PIACOLO
. Nel rituale romano tanto l'errore commesso, cioè l'atto da espiare, quanto l'espiazione, ossia l'atto con il quale si espiava, si diceva piacŭlum. La più lieve infrazione alle norme precise che regolavano le cerimonie religiose, e quelle di carattere sacro, costituiva un piaculum; il che si verificava anche nei riti funebri, nei ludi, nella coltivazione dei boschi sacri (luci) e in molti altri casi.
Nel senso di atti espiatorî i piacula erano di vario genere. Il più radicale dei sistemi era quello di ricominciare da capo la cerimonia o l'atto. Plutarco (Coriol., 25) afferma che ai suoi tempi si ricominciò un sacrificio fino a trenta volte. Secondo Livio (XXXII, 1; XXXVII, 3) le ferie latine, negli anni 190 e 189 a. C., furono rinnovate. Il più comune degli atti espiatorî consisteva in un sacrificio, in genere d'un porco o d'una troia. Alcuni sacrifici espiatorî avevano un carattere desecratorio: così il sacrificio d'una troia che ogni anno si offriva a Cerere prima di mettere mano alle primizie, aveva lo scopo di espiare e riscattare la proprietà sacra della messe adibendola all'uso profano. Del resto si può dire che costituivano piacula preventivi i sacrifici delle vittime dette praecidaneae, che si immolavano alla vigilia dei solenni sacrifici. In tesi generale non si ammetteva espiazione quando la violazione fosse stata commessa volontariamente; in questo caso il colpevole diveniva impius. La competenza del giudizio della procedura dei piacula riferentesi alla religione nazionale era del collegio dei pontefici, quella concernente i culti non latini spettava ai XV viri sacris faciundis.
Bibl.: A. Bouché-Leclercq, Les pontifices de l'ancienne Rome, Parigi 1871, p. 177 segg.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, Monaco 1912, p. 392 seg.; J. Toutain, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, IV, i, p. 454.