, bisogno di soddisfazione versus desiderio soddisfatto: in breve, tendenza a espandersi. Th. Hobbes nel primo paragrafo del capitolo 11° del De homine (1658) afferma che la sensazione equivale alla percezione di un oggetto come qualcosa di esterno, mentre il piacere consiste in una passione che viene prodotta dall'azione dell'oggetto, ed è un 'conato verso l'interno'; questo conato deve essere interpretato non tanto come passività ma come passione e perciò come desiderio. D'altra parte lo stesso Hobbes meglio determina questa nozione quando negli Elementi di legge naturale e politica (1640) definisce il conato come "l'inizio interno del moto animale" (I, cap. 7, sez. 2). Nella soddisfazione del desiderio sta, dunque, il piacere. Prescindendo dall'impianto meccanicistico di Hobbes e attingendo dal suo pensiero quel che serve, possiamo intendere il piacere come il determinarsi attivo del soggetto rispetto al contenuto della sensazione. Il piacere, dunque, modifica la percezione d'esteriorità in moto verso l'oggetto, in eccitazione sensibile o meglio in 'sensibilità eccitata'. Di qui la configurazione attiva del piacere come già Aristotele aveva correttamente inteso: "Il piacere - egli scrive - è un'attività (ἐνέργεια) della disposizione che è secondo natura" (Etica Nicomachea, 1153a, 14). Da questo concetto deriva il dinamismo espansivo del piacere. Non a caso Aristotele completa la sua definizione di piacere dicendo che esso non solo è un'attività, ma è attività 'non impedita' (ἀνεμπόδιστον). La dinamica espansiva del piacere spinge quindi ogni individuo a identificarsi con l'oggetto del proprio desiderio fino ad annullarsi in esso. Per converso vi è piacere solo in quanto l'oggetto del desiderio rinviene oltre la voglia, non si dissolve nella fusione, ma permane nella sua esteriorità, nella sua irriducibile alterità. L'oggetto del desiderio - come termine della propria soddisfazione - non può essere un qualcosa di consumabile, ma deve essere inesauribile. Il piacere, infatti, per essere tale non dovrebbe cessare. In ogni caso si vorrebbe non venisse mai meno, non finisse mai. Da questo punto di vista si capisce bene perché l'orgasmo, e in generale il piacere sessuale, è per eccellenza la cifra di ogni piacere. Nel piacere sessuale vi è tatto/contatto fino alla fusione, ma nel contempo vi è percezione e mantenimento della differenza perché il piacere possa crescere e incrementarsi. Il piacere sessuale, infatti, è caratterizzato dal massimo di reciproco impossessamento e dal minimo scarto, almeno quel tanto che basta per sperimentare il sempre di più, l'oltre, fino al dissolversi delle identità nell'eccesso, nella trance, cui segue la caduta. Questo insieme di ragioni spiega perché Platone, nel dare avvio alla sua ricerca sul piacere, inizia da Afrodite: "Bisogna tentare - dice Socrate - e cominciamo proprio dalla dea, la dea che costui dice chiamarsi comunemente Afrodite, mentre secondo lui il suo nome più vero è piacere" (Filebo, 12b, 8-9). Afrodite è dunque cifra del piacere. Si parte dal piacere sensibile e più esattamente da quel genere di piaceri che i greci definivano appunto ἀϕροδίσια (Foucault 1984), relativi al corpo inteso come superficie sensibile, luogo di contatto: la bocca, la lingua, la gola, a suo modo l'odorato e poi in genere la tattilità. Infine il rapporto sessuale come 'punto di fuoco' dell'attivarsi di tutta la sensibilità, ivi compresi i sensi della distanza: l'udito e la vista. Ora è proprio dei piaceri fisici, di quelli sessuali, tendere all'eccesso. Per questa ragione Aristotele ritiene che "la temperanza e l'intemperanza vertono intorno alle cose che costituiscono il dominio dell'incontinenza e della moderazione" (Etica Nicomachea, 1149a, 21-22). I piaceri del corpo, e in genere tutti quelli che danno ebbrezza, spingono gli uomini a non contenersi. Anche l'ira, per es., conduce alla perdita della ragione, ma non come il piacere, la gola e il sesso. Chi agisce per collera - dice infatti Aristotele - può provare anche dolore, non chi è preso dal piacere (Etica Nicomachea, 1149b e segg.). Caso mai pagherà le conseguenze dell'eccesso, ma questo è altro discorso: chi nel momento dell'attività sente piacere può divenirne più facilmente schiavo. I piaceri sensibili sono quelli a cui più facilmente perviene la generalità degli uomini e proprio in forza della loro accessibilità e diffusione, dell'immediatezza del godimento che danno, sono ritenuti i piaceri per eccellenza. "I piaceri del corpo - scrive Aristotele - si sono accaparrati l'eredità di questo nome per il fatto che il più delle volte si approda a essi e tutti ne partecipano. Quindi per il fatto che sono i soli che conoscono, pensano che questi siano gli unici piaceri" (Etica Nicomachea, 1153b 33-1154a, 1). Inoltre, a causa della loro universalità e immediatezza, quelli del corpo appartengono al genere di piaceri che gli uomini hanno in comune con gli altri animali. Di qui una tradizione svalutativa di essi, dall'antichità fino a epoche recenti. Però, a fronte di tale tradizione, vi è un altrettanto antico convincimento che scorge nei piaceri del corpo, e specificamente nella sessualità, il radicamento dell'uomo nella natura, la vita che vuole sé stessa, l'energia riproduttiva, l'esplosione della potenza. Questa forza originaria e animale è suscettibile di essere utilizzata in modo perfettamente umano e perfino ritualizzata. Nel tempo, infatti, la sessualità è stata fortemente stilizzata per essere meglio goduta, è divenuta pratica raffinata, ars amatoria, un'arte singolare finalizzata a far durare illimitatamente il piacere. Nel contempo spinge all'eccesso, anzi se lo procura, porta la mente fuori di sé. Di qui deriva il topos antichissimo del sesso come massima forma di piacere, ma anche come estremo pericolo. Nel Mahabharata si dice della donna lasciva che è "un fuoco ardente; lei è l'illusione nata dal velo di Maya; il filo tagliente di un rasoio; è al contempo, veleno, serpente, morte". Il medesimo tema si trova in Omero laddove descrivendo la cintura d'Afrodite dice che "lusinga e rapisce la mente anche di chi è molto saggio", verso citato da Aristotele (Etica Nicomachea, 1149b, 17-18). La misoginia della tradizione è qui tanto evidente quanto immotivata. Ma non è questo il problema: per dar conto dell'impiantarsi di questa tradizione bisognerebbe procedere a un'accurata analisi dei contesti d'epoca. Ciò che però qui è rilevante non è tanto relativo all'interpretazione del femminile, quanto alla femminilità intesa come cifra simbolica della seduzione e del piacere dei sensi, come occasione e invito all'eros, vale a dire all'attivarsi di quella condizione in cui uomini e donne escono fuori di ragione, ove il soggetto è espropriato del governo di sé. Si comprende dunque come e perché il piacere da fonte e occasione di soddisfazione si muti in pericolo, in assuefazione e dipendenza, in perdita della libertà, fino alla dissoluzione di sé. Radicalizzando, poi, si riterranno fonte di rischio non solo i piaceri dei sensi, ma ogni piacere. Posta la questione in questi termini, negativo non è il piacere in sé, ma l'eccesso, la dismisura. Per una singolare eterogenesi dei fini, nel momento stesso in cui il piacere dà agli uomini la sensazione di un loro illimitato espandersi - e per questo facilmente lo si confonde con la felicità - provoca l'indebolimento del carattere, la dipendenza dall'esteriorità. L'eccesso di piacere rende infelici perché si muta in vizio, che altro non è che una via sbagliata verso la propria felicità. Il piacere è rischioso perché spinge all'eccesso. Infatti, se non s'incrementa cade. Di qui un singolare paradosso. Leopardi nel prendere in considerazione la dinamica del piacere afferma che l'uomo, in senso stretto, non può mai godere. E ciò perché nessuno, sia pure nel punto massimo di piacere, "si trovò pienamente soddisfatto, né lasciò né sospese punto il desiderio né anche la speranza di un maggiore ed assai maggiore piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un vero e presente piacere" (Zibaldone, 2884). La riflessione di Leopardi è come sempre acutissima, anche se in questo caso va accolta con qualche riserva. Questo pensiero contraddice, infatti, la fisiologia del piacere. L'uomo quando perviene all'acme del godimento è trattenuto per intero nell'istante, il piacere al suo culmine cresce d'intensità, si sviluppa come dire su di sé. Il tempo si ferma, è abolita la distanza e con essa ogni possibile proiezione futura. L'idea che si possa godere di un piacere maggiore presuppone la sua relativizzazione, ma ciò non è possibile laddove il piacere è massimo. Lo è, caso mai, nei piccoli piaceri, correnti, confrontabili. Di questo si rende conto lo stesso Leopardi quando scrive che, passato quel tal punto, l'uomo "spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto". È dopo l'acme che si ricerca l'acme, l'istante d'eternità. Da ciò vengono la disperazione della mancanza, l'ossessione della ripetizione, l'escalation perversa, o al contrario, la moderazione. Moderarsi nel piacere non significa negarlo, ma governarlo. Equivale a essere competenti del proprio desiderio e non vittime della propria inconsulta passione. Il piacere, così inteso, diviene tema dell'etica. Non è tanto nell'immediatezza del godimento che risiede la felicità, ma nella soddisfazione, vale a dire nella capacità di saper fruire senza con ciò dover dipendere, di poter godere di tutto potendone fare anche a meno, senza con ciò dover soffrire. In questo sta la saggezza, quella che i greci chiamavano σωϕροσύνη. Il governo del piacere rende l'uomo non solo padrone delle proprie capacità di godere, ma allarga lo spettro stesso del godimento: rende più complessa la natura del piacere. Una pratica adeguata del piacere non si risolve nell'immediatezza, ma si articola nella distanza: sfuma il piacere per ritrovarlo, soprattutto per tenerlo costantemente presso di sé. Di qui un più raffinato impiego della sensibilità, un ampliamento dello spettro della percezione, fino a trasformare il piacere in benessere. In effetti non esiste una discontinuità assoluta tra piacere sensibile e piacere spirituale. Lo spirito, infatti, 'fiorisce' nell'articolazione, differenziazione - se si vuole sofisticazione - della medesima sensibilità. Di qui il piacere come spigolatura, distrazione, da intendere non come semplice svago, bensì come curiosità, libera attenzione alla vaghezza del mondo. Accanto a questo si pone il piacere della quiete, degli studi che al dire di Leopardi soddisfano più di qualunque altro piacere e ne durano di più il gusto e l'appetito, e fra le letture quella della vera poesia, "la quale destando mozioni vivissime, e riempiendo l'animo d'idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più si possa a questo mondo" (Zibaldone, 1574). Cosa vi è, infatti, di più inesauribile dell'illimitato, dell'indefinito? Anche questo è un modo di godere. Infine l'enigmaticità del vivere e i suoi interrogativi e perciò il piacere della conversazione, dell'amicizia. Più ancora, l'intimità, la confidenza, la fiducia, l'amore. Piaceri siffatti si staccano dalla grevità delle cose e diventano 'clima', godimento non di questo o di quello, ma del mondo. La moderazione non nega il piacere, lo raffina. Per dirla con Hobbes, consente un tipo di piacere che non è peculiare di una determinata parte del corpo e si chiama piacere della mente, dove per mente è da intendere l'interezza dell'uomo. Questo tipo di piacere, per Hobbes, è quello che chiamiamo gioia. Potremmo anche dire piacere d'esistere.
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