Territorio, pianificazione e sistemazione del
di Corrado Beguinot, con la collaborazione di Luigi Dadda, Giampio Bracchi, Adriano De Maio, Giorgio Noseda
Territorio, pianificazione e sistemazione del
sommario: 1. Pianificazione territoriale urbanistica: a) urbanistica e pianificazione; b) metodologia progettuale per la pianificazione del territorio; c) il nuovo iter progettuale; d) la sistemistica, l'informatica e la teoria delle comunicazioni per la sistemazione del territorio; e) i modelli di struttura urbana. 2. Le nuove tecniche: la sistemistica e l'informatica nei problemi della sistemazione del territorio: a) sistemistica; b) i sistemi informativi nell'assetto del territorio; c) i dati relativi all'assetto del territono; d) principali approcci alla realizzazione di un Sistema Informativo Territoriale; e) segretezza. 3. La pianificazione dei sistemi idrici naturali. □ Bibliografia.
1. Pianificazione territoriale urbanistica di Corrado Beguinot
a) Urbanistica e pianificazione
Sistemare il territorio significa realizzare, a livello sia teorico che pratico, un complesso interrelato e razionalizzato di scelte insediative, al fine di strutturare lo spazio in modo tale che si determini un armonico equilibrio tra popolazione, risorse produttive e ambiente fisico. Questo complesso di scelte da un lato si fonda su precisi criteri di natura economica, dall'altro è condizionato da esigenze e valori culturali, etici, storici, che non sono sempre riducibili, almeno fino a oggi, a entità numeriche. La pianificazione territoriale appare perciò più complessa e più ricca di motivazioni che non la semplice scelta economica, anche se è proprio questo suo aspetto non ancora quantificabile a rendere più difficile l'acquisizione di quell'impostazione rigorosamente univoca che, entro certi limiti, è propria dell'economia spaziale. Questo duplice aspetto dell'approccio al territorio contribuisce, perciò, alla sua problematica di fondo, ma, nello stesso tempo, ne garantisce la validità e la fecondità sul piano umano. Va tuttavia osservato che, proprio a causa dell'ampio margine d'incertezza e di non scientificità che ancora caratterizza tanti aspetti della pianificazione territoriale, si sono potuti verificare, a tutt'oggi, interventi che, essendo stati condizionati da scelte arbitrarie e spesso velleitarie, hanno dato risultati deludenti o, comunque, non risolutivi dei problemi affrontati.
A tale proposito, bisogna sottolineare che suggestioni, suggerimenti e convinzioni politiche, etiche e culturali possono agire, nel condizionamento delle scelte di pianificazione territoriale, in maniera molto più vincolante che nel campo delle scelte più propriamente economiche. Inoltre, accanto alle motivazioni già indicate, vanno considerate anche quelle di natura ‛estetica' che, per alcuni urbanisti, assumono valore fondamentale; in questi casi, all'espressione ‛pianificazione territoriale urbanistica' si è soliti sostituire quella di ‛architettura del territorio', con la quale definizione si vuole appunto esaltare la prevalenza degli aspetti formali.
Quanto abbiamo finora osservato sta a dimostrare che, proprio grazie alla peculiarità del carattere non quantificabile di molte componenti che concorrono a qualificare lo spazio umano, la pianificazione territoriale può godere di un grado di libertà - ma non di arbitrio - maggiore di quello delle altre scienze economiche. Infatti, la più complessa, multiforme e storicamente viva motivazione che è alla sua radice consente una più ampia diversità di tendenze e una più articolata possibilità di scelta di modelli, sia di lettura che applicativi.
D'altra parte, poiché ogni disciplina, pur fondandosi stabilmente su un proprio criterio metodologico interno, riceve dalle circostanze storiche in cui opera stimoli e incentivi a una graduale trasformazione delle sue strutture logiche e operative, bisogna dire che oggi la pianificazione territoriale urbanistica sta vivendo una fase di rinnovamento, che implica una verifica e un opportuno ripensamento critico sia dei contenuti sia delle tecniche che sono state finora adottate.
È necessario, quindi, delineare un quadro sintetico, ma compiuto, delle più recenti evoluzioni nei metodi di pianificazione territoriale, attraverso l'esame delle ideologie, dei diversi approcci settoriali e delle esperienze più significative realizzate nei vari paesi.
A tale proposito, le tendenze emergenti si potrebbero individuare in alcune ben precise fasi di una metodologia operativa che si rivela, però, sempre più inadeguata a risolvere i problemi della prassi. La posizione culturale di P. Geddes, che, forse tra i primi, nel 1915 indicava nei due momenti dell'indagine e del progetto - paragonati da lui stesso alla diagnosi e alla cura - le fasi principali in cui poteva scomporsi il processo di formazione del piano, ha avuto modo, in oltre un cinquantennio, di essere ampiamente verificata da quanti si sono impegnati a formulare ipotesi di riorganizzazione e di assetto delle strutture urbane e territoriali.
In verità, quasi tutta la scienza del territorio di questo scorcio di secolo è stata imperniata e si è andata evolvendo sulla base della convinzione che fosse possibile, dal passato, dedurre il futuro; che, insomma, fosse sufficiente uno studio scientifico dei fenomeni, così come questi si erano sviluppati in un periodo più o meno lungo, per delineare, quasi automaticamente, la nuova strada. L'osservazione del fenomeno aveva acquistato un'importanza fondamentale: i piani non avevano vera validità se non per la messe d'indagini che comportavano e per esse erano giudicati. La parte operativa si riduceva quindi molto spesso all'accettazione del trend (piano di tendenza) oppure alla sua modifica o addirittura alla sua completa inversione.
In tal modo, le alternative che il pianificatore poneva per il futuro del territorio erano sempre commisurate al suo passato; erano concepite in funzione dell'evoluzione trascorsa, così come una serie di più o meno accurate e rigorose indagini l'aveva rivelata all'occhio indagatore della équipe dei tecnici. In questa meccanica consequenzialità trovava tuttavia modo d'inserirsi una scelta politica di fondo, che le amministrazioni operavano quasi sempre per proprio conto, senza preoccuparsi troppo della coerenza con le risultanze dell'indagine. E non poteva essere diversamente, dal momento che le sorti del territorio erano legate agli orientamenti ideologici della classe politica, piuttosto che alle obiettive risultanze del lavoro dei tecnici, cui era affidato un ruolo di copertura, in omaggio, forse, a un residuo tecnicismo di marca positivistica che, da solo, consentiva di dare il dovuto credito all'operazione.
In questo clima - basato sostanzialmente sulla mistificazione di scelte politiche tecnicamente dedotte da una indagine obiettiva - sono maturate le principali esperienze europee ed extraeuropee del nostro secolo, attraverso le quali è dato oggi ritrovare pregi e difetti di questo sistema, collaudato sì, ma anche da sottoporre a un vero bilancio critico.
Se guardiamo all'esperienza inglese dell'ultimo dopoguerra, non può sfuggire una considerazione che tende a chiarire, nella pratica, i termini della questione. Il piano di Londra, approvato nel 1944, era stato preceduto da una serie di relazioni che riferivano, nel modo più ampio e approfondito che i tempi consentissero, sulle condizioni in cui si trovava la regione londinese relativamente agli alloggi, ai posti di lavoro, alle aree per il tempo libero e per lo svago. La Greater London doveva essere il risultato di una costante applicazione delle tecniche di pianificazione territoriale urbanistica, sostenuta da una tempestiva legislazione e da uno studio sistematico di varie aree, spesso formate dalla saldatura di più contee. Da un'opera minuziosa di catalogazione degli aspetti più importanti della vita sociale emerse, alla fine, un vincolo fondamentale per il piano: l'indirizzo verso il decongestionamento dell'area metropolitana di Londra e la dislocazione sul territorio adiacente di nuove unità urbane, le new towns. La realizzazione di queste ultime può considerarsi, in effetti, come il risultato di una politica meditata, tendente sia a una razionale localizzazione delle industrie, sia a fortificare le armature urbane soggette all'esclusiva dominanza dei poli metropolitani di Londra e delle black counties; la dimensione demografica di gran parte delle new towns (superiore sempre alle 50.000 unità e vicina spesso alle 100.000) e la distanza dalle cinture suburbane, sempre superiore ai 70-80 km, fanno comprendere come questi insediamenti assolvano a una funzione strategica, nel quadro di un generale riassetto delle sedi produttive, al fine di favorire un uso più razionale del territorio e migliori rapporti tra lo spazio urbanizzato e l'uomo.
Oggi, a quasi quarant'anni di distanza, il giudizio sull'iniziativa può essere vario, ma quello che in questo caso interessa rilevare è che, in realtà, le conclusioni cui giunse l'indagine non erano molto diverse da quanto ci si sarebbe potuti aspettare dall'orientamento generale della cultura inglese ottocentesca. Il rifiuto della congestione urbana, il giudizio sostanzialmente negativo sulla grande agglomerazione e la preferenza accordata alla città di piccole dimensioni, mediatrice fra l'ambiente urbano e la campagna, erano temi cari alla corrente romantica che aveva, tra l'altro, concepito l'idea della città giardino.
Il futuro di Londra veniva, dunque, ancora una volta ritrovato nel passato, nelle aspirazioni di una classe colta che, attraverso la sua rappresentanza politica, era in grado ormai d'incidere più realisticamente sugli orientamenti del piano. Il tutto, naturalmente, convalidato da convincenti indagini e da persuasivi bilanci.
Lo stesso può dirsi accaduto in altri paesi europei che hanno svolto più o meno efficaci politiche di piano. I paesi scandinavi, per esempio, hanno indirizzato le scelte verso la predisposizione di un ambiente per quanto possibile ricco di elementi per la diffusione del benessere economico. La politica delle attrezzature - cui si può, forse con qualche semplificazione, ridurre l'orientamento - riflette un atteggiamento empirico nel dedurre il piano da un'analisi sull'inadeguatezza delle strutture urbane al tenore di vita consentito dalla ricchezza del paese. Infrastrutture di trasporto, centri commerciali, scuole sono i principali segni che la pianificazione scandinava ha impresso al territorio, seguendo le direttive di una politica del benessere, cui i tecnici offrivano il supporto di sostanziose prove d'indagine: e il piano di Stoccolma del 1952 potrebbe da solo confermare questa opinione.
Quello dei paesi scandinavi è un esempio tipico d'intervento pianificatore che si configura come gestione dei territori più densamente popolati, dove la crescita delle città avviene per quanta di urbanizzazione, basandosi sul modulo dei grandi quartieri coordinati e inseriti armonicamente in una trama spaziale di reti e di attrezzature, il cui calibramento è oggetto di continua verifica. La possibilità di gestire il territorio in tal modo è favorita dalla tradizionale politica di acquisizione delle aree edificabili e dalla notevole consistenza del demanio pubblico, che hanno consentito, tra l'altro, anche il rinnovamento delle città antiche.
Nei Paesi Bassi il panorama della pianificazione territoriale, per quanto concerne l'organizzazione e il controllo della crescita delle città, assume caratteri simili a quelli dell'esperienza scandinava, sia pure con aspetti di più diffusa generalità. Particolarmente interessante risulta la politica di gestione e di ‛costruzione' del territorio, realizzata sulla base di piani a scala territoriale, inseriti in un programma pluriennale che prevede la trasformazione dell'ambiente esistente e l'acquisizione progressiva di nuovo spazio. Tale politica suona ammonimento e, si può dire, accusa per quei paesi in cui gran parte delle risorse territoriali sono andate distrutte e dove si verifica una diffusa tendenza a rendere deserti vasti spazi, una volta ricettivi e produttivi.
Da quanto detto finora si rileva che criterio fondamentale, comune sia all'esperienza inglese che a quella dei paesi scandinavi e dei Paesi Bassi, è la ‛prassi pianificatoria continua', come strumento necessario di controllo e di coordinamento di tutte quelle operazioni che abbiano qualche incidenza di carattere urbanistico. In questi paesi l'impegno della pianificazione urbanistica si è rivolto verso l'adeguamento del territorio alle esigenze indotte dal rapido sviluppo socioeconomico, adottando una prassi di sostituzione e di ammodernamento delle strutture urbane preesistenti.
Se dal punto di vista dell'inserimento paesaggistico, o della conservazione di certi valori storici e culturali, il giudizio su questo tipo di operazioni può variare a seconda dell'assunzione di diversi criteri valutativi da parte di chi esprime il giudizio stesso, resta comunque fermo il fatto che nei paesi suddetti non si è rimasti inoperosi di fronte ai pressanti problemi posti in essere dalla crescita delle funzioni e dei carichi demografici, caratteristica dell'ultimo dopoguerra.
Ciò non vuol dire esaltare un mero attivismo, qualunque ne sia il risultato, ma soltanto constatare l'impegno operativo con cui le classi dirigenti e gli urbanisti hanno inteso affrontare e, entro certi limiti, risolvere il problema della sistemazione del territorio, sia come realizzazione di nuove realtà urbane, sia come adeguamento della città di ieri alle esigenze di oggi.
Questo discorso non vale per l'Italia, dove ben poco si è fatto per impedire che i centri storici di molte città rimanessero in una condizione di paralizzante fatiscenza, costituendo spesso una zona atrofica, incistata dallo sviluppo del restante ambito urbano, quasi come un tessuto necrotizzato.
In nome di una malintesa difesa dei valori della storia e della tradizione, non si è avuto il coraggio culturale né la volontà politica d'incidere positivamente sulla città e sul suo cuore per equilibrarne armonicamente le funzioni. E quando si è operato, si è adottato il criterio di aggiungere e di sostituire soltanto dal punto di vista quantitativo, senza, con ciò, adeguare qualitativamente la città del passato alle nuove concrete esigenze di una città moderna. È mancata, in altri termini, la capacità d'inventare un nuovo modello urbano nel quale poter conciliare le esigenze della conservazione dei valori culturali con quelle delle trasformazioni richieste dalla società di oggi. Il risultato è stato quello di ottenere città più grandi, ma disarmoniche e affette da sempre più numerose e gravi disfunzioni.
Passando ora a esaminare l'esperienza francese, bisogna sottolineare che essa è ricca soprattutto di contributi teorici relativi alla contrapposizione di due realtà territoriali ben diverse: Parigi, centro egemone, e quello che è stato definito il ‛deserto francese'. In altre parole, ricompare in Francia, seppure ad altri livelli, il dualismo tra zone di congestione crescente e zone di sottosviluppo o affette da ritmi di crescita più lenti e quindi destinate, a lungo termine, a soffrire di un eccessivo distacco dalle prime.
Al fine di correggere le tendenze insediative delle attività industriali, indirizzandole entro sfere d'influenza esterne a quella parigina, sono stati approntati numerosi e diversi incentivi e disincentivi, i cui risultati, però, non sono a tutt'oggi ancora decisivi. Contemporaneamente, il ruolo e la gerarchia dei poli urbani e la funzionalità ottimale delle armature urbane sono oggetto di studi sempre più approfonditi, con l'obiettivo di contrapporre all'eccessivo predominio di Parigi la crescente influenza di una collana di metropoli regionali, o di città di riequilibrio; tali unità, nel sistema amministrativo accentrato della Francia, mutuano quei ruoli e quelle funzioni di decentramento e di raccordo, e quei problemi di autonomia, che altrove, per dettato costituzionale o per tradizione, sono detenuti dalle unità territoriali intermedie (regioni, Länder, contee).
L'aménagement des régions françaises, cui provvede il Ministère de la Construction, risente ovviamente dei mutamenti d'indirizzo politico emersi nei diversi governi succedutisi in Francia dall'ultimo dopoguerra a oggi; tuttavia, resta costante la tendenza a produrre effetti polarizzanti sulle regioni limitrofe rispetto al grande centro egemone, e addirittura su tutto il territorio nazionale. Bisogna dire però che, a eccezione di pochi casi isolati, il fenomeno di conurbazione dell'area parigina ha continuato a manifestarsi ulteriormente. Questo fatto ci fa concludere che, malgrado l'impegno di quei geografi urbani, da P. George a J. Labasse, alla cui scuola sono stati prodotti acuti studi geo-urbanistici, la pianificazione territoriale urbanistica in Francia non è ancora, a livello operativo, perfettamente impiantata.
La Germania Occidentale ha ricevuto dal suo immediato, triste passato la spinta alla ripresa economica e industriale del dopoguerra. È forse mancato un piano urbanistico su larga scala (la separazione del settore orientale ha senza dubbio contribuito a limitare questa visione d'insieme), ma in compenso la presa di coscienza della situazione economica ha indirizzato le svolte verso l'organizzazione di un sistema produttivo il cui ritmo d'incremento è tuttora in aumento ed è ormai entrato in competizione con le maggiori potenze mondiali.
In Italia, dove le reali articolazioni del quadro geo-urbanistico, storico e sociale non trovano un'adeguata rispondenza nell'intelaiatura amministrativa e decisionale, la prassi consiste soprattutto nel predisporre il territorio per i futuri interventi di pianificazione globale. A questo proposito bisogna sottolineare che le recenti esperienze italiane, a livello operativo, si configurano come orientate secondo due direttrici fondamentali: l'una, a indirizzo prevalentemente tecnicistico, è limitata alla pratica professionale corrente della redazione di strumenti urbanistici su piccola scala; l'altra, più ampia e a volte più ambiziosa, tende a rinnovare i tessuti urbani con interventi edilizi su grande scala: progetti e proposte per i centri antichi e per i nuovi centri direzionali, edilizia sovvenzionata, ecc.
Ambedue queste direttrici operative, però, per la carenza d'interventi globali su scala territoriale, non hanno fornito risposte adeguate alle esigenze poste in essere dai gravi problemi connessi al generale processo di sviluppo: gli squilibri territoriali, la crescita abnorme delle metropoli, i ritmi incalzanti dell'incremento delle attività sul territorio, la crescente inadeguatezza degli interventi per la ristrutturazione dei centri storici sono fenomeni drammatici che attendono ancora, e in maniera sempre più pressante, una soluzione razionale. È vero che, per equilibrare le enormi differenze esistenti tra le grandi aree geografiche italiane nei redditi, nei livelli occupazionali e nella struttura stessa dell'occupazione, sono stati elaborati, e in parte messi in pratica, alcuni piani di settore; ma tali interventi non possono ritenersi risolutivi dei problemi indicati. Per la loro incidenza a livello di scelte insediative, essi costituiscono delle effettive operazioni di pianificazione territoriale urbanistica, ma restano sempre confinati nell'ambito delle politiche settoriali e, quindi, insufficienti.
Qui si fa riferimento, in modo particolare, ai criteri dominanti su cui è stata incentrata finora la politica perseguita per il Mezzogiorno: infrastrutturazione del territorio, in prevalenza nel settore dei trasporti e delle comunicazioni; viabilità autostradale e ordinaria; aree e nuclei industriali, programmati su grande scala con l'obiettivo di localizzare gli insediamenti produttivi in zone-forza. Tale politica, più che decennale, nell'ambito del Mezzogiorno ha prodotto, a livello di attuazione pratica, degli effetti che possono ritenersi rilevanti ma non decisivi. Inoltre, la tendenza a concentrare gli investimenti nelle anzidette zone-forza ha prodotto fenomeni locali e zonali di squilibrio, appesantendo e deteriorando le già mediocri condizioni dei centri periferici. Oggi sono allo studio molteplici tipi di programmi (comprensori turistici, enti di sviluppo agricolo, industriale, ecc.) e vanno effettuandosi vari tentativi di coordinamento; tutta questa serie di operazioni, però, non sembra aver prodotto, a tutt'oggi, una risposta valida rispetto all'esigenza d'integrare, a livello urbanistico, i diversi piani settoriali. D'altronde, i tradizionali strumenti operativi, posti in essere dalla legislazione vigente, appaiono del tutto superati in seguito alla creazione delle Regioni, istituzione che pone il problema della pianificazione territoriale in modo completamente nuovo: da una parte c'è la facoltà di operare delle scelte articolate nei settori di autonoma determinazione, dall'altra si realizza, per i problemi d'interesse interregionale e nazionale, una funzione di verifica, di raccordo e d'informazione nei settori in cui le decisioni sono prese al vertice. Inoltre, proprio in merito alle direzioni in cui la Regione dovrebbe operare, si pongono delle questioni di metodo, che potranno trovare una soddisfacente soluzione soltanto dopo un'adeguata fase di studio.
A questo proposito si configurano due ordini di problemi: il primo riguarda la necessità di coordinare e verificare i piani nazionali e quelli regionali, e d'individuare, in maniera logica e sulla base del dettato costituzionale, il confine tra il potere decisionale centrale e quello regionale; il secondo ordine di problemi si riferisce all'esigenza di articolare la politica di piano secondo unità territoriali. Queste ultime, infatti, si presentano come validi strumenti di ottimizzazione e di economicità nella gestione del territorio, e come la scala più idonea per un intervento urbanistico integrale; inoltre, pur superando la scala comunale per ampiezza di attribuzioni amministrative, tali unità non devono necessariamente assumere (a eccezione di fortuite coincidenze) la dimensione della provincia. Una nuova unità funzionale intermedia - il comprensorio - deve quindi sostituire quella provinciale, che è espressione più di centralismo burocratico che di effettiva articolazione democratica. Il comprensorio, infatti, gode di maggiore mobilità nella sua autonoma determinazione circoscrizionale e si configura come ambito più idoneo alla realizzazione di una razionale gestione del territorio, congruente con le caratteristiche e le suscettività delle singole zone.
Già la prima legge urbanistica italiana del 1942 estendeva l'ambito del piano dalla sola città, come avveniva nel passato, all'intero territorio comunale, riconoscendo implicitamente, quindi, l'esigenza di progettare e controllare gli interventi incidenti su tutta l'area suscettibile di urbanizzazione. Un ulteriore passo avanti su questa strada è stato compiuto in seguito all'evolversi della programmazione economica su scala generale da cui è derivata una pianificazione urbanistica più ampia, che ormai va anche oltre i limiti comunali per considerare unitariamente l'insieme di più comuni o provincie, o intere regioni, tutti organicamente strutturati nello stesso progetto.
Un primo esempio di pianificazione territoriale urbanistica basata su tale criterio è stato realizzato negli Stati Uniti d'America. Si tratta del progetto realizzato dalla Tennessee Valley Authority. Questo ente, responsabile dello sviluppo dell'area geograficamente compresa nel bacino del fiume Tennessee, estendeva lo studio progettuale e la propria incidenza operativa su un'intera regione, omogenea sotto il profilo urbanistico, ma la cui area comprendeva territori appartenenti a diversi Stati confederati. L'ideologia e la prassi roosveltiana del New Deal ispiravano questa politica di pianificazione, realizzata soprattutto a livello di interventi di ordine economico e di infrastrutturazione: esenzioni e incentivi, bonifica, irrigazione, regolazione del regime delle acque. Questo massiccio intervento sul territorio produceva, quindi, una notevole trasformazione dell'intera zona ecologica della vallata, il che implicava anche una nuova sistemazione urbanistica.
Oggi, forti tensioni interne, derivanti da squilibri tra i vari strati della popolazione e da originarie eterogeneità, costituiscono lo sfondo culturale della pianificazione urbanistica negli Stati Uniti d'America. Il tema del rinnovamento urbano - e in particolare di quelle parti della città che maggiormente risentono della presenza di queste tensioni - domina la scena, quale strumento per migliorare una convivenza che le inchieste a volte rivelano insopportabile. Così, anche qui un problema politico, riletto nel linguaggio arido ma obiettivo delle indagini sugli slums della downtown, si trasforma in scelte di piano e attende soluzioni dall'urbanistica.
Nei paesi a economia socialista la pianificazione territoriale è sempre stata uno strumento di governo, esercitato secondo una linea politica che rifiuta la teoria e la prassi borghese della lotta per la sopravvivenza e per l'acquisizione, da parte delle forze economiche, di nuove aree di mercato. Gli urbanisti sovietici operano, quindi, con l'obiettivo di realizzare le condizioni più idonee affinché il territorio non eserciti alcuna funzione di attrazione o di repulsione di certe classi rispetto alle altre, pervenendo così a una sostanziale depolarizzazione dello spazio. Questo indirizzo, accettato anche da alcuni urbanisti italiani nella pianificazione regionale, implica il principio dell'‛indifferenza alla localizzazione', malgrado tale principio risulti in evidente contraddizione sia con gl'insediamenti stratificatisi, sia con la realtà della struttura socioeconomica stessa.
La totale depolarizzazione dello spazio ha sortito, in genere, risultati insoddisfacenti, in quanto i nuovi interventi non hanno trovato adeguato inserimento negli ambienti in cui esistevano già situazioni reali legate alle vecchie città preesistenti alla Rivoluzione d'ottobre.
È invece più convincente ciò che la pianificazione sovietica è riuscita a realizzare per i grandi piani di assetto che investono intere regioni fluviali, o per quelli relativi all'urbanizzazione delle terre vergini.
Una carenza di fondo della pianificazione urbanistica nei paesi a economia socialista è rappresentata, secondo l'ideologia occidentale, dal fatto che, essendo ogni tipo di intervento determinato da decisioni centrali, e quindi necessariamente pianificato al vertice, si rende impossibile quel rapporto interlocutorio tra interesse pubblico e interesse privato, che garantisce - anche se in maniera spesso problematica - alcune libertà nel processo di sviluppo della realtà urbana.
A conclusione di questa breve panoramica delle diverse esperienze di pianificazione territoriale realizzate in alcuni paesi viene fatto di chiedersi se, nella realtà sperimentata, il piano urbanistico, dedotto da esigenze e aspirazioni più o meno ‛di parte', sia in effetti riuscito a tradursi in risposte esaurienti rispetto alle carenze rilevate. L'idea del piano come una panacea, un rimedio ai mali, non solo della città ma della società intera, si è rivelata un'idea illusoria, una delle maggiori utopie. I nuovi strumenti che alla pianificazione sono offerti dalla moderna tecnologia tendono infatti a operare come quelli preesistenti. Colossali memorie immagazzineranno dati analitici sempre più precisi, sempre meglio dettagliati, per costituire l'input degli elaboratori; ma le risposte, l'output, in cui, attraverso un programma dettato dalla volontà politica, si configura il modello di sviluppo del territorio, sarà ancora una nuova edizione del piano tradizionale, un coacervo di provvedimenti tecnici.
Il dibattito culturale in merito all'‛individuazione degli obiettivi e delle tecniche' della pianificazione territoriale vede oggi i cultori di tale disciplina divisi tra due tendenze: la prima vuole conservare alla pianificazione urbanistica un'autonoma fondazione disciplinare, la seconda, invece, riconosce la validità teorica e pratica dell'apporto di altre scienze (economia, sociologia, storia, geografia, matematica, tecniche ingegneristiche, amministrazione, politica), al fine di costituire una specifica e più articolata cultura del territorio e un più ricco patrimonio di tecniche d'intervento. All'urbanistica conviene forse un atteggiamento prudentemente collocato tra il rifiuto sdegnoso e l'incondizionata accettazione. Bisogna accostarsi a quanto offre la tecnica con la convinzione che nuovi ed efficaci mezzi di penetrazione della realtà possono entrare a far parte dello strumentario di una disciplina, come l'urbanistica, che aspira al rigore scientifico.
Il momento dell'attuazione del piano tradizionale è anche, molto spesso, il momento in cui il territorio rifiuta il piano. Finché il piano è costituito da una serie, sia pure organicamente concepita, d'interventi tecnici, lo squilibrio tra il possibile e il necessario è tale che l'operazione fallisce. Sono in gioco interessi sempre più grandi e sempre più ampie si fanno le carenze; le aspirazioni diventano presto necessità, i consumi accessori si trasferiscono nel campo dei bisogni fondamentali e di fronte a questa pressione montante la risposta del piano è sempre più inadeguata, limitata nel tempo, nello spazio e negli importi di spesa, sempre più insufficienti.
La nuova dimensione dei bisogni trova inadeguata anche la tecnica più aggiornata: questa considerazione deve guidare il pensiero dell'urbanista alla scoperta di una strada che segua un approccio diverso al territorio. Questo approccio diverso potrebbe essere quello di indirizzare l'urbanistica verso provvedimenti che, invece di risolvere i problemi quando questi siano già esplosi, tendano per quanto possibile a prevedere, prevenire e quindi impedire il manifestarsi di situazioni anomale.
È in sostanza il discorso che si faceva in passato quando ci si rese conto che, continuando a sviluppare le strade con la tecnica ottocentesca degli sventramenti, difficilmente si sarebbe raggiunto lo scopo di decongestionare le vecchie città. Si pensò allora di eliminare il problema allontanando gli elementi che richiamavano il traffico veicolare nei vecchi centri, riorganizzando e ridimensionando le funzioni urbane. Così la tensione si allontanava senza che fossero più necessari provvedimenti o interventi di durata limitata e, comunque, di difficile attuazione.
Alla luce di questo diverso modo di pensare la pianificazione, quando ci chiediamo come risolvere gli odierni problemi di congestione, di plusvalore delle aree, di trasferimenti rapidi e poco costosi e quanti altri ancora si pongono oggi al pianificatore (dalla residenza alle attività produttive, dal tempo libero alle attività di scambio), dovremmo cominciare a rispondere che molti di questi problemi potrebbero essere già risolti prima ancora di nascere, se si ponesse maggiore attenzione a quanto già consente di realizzare la moderna teoria delle comunicazioni. Per ciò che attiene, per esempio, agli scambi di natura impersonale, che non implicano necessariamente una comunicazione diretta, gran parte dei motivi di spostamento e di concentrazione della popolazione in determinati punti e lungo determinati canali di flusso potrebbe essere facilmente soppressa, fornendo un nuovo respiro al territorio. Quest'ultimo potrebbe infatti veder ridotto l'ingombro di un'autostrada a quello di un piccolo fascio di cavi elettronici, o quello di un'agglomerazione urbana con grattacieli per uffici, banche, sedi di società commerciali, alla più modesta volumetria di uno schedario elettronico.
Una prospettiva di questo tipo sarebbe in grado di rivoluzionare non solo il taglio metodologico della nostra disciplina, ma la vita stessa della società, la quale potrebbe utilizzare l'energia spesa in estenuanti attese - consegnenza appunto della congestione dei servizi territoriali - in modi diversi, quali più approfonditi contatti con la natura e con gli uomini, recuperando, insomma, nel quadro di un'armoniosa vita sociale, basata su libere scelte piuttosto che su pesanti costrizioni, le dimensioni più umane dell'esistenza. Ciò consentirebbe di ampliare gli incontri interpersonali basandoli, piuttosto che sulla necessità di trattare gli affari, sul desiderio di comunicare sul piano umano con l'interlocutore. E questo, si sa, può avvenire soltanto con la presenza fisica delle parti in gioco, che non eliminerebbe quindi del tutto i motivi di spostamento, ma li ridurrebbe a una dimensione quantitativamente accettabile e compatibile con le opportunità già offerte da un territorio mediamente attrezzato.
Quante delle esigenze, normalmente evidenziate dalle indagini di piano, si potrebbero in questo modo eliminare è difficile a dirsi. Certamente il loro numero diminuirebbe molto, se si considera che sono allo studio perfino strutture didattiche che riducono a poche occasioni la compresenza fisica di allievi e docenti. In ogni caso, anche questa, come tutte le ipotesi metodologiche, tra cui la creazione di una banca di dati, andrebbe valutata e verificata con idonei studi. Quel che per ora c'interessa soprattutto rilevare è il fatto che da queste considerazioni può derivare una nuova prospettiva culturale valida per la scienza del territorio.
L'eliminazione di molte remore agli interventi, che tendono ad assumere proporzioni insostenibili in termini economici e temporali, e l'arricchimento della personalità umana che si potrebbe realizzare tramite un aumento considerevole del tempo libero sono aspetti tecnici e umani, anzi sociali, che il pianificatore urbanista non dovrà, in un prossimo futuro, sottovalutare. Sono anche gli aspetti più validi per impostare, su basi realistiche, un'ipotesi metodologica a livello scientifico, e per delineare prospettive di ricerca e progettuali meno deludenti di quelle che si evincono dalle considerazioni fin qui svolte sull'evoluzione recente e sulle tendenze in atto della pianificazione. Al superamento delle vecchie tecniche di pianificazione e all'assunzione di metodi nuovi l'urbanistica è oggi costretta dallo sviluppo della dimensione metropolitana e dall'esigenza di recuperare i valori urbani. Tale nuova assunzione metodologica non è meramente quantitativa poiché - come ha messo in rilievo P. Hall (v., 1966) - i problemi inerenti al sorgere delle città mondiali richiedono, per essere adeguatamente risolti, un mutamento qualitativo della tradizionale tecnica urbanistica. Questo nuovo approccio disciplinare è costituito, come si vedrà meglio in seguito, dall'uso della moderna metodologia scientifica, la sola valida al fine di risolvere il complesso intreccio di parametri e di relazioni funzionali caratteristico della realtà urbana. In questo senso si giustificano gli apporti dati da sistemisti allo sviluppo di questa trattazione.
Parallelamente all'estendersi della portata dei problemi si determina, quindi, un approfondimento teorico della disciplina, per cui si potrebbe affermare che ormai l'urbanistica tout court tenda a trasformarsi in pianificazione territoriale urbanistica, via via che il complesso delle interrelazioni fra le tre variabili fondamentali - popolazione, economia, territorio urbanizzato - si accresce e si complica nella realtà delle città mondiali o città-territorio.
Non ci si può più affidare a semplici intuizioni, e tanto meno alla casualità, quando si tratti di regolare lo sviluppo di ‛bacini' demografici che raccolgono decine di milioni di abitanti e che richiedono enormi investimenti. Oggi l'umanità attraversa una fase critica di trasformazione, trovandosi a una svolta decisiva che impone l'assunzione di nuovi modelli di esistenza. In passato la vita si svolgeva in un contesto alquanto statico, il che consentiva il realizzarsi di un equilibrio abbastanza stabile, anche dal punto di vista biologico, tra i diversi fattori. Tale equilibrio, oggi, è stato drammaticamente alterato, sia per la crescita demografica - il cui andamento da lineare è diventato esponenziale -, sia per la tendenza alla concentrazione che è tipica della nuova società industriale. In tale situazione non ci si può più attendere la formazione di equilibri spontanei: infatti, la rapidità dei processi di trasformazione è di gran lunga superiore a quella dei processi di adattamento ‛naturali'. D'altra parte, è facile verificare i dannosi effetti dello sviluppo cosiddetto ‛spontaneo', rispondente poi soltanto al principio del profitto; effetti che oggi suscitano scottanti preoccupazioni per la salvezza dell'ambiente ecologico e per la sopravvivenza stessa dell'uomo. Poiché la principale finalità della pianificazione territoriale urbanistica è appunto la conservazione dell'ecosistema umano, in tutte le sue implicazioni, siamo costretti a riflettere sulle reali esigenze della nostra specie, soprattutto a livello di collettività. Per quale comunità si pianifica e per quale tipo di società si progetta è infatti il quesito fondamentale per ogni teoria e prassi di pianificazione, e uno sbaglio nel rispondere a tale quesito rischia di compromettere in parte o in toto gli interventi pianificatori.
Tali interventi si fondavano in passato sul criterio tecnicistico del semplice rapporto causale, tendendo a realizzare un assetto del territorio che fosse coerente con le esigenze demografiche ed economiche, e non preoccupandosi, invece, dello scarto temporale esistente tra il momento teorico della progettazione e quello pratico della realizzazione. Tale scarto rappresenta una delle cause per cui, spesso, falliscono molti piani: essi sono pensati per un tipo di società che continua invece a trasformarsi via via che il piano viene attuato. A una visione statica del piano deve perciò sostituirsi una prospettiva dinamica. Occorre, quindi, uno sforzo creativo che presuppone nel pianificatore, accanto alle altre qualità, una profonda e solida formazione culturale. È oggi più che mai necessaria insomma la capacità d'‛inventare' nuove forme di distribuzione, entro l'ambito mondiale, dei nuclei di condensazione e di elaborazione della ricchezza, conferendo una dimensione continentale o intercontinentale alla pianificazione dei beni, delle risorse, delle attività, in una visione che riscatti le nuove tecniche dall'accusa d'impersonalità e dia pregnanza umana alla politica di piano.
A livello teorico, inoltre, questa nuova dimensione unificante permetterebbe, con l'adozione del ‛metodo sistemico', di eliminare molte variabili e di ridurre il grado d'indeterminazione di molte soluzioni. Si potrebbero così ottenere risultati sempre più certi e rispondenti razionalmente alle esigenze di tutta la comunità umana.
b) Metodologia progettuale per la pianificazione del territorio
La definizione di una metodologia progettuale per la pianificazione del territorio non può prescindere dalla constatazione che il rinnovamento della cultura urbanistica, pur nei limiti di quanto esposto in precedenza, è senza dubbio uno tra gli aspetti più interessanti del nostro tempo e segna un aumento di consapevolezza dell'uomo nei confronti di se stesso come soggetto e come oggetto dell'ambiente.
Fino a ieri un certo scientismo ottimistico, relativo al principio filosofico dell'‛equilibrio naturale', aveva favorito il metodo del laissez faire, con la conseguenza di non intervenire nei meccanismi della natura, ivi compresa quella umana; squilibri, sprechi, incongruenze, situazioni drammaticamente laceranti sono stati la conseguenza di una deprecabile assenza di pianificazione. La fenomenologia più grave, in verità, si è manifestata a livello urbano; qui, la concentrazione, il disordinato intrecciarsi di funzioni, il mancato adeguamento delle città antiche alle funzioni odierne, la sfrenata corsa alle speculazioni e agli investimenti hanno prodotto una tale congestione d'interessi che ha reso inefficiente ogni intervento, del resto giunto ormai troppo tardi. In tale caotica e pressante mole di problemi, l'impegno progettuale è stato sempre condizionato dalla ristretta dimensione delle disponibilità finanziarie e dall'inadeguatezza degli strumenti giuridici, nonché dall'insensibilità dell'opinione pubblica e della classe dirigente; l'approccio è stato, quindi, quello del ‛caso per caso', il che ha avuto come effetto soltanto interventi tardivi, spesso insufficienti ed eccessivamente costosi. Anche nei casi in cui si è potuto intervenire più tempestivamente, l'azione pianificatoria ha avuto sempre un carattere settoriale che ne ha compromesso i risultati, inadeguati se non addirittura dannosi, mancando le necessarie verifiche di congruenza intersettoriale, possibili soltanto in un approccio globale alla problematica territoriale.
È pur vero, però, che la pianificazione settoriale, almeno dal punto di vista scientifico, costituisce una fase storica intermedia tra la non pianificazione di ieri e la pianificazione di domani. Bisogna riconoscere, infatti, che lo studio delle esigenze settoriali ha offerto un contributo valido - proprio per la sua certezza scientifica - al fine di far convergere molteplici indagini in una visione unitaria della realtà urbana. A tale riguardo bisogna sottolineare che tutti questi studi hanno messo in rilievo la fondamentale importanza della ‛seconda economia', la cui problematica va approfondita dall'urbanistica per chiarire tutti i meccanismi e le diverse implicanze sociali, pena il fallimento del piano stesso.
Anche l'analisi dell'influenza politica costituisce un contributo importante, in quanto consente al pianificatore - ormai non più considerato romanticamente come il disegnatore di città ideali - di essere consapevole degli obiettivi sociali ed economici che si vogliono raggiungere e dei mezzi finanziari concretamente disponibili. È evidente che l'opera del progettista è condizionata dalle scelte politiche correnti, poiché sono appunto queste che indicano gli interventi di carattere prioritario, sia per quanto attiene ai tempi di attuazione, sia per quanto riguarda gli indirizzi del piano stesso.
In questa stessa dimensione si colloca l'utilità degli studi sociologici, che evidenziano, a livello della comunità per cui si progetta, tendenze, vincoli e orientamenti. Anche un'acuta coscienza storica e un'approfondita consapevolezza degli aspetti geografici sono indispensabili per affrontare e risolvere i problemi della pianificazione territoriale in una visione che non sia meramente tecnicistica ma ampiamente culturale. Non ultimi, per importanza, sono i contributi offerti dalla statistica, che consente di effettuare previsioni quantitative con certezza scientifica, e le indicazioni che emergono dalla pianificazione economica in senso lato.
Da quanto abbiamo fin qui esposto, è ormai chiaro che l'urbanistica oggi non si limita più a considerare gli aspetti formali della città e quelli funzionali di settore; essa è ricerca, teoresi e tecnica applicativa: esamina, comprende e modifica le strutture del mondo fisico quale ambiente degli insediamenti umani, e quindi i rapporti che legano le forme del territorio con i sistemi organizzativi, con le forze economiche, con i flussi d'informazione.
La nuova cultura urbanistica prende coscienza del fatto che l'assetto, il controllo e la gestione continua del territorio sono problemi che implicano una nuova dimensione, ben diversa da quella tradizionale che, nella migliore delle ipotesi, si limitava alla considerazione dei rapporti cittàcampagna. La sfera culturale e ideologica ottocentesca aveva prodotto un'immagine statica della città, considerata per lungo tempo come unico luogo dell'ecumene; inoltre, la relativa concezione esaustiva della città aveva determinato modelli formali e operativi sempre di carattere statico (uniformità strutturale e funzionale delle reti viarie; uniformità del tessuto edilizio, come risulta dai piani di ‛addizione' del secolo scorso e dei primi decenni del Novecento: piani dai quali si evince la capacità di recepire i segni del mutamento).
Oggi quella concezione e quei modelli sono stati superati da una visione dinamica della città-regione e della città-territorio, che scaturisce sia dalla consapevolezza dei complessi rapporti dialettici esistenti tra tutte le componenti del territorio, sia dalla speranza di poter estendere a tutto lo spazio umanizzato i vantaggi della condizione urbana. Così, verrebbero rimosse le molteplici cause delle congestioni metropolitane e regionali e annullate, nello stesso tempo, le condizioni che sono alla radice delle disfunzioni della città.
Attualmente, i problemi connessi alla crescita urbana hanno stimolato anche un nuovo orientamento culturale che intende risolvere quei problemi territoriali mediante un intervento che miri a equilibrare zone a diversi indici di densità, di reddito e di urbanizzazione. Infatti, ogni piano territoriale urbanistico e ogni programma di sviluppo economico pongono come pregiudiziale il problema della regione, sia nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo - dove obiettivi e tecniche variano in rapporto alla diversa realtà dell'insieme delle situazioni spaziali, economiche e sociali -, sia nei paesi industrializzati, dove si determina la necessità di ‛depolarizzare' lo spazio al fine di diminuire il peso eccessivo gravante su singole zone territoriali del paese. Oggi, com'è noto, esistono notevoli squilibri regionali, non solo nei paesi meno progrediti, ma anche in Inghilterra, in Francia, nel Benelux, in Germania, ecc. Congestione, fase di decollo, fase di decadenza sono tre espressioni che servono a definire tre diverse realtà regionali, le quali possono anche essere distinte - secondo la denominazione usata da M. Derek senior (v., 1966) - in città-regioni potenziali, embrionali, emergenti, mature.
Nei paesi citati e in molti altri, quali la Iugoslavia, la Polonia, i paesi scandinavi, ecc., vi sono, inoltre, profonde differenze di suscettività e di prospettive di sviluppo tra un territorio e l'altro, aggravate spesso anche da notevoli salti nel tessuto socioeconomico.
Oggi, quindi, la cultura urbanistica è consapevole delle nuove dimensioni che gli interventi devono assumere e riconosce altresì l'esigenza di razionalizzare, in maniera sempre più coerente e in ambiti sempre più ampi, tutta la complessa sfera fenomenica connessa con l'insediamento umano.
Questo discorso mette in evidenza un aspetto caratterizzante della disciplina: il suo consistere in un momento teorico, fondato su una propria articolazione metodologica interna, e in un momento pratico, risolutivo delle crisi prodotte dal disorganico accavallarsi dei fenomeni insediativi. Da una parte, quindi, una più ampia prospettiva consente una lettura più approfondita e compiuta dei fatti urbani; dall'altra, si pongono in essere nuovi obiettivi e nuove possibilità operative. Le odierne tendenze, con varie diversificazioni, si muovono tutte sulla base di una realtà minacciosa: le esplosioni metropolitane, l'incontrollata crescita demografica, la crescente sproporzione tra necessità e possibilità, la pauperizzazione delle popolazioni del Terzo Mondo, la progressiva erosione delle risorse territoriali, sia come fonti di energia, sia come sostegno delle sedimentazioni storico-culturali dell'uomo e delle condizioni necessarie per un sufficiente benessere psicologico.
Sorge quindi la necessità di delineare un completo e organico metodo di progettazione che possa essere utilizzato - con le dovute messe a punto e con le specificazioni richieste volta a volta dall'oggetto - in tutte le fasi principali attraverso le quali passano tutti i processi di controllo dell'ambiente urbano.
I problemi più urgenti che attendono di essere affrontati, soprattutto nelle società tecnologicamente avanzate, sono sostanzialmente i seguenti.
1. La conoscenza dei processi che danno una nuova dimensione strutturale alle aree urbane, in rapporto alla dimensione demografica, al grado di attrezzatura, allo sviluppo economico.
2. La previsione e il controllo dei processi che sono alla base della diffusione della ‛metropolizzazione'. Quest'ultima denuncia numerose e gravi implicanze in ordine ai livelli di dotazione che si riscontrano nel campo delle attrezzature e dei servizi, in relazione sia all'espansione delle aree, sia alla diversificazione dei bisogni, delle esigenze, delle aspirazioni. Altro aspetto importante della ‛metropolizzazione' (causa ed effetto a un tempo) è l'accresciuta mobilità sociale.
3. L'individuazione di strumenti che consentano di controllare lo sviluppo del territorio mediante un aggiornamento costante dei rendiconti delle riserve disponibili, e degli obiettivi con esse compatibili, espressi in termini di qualificazione e di rendita sociale degli spazi.
4. La messa a punto, in tempi brevi, di strumenti legislativi flessibili per il governo del territorio, i quali devono rendere concretamente fattibili, in un ragionevole arco di tempo e in un'area di conflittualità decisionale limitata, gli interventi programmati secondo direttrici espresse dal contesto politico, amministrativo e socioculturale. Quest'ultimo problema risulta particolarmente impegnativo se si considera la naturale inerzia normativa (giustamente relazionata alla necessità della certezza del diritto) e la staticità degli ambiti stessi nei quali una legge di governo dello spazio ha efficacia secondo la tradizione corrente.
La pianificazione è oggi intesa come un'operazione permanente, sia nell'ovvio significato che tutto il territorio, senza residuo alcuno, dev'essere sottoposto all'azione del pianificatore, sia nel senso che a ogni istante, e a ogni mutamento del mondo reale, deve corrispondere una risposta adeguata da parte del pianificatore. In maniera più concisa, si può dire anche che l'opera di pianificazione deve svolgersi su binari paralleli a quelli sui quali si muove la nostra rappresentazione della realtà urbana: due attività che operano entrambe secondo uno svolgimento processuale e che si trovano tra loro in un rapporto di scambio continuo.
Nell'ambito della pianificazione permanente il procedimento progettuale può essere suddiviso, per ragioni di comodità procedurale, nelle seguenti fasi logicamente concatenate tra loro.
1. Ricerca sulle specifiche strutture urbane e territoriali sulle quali s'intende operare; ricerca di fondo sugli elementi ‛strutturanti' del sistema urbano.
2. Progettazione degli interventi sulla base delle possibilità concrete e secondo un programma articolato nel tempo e capace di tener conto anche di modificazioni successive degli obiettivi.
3. Attuazione secondo modalità di realizzazione che siano rapportate all'assetto territoriale di partenza, ma che siano anche tali da poter introdurre cambiamenti significativi nell'assetto stesso.
4. Gestione e controllo dello sviluppo del territorio, da esercitarsi tenendo continuamente presenti gli obiettivi prescelti. Ciò comporta le possibilità di apportare tempestivamente ai processi di trasformazione innescati quei correttivi che si rendessero necessari anche in relazione al continuo variare delle possibilità operative. Basti pensare, a tale proposito, all'aumento o alla diminuzione della spesa erogabile, alle innovazioni tecnologiche, al mutamento degli orientamenti di cultura e di gusto.
Le fasi della ricerca e della progettazione richiedono che particolare attenzione venga dedicata ai rapporti tra le scienze urbane e le tecniche di pianificazione. Le prime offrono il panorama delle possibili prospezioni sullo sviluppo storico, sulle caratteristiche e le forme organizzative degli insediamenti umani; le seconde formulano i termini e le modalità effettive - o protocolli - secondo i quali, partendo da uno stadio iniziale, possono essere raggiunti uno o più stadi desiderati entro archi di tempo prefissati ed entro limiti ammissibili di spesa pubblica e privata, al disotto di una soglia massima accettabile di costo sociale.
In particolare, nella fase di progettazione si determina il momento fondamentale della localizzazione sul territorio, la cui scelta ubicazionale è gravida di conseguenze, poiché un errore in tale fase può peggiorare le situazioni anziché migliorarle. Inoltre, anche se ormai è inaccettabile l'idea che soltanto una corretta pianificazione possa costituire la panacea per ogni male di cui soffrono oggi le nostre città, è necessario tuttavia pervenire all'individuazione di un criterio che consenta di operare delle scelte ottimali al fine d'intervenire positivamente nella sistemazione del territorio. L'avvenire della pianificazione sta, dunque, nella possibilità di ottenere una certezza scientifica nella fase delle scelte, fase che rappresenta un momento del tutto distinto, anche se condizionato, rispetto allo studio interdisciplinare e settoriale, che ne costituisce invece la premessa indispensabile.
Il nodo cruciale della problematica pianificatoria, dal quale dipende la validità operativa di un piano, si configura proprio in questo passaggio mediano tra l'impostazione di carattere politico, economico e settoriale, a monte, e la fase esecutiva, a valle. Tale problematica richiede, per l'ottimizzazione delle scelte, un approccio metodologico di tipo scientifico, che abbia la garanzia di una certezza teorica e di una sicurezza operativa che la pura e semplice esperienza non può più offrire. Come si vedrà meglio in seguito, soltanto la matematica può fornire la chiave per risolvere adeguatamente il problema della metodologia progettuale; ciò vuol dire che il piano dovrà configurarsi come un sistema di equazioni, i cui termini noti siano rappresentati dalle realtà in atto e le incognite dalle possibilità progettuali: con la risoluzione del sistema di equazioni si avrà la risposta scientifica al problema di pianificazione.
Questo approccio di tipo logico-matematico, di notevole complessità a livello sia teorico che operativo, è un valido strumento di cui la pianificazione può oggi servirsi per uscire dall'approssimazione.
Ferma restando la consapevolezza critica dei limiti della scienza, si può affermare, tuttavia, che nei procedimenti scientifici è ormai operante una sorta di determinismo metodologico, in base al quale, quando si applicano correttamente certe regole di inferenza a un insieme di premesse, è consentito prevedere il probabile comportamento futuro del sistema studiato, entro i limiti d'indeterminazione previamente definiti accettabili per la teoria stessa.
Affermare, quindi, che la vita di una comunità sia traducibile in un sistema di equazioni significa accettare implicitamente il principio che la realtà urbana possa essere interpretata come un meccanismo funzionante secondo leggi razionali che ne regolano i ritmi di espansione, i flussi di traffico, i costi: sarà la consapevolezza di queste leggi che indicherà al pianificatore, una volta operata la fondamentale scelta degli obiettivi da raggiungere, quali effetti probabili saranno indotti dal piano. In questa fase si misura il prezioso contributo offerto dalla statistica, intesa, ovviamente, come logica sistemazione del dato in modo tale da pervenire alla formulazione di leggi interpretative dei fenomeni studiati. Applicando tali leggi nella formulazione di ipotesi progettuali si può pervenire, grazie all'uso dei calcolatori, alla costruzione teorica di un modello funzionale, che consenta di prevedere quale sarà la dinamica del sistema ipotizzato, permettendo altresì interventi correttivi del meccanismo di funzionamento.
A tale proposito, bisogna rilevare che i calcolatori non rappresentano soltanto preziosi strumenti tecnologici, ma vanno considerati anche, dal punto di vista teoretico, come modi per ‛concettualizzare' l'uomo e la società. Il ‛meccanomorfismo', l'idea dell'homme-machine, non è una teoria del tutto nuova: è stato spesso riproposto nella storia del pensiero filosofico e scientifico, suscitando sempre vivaci dibattiti. Di recente, però, tutta questa problematica è stata notevolmente modificata dall'intervento di due fattori: il primo è costituito dall'ulteriore progresso tecnologico che offre, oggi, la possibilità di costruire calcolatori ‛intelligenti', capaci, cioè, di comportarsi in maniera non prevedibile (quindi, in un certo senso, libera) e di adattarsi a situazioni complesse; il secondo deriva dagli sviluppi delle scienze umane, in particolare della psicologia e della sociologia, che sottolineano la fondamentale importanza di tutti quegli aspetti della nostra società che esercitano una funzione di condizionamento e di manipolazione del comportamento umano, rendendo così più credibile la teoria dell'uomo-macchina.
A noi, qui, interessa almeno rilevare che è comunque un fatto incontestabile che certe strutture fisiche e sociali, per esempio, possono costringere l'uomo entro ambiti che non lasciano spazio alla libertà, mentre una corretta pianificazione può facilitare la partecipazione consapevole e autonoma a una vita democratica.
Per la definizione di una metodologia scientifica della pianificazione è fondamentale, come si è detto, la possibilità di costruire modelli matematici. Questo tema verrà sviluppato più avanti; per ora interessa sottolineare che, nel quadro di una progettazione realistica, il criterio di giudizio fondamentale, che deve essere adoperato nei confronti delle tecniche di pianificazione, è quello dell'efficienza, espresso in termini di probabilità di concreta realizzazione di uno o più stadi del mutamento ipotizzato.
c) Il nuovo iter progettuale
Le considerazioni precedenti sono necessariamente introduttive a qualunque discorso sulla progettazione del territorio che si voglia caratterizzare come scientifico nei confronti di quello tradizionale, basato invece sull'intuito, sull'esperienza personale del progettista e sulla visione storicistica dell'evoluzione del territorio urbanizzato.
I moderni orientamenti culturali in tema di pianificazione territoriale tendono a superare definitivamente le acquisizioni nozionistiche e metodologiche del funzionalismo e del razionalismo. I nuovi principi di pianificazione s'incentrano su concetti solo in parte accennati nella letteratura classica del settore. I concetti sui quali oggi si opera sono infatti mutuati piuttosto dalle moderne acquisizioni delle scienze urbane (ecologia, sociologia urbana, economia spaziale, analisi regionale). La città-territorio, l'effetto urbano, il valore di soglia dello sviluppo, il piano-processo sono temi che trascendono la problematica, spesso soltanto anatomizzante, del funzionalismo, e la metodica cartesiana, puramente morfologica, del razionalismo.
Con l'abbandono delle tecniche derivate dal funzionalismo e dal razionalismo, il pianificatore urbanista, se ancora sprovvisto dei mezzi di prospezione e di analisi offerti dalla recente evoluzione tecnico-culturale, è costretto ad avvalersi sostanzialmente del bagaglio strumentale che gli è fornito dalla lunga e ininterrotta tradizione dell'approccio storicistico ai problemi della città. Bagaglio indubbiamente apprezzabile sotto il profilo della ricerca sui motivi e i modi dello sviluppo urbano, ma meno fecondo di principî generali di pianificazione.
Il nuovo campo di lavoro del pianificatore non è più ristretto, come si è accennato, al controllo della qualità formale degli spazi e al disegno della geografia delle destinazioni d'uso del suolo, ma si estende a tutta la complessa problematica del territorio. Ciò comporta l'acquisizione dei contributi di tutte le altre scienze urbane; tali contributi vanno però composti in una visione integrata, per problemi, che riesca a superare i limiti disciplinari. In altri termini, oggi si richiede che il tecnico del territorio, in tutte le fasi del suo lavoro, assuma un atteggiamento scientifico, superando le difficoltà e le diffidenze che ancora sussistono, soprattutto da parte di coloro che ritengono di poter ammettere, a sostegno dell'attività progettuale, solo limitati apporti delle scienze sociali e, per di più, a un livello meramente interdisciplinare.
È l'esigenza del cosiddetto ‛planning scientifico', che apre oggi una prospettiva del tutto nuova sulla realtà della pianificazione territoriale. Grazie alle sue prime applicazioni, si sono configurati interi settori di conoscenza dei fenomeni urbani e si è determinata la possibilità di oggettive verifiche, su scala mai raggiunta finora, della validità di alcune moderne teorie sulla struttura e sulla funzionalità delle città. Risultano poi di particolare interesse le applicazioni delle nuove tecniche per saggiare il grado di economicità e di fattibilità dei piani di riassetto territoriale; soprattutto la ‛modellistica' è il campo metodologico favorito dagli attuali ricercatori, che ne esaltano l'efficacia nell'anticipare i risultati della sperimentazione, con evidente risparmio di tempo e di risorse e con progressivo aumento del grado di certezza delle soluzioni elaborate.
La rigorosità dei risultati così raggiunti rappresenta l'aspetto più convincente delle nuove tecniche di pianificazione, anche se non si può trascurare che il pianificatore urbanista, come ogni altro individuo, è spinto da precise convinzioni ideologiche e culturali, in base alle quali, quando imposta il proprio lavoro, opera la scelta, anche se inconscia, dei parametri valutativi. Ciò che, però, interessa sottolineare è il fatto che, data l'esattezza con cui le moderne tecniche di elaborazione consentono di acquisire nuovi dati, le differenze di prospettiva e di orientamento ideologico finiscono con l'essere progressivamente colmate, grazie al cumularsi in senso convergente di risultati sempre meno viziati dall'origine; tale iter di acquisizione risulta pertanto scientificamente ‛progressivo', nel senso che permette di eliminare, a poco a poco, errori e difetti di fondazione teorica, aprendo, nello stesso tempo, nuovi orizzonti alla ricerca.
L'atteggiamento scientifico deve dunque corrispondere al superamento degli scambi paralleli d'informazione (l'interdisciplinarità di uso corrente) e consistere nell'adozione di una linea di rigorosa razionalità. Tale razionalità non è certo la via per conoscere la verità, ma semplicemente il metodo per stabilire proposizioni e sistemi di regole formulate con criteri tali da consentire di controllare i rapporti reciproci tra le regole stesse e tra queste e i fenomeni empirici.
È appunto di questi anni l'affermarsi della possibilità concreta, per il pianificatore urbanista, di assumere un atteggiamento pienamente scientifico, in relazione all'avanzata elaborazione di una serie di tecniche sia d'indagine, sia di previsione e di controllo su realtà complesse, largamente applicabili al campo della pianificazione territoriale.
L'uso delle moderne tecniche presenta, però, due grossi problemi: il primo si riferisce alla dimensione minima necessaria dell'area di osservazione e d'intervento, non sempre coincidente con quella consentita dall'attuale organizzazione amministrativa, almeno in Italia; il secondo riguarda la definizione stessa della scala di osservazione e dei criteri logici in base ai quali il modello urbano o territoriale viene configurato. In sostanza, è lo stesso svolgimento autonomo della realtà fenomenica che deve suggerire, volta a volta, in rapporto al variare delle situazioni e degli obiettivi, quei parametri che, convenientemente commisurati e ordinati in una trama di relazioni logiche, servono a razionalizzare i fenomeni urbani. In base alle nostre attuali conoscenze, però, sembra prematura la definizione di un metodo unico, valido universalmente per analizzare tutti i fatti urbani e per interpretare ogni tendenza in atto, oltre che per intervenire con programmi adeguati.
Torna qui in primo piano quel carattere di libertà che fa della pianificazione territoriale urbanistica una scienza tipicamente umana, non riducibile a un meccanico determinismo. Le difficoltà, a tutt'oggi, di definire una metodologia univoca, immutabile rispetto al variare delle situazioni contingenti, derivano in parte dal fatto che l'applicazione delle nuove tecniche attraversa ancora una fase sperimentale - a livello sia teorico che pratico - e in parte dipende dall'impossibilità di costringere la sfera disciplinare della pianificazione nell'ambito di una scienza avalutativa.
A questo proposito, assume fondamentale importanza il problema dei valori - come scelta consapevole dei criteri di orientamento -, degli obiettivi da realizzare e delle condizioni da adottare; anzi, a livello teorico, l'applicazione delle nuove tecniche offre la possibilità, almeno in prospettiva, di realizzare concretamente una mediazione tra scienze valutative e scienze avalutative, tra mondo dei valori e Wertfreiheit: tale mediazione potrebbe senz'altro costituire un passo avanti sulla strada che conduce alla chiarificazione di quel nodo problematico che, in maniera forse semplicistica, è stato definito come questione delle ‛due culture'; definizione, quest'ultima, che nasce dall'aver confuso equivocamente scienza e tecnica, e dall'aver elaborato un'immagine mistificatoria di quell'umanesimo che, viceversa, già nella migliore tradizione rinascimentale, era intimamente connesso con il mondo della scienza.
È evidente, quindi, che la definizione e l'uso di aggiornati strumenti scientifici, idonei a consentire una più esatta conoscenza e una piu incisiva modificazione delle realtà urbane e territoriali, non vogliono significare l'abbandono del patrimonio di contenuti umanistici validi, che ha sempre contraddistinto il pensiero e l'azione dell'urbanista nella storia. Anzi, questo patrimonio deve essere valorizzato e funzionare da garante per una scelta di obiettivi veramente civili, veramente espressivi delle aspirazioni dei cittadini: obiettivi che sono i soli legittimi per una politica di controllo dello spazio insediativo.
In sintesi si può rilevare che la ricerca scientifica sembra essere indirizzata a individuare tecniche e metodi che consentano: 1) una conoscenza più dettagliata e più funzionale della fenomenica urbana (funzionale nel senso che tale conoscenza possa migliorare l'intelligenza operativa); 2) una maggiore velocità delle operazioni d'indagine e di controllo e l'istituzione di meccanismi di autoregolazione, attraverso una quasi istantanea elaborazione e manipolazione di una banca di dati; 3) l'integrazione dei risultati locali e di settore in una visione d'insieme, che non sia la semplice somma delle singole proposizioni (secondo la vecchia tecnica dell'indagine settoriale, suggellata al momento finale da uno sforzo interpretativo-intuitivo basato di regola su incerti criteri di analogia), ma che di esse costituisca la risultante unitaria logica.
Le direttrici della ricerca convergono dunque sui problemi ora enunciati, ognuno dei quali è, com'è facile osservare, strettamente connesso con gli altri due. Ma, se si astrae dalla singolarità dell'oggetto delle scienze urbane e se si considerano nella propria peculiare metodologia i filoni principali utilizzati dagli studiosi delle scienze urbane più avanzate, possiamo concludere che essi sono inscrivibili negli ambiti delle seguenti discipline: a) ‛sistemistica', o ingegneria dei sistemi; in particolare, la sistemistica, in quanto approccio di tipo globale verso un determinato problema, contiene anche i contributi delle altre discipline (b, c); b) informatica', o scienza dell'informazione; c) ‛teoria delle comunicazioni'.
Il recente sviluppo delle ricerche tese a un'impostazione metodologica di tipo nuovo per la soluzione dei problemi del territorio impone di soffermarsi sull'argomento e giustifica la partecipazione in questa sede di specialisti del settore.
d) La sistemistica, l'informatica e la teoria delle comunicazioni per la sistemazione del territorio
La sistemistica. - Nel campo delle scienze urbane, aventi per oggetto la città e il territorio, cioè realtà altamente complesse e plurifunzionali, composte da miriadi di elementi interdipendenti, l'approccio sistemico offre innovazioni fondamentali sia nella fase di ricerca, sia nelle fasi di progettazione, di attuazione e di gestione del piano.
Alla base della sistemistica vi è il concetto che ogni sistema deve essere considerato come un insieme di componenti che operano congiuntamente in funzione di un obiettivo globale. Il metodo scientifico per lo studio dei sistemi è oggi offerto dalla cibernetica, che si occupa non di oggetti ma di modi di comportamento, in un campo d'indagine che comprende tutte le macchine concettualmente possibili (e ogni sistema può essere concepito, a livello sia strutturale che funzionale, come una macchina).
La caratteristica essenziale del metodo di analisi per sistemi consiste dunque nel fatto che fin dall'inizio l'analisi interviene a suggerire l'enunciazione di ciò che si vuole ricercare o di ciò su cui s'intende operare. In altri termini, l'analisi sistemica cerca di descrivere l'universo (il sistema) in funzione degli scopi e non in funzione della struttura. Il vantaggio che viene acquisito con l'assunzione di questo nuovo punto di vista nel campo della pianificazione territoriale appare subito evidente, ove si pensi appunto alla complessità della natura della città e alle intricate e confuse interrelazioni che si stabiliscono tra le sue componenti funzionali. Difatti, determinati scopi vengono perseguiti, in un qualunque ambito urbanizzato, da differenti enti e organizzazioni. Questi, di solito, secondo la pratica corrente di rilevazione statistica e secondo gli ordinari criteri di valutazione, per il primo verso risultano inscritti in differenti settori produttivi o amministrativi (e quindi la somma dei contributi che portano, per il conseguimento di uno scopo, non è misurabile attraverso l'analisi di settore) e, per il secondo, vengono valutati in termini di efficienza con metodi relativi alla sola branca di appartenenza. La misura dell'efficienza globale in ordine a uno scopo determinato non può quindi essere fornita attraverso l'utilizzazione dei consueti indici. Inoltre, quando si eseguono analisi del tipo classico, si è costretti a supporre una qualche indipendenza tra i vari settori sottoposti a indagine; ciò è invece palesemente insufficiente, in quanto, nella realtà urbana, tutti gli aspetti sia della vita associata, sia della stessa struttura fisica del territorio sono collegati tra loro in un rapporto di reciproca dipendenza. Basti pensare, per esempio, al problema dell'assistenza sanitaria: il livello di efficienza di questo servizio sociale è ovviamente in relazione con la distribuzione delle attrezzature e con il livello professionale dei medici; ma è anche dipendente dall'accessibilità dei centri di servizio, dall'azione preventiva che viene svolta attraverso la branca della pubblica istruzione, dagli orientamenti nel campo del tempo libero (motorizzazione, ecc.). Pertanto l'analisi tradizionale di tipo settoriale non nesce a dare un quadro completo della situazione e, soprattutto, non riesce a cogliere le possibilità di stima globale dell'efficienza di un determinato sistema (nel caso in esame il sistema dell'assistenza, visto come sottosistema urbano).
Quando si deve affrontare lo studio di un sistema altamente complesso, quale quello costituito dalla realtà urbana, l'analisi è possibile soltanto grazie all'ausilio della cibernetica, la quale utilizza, a questo scopo, i risultati raggiunti dallo sviluppo degli elaboratori elettronici e dall'informatica.
Il principio metodologico fondamentale dell'approccio sistemico è costituito dal concetto di ‛organizzazione', le cui caratteristiche essenziali sono date dalle nozioni di totalità, differenziazione, interrelazione, crescita, informazione, regolazione e controllo. Scopo della cibernetica sociale è, dunque, la direzione e il controllo delle trasformazioni della società, considerata come ‛sistema organizzato' in continuo sviluppo. Al pianificatore territoriale urbanista interessano, in particolare, le conseguenze di carattere insediativo di tali trasformazioni.
Adoperato dapprima in prevalenza nella pratica manageriale, il metodo di analisi per sistemi è stato introdotto di recente nella pianificazione urbanistica per gli evidenti vantaggi che ne derivano.
La prima fase di applicazione consiste dunque nella descrizione del sistema urbano, ove per sistema s'intende un insieme di ‛elementi' compresenti che hanno la proprietà di avere relazioni tra di loro e con i loro ‛attributi'. Gli elementi sono le parti delle quali si compone un sistema e possono essere sia fisici (masse, volumi, persone, beni), sia astratti (regole, procedimenti, norme); gli attributi sono le proprietà caratteristiche degli elementi. Per quanto l'impostazione di un'analisi per sistemi sia formalmente ridotta all'essenziale, e cioè a poche ipotesi sulla struttura della realtà, l'enorme numero di dati che può essere vagliato e comparato dai calcolatori più sofisticati frutta una serie di risultati che consentono al pianificatore di raggiungere stadi di conoscenza più significativi di quanto non fosse possibile alcuni anni fa.
La seconda fase consiste nell'individuazione delle relazioni tra i componenti del sistema, tenendo presente che le relazioni possono essere a semplice o a doppia via, e cioè di dipendenza o di interdipendenza (rapporto dialettico). Non può quindi essere valida una descrizione delle relazioni in assoluto, ma bisogna ricercare, per ogni sistema, un preciso e determinato livello di significatività delle relazioni. Si rammenta, a questo proposito, che l'analisi sistemica è volta a individuare lo scopo del sistema, ed è quindi in relazione a questo risultato che occorre riferire il livello di significatività dell'analisi stessa.
Con la descrizione delle componenti e l'individuazione delle relazioni, il sistema può essere visto come un'entità composta di elementi tra loro interconnessi, pensata in movimento attraverso successivi stadi di mutamento, nello svolgimento di un processo ovvero di una serie concatenata di procedure.
Quando le relazioni tra le componenti possono essere espresse in termini quantificabili, le tecniche computeristiche consentono la previsione di stadi futuri del sistema. Ma, e ciò è più importante, si può pervenire anche al controllo del mutamento qualora sia possibile introdurre all'interno della logica del sistema le opportune varianti. Bisogna tener conto, infatti, che il sistema urbano è di tipo ‛aperto' e cioè interagisce continuamente con l'ambiente esterno. Occorre anche considerare, però, che i sistemi aperti possono raggiungere lo stesso stadio finale passando attraverso sequenze di mutamenti differenti. Ciò è estremamente importante per il pianificatore, in quanto implica la possibilità di adoperare strategie alternative durante il controllo e la gestione dei processi di sviluppo, nell'ambito delle tecniche che si rifanno all'approccio sistemico, come sarà possibile verificare nei capitoli successivi.
L'informatica. - La scienza dell'informazione ha, in tempi recenti, assunto una veste compiuta e rigorosa, ritagliandosi un proprio ambito specifico rispetto alle scienze più antiche che l'hanno preceduta. Il concetto d'informazione s'inscrive nell'ambito teorico della cibernetica, in quanto quest'ultima studia i sistemi complessi caratterizzati da uno scambio d'informazioni tra le parti di uno stesso oggetto o tra oggetti diversi, al fine di regolare l'organizzazione e il comportamento dei sistemi stessi. I fondatori della cibernetica (e in particolare C. E. Shannon) definiscono, sulla base del concetto di probabilità, l'informazione come un qualsiasi ente capace di provocare una modificazione in un sistema organizzato secondo una certa assegnazione di probabilità. Nel campo delle scienze urbane, e in particolare della pianificazione territoriale, la teoria dell'informazione assume un ruolo decisivo per una serie d'importanti motivi qui di seguito elencati, che verranno ripresi nel capitolo successivo da specialisti della materia.
Il primo motivo, di carattere introduttivo, consiste nel fatto stesso che lo sviluppo della teoria dell'informazione ha reso possibili tecniche di manipolazione dei dati e simulazioni processuali che sono alla base di tutta la modellistica strutturale urbana.
Il secondo consiste nella possibilità di organizzare la raccolta delle informazioni, la loro memorizzazione e il successivo controllo in forma continua. In tal modo si ha un aggiornamento continuo delle conoscenze, che consente una permanente tempestività nelle decisioni da prendere soprattutto nel campo della gestione urbana (problemi delle scorte; problemi connessi al superamento di determinate soglie di servizio; problemi di elaborazione, sulla base di dati aggiornati, di strategie operative o sostitutive di quelle venute meno in quanto non più rispondenti al mutato assetto del territorio).
Infine, la teoria dell'informazione fornisce utili suggerimenti sulla processualità e sulle interazioni delle decisioni che, ai rispettivi livelli, vengono prese dagli elementi attivi della città. Infatti, il risultato del conflitto permanente tra le decisioni singole e delle istituzioni è di grande importanza nei confronti delle trasformazioni urbane.
I settori nei quali si ha una distribuzione delle informazioni, significativa per il pianificatore urbanista, possono essere così raggruppati: a) settore della pubblica amministrazione (con tutte le branche nelle quali esso si suddivide); b) settore delle imprese (primarie, secondarie, terziarie e quaternarie); c) settore delle famiglie.
Ognuno di tali settori ha un ambito decisionale più o meno definito e determinati schemi di comportamento; inoltre, ognuno di essi è al tempo stesso origine e destinazione del flusso d'informazioni presente nell'ambito urbano. I primi due settori rappresentano le attività rivolte a produrre beni e servizi, mentre il settore familiare rappresenta più generalmente quello delle utenze. Utenze, in determinati rapporti, vanno considerati anche, volta a volta, i settori della pubblica amministrazione (se si serve di imprese) e delle imprese (se si servono della pubblica amministrazione). Ogni componente dei tre settori adotta una politica nei confronti delle trasformazioni urbane e l'adozione di una o di un'altra politica è strettamente dipendente dal flusso di informazioni e dal loro contenuto.
Tralasciando il discorso di carattere politico-ideologico, pure importante, sui pericoli derivanti da una manovra finalizzata degli strumenti d'informazione di massa, si sottolinea l'interesse rilevante che ha per l'urbanista la conoscenza dei processi decisionali che tutti i componenti attivi della città sono indotti a seguire in conseguenza dell'assimilazione di determinati quanti di informazione. Tale conoscenza mette l'amministrazione, che ha il compito di governare i mutamenti del territorio, in condizione di anticipare o di differire determinati interventi e di pubblicizzare al momento più opportuno decisioni di politica urbanistica. Ciò consente di controbattere o comunque influenzare in una determinata direzione eventuali atteggiamenti che potrebbero essere presi da tutti coloro che con le proprie decisioni influenzano le trasformazioni urbane.
Tali decisioni, che possono essere prese dai componenti attivi dei tre settori e che risultano significative ai fini della pianificazione, sono per esempio: condurre una determinata politica di investimenti; porre in atto certe misure legislative; accentuare o diminuire la propensione ad alcuni consumi; scegliere tra alternative differenti nei riguardi della residenza o dei sistemi di trasporto.
La teoria delle comunicazioni. - Come introduzione al discorso sulla teoria delle comunicazioni svolgeremo alcune brevi considerazioni sul significato da attribuire all'informazione da parte del pianificatore del territorio.
In sintesi, l'informazione può essere valutata: a) come sapere (informazione nel campo dell'istruzione, della cultura, ecc.); b) come potere, in quanto con l'informazione si agisce sui processi decisionali; c) come struttura, in quanto attraverso l'acquisizione di dati e la successiva elaborazione (fonte di ulteriori informazioni) si percorre la fase strutturante del processo conoscitivo.
Strettamente legato al progresso dell'informatica, lo sviluppo della teoria delle comunicazioni è, per certi aspetti, il settore che anticipa le innovazioni più radicali nello studio della forma e della struttura delle aree urbane. Com'è noto, se l'informazione, a livello umano, può essere definita come la trasmissione di una nozione a un essere cosciente, a sua volta la comunicazione va definita come la forma di tale trasmissione. Una proposizione di senso compiuto, comunque espressa, costituisce un'informazione, unica e inequivoca; tale informazione può però essere comunicata in molti modi: direttamente a voce, per iscritto, mediante sistemi telefonici, telegrafici, televisivi, ecc. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e la crescente capacità dei relativi canali permettono di ridurre tutti quegli spostamenti di persone e di cose che prima erano necessari per consentire un sufficiente flusso d'informazioni.
In altri termini, come si è accennato in precedenza, con la diffusione delle informazioni si conseguono due essenziali risultati per il governo del territorio. Il primo consiste nel fatto che lo spazio può essere considerato divisibile più di quanto si potesse pensare prima, in ordine alla non più necessaria preminenza dei punti di erogazione dell'informazione. Lo spazio urbano, cioè, si depolarizza e si decaratterizza, in quanto luoghi e zone, prima favoriti dalla presenza di attrezzature particolari funzionanti da centri di trasmissione, vengono ora posti in una condizione di indifferenza rispetto al restante territorio. Il secondo risultato consiste nella possibilità di rendere partecipe dei servizi e soprattutto dei processi decisionali una maggiore quota di cittadini, nella prospettiva di una diffusione generale dell'effetto-città, caratterizzata da gradienti molto bassi.
I rami delle attività urbane per i quali si prospettano, sulla base di quanto è stato detto, i mutamenti più importanti sono appunto quelli per i quali il flusso delle informazioni costituisce il segno qualificante. Una rassegna, necessariamente rapida, può essere la seguente: 1) settore dell'istruzione: la comunicazione può rendere inutile lo spostamento verso il luogo ove viene impartito l'insegnamento, a partire da un certo standard di qualità e di quantità dell'informazione; 2) settore dello spettacolo, dello svago, dello sport: il prevalere dei flussi d'informazione su altri più qualificanti e la concorrenza esercitata nei confronti della pratica effettiva e libera dello sport e delle altre attività ricreazionali suggeriscono di contenere, più che aumentare, l'erogazione dei flussi medesimi; 3) settore del credito, delle assicurazioni e delle gestioni finanziarie; 4) settore della pubblica sicurezza e della salvaguardia della pubblica incolumità; 5) settore dei trasporti pubblici e privati, sia con l'adozione di tecniche che consentano di disciplinare il traffico in un ambito sufficientemente vasto, informando tempestivamente sulle eventuali difficoltà, sia con l'introduzione di automatismi generalizzati per la guida dei veicoli; 6) settore della gestione delle aree urbane in relazione alla centralizzazione o alla diffusione di determinati servizi e all'automazione di alcune decisioni di tipo corrente.
Questi cenni sommari stanno a indicare non solo le possibilità offerte alla pianificazione territoriale urbanistica dall'introduzione di queste nuove tecniche, ma soprattutto l'incidenza che avranno sulla realizzabilità del piano la sistemistica, l'informatica e la teoria delle comunicazioni, allorquando al velleitarismo e all'arbitrio si sostituiranno la documentata razionalizzazione delle scelte, la certezza della verifica ottimale e ancor più la riduzione dell'attuale sproporzione tra esigenze e possibilità, che costituisce oggi una delle principali cause del fallimento della pianificazione.
e) I modelli di struttura urbana
Il discorso fin qui condotto va integrato con alcuni essenziali cenni alla casistica dei modelli urbani elaborati utilizzando le possibilità offerte dalla sistemistica, dall'informatica e dalla teoria delle comunicazioni.
Prima di procedere a un'elencazione dei tipi di approccio tentati, si ritiene utile precisare che ogni classificazione dei modelli risponde a un determinato scopo illustrativo. Pertanto, in relazione al piano di ricerca prescelto dallo studioso, i modelli possono essere inscritti in una o in un'altra delle categorie nelle quali ogni classificazione si suddivide.
Una prima ripartizione può essere avanzata tenendo conto soprattutto della fase progettuale alla quale i modelli si riferiscono. Si ha allora il seguente quadro che racchiude i vari tipi di modelli da assegnare rispettivamente alla fase di ricerca, di progetto, di attuazione, di gestione.
1. Fase di ricerca: modelli di lettura delle strutture urbane; modelli di verifica; modelli di equilibrio, che interpretano l'assetto metropolitano come risultato di un conflitto di comportamenti connesso a fattori esogeni.
2. Fase di progetto: modelli di assegnazione delle destinazioni d'uso del suolo, basati in genere su procedimenti di ottimizzazione in rapporto ai costi d'insediamento e alla somma delle utilità pubbliche derivanti da una determinata distribuzione delle attività, delle residenze e delle attrezzature.
3. Fase di attuazione: modelli economici in senso lato; modelli di programmazione; protocolli di varianti tattiche al piano.
4. Fase di gestione: modelli basati sulla teoria delle code e sull'aggiornamento dei rendiconti delle disponibilità residue; modelli di decisione; modelli di comportamento.
Più in generale, si può dire che i modelli devono formulare ipotesi di base su tre variabili della processualità urbana. Le tre variabili principali, strettamente interconnesse, sono: la localizzazione delle varie destinazioni d'uso del suolo; la rete di trasporto e di comunicazione che collega i vari punti a diversa destinazione; lo schema complessivo dei comportamenti dei soggetti attivi della città.
In rapporto all'angolazione con la quale si guarda al contesto urbano, i modelli strutturali possono essere suddivisi nel modo seguente.
1. Modelli derivati dalle scienze economiche: essi sono in genere modelli di equilibrio e descrivono la collocazione ottimale dei soggetti attivi della città in dipendenza da alcuni fattori esogeni. Poiché l'interpretazione del sistema urbano viene condotta sulla base di considerazioni di tipo economico, nell'ambito di siffatto tipo di modello non è possibile comprendere tutto ciò che non sia quantificabile, se non attraverso incerti criteri di analogia e per stime.
2. Modelli derivati dalle scienze sociali: questi descrivono l'assetto del territorio come viene determinato dalle interazioni dei vari gruppi di soggetti capaci di decisioni aventi implicanze spaziali. L'assetto nasce dal risultato delle compensazioni tra le tendenze a collocazioni ottimali (per le residenze e per le imprese) nell'ambito urbano.
3. Modelli derivati dalla teoria dell'informazione: essi definiscono la città come un sistema d'interazioni, determinato dal bisogno dell'uomo di mantenersi in comunicazione con i suoi simili. Si tratta, anche in questo caso, di modelli di tipo comportamentistico, nei quali l'insediamento urbano è considerato come l'adattamento, nello spazio, delle varie attività in vista di ottenere i minimi costi occorrenti per la comunicazione.
Circa l'adeguatezza dei modelli matematici alla concreta realtà urbana, alcuni studiosi obiettano che non sempre lo sviluppo e il funzionamento della città obbediscono a leggi razionali. E, in verità, non potremmo contraddirli se ci limitassimo a prendere in esame la crescita di alcune città tra le principali dell'Occidente, in cui localizzazioni industriali, crisi economiche improvvise e decisioni politiche non meditate hanno sconvolto profondamente le linee di sviluppo razionali e prevedibili, determinando situazioni difficilmente controllabili.
Il modello di Pittsburg, per la sua priorità cronologica e per la sua semplicità, resta lo studio fondamentale nel campo dello sviluppo urbano: la città è stata vista come fenomeno abitativo, in cui la dislocazione delle residenze dipende da quella dei posti di lavoro, secondo parametri che sono funzione delle distanze. Questo modello ha rappresentato il punto di partenza per tutti gli altri modelli applicativi, i quali hanno contribuito ad ampliare l'approccio metodologico, sia introducendo nuovi fattori incentivanti (spesso legati, però, a particolari condizioni locali), sia innestando nel modello globale tutti quei modelli settoriali ai quali si è accennato prima. Infatti, mentre nel modello di Pittsburg l'unico input era dato dalle dislocazioni industriali e l'output era costituito dalle residenze determinate in base al calcolo delle distanze in linea d'aria, nei modelli più recenti si tiene conto di tutti i principali fattori (case, industrie, infrastrutture di traffico) e si prevedono gli sviluppi futuri di queste componenti integrando, in maniera interdipendente, i diversi studi settoriali.
La complessità di tali nuovi approcci si può bene intuire quando si consideri che ogni modello settoriale, convergente con gli altri in quello globale, costituisce già di per sé un procedimento molto complicato, spesso al limite delle capacità operative dei calcolatori elettronici. Per esempio, grafi complessi, quali le reti stradali, sono necessari per risolvere anche il solo problema dei percorsi, relativo al modello di traffico. Per le dislocazioni industriali i modelli possono essere meno complessi, ma variano notevolmente con il variare della tipologia industriale. Tutti questi modelli settoriali, comunque, si complicano ulteriormente nella loro reciproca interdipendenza: nel modello di traffico, per esempio, il carico della rete è un fattore che condiziona i tempi di trasporto ed è a sua volta condizionato dalle dislocazioni abitative e lavorative, le quali sono funzione dei tempi stessi di trasporto.
In conclusione, il modello urbano globale si configura come un sistema di equazioni le cui molteplici incognite sono tutte interdipendenti tra loro e la cui soluzione simultanea risulta essere molto difficile, almeno a tutt'oggi. Tali difficoltà non potranno essere concretamente superate fino a quando non si avranno maggiori sviluppi della cibernetica e dell'elettronica, sviluppi che potranno consentire di superare il procedimento step by step, oggi comunemente adottato, ma ancora estremamente lungo.
Oltre a queste difficoltà di carattere tecnico, ne esistono altre, almeno per la pianificazione nell'ambito europeo, di ordine concettuale: in effetti, il modello rappresenta soltanto un momento previsionale, e non decisionale, poiché le scelte del pianificatore, ancorché razionali, sono tuttavia condizionate dai programmi politici, indipendenti dalla sua volontà. Com'è possibile, allora, ottimizzare non un singolo settore, ma tutto il sistema nel suo insieme? Modelli ad hoc potranno risolvere, per esempio, nel modo migliore, il problema dell'ubicazione industriale o abitativa; ma saranno anche necessariamente congruenti con gli interessi generali di una comunità? In altri termini, dal pianificatore europeo si vuole, oggi, una risposta esauriente che risolva tutti i complessi problemi che investono la totalità del territorio.
L'obiettivo del modello, quindi, non può essere la mera interpretazione dello status quo, né la previsione di possibili realtà future estrapolate da quella presente, bensì la realizzazione di finalità di ordine socioeconomico, che sono indicate dalle tendenze politiche in atto. Certamente questo è un fattore che rende ancora più complessa l'impostazione dei modelli; se, infatti, le finalità da raggiungere sono esclusivamente di ordine economico, il criterio in base al quale verrà impostato il modello sarà quello del massimo contenimento dei costi d'impianto e di gestione, la cui somma viene assunta, appunto, come costo della comunità.
Non mancano, a tutt'oggi, studiosi che hanno teorizzato soluzioni matematiche per risolvere questo tipo di problemi; per esemplificare lo spirito di questi modelli, possiamo citare quello di Lowry. Si tratta di un modello gravitazionale, molto semplice e schematico, nel quale, data l'ubicazione dei posti di lavoro nei settori di base, si giunge alla dislocazione abitativa servendosi dell'ipotesi che ogni abitante tenda a ridurre al minimo il percorso casa-posto di lavoro. Nella conseguente localizzazione degli insediamenti non verrebbe però considerato che, dal punto di vista della utilità collettiva, importa ridurre al minimo non tanto i percorsi individuali, quanto piuttosto la loro somma complessiva, il che potrebbe condurre a una diversa distribuzione delle dislocazioni. D'altra parte, questa considerazione non complica di molto il problema, poiché sostituire un obiettivo a un altro non comporta un cambiamento dell'impostazione matematica.
Il problema si complica, invece, quando venga introdotto un secondo obiettivo, quale, per esempio, quello di ridurre al minimo i costi d'insediamento. In tal caso, poiché è difficile ipotizzare una coincidenza spontanea dei due obiettivi suindicati, la soluzione che assicuri il minimo costo complessivo delle due operazioni richiederà il contributo delle tecniche economiche, della ricerca operativa e della programmazione lineare in particolare.
Va aggiunto, però, che spesso l'obiettivo economico viene espresso in forme esponenziali e non lineari, il che rende inefficace l'adozione della programmazione lineare e apre nuovi problemi di ordine matematico, non ancora risolti.
Come si vede, l'iter per giungere a una certezza scientifica nella pianificazione è irto di difficoltà, ma questo deve costituire uno stimolo a procedere sulla via della ricerca metodologica che, se anche difficile, costituisce l'unica possibilità di utilizzare razionalmente le risorse economiche e quelle ambientali ancora esistenti.
In questo senso acquistano tutto il loro significato i contributi che seguono, di specialisti di settore, i quali esprimono altresì un nuovo indirizzo metodologico per affrontare i complessi temi della sistemazione del territorio.
2. Le nuove tecniche: la sistemistica e l'informatica nei problemi della sistemazione del territorio di Luigi Dadda, Giampio Bracchi e Adriano De Maio
a) Sistemistica
I. Non è compito di queste brevi note analizzare in maniera dettagliata la sistemistica, perché la trattazione richiederebbe uno spazio tale che, anche con notevoli sforzi di sintesi, sarebbe del tutto sproporzionato rispetto a quanto consentito dall'economia complessiva del lavoro. È tuttavia opportuno premettere alcune considerazioni di carattere generale per evitare da un lato che il lettore non esperto dello specifico argomento sia portato a ritenere che quanto trattato in queste pagine sia il compendio della sistemistica e dall'altro che lo specialista possa criticare, per altro facilmente, le notevoli lacune presenti.
Nell'ambito della sistemistica si possono distinguere tre principali filoni. Il primo viene normalmente indicato con il termine ‛organicistico' e prende le mosse dagli scritti del biologo L. von Bertalanffy che coniò anche l'espressione general systems theory, espressione abbastanza ambigua, in quanto l'aggettivo ‛generale', pur essendo riferito al sostantivo ‛sistemi', può anche essere messo in relazione con ‛teoria', come del resto è avvenuto più volte, dando così origine a interpretazioni troppo estensive. Questa circostanza fu anche facilitata dal fatto che, in seguito alla fondazione della Society for the Advancement of General Systems Theory, a essa aderirono anche economisti, matematici, psicologi e sociologi. La chiave di questa teoria si trova nei concetti che sono stati elaborati per descrivere, spiegare e predire il comportamento di un sistema qualsiasi, intendendosi per sistema un ‛insieme di elementi mutuamente interagenti'. Fra questi concetti i più importanti sono quelli di: livelli (che vengono utilizzati principalmente a scopo classificatorio); sistemi aperti e chiusi; entropia ed entropia negata; trasformazione ingresso-uscita; confini e interfacce; sottosistemi, metasistemi e ambiente; analisi per sistemi; differenziazione e integrazione; retroazione, equifinalità; aree di interdipendenze. In particolare, nell'ambito dell'analisi per sistemi, si è prestata sempre molta attenzione ai sistemi sociali, rispetto ai quali sono state avanzate tre prospettive di analisi: la prima concerne le relazioni fra il sistema e l'ambiente; la seconda concerne le relazioni fra alcuni sistemi; la terza infine, fra i sottosistemi costituenti il sistema. Questo presuppone, fra l'altro, la definizione preliminare della struttura del sistema in oggetto (cioè quali sono gli elementi e le variabili da considerare).
Il secondo orientamento deriva dalle teorie del ‛controllo automatico' che, resesi indipendenti dalle applicazioni immediate per cui erano state create, hanno via via allargato i campi d'indagine fino a estrapolare alcuni caratteri indipendenti dalle condizioni contingenti e legati solo a particolari strutture matematiche. Tali proprietà (stabilità, controllabilità, osservabilità, ecc.), in quanto risultano essere particolarmente importanti per lo studio di un qualsiasi sistema, hanno indotto a proporre l'applicazione sia dei concetti che delle tecniche ai più svariati campi, contribuendo a far parlare anche in questo caso di una teoria generale dei sistemi.
Il terzo indirizzo è scarsamente considerato, in quanto non ha avuto un'adeguata base di teorizzazione ma si è rifatto di volta in volta a modi di approccio empirici, mutuati più dal buon senso che da metodi che possano essere definiti scientifici. Esso si richiama alla teoria organizzativa e in particolare all'analisi del processo decisionale, agganciando così l'approccio sistemico al concetto di pianificazione.
I vantaggi e gli svantaggi principali legati a queste impostazioni, quando applicate a problemi quali la sistemazione del territorio, sono sufficientemente chiari e possono essere così riassunti.
L'approccio organicistico, sia per il modo con cui si è venuto a creare che per gli obiettivi che si propone, benché affascinante da un punto di vista culturale, risulta assai poco utilizzabile in pratica. I concetti su cui si basa si dimostrano assolutamente privi di consistenza nell'istante in cui si tenta di concretizzarli in esperienze reali, poiché forniscono chiavi interpretative che, in quanto generali, sono anche troppo generiche. In alcuni casi la loro utilità consiste nel chiarire alcuni concetti che si applicavano direttamente senza averli maturati e discussi a sufficienza. Tipico esempio è la definizione di sistema aperto e chiuso: quando si va a sperimentare sulla realtà, ci si accorge che nessun sistema può essere definito chiuso (cioè con uno scambio nullo di energia e d'informazione con l'esterno); d'altra parte si rivela praticamente impossibile riuscire a descrivere compiutamente un sistema aperto. Il modo per uscire da questa impasse consiste nello stabilire un limite arbitrario, in modo tale che il comportamento del sistema sia influenzato soltanto da condizioni ambientali che vengono stabilite una tantum e non sono suscettibili di modificazioni in base alle uscite del sistema stesso. Questo non significa che le interazioni con l'ambiente non possano variare col tempo, ma sta solo a significare che non si prende in esame la legge che disciplina il comportamento di questa interazione.
L'approccio di tipo matematico ha il vantaggio di fornire una impostazione accuratamente formalizzata, per cui non viene lasciato spazio a differenze d'interpretazioni e a gratuità di argomentazioni. Tuttavia il difetto maggiore di questo approccio consiste nel fatto che non solo si devono mettere insieme concetti provenienti da discipline differenti (che è sempre uno dei punti fondamentali di qualsiasi approccio per sistemi), ma che tali concetti devono essere ricondotti a quantità misurabili in scale fra loro compatibili. Inoltre tali scale devono essere anche di tipo cardinale e non solo ordinale. Questo difetto non ci sembra possa essere assolutamente trascurato, soprattutto in un momento in cui i metodi tradizionalmente utilizzati, quali per esempio la ricerca operativa, devono essere ripensati per superare elementi negativi del tipo sopraindicato. Inoltre, da un punto di vista più generale, appare evidente come l'adozione di un metodo che richiede la quantificazione di tutti i parametri e di tutte le variabili si presti facilmente a manipolazioni e travisamenti. Queste obiezioni sono tali per cui non si può presumere che esse valgano soltanto in via temporanea: appaiono infatti intrinseche al metodo stesso.
A questo punto appaiono evidenti i motivi per cui nelle considerazioni seguenti non verrà utilizzato né l'approccio organicistico della teoria dei sistemi dinamici, né quello matematico, ma il terzo che, essendo di carattere molto ‛empirico', si avvale sia di indicazioni generali filosofico-interpretative tipiche della prima impostazione, che di formulazioni analitiche, tipiche della seconda. Inoltre, ovviamente, questo terzo approccio fa riferimento a tutto il corpo delle teorie organizzative e gestionali tradizionali: dall'analisi delle risorse interessate (uomini, macchine, tecnologie, spazio, ecc.) allo studio della struttura, dei processi d'informazione e di comunicazione e delle procedure di decisione.
II. Prima di affrontare la discussione delle tecniche e dei metodi derivati o comunque inquadrabili nell'approccio per sistemi, è opportuno premettere qualche considerazione, aggiuntiva a quelle fatte precedentemente, sul modo di intendere la sistemistica in un'ottica di tipo organizzativo-decisionale. La prima osservazione, già accennata prima, concerne il fatto che ciascun problema reale è per sua natura complesso e quindi, per poterlo affrontare in maniera corretta, occorre riunire competenze diverse.
In questa interpretazione l'approccio per sistemi si può quindi intendere come sinonimo di multidisciplinarità. In termini diversi, si può pensare di dare la seguente definizione: sistema è un'unità complessa formata da molte parti, spesso diverse, soggette a un piano comune e che perseguono un unico scopo.
In questa definizione si notano quindi due caratteristiche fondamentali che si vogliono evidenziare: a) la ‛complessità' del sistema, costituito da sottosistemi con caratteristiche differenti (da ciò deriva che per risolvere un problema qualsiasi legato al sistema è necessario un approccio multidisciplinare); b) la ‛unicità' del sistema, derivata dal piano e dallo scopo comune (si noti che tale unicità di obiettivo non è automaticamente determinata dai vari sottosistemi, ma è stabilita o da un sottosistema di livello gerarchico più elevato, ovvero da una mediazione fra gli obiettivi dei vari sottosistemi, che rinunciano ‛spontaneamente' a parte della loro autonomia di decisione).
Da tale impostazione conseguono numerosi effetti e in particolare: a) la necessità di considerare gli aspetti psicosociologici nell'esame del comportamento degli elementi costituenti una organizzazione; b) l'opportunità di identificare un ‛sistema decisionale' all'interno dell'organizzazione, tale da lasciare un'autonomia operativa ai vari sottosistemi e contemporaneamente tenerli uniti in un piano generale unico (strategia).
Questi aspetti trovano un'ulteriore precisazione passando a un'altra definizione di sistema che può essere la seguente: sistema è ogni aggregato riconoscibile e delimitato di elementi dinamici che sono in qualche modo interconnessi o interdipendenti e che continuano a operare insieme in base a certe leggi e in maniera tale da produrre un determinato effetto totale. Un sistema - in altri termini - è qualcosa che concerne un certo tipo di attività e preserva le caratteristiche d'integrazione e di unità; un particolare sistema può essere riconosciuto distinto da altri sistemi con i quali, tuttavia, può essere correlato dinamicamente. I sistemi possono essere complessi, possono cioè essere costituiti da sottosistemi interdipendenti, ciascuno dei quali, sebbene meno autonomo dell'intero aggregato, è tuttavia sufficientemente distinguibile in fase operativa.
Questa definizione di sistema, oltre a comprendere caratteristiche proprie dell'altra formulazione, evidenzia un problema tipico che è quello dell'identificazione del sistema e della sua decomposizione ottimale in un insieme di sottosistemi. Inoltre, a monte, esiste la necessità di valutare il ‛confine' del sistema, cioè dove si può pensare che cominci l'ambiente a esso esterno. L'individuazione di un tale confine risulta particolarmente difficile e dipende essenzialmente da due tipi di fattori: qual è la funzione obiettivo, e quali sono le variabili che possono essere considerate ‛di controllo', cioè quali sono le azioni - e il relativo dominio di appartenenza - che sono alla portata di colui che è abilitato a prendere decisioni.
Un'altra definizione di sistema, che è quella da cui si dedurrà la proposta di definizione qui avanzata, è la seguente: un sistema è dato dall'insieme di tutti gli elementi che devono essere considerati per riuscire a individuare quale sarà l'uscita avendo applicato una data entrata.
Questa definizione, suscettibile indubbiamente di notevoli miglioramenti, soprattutto formali, sembra mettere in risalto alcune caratteristiche: a) necessità d'individuare quali sono le variabili di uscita che c'interessa considerare, sia nel caso in cui si voglia semplicemente osservare il loro andamento (modello descrittivo) sia nel caso in cui si voglia procedere a una loro ottimizzazione (modello decisionale); in quest'ultimo caso è necessario procedere a una definizione della funzione-obiettivo; b) necessità d'individuare quali sono le variabili di controllo e il loro dominio di variabilità; c) identificazione delle variabili esogene e previsione del loro andamento nel futuro.
Le caratteristiche indicate precedentemente, associate alle altre definizioni, non sono in contrasto con l'ultima formulazione proposta, nella quale non solo non si esclude una suddivisione in sottosistemi e la necessità, in generale, di un approccio multidisciplinare, ma anzi si inquadrano tali aspetti più organicamente.
Un'altra caratteristica evidenziata in questa definizione è la dinamicità della struttura del sistema. In altre parole, il sistema è dinamico non solo in quanto esiste una relazione temporale fra le variabili presenti in esso, ma anche in quanto può variare nel tempo la stessa configurazione del sistema. A un dato istante infatti può darsi che i legami esistenti fra una o più uscite e altre variabili siano talmente laschi che o si possono trascurare del tutto o comunque si possono considerare esogene tali variabili. In seguito può accadere che ciò non sia più vero, nel qual caso va modificata l'intera struttura del sistema. In altre parole, un approccio per sistemi che non soddisfi a questa condizione di dinamicità corre il rischio di rendere molto più statica e meno innovativa l'azione di qualsiasi tipo di organizzazione.
La definizione di sistema precedentemente accennata richiama immediatamente la pianificazione; anzi, se si definisce a sua volta la pianificazione come un progetto di azioni in grado di ottenere determinati cambiamenti predefiniti, l'approccio per sistemi può essere visto come coincidente con il processo di pianificazione.
Queste considerazioni hanno fra l'altro trovato rispondenza nelle trattazioni che si occupano di pianificazione territoriale, in quanto l'oggetto su cui si opera è una delle organizzazioni complesse più comprensive.
III. Dopo aver richiamato questi concetti di carattere generale, occorre ora precisare la definizione di uno schema per il processo decisionale fornito dall'analisi per sistemi. Tale processo risulta articolato secondo diverse fasi.
1. Definizione degli obiettivi. Si devono anzitutto precisare gli obiettivi che ci si propone di raggiungere e al cui raggiungimento deve e può essere indirizzata l'azione risultante dal processo decisionale. Occorre collegare strettamente alla realtà su cui si sta agendo l'obiettivo che deve essere definito, e le possibili alternative (v. punto 4) devono essere confrontate con tale obiettivo.
2. Percezione dei problemi e delle opportunità. Questa fase consiste nella definizione, anche se in forma non precisa, dei rapporti esistenti fra la realtà in cui si agisce (sia nella sua configurazione attuale che nei suoi sviluppi futuri) e gli obiettivi che si sono fissati. Più specificatamente occorre individuare: a) i confini del sistema su cui si opera; b) le modalità con cui avvengono gli interscambi fra l'interno e l'esterno del sistema così delimitato; c) le variabili rilevanti sia interne che esterne del sistema suddetto; d) le variabili rilevanti sia interne che esterne rispetto al ‛comportamento' del sistema che interessa specificatamente l'obiettivo fissato. Questa considerazione porta a osservare, per inciso, che non esiste un ‛sistema' in senso oggettivo o, meglio, che esso è talmente complesso per cui è necessario operare mediante semplificazioni. Il modo con cui eseguire queste semplificazioni (si potrebbe parlare di ‛tagli') dipende appunto dagli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Gli elementi sopra indicati inoltre - confini, interrelazioni fra interno ed esterno, variabili rilevanti - dipendono anche dagli altri attori presenti oltre a colui che è abilitato a prendere le decisioni, nonché dalle loro caratteristiche o interazioni (potere, reciproca influenza, ambito decisionale, ecc.).
3. Identificazione del sistema. Questa fase consiste in un affinamento di quella precedente. Si tratta di procedere a una definizione più accurata dei problemi affrontati prima in modo abbastanza sommario. Per questo occorre individuare le variabili presenti e qualificare tali variabili, cioè distinguerle in variabili di controllo, variabili esogene, variabili endogene. Si definiscono come variabili di controllo quelle il cui valore è determinato, almeno entro certi limiti, da chi decide. Per esogene s'intendono tutte le variabili che intervengono sul sistema dall'esterno, la cui determinazione spetta cioè ad altri decisori esterni (il che non vuol dire che tali decisioni siano indipendenti fra di loro o rispetto al primo decisore considerato); molto spesso è conveniente identificare il decisore esterno con il ‛caso', il cui comportamento può essere quindi più o meno prevedibile. Le variabili endogene possono essere definite semplicemente come tutte le variabili che non rientrano nelle due classi precedenti. In pratica, sono le variabili determinatesi all'interno del sistema (da cui il nome), dipendenti quindi dal valore assunto dalle variabili esogene e di controllo nonché dal comportamento del sistema stesso.
Oltre a esaminare più accuratamente i punti visti in precedenza, in questa fase procederemo alle operazioni elencate qui di seguito.
A. Determinazione delle relazioni esistenti fra le variabili o, in altri termini, identificazione del comportamento del sistema. Non è possibile qui approfondire questo punto, non solo in riferimento alle tecniche che si possono adottare, ma anche rispetto alla possibilità di costruire, per i sistemi in cui intervengono come attori gli uomini, una legge di comportamento generale effettivamente utilizzabile. Il problema della possibilità d'individuare le leggi di una ‛fisica sociale' è talmente annoso e dibattuto che non si può pensare di liquidarlo in poche parole. Diremo qui soltanto che, lungi dal voler individuare delle leggi generali di comportamento, ci si deve proporre in questa fase d'individuare una relazione tra le variabili che vogliamo controllare (per es., la percezione delle variazioni di un mercato), quelle genericamente esogene e in particolare le variabili di controllo (per es., le procedure con cui forniamo le informazioni), tale per cui si possa prevedere con sufficiente attendibilità il valore delle variabili controllate come conseguenza dell'azione da noi scelta e del valore assunto dalle variabili esogene. Ciò risulterà ovviamente più o meno facile a seconda, fra l'altro, dell'obiettivo che consideriamo, delle variabili che intervengono, del periodo di tempo in cui vogliamo che la previsione mantenga una certa attendibilità. (È evidente che il fatto di non voler precisare leggi generali di comportamento si collega strettamente a quanto detto nella fase precedente a proposito della ‛soggettività' del sistema di cui noi vogliamo fare un modello).
B. Individuazione dei vincoli. Potrebbe sembrare intuitivo che, una volta ammessa la soggettività dell'individuazione di un sistema, i vincoli siano determinati in modo univoco. Anche non considerando qui il fatto che un obiettivo della decisione che stiamo prendendo possa consistere nel mutare i vincoli, l'affermazione fatta precedentemente non è vera in una serie di casi. Il più importante fra questi si verifica quando l'obiettivo è multiplo ed è composto da una serie di termini che non sono fra loro omogenei; in tal caso alcuni di questi termini possono comparire come vincoli anziché come termini della funzione-obiettivo.
In generale, quando l'obiettivo è multiplo e i termini non sono omogenei, si può tentare anche un'altra strada e precisamente si può cercare di rendere omogenei i vari componenti della funzione-obiettivo tramite opportuni coefficienti di ponderazione. I metodi ‛a punteggio' sono tipici esempi di questa impostazione.
In altri casi la struttura del vincolo non è univocamente determinata, ma dipende dal valore assunto da alcune variabili all'interno del sistema considerato. Tipico è il caso dei vincoli di ‛soglia': sopra o sotto un certo valore questi vincoli vengono a cadere.
C. Determinazione dell'intervallo temporale in cui vanno prese le decisioni e del periodo di tempo in cui si vogliono valutare gli effetti delle azioni scelte. Di tali intervalli di tempo (periodo di pianificazione e orizzonte di pianificazione) si occupano dettagliatamente i metodi quantitativi per la presa di decisione.
4. Generazione di alternative. Questa quarta fase è una delle più delicate, in quanto, in generale, si tende a sottovalutarla. In effetti in molti casi la soluzione trovata è insoddisfacente proprio perché non si è avuta particolare cura nel prospettare tutte le alternative possibili.
Un modello che consideri solo alternative insoddisfacenti avrà sicuramente una soluzione insoddisfacente. (Si noti, per inciso, che cercheremo il più possibile di non usare il termine ‛ottimo' o ‛ottimale', ma più semplicemente ‛soddisfacente').
Non esiste purtroppo alcuna metodologia generale consolidatasi: alcune tecniche (quali, per esempio, il brainstorming, la tabella morfologia di Zwicky, ecc.) fanno riferimento a situazioni abbastanza particolari. La formazione di alternative dipende in primo luogo dalla definizione degli obiettivi e dalla previsione delle tendenze in atto.
5. Analisi delle conseguenze. In base a quanto detto precedentemente si può, per ciascuna ipotesi alternativa di azione, determinare il valore ottimale delle variabili di controllo e, conseguentemente, il comportamento del sistema alla luce degli obiettivi prefissati. Tali conseguenze, nella maggior parte dei casi, non possono essere valutate in maniera deterministica. Si cerca comunque d'individuare, quando possibile, un intervallo di confidenza che ne misuri l'attendibilità. Per valutare le conseguenze delle diverse alternative bisogna procedere alle seguenti operazioni: a) determinare il campo di variabilità delle variabili di controllo; b) prevedere il valore assunto dalle variabili esogene nell'intervallo di tempo considerato; c) individuare lo stato iniziale del sistema; d) determinare il valore assunto dalle variabili di uscita del sistema.
6. Riciclo parziale. Questa fase consiste nel verificare, una volta valutate le conseguenze delle varie alternative, se vi siano o meno motivi per variare quanto determinato nelle fasi precedenti. Per esempio può verificarsi che l'obiettivo prefissato non raggiunga mai (per nessuna delle alternative) un valore soddisfacente, per cui o si cercherà di determinare nuove alternative o si dovrà addirittura cambiare obiettivo, almeno temporaneamente. Analogamente si deve attuare una verifica delle altre fasi che individuano il comportamento del sistema.
Esiste un altro motivo, non secondario, che ci stimola a fissare formalmente questa fase di riciclaggio nel piano decisionale: nella fase 1 non si parla di determinare gli obiettivi, ma solo di definirli in modo utile e il lavoro è quindi essenzialmente ‛tecnico'. Nella fase successiva interviene invece una valutazione ‛politica' con significati e problemi assai diversi.
7. Scelta dell'azione da compiere (pianificazione). In base a quanto emerso alla fine della fase 5 (e una volta che sia stato compiuto il riciclaggio), si hanno gli elementi per valutare quale sia, fra i diversi corsi alternativi d'azione esaminati, quello più conveniente rispetto ai fini che si vogliono raggiungere. È questa la fase della pianificazione in senso stretto: si determina cioè quali sono le variabili di controllo da prendere in considerazione, qual è il valore che bisogna loro assegnare, e corrispondentemente si specifica qual è il risultato atteso dall'azione scelta. Come già si è accennato prima, nel caso, molto frequente, in cui l'obiettivo sia multiplo, il decisore ha solo alcuni elementi per giudicare le varie alternative, e può quindi basarsi solo sulla scala di valori da lui adottata.
8. Programmazione della decisione. Una volta operata la scelta bisogna programmarla: determinare cioè tutte le azioni che ne consentono la realizzazione. In altri termini, bisogna determinare le modalità e le procedure che devono essere seguite nonché gli strumenti che devono essere utilizzati e gli operatori che devono agire. Occorre riservare una particolare attenzione ai casi in cui, nella fase di messa in atto della decisione, intervengono elementi umani, soprattutto se a essi è lasciato un certo margine di discrezionalità. In tali casi bisogna assicurarsi un elevato livello di sicurezza nella comprensione e accettazione del programma; in caso contrario questo elemento di rischio andrà tenuto presente in fase di valutazione delle probabili conseguenze.
9. Misure dei risultati e previsione dell'ambiente. Una volta programmata ed eseguita l'alternativa scelta, si devono misurare i risultati per poterli confrontare con quelli attesi o sperati. Analogamente andrà prevista l'evoluzione dell'ambiente interessato, evoluzione che potrà essere sia autonoma che strettamente dipendente dalla decisione presa.
10. Retroazione. La misurazione dei risultati permette di verificare gli spostamenti rispetto all'obiettivo fissato e di adottare le eventuali misure necessarie. I motivi per cui vi può essere una differenza tra il valore effettivo e quello desiderato può dipendere da molti fattori: interferenze esterne impreviste, incompleta o inesatta identificazione del sistema, inadeguata programmazione o realizzazione delle decisioni, errata definizione degli obiettivi, ecc. Questo vuol dire che le conseguenze della retroazione possono esercitarsi su una qualsiasi delle fasi precedenti; indicheremo quindi in generale l'esistenza di un riciclo della prima fase del processo decisionale. Analoghe osservazioni vanno fatte per quanto riguarda la previsione degli ambienti futuri.
Naturalmente tutte queste fasi possono essere ulteriormente frazionate ed evidenziate in rapporto al fenomeno che si vuole considerare. Talvolta una o più fasi possono mancare del tutto o, meglio, essere talmente limitate da poter essere trascurate senza alcun danno per la definizione del processo. Questo può avvenire anche per le retroazioni.
Quanto detto precedentemente può essere così schematizzato:
Uno schema più compatto può essere questo:
In esso emergono le seguenti caratteristiche essenziali: 1) scelta dell'azione da parte del decisore in rapporto agli obiettivi, stimoli, pressioni che gli provengono dall'esterno (e che dipendono in maniera più o meno completa dal decisore stesso), alla misurazione dei risultati ottenuti e alla previsione dell'ambiente futuro; 2) schema del processo decisionale costituito da due sistemi di controllo, uno di feedback (retroazione delle misurazioni dei risultati) e uno di feedforward (previsione delle tendenze future). In rapporto al problema particolare che si affronta e alle possibilità d'intervento (in particolare la qualità e la quantità dell'informazione), il processo decisionale può essere prevalentemente di controllo (quando manca la previsione) o di previsione (quando manca la misurazione dei risultati). È molto difficile, se non per sistemi fisici, trovare un processo decisionale ‛puro' (solo in feedback o solo in feedforward); nella maggior parte dei casi si troveranno entrambi gli elementi.
IV. Evidenziato così lo schema generale adottato nell'analisi dei sistemi, occorre vedere come questo possa venire applicato alla pianificazione territoriale, mediante l'utilizzazione di modelli analitici.
Prima di procedere in questo esame è opportuno rilevare che finora si è fatto esclusivamente riferimento a un unico decisore: in realtà possono nascere problemi ben più complessi nel caso in cui si debba tener conto di una pluralità di decisori, così come avviene di fatto in qualsiasi processo di pianificazione territoriale.
Nel caso in cui i molti decisori operino in un contesto ‛partecipativo' è necessario definire o, meglio, concordare una funzione di utilità collettiva e un adeguato sistema di informazione-decisione. L'approccio analitico della ‛teoria delle squadre' tiene conto in maniera molto parziale di tali problemi, mentre essi sono affrontati molto meglio sia in chiave politica che sociologica.
Nel caso in cui i molti decisori operino in un contesto ‛conflittuale', l'approccio matematico della ‛teoria dei giochi' risulta ancora più insoddisfacente di quello della teoria delle squadre nel caso precedente. Basti dire che non vengono evidenziati in tale teoria i meccanismi secondo cui possono formarsi ed evolversi le coalizioni.
Risulta quindi che, rimanendo valide le precauzioni sull'utilizzazione dei modelli analitici (quantificazione dei parametri e delle variabili e utilizzazione di scale cardinali e non ordinali), l'unico ambiente in cui si può pensare di avere risultati in qualche modo significativi è quello in cui è presente un unico decisore. A prima vista questo potrebbe sembrare un limite troppo stretto, tuttavia, tenendo conto di quanto detto prima a proposito della necessità di tagliare arbitrariamente il sistema, si può dire semplicemente che si accetta il fatto che il processo di pianificazione sia nelle mani di un unico decisore, considerando gli altri punti di decisione come interferenze esterne. Il problema a questo punto è, ovviamente, come stabilire chi debba essere il decisore e come controllarlo e sostituirlo. Proprio perché, per sua natura, il sistema è aperto, non si può pensare che il metodo con cui si opera non influenzi a sua volta l'esercizio del potere. Ne è un esempio la falsa ‛scientificità' e ‛obiettività' indotta dall'adozione di tecniche di tipo matematico.
A questo punto, tralasciando di esaminare e comparare fra loro i vari modelli, operazione per cui si rimanda alla bibliografia, converrà invece, per concludere, riassumere i principali problemi che si presentano nella costruzione di un modello per la pianificazione territoriale.
A. Rilevazione e raccolta dati. Indipendentemente dall'ordine temporale che si assegna a questa operazione, si adotta molto spesso il criterio di affrontarla una tantum (o a lunghi intervalli) cercando di raccogliere la maggior quantità di materiale possibile. Questo comporta una serie di svantaggi: 1) scarsa sistematicità nella raccolta e rielaborazione dei dati, senza alcuna critica relativa alla loro effettiva utilizzazione e ai criteri con cui i dati stessi sono stati raccolti; 2) staticità della rilevazione stessa (‛fotografare' una realtà dinamica non è molto significativo); 3) il piano di raccolta dati è spesso sovradimensionato rispetto al problema in esame per non perdere possibili informazioni che potrebbero in seguito risultare utili.
B. Determinazione delle leggi di comportamento del sistema. La prima alternativa consiste nell'assumere come parametri delle leggi standard, derivate non solo da scienze a carattere ‛sociale' (quali per es. l'economia, la sociologia, ecc.) ma anche di tutt'altro tipo (si pensi alle classiche leggi gravitazionali, alle applicazioni di principî di termodinamica o di meccanica quantistica).
I problemi principali diventano in un primo tempo la scelta di una determinata legge e in un secondo momento la rilevazione ‛ottimale' dei parametri e delle variabili che in essa compaiono.
L'altra alternativa consiste nel determinare leggi di comportamento empiriche utilizzando di volta in volta le esperienze, le discipline, le metodologie, le tecniche più utili. In tal caso il modello inizialmente sarà molto semplice e via via si affinerà, tenendo anche conto di eventuali cambiamenti nei dati a disposizione.
Questa seconda soluzione è in generale preferibile sia in base a considerazioni analoghe a quelle fatte precedentemente (integrazione fra le varie fasi in cui si può articolare il processo di conoscenza o di identificazione del sistema), sia perché le leggi strutturali di comportamento variano con il tempo e talora con elevata dinamicità e con cambiamenti notevoli. In alcuni casi l'obiettivo primario consiste proprio nel correggere le leggi di comportamento del sistema su cui si opera.
C. Livelli di aggregazione. Questo problema riguarda la maggiore o minore opportunità di disaggregare il sistema in diversi livelli.
In generale si può dire che trattare in modo integrato un sistema complesso da un lato ne garantisce l'organicità, mentre dall'altro impedisce quasi sempre che lo studio riesca a concretizzarsi in proposte operative.
D. Problema dell'orizzonte temporale. Si è portati molto spesso, trattando di problemi di pianificazione territoriale, a presupporre tempi abbastanza lunghi (dell'ordine di 10 anni e oltre). Questo trova giustificazione nel fatto che tra la decisione sulla carta, la sua realizzazione e l'effettiva influenza sul sistema può passare un intervallo di tempo abbastanza grande. Sarebbe quindi assurdo pianificare su un periodo breve.
D'altra parte occorre tener presente che il periodo di tempo considerato non può neppure essere eccessivamente lungo: sia perché l'affidabilità dei dati ha poco valore nel lungo periodo, sia perché, trattandosi di territori limitati, una pianificazione a lungo termine richiederebbe anche una descrizione molto accurata delle relazioni tra il territorio in questione e l'ambiente circostante.
Inoltre, si dovrà tenere conto anche delle conseguenze indotte dalle varie alternative d'investimento (trasporti, investimenti industriali, ecc.) nell'atto della loro realizzazione (occupazione indotta, redditi, localizzazione di attività, ecc.).
Formalizzando questo discorso, a scopo esemplificativo, si può dire che la funzione-obiettivo è costituita da due termini e precisamente:
dove T misura l'intervallo di tempo considerato; u è l'insieme delle variabili di decisione; ei è l'effetto (dell'anno i-esimo) della decisione; di è un coefficiente di ponderazione (se si potesse ricondurre tutto a misure monetarie sarebbe il fattore di sconto); x(T) è lo ‛stato' del sistema alla fine del periodo di pianificazione; λ è il coefficiente che misura la ‛bontà' dello stato finale inteso come stato iniziale per una pianificazione successiva.
E. Confronto tra le alternative. Si è volutamente usato il termine ‛confronto' anziché altri (quale, per es., ‛scelta ottimale') essenzialmente per due motivi: 1) anzitutto perché la scelta spetta comunque e sempre al decisore e non al modello, per quanto perfezionato esso sia. Nel caso specifico spetterà in genere all'amministrazione pubblica prendere la decisione (anche in base ad altre considerazioni che non sono state introdotte nel modello). Per questo si è preferito non utilizzare il termine ‛scelta', in quanto l'obiettivo della costruzione del modello consiste nell'individuare gli effetti di alternative diverse rispetto solo a un ben preciso insieme di variabili e non al sistema nella sua globalità; 2) la seconda osservazione riguarda l'attributo di ‛ottimale'. Per problemi del tipo considerato, siamo convinti che sia molto avventato esprimersi in termini di ottimalità (che è conveniente lasciare a campi più specificatamente ingegneristici).
Pur con queste precisazioni, si presentano comunque due diversi modi possibili di procedere: il primo consiste nel pesare e nell'ordinare le varie alternative secondo un unico criterio, per es. del tipo ‛costi/efficacia'; il secondo consiste nel disaggregare l'obiettivo in sotto-obiettivi e nell'ordinare le varie alternative secondo ciascun sotto-obiettivo, rinunciando a utilizzare un unico criterio di valutazione.
Evidentemente i due modi di procedere vengono a coincidere quando esiste un unico obiettivo strumentale (o operativo). Nel primo caso è necessario trovare degli opportuni coefficienti di ponderazione che rendano omogenei i singoli obiettivi strumentali. Formalizzando il primo procedimento si ha:
dove: fi è il singolo obiettivo strumentale e μi è il coefficiente che rende omogenei tutti i termini (per es. li riporta in unità monetarie o in una scala a punteggio).
Nel secondo caso invece ci si limita a considerare il singolo obiettivo strumentale, a trovarne le relazioni con le variabili di controllo e a lasciare la funzione di sintesi a un successivo momento.
Si deve inoltre fare una verifica di congruenza fra le varie politiche adottate per i differenti obiettivi strumentali. Per es., avendo a disposizione scarse risorse, risulta necessario verificare che le risorse utilizzate non superino il totale di quelle disponibili.
I motivi che inducono a preferire la seconda alternativa possono essere così schematizzati.
1) L'individuazione dei coefficienti di ponderazione risulta molto difficile e si presta a notevoli mistificazioni, a meno che, come si dirà in seguito, non si proceda a verifiche molto accurate. Si deve tener presente infatti che, allo scopo di passare da valutazioni di tipo qualitativo a valutazioni di tipo quantitativo, già alcuni degli obiettivi strumentali possono essere misurati solo con tecniche ‛a punteggio', oppure devono essere ricondotti in qualche modo a unità di misura facilmente manipolabili. L'introduzione di altri punteggi riduce il grado di attendibilità delle soluzioni proposte e ne impedisce una facile verifica rispetto agli obiettivi strumentali individuati. Quando s'introducono i coefficienti di ponderazione è inoltre necessario procedere a una verifica della rispondenza della soluzione rispetto ai coefficienti stessi e ai criteri di misurazione a punteggio.
2) Questa verifica deve essere ripetuta ogniqualvolta nel modello si ha una variazione dei parametri o delle leggi di comportamento del sistema. Nel caso di adozione di un unico criterio di costo/efficacia bisogna verificare che gli obiettivi strumentali, che compongono la funzione obiettivo complessiva, non siano fra loro correlati. Tale verifica può risultare talvolta estremamente difficile.
3) In tutti i procedimenti di costo/efficacia si adottano criteri abbastanza sofisticati per la determinazione dei coefficienti di ponderazione. Le tecniche adottate richiedono in generale una collaborazione fra i costruttori del modello, la popolazione interessata al modello, alcuni ‛esperti' e, soprattutto, gli amministratori cui spetta la parola definitiva sulle politiche da scegliere. Dato che questo processo risulta lungo e costoso, conviene presentare direttamente agli interessati le soluzioni parziali relative ai differenti obiettivi strumentali. In tal modo risulta più facile valutare i vantaggi di ciascuna alternativa e motivare quindi la scelta di una scala classificatoria.
4) In generale quanto più semplice è la relazione fra politica scelta e obiettivo, tanto più facile è controllare il processo. La relazione fra politica e obiettivo si complica quando si adotta un'unica ‛cifra di merito'.
F. Il controllo dei risultati. Oltre a prevedere e a pianificare una dinamica del sistema, occorre anche controllare se i risultati si sono più o meno scostati dalle previsioni e spiegarne le cause.
Per poter eseguire questo processo di controllo e interpretazione occorre che gli obiettivi che si vogliono verificare siano non troppo generali (tali cioè da impedire la valutazione del ‛perché' di un certo scostamento) e non troppo particolari (tali cioè da essere soggetti a una notevole quantità di interferenze imprevedibili). Questa osservazione induce a confermare che è preferibile agire sui singoli obiettivi operativi dal momento che in tal modo è più agevole controllare la congruenza di azioni previste e azioni effettive.
I motivi per cui i risultati effettivi si discostano da quelli previsti possono essere suddivisi in tre gruppi: 1) il comportamento del sistema è stato di fatto differente da quello ipotizzato nel modello; 2) le politiche scelte non sono state attuate nel modo desiderato; 3) sono intervenute interferenze che hanno modificato notevolmente la risposta del sistema (per es., nel caso in cui si decida d'intraprendere azioni atte a ridurre lo scarto di reddito fra l'area che si vuole pianificare e quella immediatamente circostante, bisogna fare delle ipotesi di variazione di reddito di quest'ultima; se tali ipotesi vengono a cadere, evidentemente anche gli effetti sperati dalle azioni intraprese saranno differenti da quelli reali).
Risulta perciò che nella fase di controllo non ci si può limitare a misurare i risultati ottenuti, ma bisogna anche estendere le osservazioni alle modalità di attuazione delle politiche scelte, alle leggi di comportamento del sistema e alle principali variabili esogene.
Per non appesantire troppo il sistema di misurazione e controllo bisognerà quindi rendere il più semplice possibile il modello.
La complessità del modello, tale da far interpretare meglio il fenomeno sotto osservazione, non può essere altro che una funzione crescente con il tempo, sia perché solo col passare del tempo si riesce a capire meglio il funzionamento del sistema, sia perché solo gradualmente si è in grado di rendere più sofisticato il processo di misurazione e controllo.
G. Previsione delle variabili esogene. La previsione delle variabili esogene dipende fortemente dal grado di aggregazione dei modelli, dal livello di pianificazione e dalle dimensioni spaziali dell'intervento. Seguendo un'analisi recentemente svolta, si riportano di seguito alcune considerazioni legate a questi parametri chiave.
In fase di progetto la concezione del piano a livello strategico si fonda, prima che su strumenti analitici, su principî di politica del territorio: è plausibile che una ipotesi di assetto ‛radiocentrico' sottintenda obiettivi di stabilizzazione dello sviluppo urbano (anche se raramente si è mostrata soluzione idonea), mentre uno schema secondo assi preferenziali di sviluppo risulta meglio integrato nella crescita regionale e più ispirato a principi di flessibilità di scelta; analogamente diverse distribuzioni d'insediamenti derivano da una politica di decongestione e decentramento o da una politica di riequilibrio territoriale. La formulazione del piano a lungo termine, per limiti dei dati e rigidità dei modelli, è condotta prevalentemente con analisi empiriche (per es. l'analisi delle suscettività territoriali) e con l'aiuto di semplici indicatori aggregati (per es. il potenziale di sviluppo). La fase di valutazione dipende dal contesto decisionale, ma è naturale l'uso di analisi secondo obiettivi multipli, con funzioni di decisione variamente aggregate.
Al limite opposto, in generale il progetto di piani particolareggiati non può utilizzare, per l'eccessivo livello di aggregazione, le previsioni dei modelli, bensì analisi morfologiche, di compatibilità di scelte, ecc. (per es. l'analisi delle decisioni interdipendenti). Nella fase di valutazione si possono utilizzare modelli di efficienza allocativa (analisi dei costi, degli investimenti, in qualche caso programmazione lineare) e quadri contabili disaggregati da esaminare rispetto a obiettivi multipli o a una funzione di preferenza collettiva.
Esiste invece una fascia intermedia relativa a problemi a medio termine su scala urbana o comprensoriale, in cui si può individuare, per l'apparato teorico che è stato descritto, la funzione di supporto informativo nel processo di valutazione di assetti alternativi.
Secondo il principio dell'analisi dell'impatto, i modelli sono in grado di simulare alcune conseguenze di ogni progetto, la cui conoscenza può favorire un giudizio comparativo non assoluto, per l'insufficiente qualità delle previsioni sulle diverse alternative, rispetto a obiettivi multipli. Si ritorna così alla funzione indicativa di metodologia e tecniche di decisione, di cui si è rilevata l'importanza soprattutto in contesti di tipo partecipativo. L'opportunità di sviluppare e utilizzare strumenti analoghi non può essere quindi giudicata solo rispetto a obiettivi tecnici.
H. Previsioni del comportamento degli altri decisori. L'ultimo problema riguarda la previsione del comportamento degli altri decisori. Pur esistendo, come accennato, notevoli difficoltà da un punto di vista metodologico, la simulazione può essere tuttavia utile per ampliare in qualche misura la base dell'informazione. La teoria dei giochi indica, almeno concettualmente, a decisori antagonisti, che conoscono le rispettive preferenze, le possibilità d'azione e le conseguenze delle loro interazioni, per cui si possono desumere alcune scelte di compromesso.
Quest'idea, sviluppata in modo non rigoroso, si traduce in un processo euristico che associa alla formulazione d'ipotesi di comportamento le previsioni sulle possibili conseguenze di decisioni simultanee che, se il livello di aggregazione delle analisi lo consente, possono essere determinate con l'apparato analitico che è stato descritto.
Una nota formalizzazione di questo approccio è la procedura di gaming-simulation, che assumiamo come esempio. I suoi elementi costitutivi sono: 1) la rappresentazione del sistema territoriale sotto forma di base di dati; per es. per un sistema urbano: popolazione (disaggregata per occupazione, tipo di abitazione, struttura familiare, preferenze, ecc.), occupazione (di base e servizi, operaia e impiegatizia), uso del suolo (residenziale, commerciale, industriale, pubblico, ecc.), economia e finanza locale (valori del mercato immobiliare, tasse, ecc.), ambiente naturale (inquinamento); 2) i problemi decisionali critici: per es. bilancio, investimenti in beni pubblici, sviluppo privato del suolo, localizzazione d'imprese, controllo dell'inquinamento; 3) la struttura decisionale: per es. politici e amministratori (per giurisdizione territoriale), industriali (per settore), imprenditori urbani (per tipi di società immobiliari); 4) la simulazione dell'evoluzione del sistema; una rete di modelli, calibrati su una base comune di dati e interconnessi, simula le conseguenze, sotto diversi aspetti, di decisioni simultanee dei diversi centri decisionali: per es. modelli di crescita di popolazione e occupazione, distribuzione spaziale delle attività, simulazione del mercato immobiliare, scelte elettorali o rispetto a problemi decisionali, inquinamento ambientale, ecc.
La formazione delle decisioni è ritualizzata in una sorta di sociodramma e innesca un processo interattivo di giochi e simulazioni. Si tratta di un approccio tipicamente ‛partecipativo', in cui le regole del gioco e la formalizzazione preordinata e rigida degli scambi d'informazione condizionano non poco l'esperimento. Valgono naturalmente le osservazioni già fatte sui limiti della modellistica, tanto più che, per esigenze di operatività e problemi d'interfaccia, nel gaming-simulation si utilizzano di solito versioni semplificate dei modelli.
Si può dubitare quindi, nonostante il molto lavoro già realizzato, del fatto che questo approccio possa svolgere attualmente funzioni diverse da quella didattica, e che il problema dell'integrazione tra analisi comportamentistiche di processi decisionali ed elaborazioni analitiche sui sistemi territoriali sia avviato a soluzione.
b) I sistemi informativi nell'assetto del territorio
Introduzione. - Negli ultimi anni si sono diffuse in misura crescente, sia a livello statale che locale, delle vere e proprie ‛banche di dati', archivi raccolti utilizzando i calcolatori, che riguardano l'identità dei cittadini, le caratteristiche degli impieghi, l'educazione, l'assistenza pubblica, la salute pubblica, i dati fiscali e assicurativi, gli elettori, le patenti e i permessi, i precedenti penali, i beni posseduti dai cittadini e soggetti a registrazione, la motorizzazione, la proprietà e la locazione degli immobili, le infrastrutture stradali, il traffico, ecc.
Le banche di dati automatizzate rendono accessibili le informazioni a tutti gli uffici della pubblica amministrazione e riducono non solo il costo della memorizzazione dell'informazione, ma anche e soprattutto quello della sua raccolta, eliminando le duplicazioni. L'integrazione delle informazioni consentita dagli elaboratori, tuttavia, non si verifica solamente a livello ‛orizzontale', e cioè fra i diversi uffici, ma anche a livello ‛verticale', in quanto una grande quantità di dati può fluire dagli enti locali agli enti nazionali e viceversa. Per un futuro non molto lontano è prevedibile lo sviluppo di una vasta rete di elaboratori e banche di dati in rapporto tra loro, con terminali per la ricerca dislocati nei vari uffici governativi.
Sarà così possibile che un ufficio utilizzi informazioni già raccolte da un altro, potranno essere messi in relazione i vari dati relativi a un singolo cittadino e saranno disponibili statistiche utili per vari tipi di decisione.
Tuttavia, l'accresciuta centralizzazione e disponibilità d'informazioni presenta anche potenziali svantaggi; per esempio, i risultati della distruzione di una banca di dati centralizzata potrebbero essere catastrofici, a meno che non si eseguano duplicazioni periodiche degli archivi. Ancor più allarmante è il pericolo per la sfera della vita privata: infatti, più le informazioni divengono standardizzate, trasmissibili e accessibili, maggiori sono le attenzioni necessarie per difendere la vita privata degli individui e per prevenire i conseguenti possibili abusi.
Uno dei settori di pubblico interesse in cui più sentita è l'esigenza della creazione di banche di dati su calcolatore è proprio quello dell'assetto del territorio. Le informazioni disponibili per la pianificazione urbana e regionale sono infatti oggi insufficienti e imprecise e rappresentano quindi un grosso ostacolo all'operatività dei piani territoriali e alla loro congruenza con la realtà.
La mancanza d'informazioni attendibili e aggiornate è particolarmente sentita nel momento attuale. Infatti, se si tende sempre più a considerare il piano territoriale come un processo di controllo e di previsione prolungato nel tempo, capace cioè di automodificarsi in base ai fatti nuovi intervenuti come risposta ai provvedimenti adottati, gran parte dell'efficacia operativa del piano stesso è in effetti legata alla pertinenza, precisione e chiarezza delle informazioni disponibili. Appare quindi sempre meno possibile procedere a seri studi di pianificazione territoriale senza una conoscenza approfondita della situazione di fatto, effettuata sia nelle sue linee generali che settorialmente; conoscenza che può essere iniziata in modo precipuo con l'acquisizione sistematica dei dati e delle loro correlazioni al presente, ma che deve necessariamente essere protratta e affinata successivamente nel tempo per poter essere utilizzata in ogni momento.
In altre parole, la ricerca urbanistica, nella sua fase analitica (di raccolta, lettura, manipolazione, ponderazione, presentazione, interpretazione, memorizzazione, archiviazione, aggiornamento, divulgazione dei dati concernenti il territorio) e nella sua fase progettuale (di simulazione, previsione, programmazione di assetti territoriali), va vista come una serie integrata di ‛sistemi informativi'. La consapevolezza di queste necessità ha indotto le pubbliche amministrazioni di un sempre maggior numero di città e di regioni degli Stati Uniti e dell'Europa, quali Los Angeles, New York, Parigi, Coventry, Liverpool, Colonia e molte altre, a utilizzare i calcolatori per archiviare le informazioni che descrivono l'assetto del territorio.
Tali informazioni riguardano le condizioni urbane del territorio, il suo tipo di formazione storica, il suo attuale grado d'infrastrutturazione (strade, servizi, ubicazione degli immobili, superfici abitative, tipo di proprietà, stato delle abitazioni, costo delle aree, ecc.), le caratteristiche socioeconomiche della popolazione (composizione dei nuclei familiari, titolo di godimento delle abitazioni, tipo di mezzi di trasporto, ecc.) e le caratteristiche dei posti di lavoro (tipo d'industria, dimensioni dell'industria, data d'insediamento, grado di rinnovo tecnologico degli impianti, tipo di radicamento dell'industria, ecc.).
Utilizzando le banche di dati, la pianificazione non va più vista come un processo con obiettivi fissi, bensì come un processo ciclico che prevede una costante verifica delle situazioni correnti e conseguenti azioni di modifica per il raggiungimento dei fini più desiderabili fra quelli effettivamente raggiungibili.
In questa forma ciclica il processo di pianificazione si trova coinvolto in problemi di allocazione di risorse e di direzione di attivita; ciò significa che esso è coinvolto in un vero processo di gestione. La metodologia di pianificazione che ne deriva è applicabile a una vasta gamma di problemi in differenti campi della pubblica amministrazione e a differenti livelli di decisione.
Diventa allora estremamente importante accettare il fatto che delle tecniche quantitative, basate sull'analisi dei dati, possano avere utilizzazioni ricorrenti anche in campi che fino a questo momento erano regolati da scelte soggettive. Occorre infatti riconoscere che nei sistemi urbani esistono legami e interazioni che possono essere quantificati, che azioni, politiche ed eventi possono essere riconducibili a valutazioni di tipo scientifico e che particolari metodi di calcolo e tecniche di simulazione possono essere utilizzati per selezionare una scelta ottimale, in una gamma di scelte possibili, per il raggiungimento di obiettivi prefissati. Acquista allora un'importanza fondamentale il concetto di un ‛filtro di informazione', insito nel sistema informativo, al fine di creare una selezione gerarchica tale da presentare al pianificatore soltanto le informazioni a lui strettamente necessarie.
Possiamo rappresentare l'intero processo di pianificazione secondo lo schema seguente:
Il concetto di sistema informativo, come appare da questo schema, è più ampio di quello, prima introdotto, di banca di dati. In generale, potremmo dire che un ‛sistema informativo territoriale' è un insieme di uomini, di procedure, di elaboratori, di banche di dati capace di rendere disponibili grandi quantità di dati in un contesto di scelte decisionali.
Caratteristiche e requisiti di un Sistema Informativo Territoriale. - Un Sistema Informativo Territoriale (che in seguito indicheremo più brevemente con SIT) presenta, rispetto a sistemi informativi utilizzati in altri settori di attività, caratteristiche del tutto peculiari. Alcune di queste si riferiscono al modo nel quale il sistema si presenta all'utente, il quale può anche ignorare la costituzione interna del sistema stesso, ma richiede invece certe opzioni che rendano il sistema facilmente utilizzabile. Altre caratteristiche si riferiscono alle possibilità che il sistema offre per la gestione delle informazioni. Altre ancora hanno a che fare con il modo di operare interno del sistema informativo, in relazione, per es., a problemi di efficienza.
Per meglio chiarire il significato e gli scopi del SIT verranno ora brevemente illustrate le tre classi di requisiti sopra citate.
A. Requisiti relativi a richieste d'utente. La prima esigenza per un SIT è che esso consenta di manipolare e disporre in riferimento incrociato molti archivi simultaneamente. Un sistema informativo generalizzato come quello territoriale, infatti, dovrà gestire contemporaneamente svariati archivi di differenti provenienze, contenenti informazioni, per es. su zone di territorio, industrie, impieghi, demografia, sanità, attività scolastiche, tasse, traffico, incendi, crimini, ecc.; questi dati disparati possono essere posti in rapporto tra loro (per es. quando una persona usa un edificio o versa del denaro in un conto), ma non possono essere ridotti a un'unica struttura comune per tutti gli scopi senza determinare gravi perdite di efficienza; molti problemi richiedono, quindi, riferimenti incrociati assai complessi tra molteplici archivi, che dovranno essere gestiti automaticamente dal sistema stesso. Una seconda caratteristica importante per un SIT è che esso sia ‛conversazionale', interattivo e capace di soddisfare contemporaneamente molti utenti. Ogni utente deve, cioè, poter esplorare i dati contenuti nel sistema con un processo naturale di domanda e risposta, deve poter procedere tra i dati in modo non preordinato, decidendo man mano cosa osservare, e in questo modo pervenire all'informazione desiderata senza esplorare tutte le celle di una vasta matrice multidimensionale di informazione. Il SIT, d'altra parte, deve anche offrire la possibilità di elaborazione ‛a lotti', per utenti con elaborazioni altamente iterative. Terzo requisito è che l'utente deve poter parlare al sistema in termini congruenti alla sua disciplina. Pertanto il sistema richiederà un linguaggio relativamente semplice, vicino a quello naturale, con un numero relativamente basso d'istruzioni, che permetta all'utente d'indicare le informazioni, le variabili e le operazioni in termini ordinari, senza restrizioni formali. Il sistema, inoltre, deve poter accettare svariati tipi di formati propostigli dall'utente per i dati in ingresso e per i risultati in uscita, sia in forma alfanumerica, sia in forma grafica. Per rapide interazioni uomo-macchina sono particolarmente idonei gli schermi video a raggi catodici, i quali sono anche dotati di sistemi che permettono una facile rappresentazione di figure, grafici, mappe, o testi scritti in genere, una rapida correzione mediante penne-luce e la stampa anche di una sola parte di ciò che appare sullo schermo; il sistema deve, naturalmente, provvedere alle modalità di definizione e identificazione di tutti i formati nei quali i dati vengono introdotti. Il sistema deve infine salvaguardare la segretezza delle informazioni. Data la particolare rilevanza di questo punto, esso verrà trattato più estesamente in un successivo paragrafo.
B. Requisiti relativi alla gestione del sistema. Non dovrebbe sussistere, in generale, una corrispondenza biunivoca tra SIT ed elaboratore, e cioè differenti elaboratori, che gestiscono differenti archivi del SIT, possono comunicare tra di loro. L'obiettivo che si vuol raggiungere, come si è già detto, è quello di poter sfruttare i numerosi archivi disponibili presso i vari enti pubblici, creando in tal modo un centro nazionale di dati. Inoltre il SIT deve essere in grado di aggiornare ed eliminare, senza difficoltà, i dati in esso contenuti. Questo requisito introduce un concetto variazionale che esprime la possibilità di espansione del sistema. Infine, il SIT deve poter facilmente rilevare e correggere gli errori.
C. Requisiti relativi a capacità interne al sistema. Finora si è discusso su ciò che un SIT deve procurare all'utente. Considereremo ora le caratteristiche riguardanti l'hardware e il software. Il SIT può non richiedere una grande e veloce unità centrale di elaborazione, ma dovrà possedere diversi livelli di memoria, tra cui una grande memoria di massa ad accesso pseudocasuale, come quella a dischi. Nel sistema i dati dovrebbero muoversi tra memoria centrale, tamburi, dischi, nastri, ecc., in accordo agli algoritmi basati sull'uso dei dati, senza che l'utente debba preoccuparsi di tutto ciò. Il SIT dovrebbe registrare ogni operazione che è stata fatta, in modo tale che essa sia recuperabile e ripetibile. Infatti risulta più agevole ed economico immagazzinare i dati grezzi di ingresso di una operazione che non i risultati di questa. Se i risultati ottenuti sono ricercati di nuovo, basterà solo ripetere l'operazione. Il sistema, infine, dovrebbe rappresentare con la medesima struttura ogni dato, sia esso grezzo o il risultato di precedenti operazioni. Come conseguenza, ogni uscita dovrà essere accettabile anche come ingresso.
c) I dati relativi all'assetto del territorio
In questo paragrafo verranno discusse le caratteristiche dei dati relativi alle variabili descrittive dei vari aspetti dell'assetto territoriale che debbono essere rese disponibili dal SIT. Verranno, in particolare, affrontati i problemi relativi alla disaggregazione, alla compatibilità e alla codifica dei dati.
Disaggregazione dei dati. - In un SIT è desiderabile che i dati siano memorizzati al massimo livello possibile di disaggregazione in termini settoriali, spaziali e temporali, compatibilmente con l'economia delle elaborazioni e l'intelligibilità dei loro risultati, in modo da permettere alla banca di dati la maggior flessibilità possibile per soddisfare una larga gamma di richieste del pianificatore.
I dati disaggregati possono poi essere sempre raggruppati in più vaste aggregazioni (temporanee o permanenti) per permettere di soddisfare particolari esigenze. Tuttavia, queste aggregazioni dovrebbero essere specificate dall'utente e compiute quando i dati sono usati e non quando essi sono raccolti.
È importante far rilevare che il livello di disaggregazione deve essere sempre definito in funzione dell'uso e degli obiettivi che s'intendono raggiungere, ovverosia della metodologia di piano.
Esaminiamo ora in maggiore dettaglio i tipi di disaggregazione e il loro significato.
1. Disaggregazione settoriale. La disaggregazione settoriale si riferisce al grado nel quale i valori delle variabili sono suddivisi; per esempio, la variabile ‛età', riferita a una persona, può essere suddivisa in più intervalli (sotto i 20, tra i 20 e i 65, sopra i 65) allo scopo per esempio di scoprire i dati relativi alla popolazione scolastica, lavorativa e a riposo.
2. Disaggregazione spaziale. La disaggregazione spaziale altro non è che un caso particolare di disaggregazione settoriale; tuttavia, poiché la localizzazione è una variabile molto importante nei sistemi urbani e territoriali, la considereremo separatamente.
È evidente che una dimensione di riferimento primaria sufficientemente piccola (per es. il numero civico) può essere idonea solo per la rappresentazione dei dati fisico-statistici (per es. occupazione o utilizzazione del suolo, demografia, ecc.) mentre può divenire impropria per la rappresentazione della dinamica o della domanda urbana (per es. domanda di mobilità e di servizi sociali in genere).
La dimensione primaria di riferimento, pertanto, dovrà essere tale da poter permettere le aggregazioni e le integrazioni in dimensioni di riferimento più ampie, per es. l'intera città o l'area metropolitana.
3. Disaggregazione temporale. La disaggregazione temporale riguarda la frequenza con la quale viene compiuta la misurazione dei valori dei dati. Alcuni di essi, infatti, possono essere misurati a intervalli di tempo piuttosto lunghi, mentre altri fluttuano così rapidamente, e in modo così significativo, da richiedere una frequenza di raccolta quasi continua.
Compatibilità dei dati. - Come si è già osservato, gli enti addetti, ai vari livelli, alla pianificazione territoriale sono fortemente interessati allo scambio delle informazioni e quindi i problemi connessi alla compatibilità dei dati sono più sentiti di altri. Le difficoltà in questo campo derivano dal fatto che gli enti, sia pubblici che privati, classificano in modo differente entità simili se non addirittura identiche.
Come risultato dei vari schemi di classificazione esistono oggi due tipi di problemi di compatibilità: il primo riguarda la diversità dei codici digitali che i differenti enti usano per definire le variabili. Il secondo riguarda invece l'uso di differenti schemi di classificazione, anche rispetto a un medesimo insieme di variabili.
Un chiaro esempio di ciò è costituito dall'uso, da parte dei diversi enti, di differenti unità areali, incompatibili tra loro, sia individualmente che in aggregato, entro una stessa zona urbana.
Per risolvere questi problemi si sta sempre più manifestando la necessità dell'introduzione di una standardizzazione che permetta di evitare duplicazioni e di rendere confrontabili i dati raccolti, in tempi diversi, da diverse amministrazioni locali e statali.
Codifica geografica dei dati. - In un SIT ogni dato immagazzinato nel calcolatore deve essere identificato da una coppia di coordinate che descrivano la posizione dell'entità geografica a cui il dato si riferisce. L'uso di coordinate serve non solo per identificare un'entità geografica, ma anche per procurare informazioni sulle relazioni tra le varie entità geografiche (come le distanze tra due entità, o anche il fatto che un'entità è inclusa geograficamente nell'area di un'altra entità).
Le entità geografiche hanno attributi spaziali, quali l'area, la localizzazione del centroide, la distanza da altre entità. Per un insieme di entità geografiche non sovrapposte la localizzazione di punti caratteristici di un'entità, o la localizzazione di un punto di confine scelto convenzionalmente, può servire come identificatore unico. Per esempio, possono esserci diverse ragioni per includere in una banca di dati urbana la localizzazione dei vertici di ogni isolato delle città, ma per l'identificazione univoca dell'isolato stesso è sufficiente la localizzazione di uno solo dei suoi vertici.
Nell'universo spaziale gli oggetti possono essere quindi localizzati scegliendo dei punti che devono corrispondere il più possibile alla loro posizione reale. Tali oggetti possono essere mobili o fissi; i secondi (come gli edifici, le strade, ecc.) hanno sempre la stessa localizzazione, mentre i primi (come le persone, i veicoli, ecc.) possono trovarsi in luoghi differenti in tempi diversi. Gli oggetti, assieme alle loro localizzazioni, prendono il nome di ‛geodati'. Le entità geografiche cui si riferiscono questi geodati possono essere rappresentate in modo approssimato nel calcolatore con punti, reti e poligoni; ognuna di queste possibili rappresentazioni richiederà particolari algoritmi di elaborazione automatica.
Per quanto riguarda i sistemi di riferimento territoriale in uso, essi possono essere suddivisi in sistemi collegati al sistema terrestre di coordinamento (sistemi con riferimento) e sistemi che invece non lo sono (sistemi ‛senza riferimento'), e in sistemi metrici e non.
Alcuni di tali sistemi di riferimento sono richiamati nella seguente tabella.
Il modo nel quale gli oggetti sono identificati spazialmente ha implicazioni sia sul modo in cui i dati possono essere recuperati, sia sul modo in cui possono essere esplorate e visualizzate le interrelazioni geografiche fra i vari fenomeni, sia anche sui costi iniziali di raccolta e sui successivi costi di gestione dei dati.
Fondamentalmente si possono distinguere due metodi d'identificazione spaziale: il metodo del nome e il metodo della localizzazione. Col primo metodo l'universo spaziale raffigurato sulla mappa viene suddiviso in zone, a ciascuna delle quali viene attribuito un nome o un numero; i dati possono allora essere visualizzati sulla mappa, contrassegnati con il nome o il numero della zona e immagazzinati in un archivio.
L'esempio più comune dell'uso di questo metodo è rappresentato dal censimento della popolazione, dove ciascun dato è associato al nome di un Comune o al numero di una zona statistica. L'obiettivo primario di questo metodo risulta, in ultima analisi, la suddivisione dell'universo spaziale in subaree, ciascuna delle quali è denominata in modo univoco. Il metodo della localizzazione, invece, mantiene disponibile l'universo spaziale di coordinate, in modo da poter fare riferimento a ogni luogo con precisione. Il metodo del nome presenta però alcuni inconvenienti. Esso non è innanzitutto neutrale dal punto di vista spaziale, in quanto, per sua natura, è concepito per utenti particolari i quali organizzano spazialmente i dati secondo le loro specifiche esigenze. Ha inoltre una flessibilità molto limitata, a causa dell'esigenza di predeterminare i confini delle zone di analisi. I confini delle unità spaziali sono poi soggetti a mutamenti nel tempo, rendendo così virtualmente impossibili analisi di tipo comparativo, e ogni nuova aggregazione di unità spaziali richiede laboriose preparazioni di un insieme di tavole di corrispondenza. Le aggregazioni spaziali sono possibili solo a prezzo di un considerevole sforzo manuale, e sono parimenti quasi impossibili la produzione automatica di mappe e le elaborazioni dirette verso l'analisi spaziale. Infine, per poter determinare delle relazioni geografiche, i dati dovrebbero essere estratti dalle mappe manualmente. Anche il metodo della localizzazione, tuttavia, non risulta immune da svantaggi, i quali si traducono principalmente nel fatto che le coordinate costituiscono l'identificatore spesso meno conosciuto al momento della raccolta dei dati. Si presenta, perciò, spesso la convenienza di utilizzare ambedue i metodi in uno stesso Sistema Informativo Territoriale.
d) Principali approcci alla realizzazione di un Sistema Informativo Territoriale
Esistono due modelli fondamentali di Sistemi Informativi Territoriali, che si differenziano soprattutto nel grado di flessibilità che offrono all'utente in relazione a interrogazioni non predeterminate sui dati.
Il primo modello, che ha trovato le sue principali realizzazioni nei paesi scandinavi, mira a ottenere un'elevata flessibilità e una buona neutralità rispetto alle specifiche richieste di elaborazione. Si è ritenuto, infatti, che non sia possibile identificare gruppi di dati comuni a numerose richieste, ma che invece i dati debbano poter essere aggregati e manipolati in tutti i modi possibili.
In accordo con ciò, in Svezia è stato creato un registro centrale per la popolazione, nel quale ogni cittadino appare identificato da un unico numero personale, che serve anche come numero d'identificazione per il servizio di sicurezza sociale, per il conto in banca, ecc. Ogni avvenimento di rilievo viene automaticamente riportato in tutte le varie agenzie, le quali possono così aggiornare i propri archivi. I numeri personali consentono, in modo assai flessibile, il collegamento tra una persona e le sue proprietà, tra un impiegato e la ditta in cui lavora, ecc., di modo che divengono possibili interrogazioni anche di notevole complessità logica.
In Svezia è stato fatto ampio uso di entrambi i metodi di identificazione spaziale visti in precedenza. Sul metodo del nome si basano, per es., le registrazioni dei terreni riferite ai nomi dei proprietari, mentre il metodo della localizzazione, che offre rappresentazioni spaziali con un'approssimazione di 10 metri, permette ogni tipo d'integrazione tra i diversi archivi.
Negli Stati Uniti è invece in uso il secondo modello, che prevede la realizzazione del SIT secondo fasi diverse. Per prima cosa le varie agenzie organizzano i dati in archivi amministrativi e gestionali, disponibili anche per altri utenti. A questo punto, constatando l'esistenza di ben definiti insiemi d'informazioni che vengono richiesti da molti utenti, si procede alla creazione di banche di dati comuni; in questa fase gli utenti possono pre-specificare le proprie richieste di elaborazione. Infine, per gli utenti che non possono anticipare le proprie richieste viene creato un sistema di archivi individuali, ottenuti da più fonti e integrati in modo tale da permettere una certa flessibilità.
Per identificare spazialmente gli oggetti viene utilizzato l'indirizzo postale; su tale tipo d'identificazione è stato basato un insieme di procedure che permettono di confrontare e integrare i dati contenuti nei vari archivi (sistemi ADMATCH e DIME); sono anche stati realizzati vari programmi che permettono di eseguire analisi spaziali, di rappresentare in forma grafica (per es. come mappe) i risultati ottenuti su stampante, di calcolare percorsi stradali ottimali (per es. per ambulanze).
Tali programmi si sono rivelati, in particolare, di grande importanza per l'utilizzazione dei dati raccolti con i censimenti.
e) Segretezza
Tra i problemi che variamente interessano le banche di dati e la loro utilizzazione, particolare rilevanza assume, come si è già osservato, quello della segretezza. È infatti opinione diffusa che un sistema informativo su calcolatore, offrendo capacità di ricerca molto maggiori che in passato e consentendo l'integrazione di dati provenienti da fonti diverse, privi il cittadino di molte delle protezioni che egli aveva con sistemi di informazione più primitivi.
I dati riguardanti specificamente l'assetto del territorio non sono, tuttavia, sotto questo aspetto, particolarmente significativi, in quanto si riferiscono principalmente ad attività che sono già di per sé pubbliche. Tuttavia, se il Sistema Informativo Territoriale è visto come strumento al servizio delle funzioni della pianificazione, è inevitabile che anche dati di natura più riservata vengano inseriti in esso.
Le preoccupazioni e i pericoli sorgono quando si associano, per es., dati relativi all'ambiente fisico con dati di tipo socioeconomico, come quelli censuari, o con altri dati contenuti in modo disaggregato nel meccanismo amministrativo. A questo proposito sembra tuttavia opportuno fare alcune considerazioni.
I sistemi informativi su calcolatore, anche se la loro maggiore efficienza può presentare dei pericoli, offrono però al cittadino, per altri aspetti, una protezione maggiore che non i sistemi più tradizionali. Innanzitutto, persone non autorizzate riescono spesso a venire in possesso d'informazioni delicate e personali poste in archivi manuali. Naturalmente, ciò può accadere anche in un sistema basato sul calcolatore, ma la complessità dell'accesso rappresenta una maggiore garanzia. Inoltre, all'interno dei programmi che accedono agli archivi possono essere realizzate particolari protezioni che, per es., consentono ai vari utenti l'accesso a certi dati ma non ad altri, o che non permettono di associare certi dati ai nomi degli interessati. Altre forme di protezione riguardano le consuete restrizioni sull'uso di certi terminali dell'elaboratore da parte di determinati utenti e le misure per la custodia materiale dei supporti magnetici delle informazioni.
Un importante strumento per la salvaguardia della segretezza consiste, infine, nello stabilire una precisa normativa su tale argomento, cosa che, del resto, è già operante in molti paesi.
3. La pianificazione dei sistemi idrici naturali di Giorgio Noseda
I. L'assoluto bisogno di disporre di acqua per ogni forma di vita, unitamente alla limitata e ciclica disponibilità, nel tempo e nello spazio, di risorse idriche naturali hanno costretto l'uomo, fin dai tempi più antichi, a ricercare i mezzi più adatti per controllare e utilizzare le risorse disponibili al fine di conseguire il maggior benessere della comunità.
Nel corso dei secoli questa ricerca, che contiene in nuce già il concetto di pianificazione delle risorse idriche di una determinata regione, ha trovato in generale soluzioni relativamente facili all'incirca fino a un secolo fa. Si trattava allora di risolvere problemi relativi a ristrette regioni dove le disponibilità erano abbondanti rispetto ai fabbisogni e questi erano limitati a pochi tipi di utilizzazione: approvvigionamento a uso domestico, irrigazione dei terreni e qualche modesta produzione di energia meccanica. Anche i problemi di controllo delle acque di piena non erano di grande impegno, in considerazione delle larghe possibilità di disporre di terreni per lo sviluppo delle attività umane allora fondamentalmente rivolte all'agricoltura. Nel complesso le difficoltà incontrate dall'uomo nei secoli passati sono state di natura essenzialmente tecnico-costruttiva, piuttosto che di pianificazione generale.
L'avvento della civiltà industriale, con il conseguente rapido e notevole sviluppo della tecnologia e della mobilità delle idee, delle popolazioni e dei capitali, ha modificato radicalmente i problemi delle risorse idriche. Oltre a un importante incremento dei fabbisogni per le utilizzazioni che possiamo dire tradizionali (approvvigionamento domestico e irrigazioni), si è venuta infatti presentando tutta una serie di nuove utilizzazioni e di nuovi controlli che hanno reso sempre più difficile il problema dello sfruttamento integrale delle risorse idriche: basti pensare all'approvvigionamento idrico delle industrie, alla produzione di energia idroelettrica, all'impiego dell'acqua per scopi ricreativi, alla protezione delle bellezze naturali, al controllo dell'inquinamento delle acque, all'eliminazione delle acque di rifiuto.
Tutto ciò è avvenuto in un contesto socio-politico-economico che tende giustamente a imporre una serie di limitazioni, di obblighi e di pressioni che condizionano gravemente ogni decisione di carattere tecnico riguardante lo sfruttamento delle risorse idriche naturali. Queste condizioni, manifestatesi in forma particolarmente vistosa dopo l'ultima guerra mondiale, hanno provocato, a partire grosso modo dal 1950, una serie d'iniziative, nate e sviluppatesi, almeno inizialmente, negli Stati Uniti e intese a elaborare una metodologia che, avvalendosi delle più moderne tecniche dell'ingegneria dei sistemi, consenta la pianificazione e il progetto dei complessi e moderni sistemi di risorse idriche.
Negli ultimi vent'anni la ricerca in questo campo ha subito un'evoluzione rapidissima, soprattutto per merito dei ricercatori statunitensi, inglesi, francesi e israeliani. I risultati raggiunti hanno ormai consentito, in diverse situazioni, la redazione di piani d'intervento la cui realizzazione pratica, attualmente in corso, consentirà di risolvere nel miglior modo possibile il problema delle risorse idriche all'interno della pianificazione territoriale di vaste regioni. Citiamo come esempio i casi della California, di Israele e della valle dell'Indo, dove gli studi compiuti hanno reso o renderanno possibile un miglioramento generale delle condizioni di vita di queste regioni, o hanno addirittura consentito per qualche zona nuovi insediamenti o nuove attività umane.
La pianificazione delle risorse idriche di una determinata regione non può ovviamente procedere in forma separata dalla sistemazione urbanistica del territorio i cui principi fondamentali si devono ispirare alla pianificazione stessa. Talvolta la situazione idrica del territorio può però condizionare, anche sostanzialmente, i criteri generali informatori della pianificazione globale del territorio.
II. La pianificazione territoriale delle risorse idriche naturali si prefigge fondamentalmente i seguenti obiettivi: 1) gestire le risorse idriche naturali di una regione al fine di proteggerla dalle dannose conseguenze derivanti da eccessi o deficienze nella quantità e nella qualità delle acque: a questo obiettivo si ricollegano i problemi connessi alle piene e alle magre dei corsi d'acqua e quelli relativi all'inquinamento; 2) rendere disponibili, in luoghi e tempi predeterminati e in quantità e qualità idonee, i volumi d'acqua occorrenti per gli impieghi domestici, per la coltivazione e la preparazione dei prodotti alimentari, per la produzione industriale (compresa quella di energia), per i trasporti per via d'acqua, per gli scopi ricreativi, di abbellimento e di conservazione dell'ambiente, in relazione alla visione più generale, di carattere essenzialmente politico, che sta alla base della completa pianificazione del territorio; 3) perseguire tutti gli obiettivi anzidetti con il minimo dispendio di risorse fisiche, economiche e umane e nel rispetto dei vincoli imposti dalla legislazione.
La pianificazione delle risorse idriche deve ovviamente essere fondata sulla conoscenza approfondita degli elementi caratteristici del sistema idrico, compresi i diversi punti di vista sotto i quali esso può essere preso in considerazione. Fra questi assumono preminente importanza gli aspetti idrologico, socio-politico-giuridico ed economico.
Caratteristiche idrologiche. L'acqua è una risorsa natuturale cosiddetta ‛rinnovabile', nel senso che essa subisce in natura una serie di modifiche che si ripetono ciclicamente e che prendono il nome di ‛ciclo idrologico'. A questo riguardo si ricorda brevemente che questo ciclo comprende tre elementi fondamentali: gli oceani, che sono da considerarsi la sorgente di tutte le acque della terra; l'atmosfera, entro la quale avvengono i processi di evaporazione e quelli meteorologici che trasformano in precipitazione, liquida o solida, una parte del vapore acqueo atmosferico; la superficie terrestre, che raccoglie le precipitazioni e le convoglia di nuovo agli oceani attraverso il proprio sistema idrografico superficiale e sotterraneo.
La complessità del ciclo idrologico, non ancora ben conosciuto in tutti i suoi aspetti particolari, determina alcune caratteristiche essenziali dei sistemi idrici terrestri che condizionano pesantemente la loro utilizzazione e che li differenziano nettamente dalle altre risorse naturali che entrano in gioco nelle pianificazioni territoriali.
L'acqua naturale si presenta disponibile soltanto in ben determinate zone, più o meno ristrette, della superficie terrestre; la dislocazione delle risorse idriche è perciò un dato assolutamente fisso del problema.
La quantità di acqua disponibile in dette zone varia di continuo e ciclicamente nel tempo; se sono ormai ben noti, regione per regione, gli andamenti qualitativi delle variazioni cicliche dei volumi defluenti in ogni sezione di un corso d'acqua, non è invece possibile determinarne a priori i valori numerici, talché il bene acqua è da considerarsi essenzialmente una quantità stocastica.
Queste caratteristiche di localizzazione e di dinamicità temporale a carattere probabilistico rendono particolarmente complessa e onerosa la pianificazione di un sistema idrico, poiché spesso i fabbisogni dell'uomo non corrispondono nel tempo e nello spazio alle disponibilità naturali e possono inoltre condizionare pesantemente i criteri generali dell'intera pianificazione di un territorio.
Caratteristiche socio-politico-giuridiche. Le condizioni politiche e giuridiche alle quali si trova assoggettato un sistema di risorse idriche sono numerose e di diversa natura. Premesso che un sistema di risorse idriche va preso in esame nella sua integrità fisica e geografica, appare subito evidente che la scala degli investimenti generalmente richiesta per la pianificazione del sistema, la lunga vita economica del sistema stesso, la necessità di coordinare i fabbisogni di numerosi utenti con caratteristiche di diverso genere, la non corrispondenza dei confini politici con quelli idrografici, il problema di un'equa suddivisione dei costi e dei benefici e altri diversi problemi di secondaria ma non trascurabile importanza rendono assolutamente necessario l'intervento dell'autorità politica e statale nella pianificazione di un qualsiasi sistema di risorse idriche, pianificazione che proprio sotto questi riflessi non può mai essere disgiunta da quella generale del territorio.
Accanto a questi problemi socio-politici, e talvolta in contrasto con essi, sussistono poi quelli di carattere giuridico derivanti dalla legislazione sulle acque che in ogni Stato si è venuta a formare nel corso dei secoli e che difficilmente può subire sostanziali modifiche; questi problemi confluiscono tutti nel principio del diritto all'uso dell'acqua, che deve essere assicurato per un ragionevole periodo di tempo agli utenti del sistema in considerazione degli elevati investimenti che di norma occorrono per lo sfruttamento delle risorse idriche.
A esemplificazione dei problemi ora brevemente accennati citiamo il caso del sistema idrico del fiume Ticino, nel quale si distingue un bacino a monte del Lago Maggiore in territorio svizzero e un corso sublacuale in territorio italiano; il Lago Maggiore è per la quasi totalità in Italia, ma la sua parte superiore, in corrispondenza dello sbocco del Ticino, è invece in territorio svizzero. Allo stato attuale, l'alto bacino del Ticino è sfruttato secondo le direttive politiche e la legislazione svizzera, mentre la regolazione del Lago Maggiore, che condiziona esplicitamente le utilizzazioni del tronco sublacuale italiano, è assoggettata a una convenzione italo-svizzera per la cui stipulazione hanno dovuto intervenire i poteri politici dei due paesi e che naturalmente è stata condizionata dai diritti acquisiti, sia rispetto alla legislazione svizzera che a quella italiana, dai rivieraschi del lago.
Un'auspicabile revisione delle attuali forme di utilizzazione, che considerasse il bacino del Ticino nella sua globalità dalle sorgenti alla foce, comporterebbe evidentemente un accordo politico internazionale, il rispetto dei diritti acquisiti dai diversi utenti e forse anche la formazione di una nuova legislazione valida per tutte le località del bacino idrografico indipendentemente dall'appartenenza a una delle due nazioni.
È evidente che tutto questo condizionerebbe pesantemente le diverse soluzioni tecniche proponibili, non soltanto per la pianificazione delle risorse idriche del bacino stesso, ma per quella delle diverse parti del territorio che fanno capo al bacino idrografico del Ticino.
Caratteristiche economiche. Dal punto di vista economico anche la pianificazione delle risorse idriche si presenta come un bilancio fra costi e benefici. La prima voce non costituisce un elemento di particolare difficoltà, in quanto essa comprende essenzialmente le spese per la costruzione e la manutenzione delle opere necessarie al raggiungimento degli scopi che si prefigge la pianificazione stessa, spese che possono essere valutate con buona approssimazione purché siano ben conosciuti tutti i dati di base del problema. La voce ‛benefici' è invece oggetto di valutazioni non sempre sufficientemente adeguate dal punto di vista economico. Se è relativamente facile quantificare in termini economici i benefici che si ottengono attraverso l'irrigazione di determinate aree di terreno, oppure con la costruzione di un impianto idroelettrico, oppure ancora con l'approvvigionamento idrico di un centro abitato o di un'industria, più incerta è la valutazione economica dei benefici che si possono trarre dalla bonifica di un terreno, oppure dalla costruzione di un canale navigabile, in rapporto all'incertezza degli effetti che possono produrre queste opere; ma ancor più difficile e particolarmente soggettiva è qualsiasi stima economica dei cosiddetti benefici ‛intangibili', come possono essere quelli derivanti dall'impiego delle risorse idriche per scopi ricreativi oppure per la conservazione delle bellezze naturali.
Al problema della valutazione dei benefici economici connessi alle diverse opere si aggiunge poi quello assai più complesso e arduo d'individuare gli effetti economici dell'intera pianificazione delle risorse idriche di un territorio. Tali effetti possono infatti dipendere da fattori esterni di non immediata valutazione: se talvolta la pianificazione delle risorse idriche ha costituito un elemento catalizzatore per un rapido e importante sviluppo, in altre situazioni essa non ha condotto ai risultati che si speravano.
III. Svolto quel complesso d'indagini atte a individuare con sufficiente precisione le caratteristiche fisiche, socio-politico-giuridiche ed economiche del sistema idrico che s'intende modificare e definiti, in collaborazione fra pianificatori e tecnici, gli obiettivi essenziali che s'intendono perseguire, il problema tecnico consiste sostanzialmente nel ricercare una o più soluzioni che consentano di trasformare una quantità d'acqua dislocata in determinate posizioni topografiche, con una certa distribuzione probabilistica nel tempo e con determinate qualità, in quantità d'acqua prefissate da distribuire con diverse caratteristiche di dislocazione spaziale e temporale e con altre specifiche qualità.
Per raggiungere questo scopo occorre progettare un sistema di opere (dighe, serbatoi, stazioni di pompaggio, reti di distribuzione a pelo libero e in pressione, ecc.) e di modalità di esercizio che naturalmente tengano conto di tutte le condizioni vincolanti esistenti. In particolare il tecnico è posto di fronte alle seguenti tre classi di problemi: a) determinazione dei criteri di dimensionamento ottimale delle diverse componenti del sistema; b) ottimizzazione delle dimensioni dell'intero sistema, e cioè individuazione della migliore suddivisione dei quantitativi d'acqua disponibili fra diverse utilizzazioni, oppure determinazione delle migliori dimensioni da assegnare all'area servita dal sistema; c) definizione delle migliori caratteristiche di gestione del sistema, e cioè essenzialmente delle modalità di esercizio dei serbatoi del sistema, che producano il massimo rendimento del sistema stesso.
Lo studio di questi problemi si presenta particolarmente complesso in quanto si tratta di scegliere, fra le molteplici alternative tecnicamente accettabili, quella che meglio soddisfa agli obiettivi da perseguire e a tutte le condizioni di diverso tipo che vincolano il problema.
L'ingegneria dei sistemi ha offerto in questi ultimi anni la possibilità pratica di definire i problemi ora accennati con una certa razionalità a mezzo di una serie di metodologie, che studi e ricerche condotti nell'ultimo decennio hanno opportunamente modificato e sviluppato proprio in vista della loro applicazione alla pianificazione delle risorse idriche. Fra questi metodi hanno avuto soprattutto impiego la programmazione lineare e quella dinamica, di cui ricordiamo brevemente i principî informatori.
La programmazione lineare si prefigge di massimizzare (o minimizzare) una funzione numerica di un certo numero di variabili soggette a determinate condizioni, per il caso, invero alquanto semplicistico, che tutte le relazioni fra le variabili siano lineari, sia per quanto attiene alle condizioni vincolanti, sia per quanto riguarda la funzione da ottimizzare.
La programmazione dinamica si rivolge invece all'analisi dei processi sequenziali e cioè di quei processi che possono considerarsi costituiti da una successione di fasi, ciascuna delle quali implica decisioni che influenzano il comportamento dell'intero sistema, oppure il risultato del processo, oppure ambedue. Questa metodologia consente l'esame di processi non lineari, non convessi e anche discontinui, e inoltre permette di mettere in conto la natura stocastica dei fenomeni idrologici. Per contro la programmazione dinamica presenta alcune restrizioni per quanto riguarda il tipo della funzione da ottimizzare e una maggior complessità di soluzione dei calcoli numerici.
Una delle caratteristiche salienti dei sistemi idrici naturali è la natura stocastica dei processi idrologici, della quale occorre ovviamente tener conto in tutti quei problemi in cui entrano in gioco le acque naturalmente defluenti in un corso d'acqua. Un tipico caso con queste caratteristiche è quello del dimensionamento di uno o più serbatoi di regolazione o d'invaso dei deflussi di un corso d'acqua. Questo problema costituisce il nucleo fondamentale della maggior parte delle utilizzazioni idriche: infatti è soltanto attraverso un ben studiato invaso delle acque naturali che si rende possibile dare la disponibilità temporale dei volumi d'acqua richiesti dalle diverse utenze, oppure evitare i danni conseguenti a un'onda di piena.
Un serbatoio idrico presenta evidenti analogie con un sistema di magazzinaggio, con l'ovvia differenza che in questo le entrate sono controllabili e le uscite casuali, mentre nei serbatoi si verifica un comportamento opposto. Risuitano allora applicabili le procedure basate sulla teoria delle code e su quella delle catene di Markov, in grado di stimare, per una determinata distribuzione di probabilità dei deflussi in arrivo al serbatoio e con riferimento a un prefissato schema di gestione, la probabilità della presenza nei serbatoio di determinati invasi, istante per istante.
Queste metodologie sono state anche applicate a sistemi più complessi con diversi serbatoi caso questo di particolare interesse pratico e anche all'analisi dei problemi connessi con il trasporto d'inquinanti in un corso d'acqua, allo scopo d'individuare in via probabilistica le modalità di diluizione delle materie inquinanti lungo il recipiente, consentendo in definitiva la più opportuna dislocazione e la migliore gestione di una serie di impianti di depurazione delle acque di rifiuto.
Naturalmente tutte queste procedure non sono fini a se stesse, bensì devono essere impiegate in sintonia con i criteri di ottimizzazione dell'intero sistema che si sta studiando.
La programmazione lineare offre buone possibilità di applicazione soprattutto quando si può ritenere che le variabili del problema siano di natura deterministica.
Fra i numerosi problemi trattati con questa metodologia ricordiamo quello di particolare importanza della ripartizione delle disponibilità d'acqua fra i diversi tipi di utilizzazione (approvvigionamento di acqua potabile, irrigazione, produzione di energia elettrica, usi ricreativi, ecc.).
La programmazione lineare è stata utilizzata anche per il dimensionamento e la regolazione dei serbatoi d'invaso, anche se in questo ambito si sono incontrate notevoli difficoltà nel tener conto della natura stocastica dei deflussi naturali. A questo riguardo sono stati proposti alcuni accorgimenti e semplificazioni che tuttavia non appaiono completamente soddisfacenti. Buoni risultati sono stati invece raggiunti nei problemi di dimensionamento e di esercizio degli impianti di depurazione delle acque di rifiuto, per i quali la linearità delle relazioni rappresenta abbastanza da vicino le condizioni reali. Notevole è stata anche l'applicazione della programmazione lineare allo studio dell'utilizzazione di importanti risorse idriche sotterranee: è da citare in proposito il problema dell'ottimizzazione di un progetto di irrigazione e bonifica nella valle dell'Indo.
Le difficoltà incontrate per introdurre nella programmazione lineare alcuni aspetti propri dei sistemi idrici (natura stocastica dei fenomeni idrologici, non linearità nelle funzioni di costi, dipendenze temporali) hanno sovente potuto essere superate attraverso l'impiego della programmazione dinamica.
Questa metodologia è stata adottata per lo studio della regolazione dei serbatoi, tenendo conto dell'effettivo andamento probabilistico dei deflussi naturali. Alcune difficoltà di calcolo sono però sorte nel considerare sistemi con più serbatoi e volendo estendere i calcoli a diverse stagioni.
La programmazione dinamica ha trovato applicazione anche nello studio della gestione di una rete irrigua, con lo scopo d'individuare le quantità d'acqua e i periodi di distribuzione ottimali in termini economici (tenuto naturalmente conto dei caratteri agronomici del comprensorio irriguo); nel dimensionamento di un'opera di adduzione con erogazioni lungo il percorso; nello studio della gestione di una rete di distribuzione in pressione; nella progettazione di sistemi basati sull'utilizzazione contemporanea di acque superficiali e sotterranee.
Allo stato attuale delle ricerche, la programmazione dinamica appare come il metodo migliore per la trattazione dei problemi di pianificazione delle risorse idriche, anche se la sua applicazione presenta delle difficoltà di calcolo che è auspicabile possano essere superate in futuro.
Talvolta però si presentano alcuni problemi, relativi a sistemi idrici, così complessi da non poter essere formulati per via analitica, oppure tali che, per essi, questa non risulta conveniente. In tali casi sono stati impiegati alcuni metodi di simulazione, il cui concetto di base sta nel formulare un modello che riproduca l'essenza di un sistema senza riprodurre il sistema stesso. Questa metodologia è particolarmente interessante e utile nell'affrontare problemi connessi con l'estensione a lunghi periodi dei dati idrologici esistenti. In questo modo diventa possibile ottenere una lunga serie di dati (per es. portate di un corso d'acqua, precipitazioni su una certa regione, ecc.) che non sono statisticamente distinguibili da quelli effettivamente osservati nel passato, ma che non li ripetono esattamente. Questo procedimento, denominato ‛idrologia sintetica', è partico. larmente utile per poter saggiare il funzionamento futuro di un sistema che sia stato progettato sulla base dei dati osservati. Le tecniche di simulazione sono state anche applicate per lo studio della regolazione di un sistema di serbatoi, ancor prima che si pensasse all'impiego delle altre metodologie prima descritte.
IV. A illustrazione dei concetti ora brevemente esposti, vengono qui riportati alcuni esempi localizzati in diverse parti del mondo.
1. Il sistema delle risorse idriche della California. Lo Stato della California è così caratterizzato dal punto di vista idrico: mentre circa i 2/3 dei deflussi naturali disponibili sono concentrati nei corsi d'acqua del nord (fiumi Sacramento, Feather, American), i 2/3 circa degli attuali fabbisogni sono invece localizzati nella parte sud (San Joaquin Valley e la zona a sud delle Tehachapi Mountains). Inoltre i terreni potenzialmente sviluppabili sono situati a sud del Delta Sacramento-San Joaquin.
La pianificazione dell'intero territorio della California ha richiesto la progettazione e la realizzazione d'imponenti sistemi in grado di trasferire enormi quantità d'acqua da nord a sud, provvedendo alla loro regolazione e distribuzione secondo le richieste delle molteplici utenze. Gli studi al riguardo hanno ricevuto un primo inquadramento globale nel 1930, quando lo Stato della California ha redatto lo State Water Plan, la cui componente di base era il Central Valley Project, redatto con lo scopo fondamentale di soddisfare i fabbisogni della San Joaquin Valley. Dopo la seconda guerra mondiale lo sviluppo agricolo e industriale della regione ha reso necessario riprendere in esame tutto il sistema delle risorse idriche della California; nel 1957, dopo 10 anni di studi e ricerche, è stato varato il California Water Plan, che ha fornito un quadro generale per l'ordinata utilizzazione delle risorse idriche. Sulla base di questo piano generale, nel 1959 si è dato inizio alla realizzazione dello State Water Project, un complesso di opere che, in unione con il Central Water Project, dovrebbe poter soddisfare le necessità idriche dell'intera regione.
Il Central Valley Project ha il suo nodo principale nella diga Shasta, in grado d'invasare le acque del fiume Sacramento per un volume utile di circa 2,7 miliardi di m3 (pari a una portata media annua di circa 845 m3/s, più della metà della portata media annua del Po alla foce). I deflussi regolati da questo serbatoio vengono dapprima utilizzati per la produzione di energia elettrica nelle centrali di Shasta e di Keswick (con una potenza installata complessiva di circa 450 MW), e quindi defluiscono lungo il Sacramento, soddisfacendo lungo il percorso i fabbisogni locali per uso irriguo, domestico e industriale, fino a sfociare, insieme con le acque provenienti dai diversi importanti affluenti (Feather e American), nel Delta Sacramento-San Joaquin, l'immenso bacino naturale costituito dalle baie di San Pablo e di San Francisco.
Su questa struttura fondamentale s'innestano i due sistemi secondari del Trinity Project e dell'American River. Il primo sfrutta le acque del Trinity River che attraverso un complesso di tre serbatoi (con una capacità d'invaso totale di circa 3 miliardi di m3) e di due gallerie (lunghezza complessiva di circa 21 km e portata massima di circa 100 m3/s) vengono deviate dal loro corso naturale e convogliate nel fiume Sacramento dopo aver prodotto energia idroelettrica in tre centrali con una potenza totale installata di circa 380 MW.
Il secondo sistema è quello realizzato sull'American River, i cui deflussi regolati dalla diga Folsom (capacità di circa 1,1 miliardi di m3) sono utilizzati per irrigazione e per usi domestici e industriali, nella zona del basso Sacramento; i superi pervengono anch'essi al Delta.
Il secondo maggior componente del Central Valley Project è costituito dal fiume San Joaquin e dai suoi affluenti: attraverso una serie di serbatoi d'invaso e una vasta rete di canali irrigui le acque di questo bacino idrografico sono completamente e direttamente utilizzate per l'irrigazione dei terreni sulla destra orografica del San Joaquin; tali deflussi sono però insufficienti a soddisfare tutte le utenze.
Lo State Water Project, entrato in fase esecutiva nel 1960, riguarda lo sfruttamento del fiume Feather, un affluente di sinistra del Sacramento. Il sistema è incentrato sul serbatoio di Oroville che, con una capacità totale utile di circa 2,5 miliardi di m3, consente di regolare i deflussi del fiume Feather in modo da evitare i danni conseguenti alle piene, soddisfare le richieste per usi irrigui, domestici e industriali, produrre energia elettrica in due centrali (con potenza installata di circa 760 MW) e infine riversare i superi nel Delta.
Al Delta giungono in definitiva gli imponenti deflussi provenienti dai diversi sistemi, con andamento regolato dai serbatoi dislocati sui corsi d'acqua. Queste acque, oltre a essere sfruttate localmente per usi irrigui, domestici e industriali e anche per evitare l'intrusione di acqua salata nella baia di San Francisco, vengono in gran parte sollevate, a mezzo di due grandi centrali di pompaggio della potenza complessiva di circa 400 MW, in due importanti canali, il Delta Mendota Canal e lo State Canal, che le convogliano verso sud in direzione della sinistra orografica del San Joaquin.
Il Delta Mendota Canal, che fa parte del Central Valley Project, ha una capacità di circa 130 m3/s che vengono convogliati su una lunghezza di circa 188 km fino a raggiungere il bacino di Mendota sul San Joaquin, dove le acque sono distribuite per l'irrigazione dei terreni sulla sponda sinistra e anche, in parte, sulla sponda destra del San Joaquin; lungo il suo percorso questo canale soddisfa anche altre modeste utenze.
Lo State Canal, che corre a ovest, parallelamente al Delta Mendota Canal, è dimensionato per una portata di circa 285 m3/s (all'incirca la portata media annua del fiume Ticino a Sesto Calende) e costituisce il primo tronco del California Aqueduct che si prolunga poi verso sud fin oltre Los Angeles. Questo canale serve a scopi irrigui, domestici e industriali.
I volumi d'acqua convogliati dai due canali e non immediatamente utilizzati sono sollevati nel serbatoio di San Luis, avente una capacità utile di circa 2,5 miliardi di m3, in grado di regolare opportunamente i deflussi secondo i fabbisogni delle diverse utenze.
Le opere del Central Valley Project, combinate con quelle dello State Water Project, formano un sistema estremamente complesso. Sebbene i due sistemi siano stati sviluppati separatamente con scopi diversi, la breve descrizione ora fattane mostra chiaramente come le diverse interconnessioni esistenti fra di essi rendano necessario prevederne un esercizio congiunto, l'unico in grado di raggiungere la massima efficienza nel perseguire i numerosi e assai diversificati obiettivi del sistema.
Nell'Università di California, a Los Angeles, l'intero sistema è stato e continua a essere oggetto di una poderosa mole di studi e ricerche intesi a sviluppare una procedura che, tenendo conto di tutti gli svariati aspetti che caratterizzano il sistema, consenta d'individuare il miglior modo di gestire gli impianti esistenti e le soluzioni ottimali per le opere che s'intendono realizzare in futuro.
I risultati finora raggiunti sono veramente considerevoli; attraverso procedimenti di programmazione lineare e dinamica sono state messe a punto metodologie specifiche sia per lo studio ottimale delle diverse fasi di progettazione di sistemi estremamente complessi, sia per l'individuazione delle più convenienti modalità del loro esercizio.
2. Il sistema di alimentazione idrica di Israele. Il sistema di alimentazione idrica della zona settentrionale di Israele è essenzialmente costituito: 1) dal lago di Tiberiade, le cui acque presentano un contenuto di ioni cloro (circa 350 ppm) troppo elevato per gli usi irrigui; tali acque vengono sollevate nella quantità di 10 m3/s e convogliate in una condotta in pressione dalla quale esse vengono via via derivate per le diverse utilizzazioni; 2) dal sistema di corsi d'acqua naturali i cui deflussi possono essere convogliati nella sopracitata condotta in pressione; 3) dalle falde sotterranee delle pianure costiere e della zona collinare interna; queste riserve sotterranee sono sfruttate attraverso un'idonea rete di pozzi collegata alla condotta in pressione in modo che le falde sotterranee possano, secondo i casi, essere alimentate artificialmente da questa, oppure alimentarla.
La somma dei quantitativi d'acqua sollevati dal lago di Tiberiade, derivati dai corsi d'acqua superficiali e sollevati dalle falde sotterranee, diminuita dei quantitativi necessari per l'alimentazione artificiale delle falde stesse, deve soddisfare, istante per istante, le richieste delle utenze (fondamentalmente irrigue) per quanto riguarda sia la quantità sia la qualità.
Si è posto perciò il problema d'individuare uno schema di gestione del sistema che potesse soddisfare le utenze al minimo costo. Costruito un modello del complesso sistema, tenendo conto sia delle caratteristiche naturali, sia delle condizioni a cui esso deve sottostare, sia degli elementi di costo dei diversi componenti, si è proceduto alla soluzione del problema di minimizzarne i costi economici mediante l'impiego della programmazione dinamica. I risultati hanno portato a definire le modalità più convenienti di esercizio del sistema, fornendo così un sostanziale contributo alla miglior soluzione del problema di approvvigionamento idrico del paese, problema di fondamentale importanza per la vita e lo sviluppo di Israele.
3. Ottimizzazione della gestione di un impianto idroelettrico con accumulazione. Il caso qui analizzato è quello del complesso idroelettrico di Oroville-Thermalito in California, comprendente i seguenti elementi: il serbatoio di Oroville, con una capacità utile di circa 2,5 miliardi di m3; la centrale di Oroville; la vasca di carico di Thermalito; la centrale di Thermalito; il serbatoio di valle di Thermalito, avente una capacità utile di circa 70 milioni di m3.
Le due centrali sono equipaggiate con gruppi turbinapompa che consentono la produzione di energia elettrica attraverso il passaggio di acqua dal serbatoio di Oroville a quello di valle di Thermalito, oppure il sollevamento di acqua da questo serbatoio per la sua accumulazione in quello di Oroville.
Il sistema, caratterizzato dall'idrologia della regione e dalle dimensioni delle sue diverse parti, è inoltre soggetto ai seguenti vincoli: deflusso di determinati quantitativi d'acqua per il mantenimento della fauna ittica e per gli usi domestici, industriali e irrigui; disponibilità nel serbatoio di Oroville di determinate capacità per il controllo delle piene; minimo numero di ore per la produzione di energia; massimo numero di ore durante le quali può essere acquistata l'energia necessaria al sollevamento.
Per questo sistema così condizionato si è cercato, mediante un'idonea applicazione della programmazione dinamica, d'individuare le modalità di esercizio del complesso sistema che ne ottimizzassero il reddito.
4. Ottimizzazione del tracciato di un canale irriguo. Uno dei più importanti sistemi irrigui, attualmente in corso di realizzazione in Iran, è quello riguardante la piana di Ghazvin, che prevede la fornitura d'acqua irrigua a un comprensorio di circa 36.000 ha, sul quale sono dispersi 300 villaggi. Per il convogliamento e la distribuzione dei volumi d'acqua si è progettato un canale principale a pelo libero con portata massima di circa 31 m3/s, dal quale si diparte una serie di adduttrici secondarie, in parte costituite da canali a pelo libero e in parte da condotte in pressione alimentate da idonee stazioni di pompaggio. Queste ultime vengono utilizzate per servire i villaggi che si trovano a quote più elevate di quelle del canale principale.
La vastità del comprensorio, la sua natura topografica relativamente pianeggiante e la dispersione delle utenze consentivano un gran numero di alternative di tracciato del canale principale, la cui quota di partenza era determinante per la definizione delle quote del sovrastante serbatoio di regolazione.
Si è perciò proceduto a uno studio per individuare il tracciato del canale principale che portasse al minimo costo del sistema di distribuzione, sistema che comprendeva: la costruzione del canale principale, dei canali secondari, delle condotte in pressione, delle centrali di sollevamento e la capitalizzazione dei costi dell'energia di pompatura.
Per risolvere questo problema è stato anzitutto costruito un modello del sistema che ammetteva alcune semplificazioni rispetto a quello reale. Di conseguenza i risultati ottenuti hanno costituito una prima approssimazione che è stata tuttavia di grande valore pratico in quanto forniva un chiaro orientamento alle successive fasi di progettazione esecutiva.
Al modello così semplificato è stata applicata una particolare procedura di programmazione dinamica che, partendo dai canali secondari che si dipartono all'estremità di valle del canale principale, determina in stadi successivi le caratteristiche ottimali del sistema. (V. anche città; sistemi, scienza e ingegneria dei e urbanistica).
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