Pianificazione
di Maurice Dobb
Pianificazione
sommario: 1. Introduzione. 2. Il dibattito teorico. 3. La ‛pianificazione indicativa' del capitalismo. 4. Il dibattito recente. 5. La pianificazione sovietica. 6. Analisi critica delle tendenze al decentramento. 7. Il problema dei prezzi. 8. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'idea generale della pianificazione economica è solitamente attribuita, e associata, ai pionieri del pensiero socialista del XIX secolo. Era abbastanza naturale supporre che qualcosa di simile avrebbe dovuto prendere il posto del meccanismo di mercato, meccanismo che gli economisti classici avevano dimostrato essere il regolatore automatico di una società atomi stica basata sulla produzione e l'iniziativa individuali (la famosa "mano invisibile" di Adam Smith, cioè le leggi economiche che operano attraverso la libera concorrenza, piegando e assoggettando gli interessi individuali a fini sociali). In realtà, i pionieri del pensiero socialista hanno detto ben poco sull'argomento. Saint-Simon si è limitato ad affermare che la società futura sarebbe stata ‟organizzata seguendo un disegno generale preordinato". Landauer (v., 1959) nella sua ricerca sul socialismo europeo ha scritto: ‟La progettazione è l'essenza della pianificazione. Nell'ultimo periodo del XIX secolo e nella prima parte del XX, l'idea della pianificazione fu completamente messa in ombra dall'esigenza di ottenere una più equa distribuzione. Tuttavia, i fondamenti delle moderne concezioni in fatto di pianificazione risalgono agli insegnamenti dei sansimoniani". Con Marx ed Engels i riferimenti alla pianificazione si fanno più espliciti, anche se resta intenzionalmente omessa al riguardo ogni indicazione di dettaglio, desiderando entrambi abbandonare l'approccio di quelli che essi definivano ‟socialisti utopisti", e convinti che fosse ozioso tentare di tracciare qualcosa di più che le linee generali del futuro assetto della società, almeno fino a quando non si fosse giunti a un punto tale da disporre di un quadro concreto di quelli che sarebbero stati i problemi reali (e non più supposti) e le relative istituzioni. Tolte poche affermazioni generali sulla distribuzione pianificata del lavoro produttivo - distribuzione che avrebbe dovuto sostituire l'operare spontaneo delle forze di mercato - Marx ed Engles non hanno fornito alcuna indicazione specifica sul modo in cui tale pianificazione avrebbe dovuto agire e sulle istituzioni nelle quali avrebbe dovuto concretarsi il possibile grado della sua centralizzazione e del suo decentramento. Engels, in Il socialismo dall'utopia alla scienza, parla di ‟produzione socializzata secondo un piano preordinato", e nell'Anti-Dühring della ‟anarchia della produzione sociale" che sarebbe stata sostituita dalla ‟organizzazione cosciente della società sulla base di un piano". Quanto a Marx, nel III Libro del Capitale fa riferimento, piuttosto di sfuggita, ai produttori che ‟regolano la loro produzione secondo un piano preordinato", alla ‟società organizzata come un'associazione consapevole e organica", che fissa ‟una relazione diretta tra le quantità di tempo di lavoro sociale impiegate nella produzione dei singoli prodotti e l'entità del bisogno sociale di ciascuno di essi". E questo è tutto.
2. Il dibattito teorico
Quando, agli inizi di questo secolo, alcuni critici del socialismo - economisti come G. Halm, N. G. Pierson e L. von Mises - cominciarono a sviluppare sul piano teorico la critica di questo meccanismo economico, assunsero come verità incontrovertibile che una società a proprietà pubblica dei mezzi di produzione sarebbe stata inevitabilmente caratterizzata da una pianificazione economica altamente centralizzata. Assunsero come assiomatico che una simile pianificazione avrebbe sostituito integralmente il meccanismo del mercato (con la sola eccezione, eventualmente, dei beni venduti al dettaglio a consumatori individuali) e che, se lo Stato era proprietario dell'industria, avrebbe certamente stabilito ciò che l'industria avrebbe dovuto realizzare, emettendo ordini dettagliati, in una forma o in un'altra, ai suoi dipendenti ai vari livelli (come per ogni organo o ufficio statale).
L'attacco degli economisti alla pianificazione, e specialmente quello di von Mises, contestò che, in assenza del mercato, un sistema di questo tipo potesse disporre di un qualche criterio di razionalità, e sostenne che, di conseguenza, non vi sarebbe stato modo in esso di distinguere metodi economici di produzione o di allocazione delle risorse da altri che non lo fossero. Nel suo famoso articolo Die Wirtschaftsrechnung in Sozialisticher Gemeinwesen (in ‟Archiv für Sozialwissenschaften", 1920, XLVII), von Mises scrisse: ‟L'importanza del denaro, in una società a controllo statale dei mezzi di produzione, sarà diversa da quella che ad esso si annette in una società in cui i mezzi di produzione sono proprietà privata. In effetti essa sarà incomparabilmente minore [...] in quanto sarà circoscritta ai beni di consumo. Di più: proprio perché nessun bene di produzione potrà mai essere oggetto di scambio, sarà impossibile determinarne il valore monetario. In uno Stato socialista il denaro non potrà mai svolgere il ruolo che svolge in una società concorrenziale nel determinare il valore dei beni di produzione. Qui il calcolo in termini monetari sarà impossibile. [...] E proprio nelle transazioni di mercato che si formano per tutti i generi di beni e di lavoro impiegati, quei prezzi di mercato che debbono essere presi come basi del calcolo. Dove non vi è libero mercato, non può esistere alcun meccanismo per la determinazione dei prezzi; ma, senza un simile meccanismo, non vi è calcolo economico".
In precedenza, in un famoso articolo (Il ministro della produzione nello Stato collettivista) apparso nel ‟Giornale degli economisti" del 1908, E. Barone, seguendo il suo maestro Vilfredo Pareto, aveva esaminato le condizioni che un ministero della produzione di uno Stato collettivista avrebbe dovuto rispettare ‟per trarre il massimo vantaggio dalla sua azione", e concludeva che ‟il sistema di equazioni di un equilibrio collettivista è identico a quello di un equilibrio di libera concorrenza". Barone sosteneva ‟l'impossibilità di risolvere queste equazioni a priori" e asseriva, in sintesi, che ‟le dottrine che immaginano che in uno Stato collettivista la produzione sarà organizzata in un modo radicalmente diverso da quello della produzione ‛anarchica', sono delle vere bizzarrie".
Nel corso degli anni trenta la sfida fu raccolta da diversi economisti socialisti, in particolare da H. D. Dickinson, in Inghilterra, e dal polacco O. Lange, che in quel periodo risiedeva negli Stati Uniti. La risposta del primo è stata definita ‛soluzione concorrenziale', in quanto si sforzava di dimostrare che la proprietà pubblica del capitale e della terra non era da nessun punto di vista incompatibile con il mantenimento di un mercato per i cosiddetti ‛fattori di produzione' (o ‛beni impiegati nella produzione') e con la concorrenza tra imprese di Stato nelle vendite e negli acquisti. La soluzione di Lange non fa appello a mercati ‛reali', ma si fonda invece (e tuttavia con un meccanismo in qualche modo analogo) su un sistema di ‛prezzi contabili', in base a cui potrebbero essere prese le decisioni produttive. Questi prezzi contabili sono modificati in rapporto alle relazioni di domanda e offerta prevalenti per i beni o i ‛fattori' produttivi in questione. Così, ad esempio, l'autorità centrale, nell'offrire ai Consigli di amministrazione delle industrie o alle imprese i servizi di fondi-prestiti o fondi di investimento, fisserà un costo del prestito, o saggio di interesse, per il loro uso: esso sarà aumentato, se le richieste superano il fondo di investimento complessivo disponibile, e abbassato nel caso opposto. Lange allude a ‟un procedimento per ‛tentativi ed errori' nell'economia socialista". Egli riassume in questi termini la sua risposta a Mises: ‟L'asserzione del prof. Mises che un'economia socialista non può risolvere il problema dell'allocazione razionale delle sue risorse è fondata su una confusione circa la natura dei prezzi [...]. Il termine ‛prezzo' ha due significati. Può significare il prezzo nell'accezione comune del termine, cioè la ragione di scambio di due merci su un mercato, o può avere il significato più generale di ‛rapporti in base ai quali si pongono le scelte alternative' [...]. Per risolvere il problema della distribuzione delle risorse sono indispensabili solo i prezzi in questa accezione più generale [...]. Il prof. Mises, invece, sembra aver confuso i prezzi nell'accezione più ristretta, cioè le ragioni di scambio delle merci su un mercato, con i prezzi nel senso più generale di ‛rapporti in base ai quali vengono offerte scelte alternative". (v. Lange, 1938, pp. 59-61).
Coloro che avevano in precedenza sostenuto che il problema era teoricamente insolubile in un'economia socialista, passarono a questo punto a sostenere che una sua soluzione positiva, benché teoricamente possibile e da non escludere a priori, fosse in pratica altamente improbabile. (Lange ha chiamato questa argomentazione la ‟seconda linea di difesa" delle posizioni alla Mises). Si parlò delle migliaia, o meglio dei milioni di equazioni che un organo di pianificazione avrebbe dovuto risolvere. Fu questa la posizione assunta da F. A. von Hayek e da L. Robbins; quest'ultimo disse che mentre ‟sulla carta possiamo immaginare di risolvere il problema con una serie di calcoli matematici [...] in pratica una soluzione del genere è quasi irrealizzabile" (v. Robbins, 1934, p. 151). Si può dire che da allora la forza di questa argomentazione sia stata grandemente indebolita dall'invenzione dei calcolatori elettronici e dallo sviluppo delle tecniche di programmazione lineare per la soluzione dei problemi di ottimizzazione e di allocazione delle risorse. Nonostante ciò, qualcuno potrebbe ancora sostenere che le difficoltà pratiche per un calcolo che dia esito positivo rendono assai improbabile la realizzazione, nel processo decisionale della società pianificata, di un grado di ‛ottimizzazione' non troppo basso o addirittura di un alto grado di coerenza interna nei piani. Questo problema della realizzabilità è, evidentemente, rilevante anche per determinare il grado di dettaglio che dev'essere ed è incluso nelle decisioni centralizzate (problema dipendente esso stesso non solo dall'efficienza de! calcolo, ma anche dalla disponibilità in forma appropriata di informazioni attendibili). Su ciò ritorneremo.
In rapporto a ciò va osservato che, sia la ‛soluzione concorrenziale' di Dickinson, che il metodo dei ‛prezzi contabili', proposto da Lange, fornivano una risposta al problema proponendo un meccanismo per la determinazione delle decisioni fortemente decentrato e riducendo al minimo le decisioni da prendere in modo centralizzato ai vertici. Di conseguenza, essi sostenevano che un simile meccanismo non è incompatibile con la proprietà sociale o pubblica dei mezzi di produzione ed è in grado di operare praticamente. In sostanza, essi proponevano la combinazione della proprietà sociale con una qualche forma di meccanismo di mercato, o comunque di quasi-mercato: ma non asserivano, contro Mises, che esistesse una soluzione compatibile con la pianificazione centralizzata ‛di per sé'. Persino nel dibattito degli anni trenta vi fu però chi sostenne quest'ultima tesi. Per esempio, R. Hall (v., 1937) affermava che, poiché ‟la domanda dei fattori di produzione è una domanda derivata [...] non esistono difficoltà sul piano teorico per il calcolo dei costi [...] fintanto che sussista un mercato per i beni di consumo". Ma poiché l'allocazione del capitale nei diversi impieghi deve in pratica comprendere l'allocazione di ogni tipo di bene capitale sui generis (tipò di metallo o di combustibile, tipo di macchina utensile), il problema è notevolmente più intricato di quanto potrebbe apparire a prima vista: e ovviamente diventa cruciale in questo caso il metodo di determinazione dei prezzi e dei costi per ciascuno di questi beni.
3. La ‛pianificazione indicativa' del capitalismo
In tempi più recenti il concetto di pianificazione ha cessato di essere associato unicamente alla proprietà sociale dei mezzi di produzione. Dopo la seconda guerra mondiale si cominciò a parlarne, e persino in qualche misura ad applicarla, anche nei paesi capitalisti. In larga misura ciò fu una conseguenza dell'esperienza, fatta in tempo di guerra, dei controlli statali e del ‛dirigismo economico' (e anche del razionamento delle risorse sia tra le imprese che tra i consumatori), e costituì un deliberato tentativo di estendere questi metodi al tempo di pace per far fronte ai problemi del dopoguerra. Il dibattito sulla pianificazione è stato stimolato anche dall'interesse per i problemi dei paesi sottosviluppati, in rapporto con i progetti internazionali di aiuto economico, patrocinati dalle Nazioni Unite, dalla Banca Mondiale, ecc.
In Francia fu varato, nel 1947, il cosiddetto ‛piano Monnet'. Negli anni seguenti piani per periodi di quattro o cinque anni furono redatti in Olanda, Belgio e Scandinavia. In Italia vi fu il piano Vanoni; anche in Gran Bretagna vi fu qualche anno più tardi un cosiddetto ‛piano nazionale', che rimase semplicemente un progetto sulla carta ed ebbe scarsa o nulla efficacia operativa. Per motivi di chiarezza, alcuni preferiscono indicare questi fenomeni con il termine ‛programmazione', anziché con quello di ‛pianificazione'. In conclusione, per indicare questa specie di pianificazione capitalistica, piuttosto empirica, si finì per adottare il termine ‛pianificazione indicativa' o quello di ‛dirigismo'. Evidentemente, soprattutto se si tratta della realizzazione del piano, fa un'enorme differenza che esso sia applicato a imprese di proprietà sociale e del settore pubblico o invece a società private e autonome. Queste ultime possono essere ‛dirette' o costrette solo in situazioni eccezionali (per es. in tempo di guerra), ovvero con metodi eccezionali (ma allora probabilmente questi metodi incontreranno resistenze o saranno elusi). Ma l'argomentazione teorica usata per illustrare l'efficacia specifica di questa pianificazione indicativa è stata che i piani, malgrado non abbiano carattere coercitivo, serviranno come linee direttrici dello sviluppo futuro e che, nei limiti in cui si ‛prevede' saranno seguiti, anche approssimativamente, introdurranno un certo coordinamento tra i settori produttivi e le imprese, agevolando decisioni di investimento a lungo termine, che in loro assenza non sarebbero forse state prese. Il successo di un simile ‛dirigismo' dipendeva soprattutto dalla misura in cui ciascuna singola impresa prevedeva che le altre imprese sarebbero state influenzate nelle loro decisioni dagli obiettivi indicati oppure al contrario, li avrebbero ignorati. Alcuni, tuttavia, sono andati oltre l'idea del piano come semplice indicazione direttiva che le imprese private potevano seguire o abbandonare a loro discrezione, e hanno interpretato la ‛pianificazione indicativa' come il tentativo di stabilire un collegamento tra le grandi imprese e i grandi gruppi, incoraggiandoli a concludere una serie di accordi circa il loro comportamento futuro, accordi destinati ad avere l'effetto di avviare gli avvenimenti economici nella direzione desiderata. (v. programmazione).
4. Il dibattito recente
Negli anni successivi del periodo postbellico, il dibattito sulla pianificazione si è incentrato su due aspetti, ambedue importanti: si è prestata maggiore attenzione alla distribuzione del reddito come elemento qualificante per determinare le condizioni di una ‛efficiente' allocazione delle risorse economiche; si è spostato l'interesse dalle condizioni dell'equilibrio statico a quelle dello sviluppo economico.
Vediamo, in primo luogo, la distribuzione: il maggior rilievo dedicato a questo aspetto del problema, nelle fasi più recenti della discussione, ha ridimensionato in modo drastico i tentativi della teoria economica di difendere il sistema di mercato (data la concorrenza) sul terreno della sua capacità di soddisfare in modo ‛automatico' le ‛condizioni di efficienza', capacità che si pretendeva non avesse l'economia pianificata. Già un'opera come The economie of welfare (1920) di A. C. Pigou sottolineava che la distribuzione del reddito era una delle due condizioni principali della massimizzazione del benessere economico (e l'assunto implicava che tale benessere potesse essere massimizzato solo se la distribuzione del reddito fosse stata modificata in direzione dell'uguaglianza). Nondimeno, Pigou cercava di proporre delle condizioni di efficienza per la massimizzazione del reddito nazionale (o prodotto netto totale), nonostante il fatto che dal punto di vista del benessere (o utilità) tale massimizzazione dipendesse completamente dalla distribuzione (l'incremento di ‛utilità' apportato da un'unità addizionale di prodotto dipende, infatti, interamente da chi la consuma, se una persona a reddito alto o una a reddito basso). E vero che, a partire dalla fine degli anni trenta, autori come L. Robbins in Inghilterra e numerosi economisti americani (tra di essi questa posizione è ancora più largamente diffusa), hanno cercato di eliminare i problemi della distribuzione, tornando alla ‟negazione della possibilità dei confronti interpersonali di utilità", asserita da Pareto, e affermando, con forti accenti positivistici, che l'economia come scienza positiva e wertfrei deve limitarsi a formulare teoremi sulla ‛efficienza', intesa come massimizzazione della produzione. Ma le considerazioni sulla distribuzione del reddito non possono essere eliminate con tanta disinvoltura. Divenne ben presto chiaro che, se la negazione dei confronti interpersonali fosse stata tenuta ferma in modo rigoroso, non si sarebbe potuto asserire alcunché sulla massimizzazione del prodotto ‛globale' (dal momento che la somma dei prodotti eterogenei in un prodotto globale era effettuata implicitamente in termini di utilità, di cui i prezzi sarebbero stati il riflesso e la misura; ogni somma di questo genere era, di conseguenza, dipendente dalla distribuzione). Per superare questa difficoltà e far sì che si potessero formulare condizioni di ‛efficienza nonostante l'impossibilità dei confronti interpersonali, fu escogitato il cosiddetto ‛principio di compensazione'. Ma un intricato e prolungato dibattito, che si svolse negli anni cinquanta, finì col dimostrare che questo principio non poteva essere enunciato senza cadere in contraddizioni contraddizioni dovute, ancora una volta, all'intrusione di quegli influssi della distribuzione del reddito, che per ipotesi erano stati esclusi.
In conseguenza di ciò, se l'‛efficienza' giudicata secondo il criterio del benessere sociale era necessariamente dipendente dalla distribuzione del reddito, e non vi era alcun motivo per supporre che la distribuzione del reddito creata dal mercato avesse alcun rapporto con quella ideale, ne discendeva che l'efficienza di un libero mercato poteva essere considerata, nel migliore dei casi, come nient'altro che un'approssimazione rispetto al punto ottimale. Viste le forti disuguaglianze di reddito e le imperfezioni della concorrenza, qualcuno potrebbe sostenere che questo tipo di efficienza sarebbe notevolmente scarsa. Persino se un'economia pianificata dovesse rimanere molto lontana dalle ‛condizioni ottimali di efficienza' sulle quali cercavano di porre l'accento gli economisti, ciò non significherebbe affatto, di necessità, che la pianificazione è inferiore al sistema di mercato.
Consideriamo ora lo spostamento del centro del dibattito economico dall'equilibrio statico alla dinamica - spostamento che ha luogo dopo la seconda guerra mondiale - e vediamone il rapporto con il dibattito sulla pianificazione. Questo nuovo interesse per lo sviluppo economico come problema centrale derivò in parte dagli studi sui cicli economici, fino al 1930 relativamente trascurati, e in parte dall'interesse conseguente per i tassi di sviluppo e per l'andamento (trend) di lungo periodo. Da questa discussione emerse tra l'altro il fatto che lo sviluppo economico è fortemente instabile, non solo per la sua tendenza alle fluttuazioni, ma anche per la possibilità che si verifichino movimenti divergenti, anziché convergenti, rispetto a ogni tendenza all'equilibrio.
Il punto cruciale per la crescita e lo sviluppo è, naturalmente, l'accumulazione e l'investimento di capitale e, di conseguenza, l'attività del settore che produce beni capitali. Nell'economia atomizzata del libero mercato l'investimento è soggetto a un duplice motivo di incertezza: un'incertezza, che è nella natura delle cose, sui fattori che determinano l'andamento di lungo periodo (per es., il progresso tecnico, il modificarsi dei gusti, le variazioni demografiche, ecc.); un'incertezza, ancora, sulle intenzioni e i comportamenti delle altre imprese nella stessa o in altre branche dell'economia, comportamenti che contribuiscono essi stessi a determinare l'andamento dei prezzi e dei profitti nel periodo immediatamente successivo. Che l'espansione del settore dei beni capitali sia profittevole o no, dipenderà, ad esempio, dall'andamento futuro degli investimenti per il complesso dell'economia, dalla probabilità che essi diminuiscano o aumentino o rimangano pressoché costanti. Tuttavia proprio questa è una delle incognite nell'economia non pianificata di libera concorrenza, che Mises e la sua scuola hanno esaltato per il suo ‛automatismo'.
Il risultato di questa attenzione per i problemi dello sviluppo fu, così, di sottolineare i vantaggi potenziali della pianificazione nel limitare o magari addirittura eliminare le accentuate fiuttuazioni cui fino allora la crescita economica era stata soggetta, introducendo, di conseguenza, la stabilità nello sviluppo e aumentando inoltre il tasso di crescita, mediante la diminuzione dell'incertezza sulla natura dell'andamento di lungo periodo.
5. La pianificazione sovietica
È stato, tuttavia, in Unione Sovietica che la pianificazione economica ha raggiunto il suo massimo sviluppo ed è all'Unione Sovietica che il termine ‛pianificazione' è stato originariamente associato. È all'Unione Sovietica (e oggi anche agli altri paesi socialisti dell'Europa orientale) che si guarda di solito quando si vogliono analizzare le lezioni offerte dall'esperienza, un'esperienza durata ormai quattro decenni e svoltasi nelle situazioni più diverse. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, anche altri paesi dell'Europa orientale e sudorientale hanno adottato la pianificazione centralizzata, rigidamente modellata, almeno nei primi anni, sulla struttura di quella sovietica, in una forma persino meccanica. Unica eccezione è stata la Iugoslavia che, a parte alcuni anni iniziali, nell'immediato dopoguerra, di pianificazione centralizzata secondo il modello sovietico, realizzò negli anni 1951-1952 (dopo la rottura politica con l'Unione Sovietica) un decentramento completo e adottò un sistema simile al modello di economia socialista decentralizzata, proposto nel dibattito economico degli anni trenta del quale abbiamo parlato.
Benché la nascita della Commissione per la pianificazione risalga, nel caso dell'Unione Sovietica, alla fine della guerra civile, nel 1921 (si tratta del famoso Gosplan nato da quella che negli anni precedenti era stata la Commissione statale per l'elettrificazione), in realtà una pianificazione effettiva iniziò solo alla fine degli anni venti, con il lancio del primo piano quinquennale. Nei suoi primi anni di vita, il Gosplan si occupò soltanto di piani parziali per particolari settori ‛chiave' dell'economia, fortemente danneggiati nel corso della guerra civile, che era urgente ricostruire per il più generale risanamento della produzione: ad esempio, un piano dei trasporti, un piano dei combustibili, e così via. Nel frattempo, il controllo e il coordinamento dell'industria erano affidati a Commissariati (o dipartimenti ministeriali), coordinati dal Consiglio supremo dell'economia nazionale (Vesencha). Il settore agricolo era formato in quel periodo da circa venticinque milioni di piccole aziende contadine, affiancate da un numero al confronto esiguo di grandi fattorie statali. L'agricoltura veniva stimolata a tornare ai livelli normali dalle misure della Nuova Politica Economica (NEP), la cui chiave di volta era costituita dal riconoscimento del diritto dei contadini di commerciare liberamente i prodotti agricoli, una volta pagata allo Stato una tassa agricola. Benché il commercio privato fosse in quel periodo del tutto legale, il grosso del commercio dei prodotti agricoli tra la campagna e la città era nelle mani delle cooperative e delle organizzazioni commerciali dello Stato. Nell'ambito dell'industria la pianificazione si orientò in quel periodo verso il decentramento e la produzione per il mercato. Terminata la distribuzione centralizzata dei rifornimenti alle imprese e la raccolta diretta delle loro quote di produzione, che erano operate dagli organismi statali durante il ‛regime' bellico, le imprese (chiamate per la maggior parte di quel periodo trusts industriali, in quanto concentrazioni di diversi impianti produttivi o fabbriche) potevano e, in realtà, erano costrette a procurarsi i rifornimenti necessari (di materie prime, combustibile ed energia, pezzi di ricambio ecc.) instaurando rapporti contrattuali diretti con i fornitori. Allo stesso modo dovevano operare per vendere la propria produzione agli eventuali clienti o intermediari. Il principio del chozrasčët) cioè della contabilità economica fondata su un bilancio autonomo, fu sanzionato come il principio fondamentale dell'attività economica. Insieme a esso, fu elevato a principio fondamentale quello della responsabilità individuale del direttore di fabbrica o di impresa (non eletto, ma nominato). Fu sottolineata, inoltre, la distinzione tra il controllo e la direzione generale, di competenza degli organi superiori, e la realizzazione e l'esecuzione concreta degli obiettivi politici generali.
Il primo, e ancora sperimentale, tentativo di pianificazione industriale integrale del Gosplan furono le famose ‛cifre di controllo' per il 1925-1926, raccolte in un volume che non superava le 100 pagine. Furono il primo tentativo di tracciare un piano di produzione annuale. Dovevano essere usate dai vari Commissariati come linee direttive (orientovka) da prendere in considerazione per la redazione dei piani di settore, ma non avevano il carattere di direttive obbligatorie. Nel presentarle al governo, il Gosplan le definì, in effetti, ‟direttive di massima per il lavoro di redazione dei piani operativi effettivi". Ma in pratica, a quanto risulta, esse furono largamente ignorate dai vari organi responsabili dei programmi effettivi. Negli anni successivi fu comunque fatto uno sforzo per migliorare la qualità dei dati statistici, in base a cui erano formulate le previsioni, istituendo contemporaneamente ai livelli inferiori della gestione dell'economia organi di pianificazione subordinati. Nel frattempo le cifre di controllo annuali ampliarono il loro campo di riferimento e, quindi, anche il loro ruolo effettivo. Nell'agosto del 1927 una risoluzione del Comitato centrale del partito chiese che fossero trasformate da linee direttive generali in direttive concrete per la redazione di tutti i piani operativi. Con il varo del primo piano quinquennale, della cui stesura erano state incaricate speciali sezioni del Gosplan per la pianificazione a lungo termine, le ‛cifre di controllo' cominciarono ad assolvere un ruolo regolare nella redazione del piano operativo annuale dettagliato. Quest'ultimo, a sua volta, venne rapportato al ‛piano di prospettiva', di più lungo periodo, destinato a coprire cinque anni, e in teoria venne costruito all'interno di esso.
Il decennio che doveva seguire il varo del primo piano quinquennale nel 1928-1929 fu contraddistinto da condizioni particolari, destinate a conferire alla pianificazione, e ai problemi che essa doveva affrontare, alcune caratteristiche peculiari, che in circostanze diverse forse non si sarebbero prodotte. In particolare, con l'inoltrarsi nel decennio, si accentuò la centralizzazione sia della pianificazione che dell'amministrazione economica. Centralizzazione nel senso che i piani operativi divennero sempre più dettagliati, e così anche le direttive supplementari emanate dai ministeri (come tornarono a chiamarsi i vecchi Commissariati); mentre erano drasticamente ridotti, in misura equivalente, la libertà di scelta e l'ambito di iniziative concesse ai livelli inferiori, e in particolare alla direzione delle imprese industriali. Questa situazione era in stridente contrasto con quella degli anni precedenti il 1928. Il lancio del primo piano quinquennale era stato dominato da determinati obiettivi politici (oggetto di aspre controversie negli anni precedenti); in particolare, dall'obiettivo di portare a termine l'industrializzazione del paese in un breve lasso di tempo. La realizzazione di ciò dipendeva dalla trasformazione su larga scala dell'agricoltura sulla base di una struttura collettivizzata (cioè la sostituzione della conduzione contadina tradizionale, individuale e su piccola scala, con quella collettiva e cooperativa). Guardando retrospettivamente, si potrebbe definirlo un ‛grande balzo'. Esso fu in larga misura concepito, e senza dubbio realizzato, nella forma di ‛campagne' e ‛mobilitazioni', concentrando tutte le forze disponibili su questo o quel ‛fronte economico' a seconda di quelle che, nella situazione del momento, si presentavano come le principali strozzature dell'economia. Il primo piano quinquennale era stato preparato originariamente in due versioni, una minima e una massima; quest'ultima era fondata sulle previsioni più ottimistiche di fattori quali l'andamento della bilancia del commercio con l'estero, il raccolto e la consegna dei prodotti agricoli, ecc. Come piano definitivo il governo adottò alla fine la versione massima e, nel corso della sua realizzazione, gli obiettivi dei piani annuali, specialmente quelli relativi all'industria pesante, furono aumentati in modo drastico in base allo slogan ‟realizziamo il piano quinquennale in quattro anni".
Si raggiunse così un tasso di sviluppo eccezionalmente alto, che dette luogo a vasti mutamenti strutturali nell'economia, accompagnati da trasferimenti su larga scala di lavoro (e di conseguenza di popolazione) dall'agricoltura all'industria. Nel corso del decennio, il crescente pericolo di guerra, derivante dall'ascesa del fascismo hitleriano, e ancora, in Estremo Oriente, dall'incursione giapponese sul continente con ‛'invasione della Manciuria, provocò uno spostamento di risorse, destinate al riarmo e alla costruzione dell'industria bellica. Il secondo piano quinquennale, ad esempio, prevedeva, nella versione iniziale, un certo rallentamento del ritmo di espansione e dedicava maggiore attenzione alla produzione di beni di consumo; ma nel corso del quinquennio esso fu rielaborato in vista di maggiori incrementi, a causa della crescente tensione della situazione internazionale. Se pensiamo al pessimo andamento delle ragioni di scambio del commercio estero nel 1930, dovuto alla crisi economica mondiale e al crollo dei prezzi dei prodotti agricoli sui mercati mondiali, e al susseguirsi di cattivi raccolti che si verificò nei primi anni del decennio, associato alla drastica diminuzione del bestiame determinata dalle campagne di collettivizzazione, non ci si deve stupire che si siano verificate acute carenze di certi prodotti, come quelli alimentari per l'accresciuta popolazione urbana o i materiali per le costruzioni edilizie e gli impianti industriali, ecc. Negli anni 1931-1934 si rese necessario introdurre il razionamento dei prodotti alimentari che scarseggiavano; allo stesso modo divenne prassi corrente, in occasione di ogni acuta carenza di prodotti industriali, il razionamento ditali prodotti tra i diversi settori industriali e tra le imprese di ciascun settore, razionamento operato mediante un sistema di distribuzione centralizzato, come era avvenuto negli anni precedenti la NEP. Quando si verificavano ritardi nella realizzazione dei piani, ad esempio quando in un ‛assortimento' di prodotti, alcuni di essi venivano trascurati a vantaggio di altri, oppure quando gli obiettivi di produzione erano raggiunti trascurando la riduzione dei costi o persino accrescendoli con un incremento spropositato dell'occupazione, la tendenza era quella di fronteggiare simili fenomeni aggiungendo ai piani, negli anni successivi, norme esplicite circa l'‛assortimento' della produzione, la riduzione dei costi e l'impiego di lavoro. Come ulteriore strumento di controllo, in particolare sulle spese per salari e sul livello degli stocks detenuti dalle imprese industriali, si elaborò un piano del credito sempre più dettagliato, con la specificazione dell'ammontare di credito che le banche potevano concedere all'industria per i diversi obiettivi definiti. L'ammontare del credito era strettamente correlato al piano di produzione dell'impresa in questione e includeva l'assegnazione di crediti supplementari o ‛fuori piano' di entità strettamente limitata, per far fronte a situazioni di emergenza o a necessità straordinarie.
Il metodo principale di pianificazione sviluppato in questo periodo fu il cosiddetto ‛metodo dei bilanci materiali'. Un ‛bilancio' era formato ponendo in equazione la quantità disponibile e il fabbisogno di un determinato prodotto; esso costituiva lo strumento indispensabile non solo per stabilire il fabbisogno di stanziamenti concessi dal sistema centralizzato di allocazione, ma anche per coordinare le componenti del piano di produzione complessivo. Per costruire questi bilanci erano essenziali i cosiddetti ‛coefficienti tecnici', espressione delle relazioni input-output dei diversi prodotti. Questi coefficienti, tuttavia, sarebbero stati diversi, nei diversi impianti impegnati nella produzione dello stesso prodotto, a seconda dell'attrezzatura tecnica e dell'efficienza complessiva di ciascuno di essi. Inoltre, molto spesso la politica ufficiale fu quella di aumentare o diminuire i coefficienti al di là di quanto le stesse industrie ritenevano ‛obiettivamente possibile' o al di là dei rapporti che l'esperienza passata aveva mostrato essere prevalenti. Le informazioni che affluivano al centro dai livelli inferiori, relative al fabbisogno di rifornimenti necessari alla realizzazione di un certo programma di produzione, non sempre erano prive di tendenziosità (visto che la possibilità di disporre di qualche riserva facilitava la vita ai dirigenti industriali e ai loro dipendenti e li metteva in grado di raggiungere più facilmente gli obiettivi previsti dal piano e di fronteggiare situazioni impreviste). Ma se i pianificatori sospettavano questa tendenziosità, tendevano a controbilanciarla diminuendo in misura corrispondente i coefficienti. Il coefficiente appropriato di ogni particolare settore industriale era il risultato di una media ponderata dipendente dalla composizione del suo piano di produzione; di conseguenza, si modificava se quest'ultimo era modificato negli ultimi stadi della rielaborazione del piano o nel corso della sua realizzazione. I coefficienti, inoltre, contenevano inevitabilmente un elemento politico o ‛soggettivo'.
Un problema ulteriore era quello di coordinare i singoli bilanci per tener conto delle interdipendenze reciproche, ossia dei cosiddetti ‛rapporti di feedback', un problema familiare agli studiosi dell'analisi delle interdipendenze strutturali (input-output analysis) nella forma dell'‛inversione di una matrice'. I pianificatori sovietici, in questo periodo, non si preoccuparono quasi affatto di elaborare una ‛metodologia dei bilanci più raffinata, quale quella che doveva essere sviluppata in Occidente nella forma della input-output analysis di W. Leontjef. Può darsi che se anche l'avessero posseduta, in pratica non vi sarebbe stata una grande differenza (almeno senza la possibilità di usare largamente i calcolatori elettronici): infatti i vincoli temporali del processo di pianificazione limitano in modo serio il numero di stadi o di ‛effetti di interdipendenza' che può essere calcolato quando un dato indice di produzione è modificato. La prassi usuale è stata, in realtà, quella di non sviluppare il calcolo oltre le cosiddette ‛interdipendenze di secondo ordine' o di ‛terzo ordine'.
Per tutti questi motivi si riuscì a garantire, anche per i piani operativi meglio elaborati, solo una coerenza interna, o una ‛compatibilità', approssimativa. Il sistema di distribuzione dei rifornimenti era quasi di necessità destinato a provocare carenze di prodotti in alcuni settori e in alcune imprese industriali, anche se i coefficienti decisivi input-output fossero stati fissati in modo realistico. Si può affermare, tuttavia, che questi squilibri non tendevano a tradursi in fiuttuazioni cumulative, com'è caratteristico di un sistema di mercato (vedi le fiuttuazioni del tipo cob web descritte dagli economisti). Si può affermare altresì che il coordinamento così realizzato, benché imperfetto, era verosimilmente maggiore di quello possibile quando le decisioni sulla produzione e gli investimenti erano prese dai diversi responsabili in modo atomistico e in condizioni di incertezza circa l'andamento e la configurazione futuri della situazione complessiva.
Posto che l'obiettivo principe della politica economica di quel periodo era uno sviluppo rapido, caratterizzato da vasti mutamenti strutturali, è comprensibile che la pianificazione avesse il carattere di ‛pianificazione per priorità', ossia fosse condizionata e operasse in base a una scala di obiettivi prioritari.
Tale scala poteva mutare a seconda delle modificazioni della natura delle strozzature che di volta in volta intralciavano la crescita. Ma in tutto il periodo anteguerra la priorità dominante fu sempre la cosiddetta ‛industria pesante', ossia l'espansione del settore industriale produttore di beni capitali: i combustibili fondamentali, l'energia, i metalli e la costruzione di macchinari. A ciò si aggiunse, come abbiamo visto, la priorità dell' ‛industria della difesa' e delle branche a essa complementari, un obiettivo che crebbe costantemente di importanza nel passaggio dal primo al secondo e poi al terzo piano quinquennale; quest'ultimo (non portato a termine) era dominato da tre obiettivi prioritari: industria bellica, metalli non ferrosi e potenziamento dei trasporti.
In realtà, verso la fine del decennio l'economia del paese si era praticamente trasformata in un'economia di guerra, strutturata secondo i metodi e il grado di centralizzazione caratteristici di questa. Per un verso, questa scala di priorità nella politica di pianificazione semplificò di molto i problemi di un sistema di pianificazione e di amministrazione economica altamente centralizzato; per un altro verso comportò un inevitabile costo sociale. Gli obiettivi e gli indici dei settori prioritari potevano essere raggiunti più facilmente perché, in caso di difficoltà, si potevano trasferire risorse in questi settori sottraendole ai settori non prioritari. Questi ultimi svolgevano così il ruolo di ammortizzatori o fondi di riserva per fronteggiare le carenze dei primi nella realizzazione del piano. Questi settori non prioritari, che in quel periodo erano di solito quelli produttori di beni di consumo, sopportarono così il peso della situazione, poiché non riuscivano a raggiungere gli obiettivi previsti dal piano; ma le priorità fondamentali furono salvaguardate e poterono essere realizzate (almeno per grandi tratti). Ma la situazione cambiò nella misura in cui lo sviluppo puramente quantitativo e l'industria pesante persero la loro schiacciante priorità e quest'ultima slittò verso le branche produttrici di beni di consumo (il che cominciò a verificarsi negli anni cinquanta). Si trattava o di considerare gli obiettivi prioritari come più numerosi, o di sostituire la prassi di redigere una semplice lista di priorità con l'esigenza di ‛bilanciare' una molteplicità di bisogni alternativi. In ambedue i casi cambiava la situazione, e così pure i problemi che essa poneva; la comoda riserva costituita precedentemente dai settori che non erano considerati prioritari cessava pertanto di esistere.
Fu questo un aspetto del mutamento della situazione dal decennio anteguerra agli anni cinquanta, dopo la fine della ricostruzione postbellica. Vi furono altri mutamenti ancora. Uno di questi riguardò la situazione del mercato del lavoro, e investì l'intera offerta di lavoro. I primi dieci o dodici anni di pianificazione erano stati un periodo di sviluppo ‛estensivo', nel senso che l'ampliamento della capacità e dell'articolazione dell'industria esistente e la creazione di nuovi settori - motori, metalli non ferrosi, aeronautica - erano stati realizzati attingendo alle riserve di lavoro del paese. Così il mancato raggiungimento degli indici di incremento della produttività del lavoro, fissati dal primo piano quinquennale, poté essere compensato dall'espansione dell'occupazione oltre gli indici del piano, sebbene tale espansione comportasse effetti inflazionistici, poiché aumentò il fondo salari complessivo e quindi la domanda. È certamente vero che anche in questo periodo vi fu carenza di manodopera qualificata; a ciò si fece fronte con piani di addestramento su larga scala. Ma in generale non vi fu carenza di manodopera non qualificata, poiché, come nella maggior parte delle zone sottosviluppate del mondo, l'agricoltura in Russia era stata caratterizzata dal sovrappopolamento rurale (con l'eccezione delle zone di popolamento più recente, come la Siberia e l'estrema zona orientale). Verso il 1950, a seguito delle enormi perdite del periodo bellico, la situazione dell'offerta di manodopera era in via di mutamento. Lo sviluppo ‛estensivo' cominciava a incontrare dei limiti in una, non più particolare, ma generale carenza di manodopera. Si cominciò a sottolineare con maggiore vigore la necessità di una più elevata produttività del lavoro, da ottenere introducendo le più moderne innovazioni tecniche. Ancora una volta, i risultati non furono pari alle intenzioni; molti dei problemi connessi alla diminuzione del tasso di sviluppo nella prima metà degli anni sessanta vanno senza dubbio attribuiti a un ‛ritardo' nella realizzazione di quello sviluppo ‛intensivo' che la nuova e mutata situazione richiedeva.
Oltre al mutamento della natura degli obiettivi politici, che la pianificazione doveva soddisfare, e al mutamento nella situazione del lavoro, fu il grande sviluppo dell'industria nel periodo anteguerra a complicare non poco i compiti della pianificazione centralizzata e, di conseguenza, ad accentuare in misura considerevole le difficoltà del metodo dei bilanci, già menzionate, come anche gli effetti negativi degli errori e delle incoerenze che ne derivavano nella redazione dei piani (soprattutto in rapporto al sistema di allocazione centralizzata delle scorte). Mentre all'inizio degli anni trenta il numero di bilanci particolari stesi dal Gosplan era di alcune centinaia o poco più, negli anni cinquanta il loro numero era salito a circa 2.000 (questa cifra comprende i bilanci redatti dal Gosplan dell'Unione e dai Gosplan delle singole repubbliche). Il sistema di allocazione centralizzata interessava qualcosa come 10.000 prodotti e forse più; oltre 5.000 prodotti, e tutti gli indici e gli obiettivi ad essi pertinenti, erano inclusi nel piano annuale, e il piano di una singola impresa poteva comprendere fino a 500 indici diversi. Negli anni sessanta il numero delle singole imprese industriali che erano soggette alla pianificazione raggiunse la cifra di 40.000.
6. Analisi critica delle tendenze al decentramento
È su questo sfondo che alla fine degli anni cinquanta e negli anni sessanta si avviò il dibattito sulla necessità di introdurre misure di decentramento. Nella mutata situazione degli anni cinquanta, i metodi di gestione economica fortemente centralizzata, per quanto opportuni potessero essere stati nella situazione e con gli obiettivi politici e i compiti specifici del decennio prebellico, e anche per l'economia di guerra' degli anni quaranta, divenivano in modo evidente sempre più inadeguati. Essi producevano addirittura risultati negativi, sui quali si cominciavano a concentrare i commenti critici. Il dibattito non fu limitato all'Unione Sovietica, ma si estese agli altri paesi del ‛blocco' socialista dell'Europa orientale; esso raggiunse la massima intensità in Cecoslovacchia e in Ungheria, dove le misure di decentramento richieste furono assai più radicali, mentre si svolse relativamente in sordina nella Repubblica Democratica Tedesca e in Romania e mantenne un livello intermedio in Polonia e in Bulgaria. In questa atmosfera furono preparate e applicate le riforme economiche della metà degli anni sessanta (definite in qualche caso - per es. in Ungheria - come ‛nuovo modello economico'). Era generalmente riconosciuta l'esigenza di semplificare i compiti della pianificazione centrale, sia diminuendo il numero di obiettivi e di indici fissati dagli organismi superiori e inclusi nel piano centrale, sia accrescendo, contemporaneamente, l'autonomia e la capacità decisionale della singola impresa, al fine di stimolare una maggiore iniziativa da parte dei dirigenti delle imprese o degli stabilimenti (per es., per quanto riguardava le innovazioni nei metodi di produzione e nella natura dei prodotti, nuovi prodotti e nuovi modelli, ecc.). Su due questioni, tuttavia, esistevano differenze di tono e diverse erano le misure di decentramento proposte: 1) se i principali beneficiari dell'accresciuta libertà e autonomia dovessero essere le imprese esistenti o piuttosto le nuove concentrazioni industriali di livello intermedio (operanti sulla base del chozrasčët); 2) in che misura si dovesse permettere una maggiore flessibilità nei prezzi e nell'approvvigionamento delle scorte industriali sulla base di rapporti contrattuali diretti, in altre parole in che misura si dovessero reintrodurre negli scambi interindustriali meccanismi di mercato che richiamavano alla mente il periodo della NEP sovietica degli anni venti.
In Ungheria, per esempio, il sistema di allocazione delle scorte fu abolito e i prezzi di un numero considerevole di merci furono lasciati liberi di fluttuare tra un massimo e un minimo, sulla base di accordi contrattuali diretti; inoltre, un ristretto numero di prezzi (essenzialmente quelli dei beni di lusso) furono lasciati liberi di fluttuare senza limiti di sorta in rapporto alla situazione del mercato. Si lasciò alle imprese persino la possibilità di effettuare alcune spese per investimenti, ricorrendo a prestiti bancari, purché esse non superassero un determinato ammontare. Nei termini del dibattito economico degli anni tra le due guerre, queste misure possono apparire una svolta verso quel tipo di sistema decentralizzato o ‛socialismo di mercato', come è stato talvolta chiamato, allora tracciato da Lange e Dickinson. Ciò, tuttavia, è vero solo in parte. Nelle proposte di Lange e di Dickinson alla pianificazione era lasciato uno spazio assai esiguo. Quasi tutte le decisioni economiche erano prese sulla base delle condizioni del mercato ed erano indirizzate da queste. Nel caso di Lange l'unica eccezione era il tasso generale di investimento o l'ammontare totale di fondi per l'investimento da mettere a disposizione degli organi economici, mentre l'allocazione di queste risorse era decisa in base al rapporto tra la domanda e le scorte disponibili. Ma nel meccanismo decentralizzato, introdotto con le riforme economiche degli anni sessanta, l'ambito di intervento lasciato alla pianificazione centralizzata era molto superiore a questo. In generale, la massa degli investimenti rimaneva, anche in Ungheria, sotto il controllo delle autorità centrali; i piani di produzione annuali, benché liberamente redatti dalle imprese, dovevano essere tali da corrispondere abbastanza da vicino, nel loro complesso, al piano a più lungo termine redatto dagli organi di pianificazione centrali: mentre i prezzi di tutti i prodotti ‛chiave', e di tutte le merci delle quali vi era scarsità, restavano ancora di competenza delle autorità centrali. Non avvenne nulla di simile allo smantellamento del sistema di pianificazione quale si verificò in Iugoslavia negli anni cinquanta. Particolare il caso della riforma sovietica del 1965. Mentre fu sostanzialmente ridotto il numero degli indici compresi nel piano annuale, a livello di impresa quest'ultimo continuò a prevedere alcuni indici fondamentali: in particolare, il totale della produzione ‛venduta' espresso in termini di valore (in sostituzione del valore della produzione lorda prodotta, precedentemente assegnato) e un ‛massimo' per il fondo salari complessivo. Il profitto del bilancio di esercizio fu riconosciuto quale principale criterio della riuscita di un'azienda e a esso fu associato un nuovo tipo di fondo di incentivazione per la distribuzione di premi; ma il sistema di allocazione delle scorte fu mantenuto in piedi.
La prima critica rivolta al sistema ipercentralizzato esistente riguardava il modo in cui gli obiettivi del piano dovevano di necessità essere espressi nelle direttive di pianificazione; la critica si concentrava soprattutto sugli obiettivi, espressi in termini di qualche misura fisica. Ovviamente, se la produzione a livello di impresa è determinata dettagliatamente dal piano, la sua entità deve essere espressa in una qualche misura, e l'esperienza ha mostrato che la particolare misura adottata può indurre distorsioni nel modo in cui gli obiettivi di produzione sono realizzati.
In alcuni casi, la misura più appropriata della produzione è una misura di peso, in altri una misura di lunghezza o di superficie o semplicemente un numero di unità. Sono ormai numerosi e ben noti gli esempi di situazioni, in cui la misurazione in termini di peso ha prodotto la tendenza a fabbricare oggetti pesanti, anziché leggeri (vedi i telai dei letti, i candelieri o i chiodi), la misurazione in termini di lunghezza (come nel caso dei tessuti), la tendenza a fabbricare stoffe strette e di tessitura la più semplice possibile, e così via. Quando la produzione, anziché uniforme e standardizzata, è eterogenea, come nel caso di numerosi prodotti dell'industria meccanica, la misura più facile è espressa in termini di valore lordo, che ha il vantaggio della semplicità, perché le singole unità prodotte possono essere sommate in base ai prezzi correnti di vendita. Ma l'esperienza ha mostrato, di nuovo, che nel caso del valore lordo la tendenza alla distorsione si manifesta come incremento della quantità dei fattori di produzione acquistati all'esterno dalle imprese, che vengono incorporati nel prodotto: l'uso, ad esempio, di materie prime e pezzi ad alto anziché a basso costo, la produzione, cioè, di articoli cosiddetti ‛material-intensivi'.
Un altro esempio è il seguente: è più facile raggiungere l'obiettivo del piano montando un gran numero di pezzi in un veicolo finito, piuttosto che produrre singoli pezzi di ricambio, anche se vi è una grande richiesta di essi. Inoltre può essere scoraggiata la concentrazione verticale in una stessa impresa di processi di produzione consecutivi, anche se tale concentrazione dovesse avere come risultato una maggiore efficienza e un coordinamento più equilibrato dei flussi di produzione. Questa tendenza, tuttavia, è forse controbilanciata dalla tendenza alla concentrazione verticale, che nasce dalla difficoltà di ottenere i rifornimenti e dai ritardi nella loro consegna. Per tutte queste ragioni, tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta, in molti settori dell'industria, a cominciare dall'industria tessile, il valore lordo fu sostituito con il valore netto.
Quale che sia la forma particolare della misura adottata, è inevitabile che obiettivi di questo tipo tendano a privilegiare la realizzazione puramente quantitativa, a scapito della qualità, delle esigenze di un assortimento ben equilibrato e soprattutto a scapito dello sforzo di realizzare nuovi prodotti e nuovi e migliori modelli. Similmente, la realizzazione puramente quantitativa tende a essere privilegiata anche a costo di inefficienze: ad esempio con la prassi diffusa dell'eccessiva accelerazione del ritmo produttivo e degli straordinari verso il periodo finale di un piano. Fu proprio per contrastare simili effetti che vennero aggiunti alle direttive di piano gli indici detti ‛qualitativi', che fissavano il tasso di riduzione dei costi da realizzare o l'incremento della produttività del lavoro. In questo modo furono però aumentati spropositatamente il numero e la varietà degli ‛indici' inclusi nei piani, cosicché i dirigenti di impresa finirono con l'attribuire diverso peso ai vari indici, e poiché alcuni di questi erano tra loro contraddittori, parte di essi tendeva a essere ignorata completamente.
Gli svantaggi e le distorsioni derivanti dai vari tipi di ‛indicatori di successo' adottati in precedenza erano generalmente considerati un corollario pratico inevitabile dell'eccessivo dettaglio degli indici inclusi nel piano centrale; pertanto si ricercò attentamente un qualche ‛indicatore sintetico' dei risultati dell'impresa, tale da ridurre al minimo, in ogni caso, le deviazioni unilaterali prodotte dagli indici esistenti. (In quel periodo fu in voga lo slogan: ‟meno fiducia negli ordini amministrativi e più fiducia nei metodi economici", quali l'incentivazione tramite i prezzi, le facilitazioni creditizie, la tassazione e simili). A tal fine, in concomitanza con la diminuita fiducia nel metodo delle direttive dettagliate, le riforme economiche della metà degli anni sessanta puntarono, abbastanza naturalmente, ad accentuare il ruolo dei risultati complessivi di bilancio come strumento di valutazione, come avveniva nei primi anni di applicazione del chozrasčët.
Ma, com'è ovvio, anche i ‛criteri di bilancio' possono avere come effetto distorsioni nella produzione, se i prezzi non sono ‛giusti' in qualche senso appropriato: è questa una delle ragioni per cui le misure di decentramento sono state accompagnate da misure di riforma dei prezzi (misure che, nel caso dell'Ungheria, hanno preceduto l'introduzione del ‛nuovo meccanismo economico).
Un altro tipo di critica rivolta al vecchio sistema centralizzato fu che esso tendeva a dar vita a forme di conflitto nocive tra i livelli superiori e i livelli inferiori dell'apparato di gestione, poiché limitava l'ambito di competenza di questi ultimi su materie che essi conoscevano spesso assai meglio dei primi.
Si poteva naturalmente considerare questo fenomeno in qualche modo come un conflitto tra punti di vista o interessi settoriali e interesse generale. Ma non sempre era così. Si trattava quasi altrettanto spesso di un conflitto tra le decisioni di dettaglio prese da persone staccate dalla situazione reale (sulla base di informazioni imprecise e molto approssimative) e la conoscenza approfondita di quella situazione da parte di persone a essa legate e fornite non solo di informazioni tecniche, ma anche della ‛percezione' di ciò che era opportuno fare. Facciamo due esempi tra i più significativi. In primo luogo, sottoposti alla costante pressione della necessità di realizzare obiettivi di piano probabilmente eccessivi (pressione accompagnata da incentivi finanziari), ossessionati dal timore costante di carenze nei rifornimenti e di ritardi nelle consegne, ambedue fattori di pesante disorganizzazione della produzione, i dirigenti industriali tendevano, nel fornire le informazioni ai livelli superiori della gestione, a sottovalutare e nascondere le loro possibilità e a esagerare le loro necessità (in termini di rifornimenti, macchinari, manodopera). Abbiamo già ricordato che gli organi di pianificazione o i ministeri, se sospettavano una simile tendenza, reagivano aumentando ancora gli obiettivi di produzione e riducendo le allocazioni, intensificando così doppiamente la tensione tra i ‛livelli'. (In quel periodo si diceva comunemente che un direttore assennato avrebbe potuto superare i propri obiettivi di piano, poniamo, del 50%, ma mai del 25%, poiché, se lo avesse fatto, il risultato sarebbe stato inevitabilmente il drastico aumento dell'obiettivo per l'anno successivo).
In secondo luogo, venivano fortemente incoraggiate non solo le richieste eccessive di rifornimenti, per garantirsi dei margini di manovra (e cioè per ristabilire una certa flessibilità a livello dell'impresa) e per premunirsi di fronte a eventualità impreviste, ma anche l'accumulazione - se possibile - di riserve in eccesso, sia di macchinario che di materie prime e di lavoro. Questa era l'unica via che restava ai dirigenti di impresa per recuperare una propria iniziativa autonoma. Ma l'incetta tende ad aggravare le carenze di rifornimento, e probabilmente con effetti concatenati.
Tutto ciò può aver accentuato e tenuto in vita nel periodo postbellico la situazione cronica di un mercato dominato dai venditori, situazione sfruttata a sua volta dai conservatori favorevoli al mantenimento del meccanismo centralizzato per motivare la prosecuzione del razionamento tramite il sistema dell'allocazione delle scorte.
Oltre a ciò, i marxisti, in particolare, possono ritenere che, con un sistema di potere eccessivamente verticistico e con i subordinati assuefatti all'accettazione passiva di ordini e direttive, l'alienazione dei produttori dal processo sociale viene forse perpetuata, anziché superata.
Finora il movimento in direzione di riforme economiche di decentramento è stato prudente e abbastanza limitato (tranne che in Ungheria e in Iugoslavia), e più limitato ancora nella realizzazione che nella progettazione, non fosse che a causa delle esitazioni e della resistenza degli interessi burocratici legati al vecchio sistema. Tuttavia, in futuro, le cose sembrano destinate a muoversi in questa direzione. L'esperienza ormai dimostra le difficoltà e gli effetti negativi di una centralizzazione eccessiva del potere decisionale. Resta da verificare sperimentalmente in quali dosi la combinazione di pianificazione e mercato possa produrre, in circostanze normali, il massimo risultato: ossia, quali tipi di decisioni debbano rimanere centralizzate ed essere incluse in un piano obbligatorio, e quali sia più opportuno, invece, lasciar prendere ai livelli inferiori di gestione, sulla base di indici di mercato (prezzi reali o contabili), come proposto da Dickinson e Lange nel dibattito economico anteguerra. Nel secondo caso, la pianificazione si limiterebbe a influenzare (per es. con la tassazione, le agevolazioni creditizie, le variazioni dei prezzi) e a orientare su scala generale. Sembra abbastanza chiaro che le decisioni sui nuovi investimenti più rilevanti debbano essere incluse nel primo gruppo (decisioni centralizzate), in quanto decisive per la direzione dello sviluppo a lungo termine dell'economia, per i mutamenti strutturali, per il livello di occupazione e per la crescita; in favore di questa scelta sembrano sussistere fondamenti teorici piuttosto solidi.
7. Il problema dei prezzi
Una volta, tuttavia, che siano stati reintrodotti nel quadro gli influssi del mercato sulle decisioni economiche da prendere, diviene ovviamente rilevante - come abbiamo visto - il problema di quali siano i prezzi ‛corretti' o ‛economici'. Dobbiamo così tornare al dibattito dei teorici dell'economia, in particolare alle discussioni più recenti sulla politica dei prezzi e la cosiddetta ‛ottimizzazione'. Persino nella pianificazione centralizzata alcuni calcoli implicano l'uso dei prezzi, anche se non necessariamente prezzi reali nel senso dei rapporti di scambio fra i prodotti: può trattarsi semplicemente di prezzi contabili nel senso dei ‛rapporti di equivalenza' di Lange (per es. rapporti come il ‛periodo di ricostituzione' o ‛l'efficacia dell'investimento').
In rapporto con le soluzioni di programmazione lineare, è oggi abbastanza familiare il concetto di ‛prezzo-ombra', come ‛duale' di una soluzione data. Il dibattito su questi problemi ha attirato l'attenzione della scienza economica in Unione Sovietica e altrove sin dalla metà degli anni cinquanta. In quel periodo iniziò una discussione piuttosto astratta e dottrinaria sul cosiddetto ‛funzionamento della legge del valore'. Molto presto essa si trasformò in una disputa tra sostenitori del ‛principio del valore' e sostenitori dei ‛prezzi di produzione', con un riferimento concreto alla riforma della politica dei prezzi. Nel corso del dibattito assunse un ruolo via via più importante la difesa da parte degli economisti matematici del cosiddetto ocenka di L. V. Kantorovič. La riforma dei prezzi del 1968 rappresentò per molti versi un compromesso tra i due punti di vista contrapposti, un compromesso peraltro transitorio; essa, tuttavia, portava chiaramente l'impronta del dibattito precedente e, almeno in linea di principio, pagava il suo tributo a concetti quali l'uguaglianza dei tassi di profitto e l'imposizione del pagamento di una rendita per l'utilizzazione delle risorse naturali o di situazioni particolarmente vantaggiose.
In Occidente il dibattito economico su questi problemi (in larga misura prosecuzione del dibattito sul calcolo socialista degli anni trenta) si concentrò essenzialmente su due ordini di questioni: l'analisi dei casi di divergenza del costo marginale dal costo medio (quando, cioè, vi sono sostanziali indivisibilità) e l'analisi delle ‛punte massime' e delle ‛punte minime', di quei casi cioè in cui - come nell'elettricità e nei trasporti - l'utilizzazione degli impianti al di sopra e al di sotto della capacità produttiva si alterna nei diversi periodi della giornata o della settimana o nelle diverse stagioni. Inizialmente, i sostenitori della determinazione dei prezzi sulla base del costo marginale utilizzarono tale determinazione come strumento critico per attaccare la teoria corrente, nel senso che le industrie nazionalizzate avrebbero dovuto risultare ‛redditizie', in grado, cioè, di coprire il costo medio totale incluso un margine prefissato di profitto. Di qui l'insistenza sui casi in cui i costi medi sono decrescenti con l'espandersi della produzione o del servizio offerto e, di conseguenza, il costo marginale è inferiore al costo medio.
Si tratta essenzialmente di casi nei quali esiste capacità in eccesso entro un'unità produttiva indivisibile: l'argomentazione di senso comune consisteva nell'asserire che vi era un vantaggio sociale a utilizzare la capacità produttiva in eccesso fino a quando fosse coperto il costo primo o diretto connesso a tale utilizzazione addizionale, mentre sarebbe stato uno spreco di risorse sociali bloccare l'utilizzazione addizionale della capacità disponibile tentando di imporre un prezzo pari al costo totale (medio), come avrebbe fatto naturalmente un'impresa privata capitalistica. Un altro aspetto della stessa argomentazione consisteva nell'assunto che nel caso in discussione il criterio di investimento più opportuno fosse quello del ‛beneficio sociale complessivo' e non quello di coprire il costo totale a un prezzo uniforme, qual è illustrato dal caso classico del ponte di Dupuit.
I casi di costi marginali inferiori ai costi medi esistono e sono senza dubbio importanti - qualcuno potrebbe sostenere che tra i casi di divergenza essi sono predominanti - tuttavia non sono i soli. Vi sono casi di costi crescenti in cui il costo marginale è superiore e non inferiore a quello medio; in pratica, poi, questi ultimi tendono a implicare maggiori difficoltà. Quando non si tratti semplicemente di costi sociali esterni all'unità di decisione in esame, come nel caso della congestione del traffico, si tratta di casi esemplari di utilizzazione alterna degli impianti fissi al di sopra o al di sotto delle capacità, come si verifica nella produzione di energia elettrica, nella rete telefonica, o nel sistema dei trasporti ferroviari. In queste situazioni l'imposizione di pagamenti differenti nei periodi di utilizzazione massima e minima, connessi alla differenza del costo marginale dell'offerta del servizio a seconda dell'utilizzazione delle capacità in quel periodo, si fondava essenzialmente sull'esigenza di evitare sprechi negli investimenti espandendo le capacità per far fronte alla domanda massima, che avrebbe comportato un eccesso di capacità inutilizzate in altri periodi.
Quando affrontiamo la questione di una teoria generale della determinazione dei prezzi in un'economia socialista, ci troviamo di fronte un apparente conflitto di obiettivi. Esso può essere indicato come ‛conflitto tra breve periodo e lungo periodo, oppure, in altri termini, tra i cosiddetti ‛prezzi di mercato' e i cosiddetti ‛prezzi normali'. In un qualsiasi momento considerato esisterà un sistema dato di scarsità, che contiene elementi che potremmo definire ‛accidentali', dovuti a variazioni impreviste della domanda o a variazioni delle scorte o a ritardi del meccanismo con cui l'offerta si adegua alla domanda. In quel dato momento l'equilibrio completo implicherebbe l'imposizione di un certo sistema di prezzi di breve periodo, adeguato a quel sistema dato di scarsità, prezzi che per la loro stessa natura non potrebbero che essere temporanei e potrebbero rivelarsi inadatti in penodi successivi, una volta trascorso il tempo per adeguare l'offerta alla domanda.
Questa comunque sarebbe la situazione qualora le scorte non fossero tali da reggere l'urto degli squilibri di breve periodo, cosa che potrebbe verificarsi più di quanto talvolta non si ammettà, almeno in periodi molto brevi e per variazioni della domanda non troppo accentuate. Il movimento dei prezzi nel primo caso, il movimento delle scorte nel secondo, possono servire ai produttori come ‛indicatori' del necessario adeguamento dell'offerta. Come abbiamo visto, tuttavia, un'eccessiva fiducia in questi riaggiustamenti di breve periodo, o un eccessivo spazio lasciato a essi, possono offrire un campo d'azione a fluttuazioni cumulative, del tipo del teorema cobweb, che hanno indesiderabili effetti di disorganizzazione.
Ma quando si prendono in considerazione le decisioni che possiamo chiamare ‛di lungo periodo', come gli investimenti in impianti durevoli (per es. un nuovo stabilimento, una ferrovia, un bacino portuale o una centrale elettrica), diviene rilevante un altro tipo di prezzi. Potremmo chiamarli ‛prezzi normali di lungo periodo', nel senso che rappresentano una situazione di equilibrio relativa a un numero di anni abbastanza elevato, affinché si realizzi compiutamente l'adeguamento dell'offerta al livello probabile della domanda negli anni a venire. Si tratta di un certo tipo di prezzo di costo che, in base a un teorema ora ben noto agli economisti, se vi è sviluppo include un tasso di profitto approssimativamente uguale al tasso di sviluppo.
Se tutti i prezzi fossero ‛prezzi contabili' del tipo definito da Lange, o anche ‛prezzi di calcolo', prezzi ombra, usati dall'organo centrale di pianificazione per effettuare le valutazioni che costituiscono la base delle decisioni, il conflitto sarebbe allora più apparente che reale. In ogni calcolo potrebbe essere usata la categoria di prezzi (di breve o di lungo periodo) più appropriata alla particolare decisione cui il calcolo si riferisce, e ciò non impedirebbe di usare un tipo di categoria diverso e antitetico per decisioni di genere differente. Ma se i prezzi sono prezzi reali, esprimono cioè rapporti di scambio reali, in base ai quali enti finanziariamente autonomi (secondo il principio del chozrasčët) alienano beni e redigono contratti, il conflitto è un conflitto reale, poiché in realtà i prezzi in questione debbono essere o di un tipo o dell'altro e sembra difficile che possano esistere simultaneamente due diversi insiemi di prezzi, benché sia probabilmente possibile che vengano usati prezzi ‛immediati' e prezzi ‛futuri' per scambi operati a date diverse. La categoria dei prezzi di breve periodo è evidentemente appropriata per il mercato al dettaglio, se si intendono evitare il razionamento, la penuria di prodotti e le code nei negozi, nel caso in cui esistano quantitativi limitati di certe merci. Tale categoria è forse appropriata anche per i prezzi all'ingrosso dei beni di consumo, benché questi possano essere stabiliti in base ad altre regole e la differenza tra essi e i prezzi al dettaglio possa essere colmata con una qualche forma di tassa sulle vendite, secondo una prassi usuale nell'Unione Sovietica.
Come conviene operare per i prezzi dei cosiddetti ‛mezzi di produzione', cioè per quei beni che entrano nel processo di produzione e, in particolare, per i materiali da costruzione e le macchine utensili? Poiché si tratta di elementi che sono oggetto di decisioni di investimento, e di decisioni che implicano la scelta tra tecniche diverse o tra diverse combinazioni dei fattori di produzione, per essi sembra più appropriato usare l'altra categoria di prezzi. Alcuni di questi beni possono certo presentare problemi di temporanea scarsità e rendere necessario che di ciò si prenda atto imponendo temporaneamente un sovrapprezzo al prezzo ‛normale', sia come strumento per imporne un uso in economia, sia come strumento per limitarne l'uso ai bisogni più urgenti, finché duri la scarsità. Ma in questo caso le divergenze dal costo normale' potrebbero probabilmente essere trattate come misure eccezionali, anziché come regola generale, come accade invece sul mercato al dettaglio.
8. Conclusione
In sintesi, si può affermare che i risultati più rilevanti ottenuti dalla pianificazione sono connessi alla crescita economica e alle modificazioni strutturali su vasta scala del sistema economico, che implicano la modifica dei rapporti tra i settori e tra le branche dell'economia come anche, eventualmente, la modifica a ciò funzionale della dislocazione delle imprese e della struttura della rete dei trasporti. A maggior ragione a essa sono connessi obiettivi e rapporti sociali (fattori ambientali, livelli di occupazione, creazione di bisogni e di abitudini, modi di vita e standards sociali) che non possono essere commisurati unicamente in termini di mercato e di bilancio. Nonostante i successi che nel passato, in condizioni di laissez faire, l'impresa capitalistica ha ottenuto nell'industrializzazione, è molto probabile che, in mancanza di una pianificazione, alcune forme di sviluppo non possano aver luogo affatto, a causa delle interdipendenze strutturali esistenti: così lo sviluppo in un certo settore può non essere vantaggioso se non è sicuro che le necessarie forme di sviluppo complementari avranno luogo in un certo numero di altri settori. Inoltre, di fronte a certi tipi di ostacoli, il ritmo dello sviluppo, una volta avviato, è difficile da mantenere e di conseguenza la crescita si esaurisce. Per questi motivi negli ultimi decenni la pianificazione è divenuta, in una forma o nell'altra, parte integrante del patrimonio di convinzioni di un numero sempre più ampio di paesi sottosviluppati.
Quando la maggioranza delle economie è in espansione, seppure in grado diverso, in pratica non è possibile scindere i problemi dello sviluppo da quelli dell'adeguamento equilibrato a un dato livello della domanda di consumo (si tratta, insomma, di tutti quei problemi che gli economisti hanno chiamato problemi di ‛ottimizzazione'). Ma, nella misura in cui questi ultimi hanno la precedenza sui primi, diviene utile, come si è visto, un grado notevole di decentramento, almeno al livello delle decisioni di dettaglio; di conseguenza, diviene utile inserire il meccanismo e l'influenza del mercato nella più ampia cornice delle decisioni macroeconomiche pianificate o dirette dal centro. In queste condizioni e in rapporto a questo tipo di obiettivo, l'eccesso di centralizzazione, riducendo la flessibilità delle decisioni e congestionando l'apparato incaricato di determinarle, può effettivamente ostacolare l'adeguamento e impedire ‛l'ottimizzazione', sia per quanto riguarda l'adeguamento della produzione alle richieste dei consumatori, sia per quanto riguarda la scelta più efficace dei metodi di produzione e di allocazione delle risorse.
Di conseguenza il centro originario del dibattito teorico sulla pianificazione si è notevolmente spostato ed è divenuto meno semplice. Nessuno o quasi degli economisti che discutono oggi di questi problemi sarebbe disposto ad accettare il puro e semplice ‟non possumus" di von Mises, se non altro perché nessuno o quasi di loro, sia nel mondo socialista che nel mondo capitalista, accetterebbe di porre in antitesi, come escludentisi a vicenda, pianificazione e mercato. Il dibattito si è spostato piuttosto sul problema di quale sia la combinazione più funzionale e meglio realizzabile di questi due termini, problema che può ricevere anch'esso una varietà di risposte diverse in condizioni storiche caratterizzate da un proprio livello di sviluppo. Non si può negare che il problema ricordato più sopra dei ‛milioni di equazioni' da risolvere, per prendere le decisioni e coordinarle consapevolmente, anche se non è stato risolto completamente, è stato però seriamente ridimensionato dall'invenzione dei calcolatori elettronici. Ma qui l'ultima parola va lasciata, forse, a Lange.
In quello che è stato probabilmente il suo ultimo intervento in materia, egli parla in questi termini del rapporto tra pianificazione e calcolatori (modificando almeno in parte le conclusioni delle sue precedenti proposte di decentramento): ‟I dirigenti di economie socialista hanno oggi due strumenti di contabilità economica. Il primo è il calcolatore elettronico [...], il secondo è il mercato [...]. L'esperienza mostra che per un grandissimo numero di problemi è sufficiente un'approssimazione lineare; di qui l'ampio uso delle tecniche di programmazione lineare [...]. Il calcolatore ha il vantaggio indubbio di una velocità molto maggiore. Il mercato è un servomeccanismo ingombrante e lento. Il suo processo di iterazione ha luogo con considerevoli ritardi temporali e oscillazioni e può non convergere affatto". Dopo aver affermato, d'altra parte, che ‟persino il calcolatore elettronico più potente ha una capacità limitata", Lange conclude che per la pianificazione dello sviluppo economico di lungo periodo il meccanismo di mercato è nettamente inferiore: ‟qui non bastano più i prezzi di equilibrio di mercato, è necessaria la conoscenza dei prezzi-ombra programmati per il futuro". ‟La programmazione matematica egli dichiara inoltre si rivela uno strumento essenziale per la pianificazione ‛ottimale' di lungo periodo [...]. La programmazione matematica accompagnata dall'uso dei calcolatori elettronici è diventata lo strumento fondamentale della pianificazione economica di lungo periodo, come del resto per la risoluzione di problemi di dinamica economica di estensione più limitata. In questo caso, il calcolatore elettronico non sostituisce il mercato: assolve una funzione che il mercato non è mai stato in grado di assolvere (O. Lange, The computer and the market, in Sociahsm, capitalism and economie growth. Essays presented to Maurice Dobb, a cura di C. H. Feinstein, Cambridge 1967).
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