PIANIFICAZIONE LINGUISTICA
Per p.l. s'intende l'insieme degli interventi compiuti da stati o istituzioni al fine di modificare uno o più aspetti della situazione linguistica in un paese o una comunità e di migliorarne l'assetto in vista di esigenze e obiettivi ritenuti prioritari. Il termine (in inglese language planning) sembra sia stato coniato da E. Haugen (1959), e copre un ambito più ristretto e più tecnico rispetto a quello di ''politica linguistica''.
La p.l. si può esplicare in provvedimenti vertenti sui caratteri della lingua (o varietà di lingua) oggetto di pianificazione a uno o più livelli del sistema linguistico (lessico, grammatica, ortografia, eventualmente pronuncia) e/o volti a mutare l'uso, le funzioni e il riconoscimento socio-istituzionale di una lingua o varietà di lingua (al primo tipo di p.l. ci si riferisce spesso col termine di corpus planning, al secondo col termine di status planning). Essa può quindi andare dalla scelta e imposizione di una lingua comune standard e nazionale (per es. in paesi plurilingui di recente costituzione), a riforme parziali di singoli settori di una lingua, a interventi di tutela di una lingua o varietà di lingua (per es. nei confronti di lingue straniere o di lingue socialmente egemoniche), alla promozione (o anche, al contrario, alla repressione) degli usi di una lingua, alla sua standardizzazione (con l'elaborazione di una norma codificata esplicitamente, e la preparazione di grammatiche e vocabolari di riferimento), all'allargamento del suo lessico, ecc. Anche i programmi di alfabetizzazione possono essere in parte considerati fatti di p.l., in quanto tendono a mutare la situazione sociolinguistica su cui agiscono. Più in generale, la p.l. è spesso strettamente connessa ai problemi dell'educazione linguistica.
Sebbene interventi che oggi chiameremmo di p.l. non manchino, e siano anzi consistenti, nella storia politica e culturale passata, anche e soprattutto in Europa, i problemi tipici della p.l. si sono manifestati con l'estendersi nell'Ottocento dell'idea del nesso fra lingua e nazione e la formazione degli stati nazionali; e hanno assunto la massima ampiezza nei paesi in via di sviluppo del periodo post-coloniale. Uno dei problemi ricorrenti in questo contesto è quello dell'istituzione di lingue standard nazionali, in grado di soddisfare sia le esigenze di rappresentazione simbolica dell'identità nazionale sia le necessità della comunicazione tecnico-scientifica e dei rapporti internazionali, in paesi ad alto tasso di plurilinguismo.
Fra i casi di successo della p.l. negli stati di recente indipendenza, in cui spesso molte lingue vernacolari locali (non raramente di famiglie linguistiche diverse e distanti), usate per la comunicazione quotidiana all'interno delle varie comunità, coesistono con una (varietà di una) di queste adoperata come lingua franca e con la lingua della potenza ex-coloniale impiegata dall'élite dominante, vanno per es. annoverate la Tanzania e l'Indonesia.
In Tanzania la proclamazione della nuova repubblica (1964) ha coinciso con la promozione del swahili (di fronte a più di un centinaio di lingue locali) a lingua nazionale e ufficiale, a partire dallo status di lingua franca e commerciale che esso aveva già assunto durante la dominazione prima tedesca e poi britannica. Oggi il swahili è lingua esclusiva dell'educazione primaria, è ampiamente usato negli ambiti politici e amministrativi ed è parlato, come L1 o L2, da più dei tre quarti della popolazione.
In Indonesia alla fine della seconda guerra mondiale è stata promossa a lingua nazionale e ufficiale una varietà di malese parlata sulle coste e già diffusa ampiamente come lingua franca durante la dominazione olandese, appunto l'indonesiano (Bahasa Indonesia). Nonostante la compresenza di più di trecento lingue vernacolari locali delle famiglie austronesiana e papua, fra cui lingue della stessa famiglia usate da molti milioni di parlanti nativi e con una ricca tradizione letteraria, come per es. il giavanese, l'indonesiano è usato a tutti i livelli d'istruzione e nell'ambito amministrativo e politico, ed è oggi parlato (come L1 o L2 o anche in una forma pidginizzata, il Bazaar Malay "malese del mercato") da circa i due terzi della popolazione.
A questo processo di promozione socio-politica si è accompagnato, sia per il swahili che per l'indonesiano, un processo di standardizzazione ed elaborazione interna, già avviato durante il periodo coloniale. Parlate in origine da popolazioni di religione islamica, entrambe le lingue sono passate (soprattutto grazie all'influenza dei missionari nella seconda metà dell'Ottocento) dalla grafia araba all'alfabeto latino (nel 1901 l'indonesiano, mentre nel 1972 è stata introdotta una nuova grafia unificata malese-indonesiana; una grafia latina standardizzata è stata fissata per il swahili nel 1930). Apposite commissioni istituite già durante l'amministrazione coloniale hanno elaborato varie strategie per sviluppare l'uso delle due lingue negli ambiti tecnici e scientifici, hanno attuato sforzi sistematici per arricchire e modernizzare il lessico e hanno curato traduzioni della letteratura internazionale. Una Commissione per la terminologia creata nel 1950 a Giacarta ha approvato o coniato per l'indonesiano più di centomila neologismi: termini indigeni o di altre lingue imparentate, recupero di arcaismi sanscriti, prestiti arabi, adattamenti di termini inglesi od olandesi, ecc. (con calchi e neoformazioni come per es. dwibahasa "bilingue", da dwi "due" e bahasa "lingua"; maging "carnivoro", da makan "mangiare" e daging "carne").
Successo analogo non hanno avuto tentativi di p.l. in paesi dalla composizione sociolinguistica e dalla storia coloniale pur simili a quella dei due casi sopra citati, come per es. in Kenya, dove il tentativo di promuovere il swahili a lingua ufficiale ha incontrato molti ostacoli e dove tuttora l'inglese rimane la lingua della politica, dell'istruzione e del commercio; o in India, dove l'eccezionale complessità multietnica e plurilingue non ha consentito allo hindi-urdu, proclamato tra molte controversie lingua ufficiale dello stato indiano nel 1949, di diffondersi in modo consistente in tutto il paese, per cui la lingua veicolare tra le diverse nazionalità e culture continua fondamentalmente a essere l'inglese. Uno degli impedimenti principali all'accettazione di una lingua comune nazionale in questi paesi sta nel fatto che quella scelta come lingua unitaria è la lingua di una comunità numericamente, socio-culturalmente e politicamente assai forte, il che spesso scatena presso le comunità di altra lingua reazioni contro la perdita d'identità e il rischio di emarginazione: una lingua meno ''forte'' dal punto di vista demografico e politico può avere paradossalmente, nei paesi multietnici, maggiori chances di essere accettata a livello nazionale. A ragioni particolari, collegate con la nascita del nuovo stato-patria, va invece attribuito un altro esempio di buona riuscita di strategie di p.l.: la rinascita dell'ebraico perseguita in Israele, dove l'ebraico moderno (ivrit) è ormai L1 di buona parte dei nati in Israele, ed è generalmente noto agli Israeliani di lingua madre yiddish o araba, ecc.
Altri paesi ove si sono attuati nel 20° secolo rilevanti provvedimenti di p.l. sono la Cina, la Turchia e la Norvegia.
Fin dal suo avvento la Repubblica popolare cinese ha avviato una serie di riforme linguistiche, basate sulla diffusione della varietà colloquiale pechinese (pŭtōnghuà "lingua comune"), su una semplificazione e riduzione del numero dei logogrammi della scrittura cinese (lo standard di alfabetizzazione prevede la conoscenza di 1500-2000 caratteri sui 4-5000 necessari per leggere testi nei diversi campi dello scibile: tale riduzione dovrebbe aver consentito, secondo i dati ufficiali, una diminuzione della percentuale degli analfabeti in Cina dall'80% al 25% fra il 1949 e il 1982), e sull'adozione di una trascrizione ufficiale in alfabeto latino, detta pīnyīn. La lingua turca è stata ampiamente rinnovata da M.K. Atatürk, che nel 1928 fece decretare l'abbandono della grafia araba a favore di quella latina e promosse la sostituzione di una buona parte degli elementi lessicali di origine persiana e araba accumulatisi nel turco nei secoli precedenti. In Norvegia la p.l., contrariamente al solito, ha portato a un aumento della variazione linguistica: esistono in effetti due varietà di norvegese parimenti standard e ufficiali, il nynorsk ("neo-norvegese") e il bokmål ("lingua dei libri"). Tale situazione è il risultato di due diverse pressioni manifestatesi nel secolo 19° dopo la conquista dell'indipendenza dalla Danimarca (1814), l'una favorevole a sostituire al danese, come lingua ufficiale, la varietà delle classi urbane colte (un norvegese con tinta danese, chiamato riksmål e poi bokmål), l'altra mirante invece a una varietà basata sui dialetti rurali occidentali, più ''genuini'' (il landsmål, poi nynorsk). Le due varietà vennero legislativamente equiparate nel 1885. I successivi tentativi del governo di fissare una sola lingua nazionale derivante da una sorta di compromesso tra le due esistenti (con interventi normativi anche sulla morfologia) fecero invece sì che si moltiplicassero le forme in uso e che il loro impiego venisse contemporaneamente connotato come ''conservatore'' o ''progressista'', il che ha naturalmente aumentato la loro vitalità.
In Italia, un momento importante di p.l. si è avuto dopo la metà del 19° secolo, con la scelta da parte di A. Manzoni del toscano parlato dai Fiorentini colti contemporanei come modello da adottare per l'unificazione linguistica del nostro paese e con i successivi provvedimenti ministeriali per la diffusione di tale modello nella scuola elementare del nuovo stato unitario. Una p.l. è stata anche tentata esplicitamente dal regime fascista, che agì principalmente in due direzioni: la tutela dell'italianità della lingua, con la messa al bando puristica dei forestierismi (l'Accademia d'Italia fu incaricata di emanare elenchi di parole straniere proscritte coi sostituti italiani accettabili, in base a cui si doveva dire per es. non solo "bambinaia" invece di nurse, ma anche "arlecchino" invece di cocktail); e la repressione e l'assimilazione delle minoranze linguistiche, in particolare attraverso una drastica italianizzazione dell'Alto Adige/Südtirol (si arrivò non solo a vietare l'impiego del tedesco nelle scuole, nei tribunali e negli atti ufficiali, ma addirittura a sostituire la toponomastica e l'onomastica locale).
Un campo in cui, almeno in Europa, la p.l. è destinata ad assumere un ruolo sempre più importante è quello della protezione delle lingue di minoranza, spesso minacciate di scomparsa. In Irlanda, uno dei casi più noti, le misure per il mantenimento e il recupero del gaelico, nonostante gli atteggiamenti generalmente favorevoli della popolazione, non sono riuscite a diffonderne significativamente l'uso e tanto meno a sostituirlo all'inglese negli impieghi socio-politici rilevanti. Benché il gaelico sia insegnato in tutte le scuole, da indagini campione risulta che un quarto degli Irlandesi non ne ha alcuna conoscenza, e i due terzi lo conoscono solo parzialmente. Un tentativo per molti aspetti interessante è rappresentato dalle misure adottate dalla Confederazione elvetica per la tutela del retoromancio del Canton Grigioni, che si sono ultimamente (1982) concretizzate anche nella creazione a tavolino di una scripta unitaria che permetta un'espressione scritta comune alle cinque varietà principali del retoromancio.
Nel complesso, circa la valutazione generale dell'efficacia della p.l. si può constatare che essa ha di solito successo nella misura in cui tiene conto delle dinamiche sociolinguistiche in atto nella comunità oggetto della pianificazione e le asseconda.
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