Pianificazione
sommario: 1. Breve excursus storico. 2. Difetti del dirigismo del sistema sovietico di pianificazione. 3. La riforma del sistema iugoslavo. 4. Le idee di riforma in Cecoslovacchia. 5. Lo sviluppo della riforma in Ungheria. 6. Altri sviluppi del sistema socialista di pianificazione. 7. Tentativi di migliorare il sistema di pianificazione del socialismo reale. □ Bibliografia.
1. Breve excursus storico
L'evoluzione della pianificazione può essere descritta solo in rapporto all'andamento dell'intero sistema economico socialista: subisce infatti il condizionamento di tutti i processi economici e, dal canto suo, li influenza in modo determinante. Le condizioni necessarie per realizzare una pianificazione come quella che Stalin sviluppò in Unione Sovietica sono molto diverse da quelle esistenti nei paesi più piccoli, che sono caratterizzati da un mercato necessariamente ristretto e da una forte dipendenza dal commercio con l'estero.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il sistema economico socialista fu introdotto in parecchi paesi retti da governi comunisti. In fondo tutti questi paesi, soggetti all'influenza politica dell'URSS, ricalcarono, ai loro inizi, il modello del sistema economico sovietico e, così facendo, ne ripresero in primo luogo, in maniera acritica, il ‛dirigismo' nella pianificazione, con tutti i suoi errori e le sue insufficienze.
Tuttavia, in tutti i paesi socialisti vi sono state fasi iniziali durante le quali i difetti e gli inconvenienti del sistema sovietico di pianificazione non apparivano in modo così accentuato ed evidente come si rivelarono invece durante le fasi successive. Questa fase iniziale si può definire anche come la fase dello sviluppo ‛estensivo', per differenziarla da quella successiva, in cui si rese invece necessario uno sviluppo economico ‛intensivo' (v. Šik, 19683; tr. it., pp. 73 ss.).
Nell'ambito dell'economia socialista si definisce fase dello sviluppo estensivo quella fase in cui la crescita della produzione industriale si raggiunge prevalentemente con un rapido aumento dei fattori produttivi. Attraverso prelievi sui guadagni, e anche su gran parte degli accantonamenti di capitale attuati in tutte le imprese, e la concentrazione di queste risorse nelle mani dello Stato, si ottengono mezzi che possono essere utilizzati a vantaggio dello sviluppo pianificato degli investimenti nell'industria, particolarmente nell'industria pesante. In questo modo i mezzi di produzione (le capacità produttive) dell'industria, soprattutto dell'industria pesante, aumentano in modo straordinariamente rapido a spese, principalmente, dell'agricoltura e dei servizi. Anche la manodopera viene redistribuita, attraverso misure pianificate e dirigiste, a vantaggio della produzione industriale. La manodopera necessaria per l'industria viene prelevata anzitutto dall'agricoltura e tra le donne non occupate.
Per un certo periodo questo accrescimento pianificato ed estensivo dei fattori produttivi nell'industria rende possibile un incremento estremamente rapido della produzione industriale. In questa fase di crescita estensiva la propaganda ufficiale esalta solo i vantaggi del sistema sovietico di pianificazione, di cui vengono ignorati intenzionalmente i difetti, che sono invece presenti fin dagli inizi. I vantaggi consistono appunto nel fatto che, attraverso una redistribuzione pianificata delle risorse da parte dello Stato, si può raggiungere un certo livello di sviluppo più rapidamente di quanto si riesca a fare in un'economia senza pianificazione centrale.
Una crescita estensiva di questo tipo è possibile tuttavia soltanto fino a quando nell'industria possono aumentare rapidamente la manodopera e i mezzi d'investimento. Da un certo momento in poi non è più possibile continuare a sottrarre manodopera all'agricoltura (se non la si vuole completamente distruggere) e anche le riserve di manodopera d'altro tipo tendono a esaurirsi. Inoltre i mezzi d'investimento non possono più essere utilizzati solo a vantaggio dell'industria e quindi anche la sua crescita estensiva deve essere limitata. Da quel momento, per poter sostenere una crescita ulteriore della produzione nel suo complesso, diventano sempre più importanti i fattori di crescita intensiva.
Fattori di crescita intensiva sono anzitutto il progresso tecnico, che è alla base di un rapido incremento della produzione, nonché tutti quei metodi che conducono a uno sfruttamento più efficace dei fattori produttivi esistenti e alla riduzione delle perdite economiche non giustificate. Dal momento in cui diventa sempre più difficile la crescita estensiva e i fattori di crescita intensiva assumono importanza decisiva e questo avviene in momenti diversi nei singoli paesi - cominciano a manifestarsi con grande evidenza i difetti del dirigismo della pianificazione sovietica: anzitutto il fatto che con questo sistema di pianificazione non si riesce ad assicurare una crescita intensiva e il progresso tecnico e l'efficienza economica rimangono assai indietro rispetto ai ritmi di sviluppo dei paesi industriali a economia di mercato.
La breve esposizione critica che segue dei difetti del sistema sovietico di pianificazione, così come la descrizione della maggior parte dei tentativi di riforma che son stati fatti, servirà a dimostrare analiticamente come la pianificazione dirigista non sia in grado di sostituire con successo il meccanismo del mercato.
2. Difetti del dirigismo del sistema sovietico di pianificazione
L'elencazione dei difetti del sistema deve aprirsi con la descrizione delle carenze nelle informazioni che affluiscono presso l'ufficio centrale della pianificazione, che occupa una posizione decisiva nella pianificazione sovietica. Questo ufficio è costretto a lavorare sulla base di informazioni insufficienti e di conoscenze difettose, in quanto può ricevere i dati relativi alle prospettive di sviluppo solo dagli organi delle imprese e dei settori industriali; quindi in una forma molto sintetica, senza possibilità di verifiche puntuali e, salvo poche eccezioni, riuscendo a elaborare solo obiettivi di elevata aggregazione. Più oltre si vedrà perché, sull'altro versante, le imprese e i settori non hanno alcun interesse a fornire agli organi centrali informazioni realistiche sulle loro possibilità di produzione ottimale.
A causa delle informazioni incerte o deformate provenienti dalle imprese, l'ufficio centrale della pianificazione è costretto quindi a lavorare all'elaborazione del piano con forti condizionamenti.
1. Non può individuare quali potenziali cambiamenti qualitativi nella tecnica e nelle tecnologie produttive delle singole imprese e dei settori industriali sarebbero vantaggiosi e porterebbero a un miglioramento dell'efficienza produttiva (rapporto tra volume della produzione e costi degli investimenti, dei materiali e del lavoro).
2. Non può calcolare e confrontare la redditività di diverse alternative d'investimento, in quanto i piani relativi sono definiti senza calcolarne la redditività, solo in base alla copertura dei fabbisogni. In mancanza di un calcolo della redditività degli investimenti, può accadere che per ottenere un dato incremento dei guadagni si investa molto più del necessario, a scapito di un incremento dei consumi.
3. Essendovi migliaia di beni, non può programmare per ciascun bene il livello di produzione necessario per soddisfare i fabbisogni reali. Eccezion fatta per un numero limitato di beni più importanti, nei piani si stabilisce solo l'incremento relativo a vasti aggregati di beni, il che non garantisce l'effettiva copertura dei fabbisogni.
4. Non può stabilire il livello ottimale dei fattori di produzione (mezzi di produzione e lavoro) necessario per produrre singoli beni o gruppi di beni, e quindi nemmeno i costi di produzione ottimali. L'impiego di materiali, energia e lavoro utilizzati per raggiungere un dato volume di consumi risulta perciò inutilmente elevato.
Riassumendo si può dire che un organo centrale della pianificazione non è in grado di assicurare lo sviluppo ottimale della produzione dei singoli beni, attraverso cui soddisfare i bisogni dei consumatori (individui, imprese, enti), garantendo nello stesso tempo l'utilizzazione più efficiente dei fattori di produzione e il loro sviluppo qualitativo (v. Šik, 1973, pp. 130 ss.). Da parte loro le imprese, nelle quali i livelli di produzione devono essere stabiliti in termini concreti, non sono interessate a uno sviluppo della produzione efficace, innovativo e orientato secondo i bisogni, e nemmeno possono esservi costrette, appunto perché l'ufficio della pianificazione non dispone di dati concreti.
Per questo si tenta di stimolare le imprese a uno sviluppo ottimale della produzione, non solo con incitamenti politici e morali, ma anche con incentivi materiali. Non conoscendo però le possibilità di sviluppo ottimale della produzione nelle singole imprese, l'organo centrale della pianificazione può ricompensarle solo per il raggiungimento degli obiettivi produttivi inseriti nel piano in base alle informazioni ricevute dalle imprese stesse. L'ufficio della pianificazione, che non si fida delle informazioni trasmesse, aumenta e intensifica questi obiettivi, senza però poterli commisurare alle possibilità reali. Le imprese non sono interessate a uno sviluppo ottimale, come si è detto, perché sono state eliminate le motivazioni connesse al meccanismo di mercato, motivazioni che gli incentivi programmati non possono sostituire (ibid., pp, 69 ss.).
La soppressione dei meccanismi di mercato è stata effettuata per motivi ideologici ed è caratterizzata da tre aspetti salienti.
1. Al posto dei prezzi di mercato sono stati introdotti i prezzi amministrati, cioè stabiliti dallo Stato. Questi prezzi, fissati da un'autorità centrale di controllo, non possono riflettere il rapporto continuamente mutevole tra offerta e domanda, non sono il risultato di un confronto tra l'interesse dei produttori e quello dei consumatori, e non inducono i primi né a una ricerca del profitto nè a una copertura elastica della domanda.
2. La crescita dei redditi è stata separata dai risultati di mercato. I redditi delle imprese (salari e profitti) non dipendono dai risultati di mercato, ma dall'adempimento formale dei piani. Le imprese possono quindi raggiungere gli obiettivi globali del piano anche nel caso in cui la produzione non corrisponda alla domanda. Essendovi una forte eccedenza di potere d'acquisto non soddisfatto, esse possono senza difficoltà smerciare tutti i prodotti, anche quelli che non appaiono necessari e non sono qualitativamente soddisfacenti.
3. Non c'è alcuna concorrenza tra le imprese di uno stesso settore e la produzione si svolge quindi in condizioni di assoluto monopolio, in quanto le imprese sono sempre subordinate a un organo settoriale che divide tra loro i compiti produttivi. In tali condizioni le imprese non sono costrette né ad aumentare la loro efficienza né a progredire sul piano qualitativo e tecnologico. Esse tentano, al contrario, di massimizzare le entrate con un minimo di cambiamenti e di sforzi innovativi, ricorrendo anche alla mera produzione di scorte.
Il risultato complessivo di questo sistema di pianificazione è uno sviluppo della produzione che non è in grado di soddisfare la domanda e di eliminare le carenze dell'offerta. Questa realtà emerge chiaramente dalle file davanti ai negozi, dalle grandi perdite di consumi, dallo sviluppo del mercato nero, dalla corruzione e dai furti di massa nelle imprese. La scarsa efficienza economica ha per conseguenza che il consumo pro capite, sia privato che pubblico, nei paesi socialisti è continuamente inferiore rispetto a quello dei paesi che prima della rivoluzione socialista erano alloro stesso livello (v. Šik, Vergleiche..., 1985). Nonostante le scarse possibilità d'informazione, la coscienza di questi risultati negativi penetra tra la popolazione dei singoli paesi, provocando scontento e creando le premesse dei diversi tentativi di riforma.
3. La riforma del sistema iugoslavo
La Iugoslavia è stata il primo paese socialista in cui si è realizzata una fondamentale riforma del sistema economico, un sistema inizialmente ricalcato su quello sovietico, dal quale aveva ripreso, quindi, anche il modello di pianificazione che ne era parte integrante. Questa riforma non fu il risultato di una lunga preparazione teorica, ma dell'improvvisa rottura, nel 1948, tra il PC dell'URSS, seguito dalla maggior parte degli altri partiti comunisti, e il Partito Comunista Iugoslavo. Dopo la sospensione di tutte le forniture economiche (merci, crediti, tecnici, ecc.) alla Iugoslavia da parte dei paesi socialisti, la dirigenza politica iugoslava si vide costretta ad attuare, tra l'altro, una riforma del sistema economico capace di realizzare la mobilitazione di tutte le forze interne e lo spiegamento di una vasta iniziativa da parte delle imprese e dei lavoratori (v. Drulović, 1973, pp. 36 ss.).
Sulla base di una critica sistematica del socialismo staliniano, di carattere prevalentemente politico, si fece strada, a poco a poco, la concezione originale di un sistema socialista basato sull'autogestione e sui rapporti di mercato, un sistema in forte contrasto con il criticato sistema ‛statalista'. Gli iugoslavi trovarono nei lavori di Marx sulla Comune di Parigi delle conferme per le loro tesi su associazioni di lavoratori decentrate e autogestite. Queste ultime furono concepite in contrapposizione alle imprese amministrate dall'alto dalla burocrazia statale e all'assetto economico molto centralizzato e gerarchico che già Lenin aveva attuato (e che si fondava prevalentemente sulle idee di Engels in materia di statalizzazione). Questo sistema basato sul lavoro associato, spesso designato brevemente come economia di mercato socialista, esercitò ai suoi inizi una forte attrazione su tutte le forze riformiste dei paesi socialisti, nonostante i duri attacchi delle forze staliniane di quegli stessi paesi.
Nel sistema iugoslavo fu abolita la pianificazione centralizzata e dirigista perché si giunse alla conclusione che essa non permetteva uno sviluppo produttivo efficace e capace di soddisfare la domanda, e paralizzava altresì l'iniziativa dei collettivi di lavoro. Si tentò quindi di ristabilire il meccanismo del mercato, introducendo i prezzi di mercato e riconducendo lo sviluppo dei redditi all'andamento del mercato stesso, ma si conservò la proprietà socialista dei mezzi di produzione (non però nella sua forma statalista). In tutte le imprese (eccezion fatta per le piccole imprese private con meno di cinque dipendenti; v. Dobias, 1969, p. 76) i mezzi di produzione sono, secondo la Costituzione, proprietà di tutta la collettività e vengono dati in uso ai collettivi delle imprese autogestite (v. Horvat e altri, 1975, pp. 258 ss.). Le imprese non hanno solo il dovere di realizzare la più efficace utilizzazione dei mezzi produttivi, ma hanno anche un proprio interesse a farlo, perché possono appropriarsi e disporre dei profitti ricavati producendo per il mercato.
Al posto della pianificazione dirigista è stata introdotta una sorta di pianificazione ‛indicativa', con l'aiuto della quale si sperava di poter meglio coordinare lo sviluppo della produzione e la crescita dei fabbisogni, prevenendo così la formazione di rilevanti squilibri e di perturbazioni economiche. I piani economici sono elaborati contemporaneamente dalle imprese, oppure dagli organismi autogestiti, e dagli organi dello Stato (comuni, repubbliche, federazione), cioè dai cosiddetti ‛portatori primari' delle finalità del piano, con l'aiuto dei ‛portatori secondari' (camere di commercio o di altri settori produttivi, organizzazioni politiche e sindacali, ecc.; v. Kleinewefers, 1985, pp. 236 ss.). Questi piani assolvono una funzione sia di previsione che di coordinamento, attraverso i contratti e gli accordi stipulati tra i partecipanti al piano; allo stesso tempo costituiscono la base vincolante della politica economica dei governi sia della federazione che delle singole repubbliche.
I governi non possono imporre alle imprese né vincoli di produzione o di investimento, né forme prestabilite di ripartizione o di utilizzazione dei redditi. Come le altre organizzazioni politiche, essi possono certo raccomandare il perseguimento di determinati indirizzi, ma le organizzazioni autogestite sono le uniche responsabili delle decisioni in materia di produzione e distribuzione delle risorse. Questo vuol dire che, in ultima analisi, le organizzazioni autogestite stabiliscono anche quale parte delle loro entrate nette (detratte le tasse e gli altri contributi) debba essere impiegata per scopi collettivi (investimenti, fondi di riserva, consumi sociali) e quale invece debba essere destinata ai salari.
L'introduzione del sistema di mercato nell'economia iugoslava ha determinato nelle imprese una maggiore iniziativa e un accentuato interesse per il mercato stesso, che si sono manifestati in una diversificazione della produzione assai maggiore di quella che si è registrata nei paesi in cui si applica la pianificazione dirigista. Allo stesso tempo, però, i difetti di fondo del nuovo modello di pianificazione e della politica economica, e soprattutto le incoerenze nella realizzazione del meccanismo di mercato, hanno creato al paese gravi problemi economici.
Un grave limite della pianificazione e della politica economica iugoslava deriva anzitutto dal fatto che la ripartizione tra i redditi destinati al consumo e quelli destinati agli investimenti, così come lo sviluppo creditizio, non sono determinati in misura sufficiente dalla pianificazione centrale e dalla politica economica dello Stato (v. Šik, Vergleiche..., 1985, pp. 51 ss.). L'eccessiva decentralizzazione di questi processi ha avuto come conseguenza un abnorme aumento dell'inflazione (v. Dietz e altri, 1984, pp. 262 ss.). Una spinta al consumo eccezionalmente forte, e che non può essere frenata da nessun interesse opposto, induce le imprese ad aumenti esagerati di redditi e di prezzi.
La mancanza di una distinzione tra salari dei lavoratori e loro partecipazione agli utili è frutto di un condizionamento ideologico e deve essere considerata come un errore di fondo del sistema iugoslavo. Senza salari chiaramente definiti non può essere realizzato, nell'ambito dell'intera economia nazionale, l'importante principio ‛uguale salario per uguale lavoro', il che non può che essere considerato dai lavoratori come ingiusto. L'interesse, altrettanto necessario, per lo sviluppo dell'efficienza produttiva dell'impresa nel suo complesso dovrebbe essere garantito attraverso forme di partecipazione agli utili nettamente distinte dal salario. Attraverso una crescita pianificata dei salari e dei coefficienti di partecipazione agli utili si sarebbe potuto affrontare più efficacemente l'aumento dell'inflazione.
L'inflazione è aumentata ancora più rapidamente a causa della concorrenza insufficiente e dello sviluppo di tendenze monopolistiche. Attraverso un'espansione del credito non sufficientemente regolata dallo Stato (con accensione di crediti sia nazionali che esteri) si è continuato a incrementare esageratamente la massa creditizia e quella monetaria e si è pervenuti a un incremento dei redditi nominali notevolmente più rapido rispetto alla crescita della produzione reale, creando così le premesse per un'inflazione galoppante.
Per frenare l'inflazione si sono cominciati a praticare il congelamento e la regolamentazione dei prezzi (v. Dobias, 1969, pp. 86 ss.), condizionando così pesantemente il funzionamento dei meccanismi del mercato. In modo particolare, su questo meccanismo incide una protezione non ufficiale dei mercati delle singole repubbliche, dovuta al fatto che le imprese e gli altri enti acquistano merci prevalentemente nell'ambito della produzione delle rispettive repubbliche. La concorrenza così si riduce e si stimolano ulteriormente atteggiamenti monopolistici e tendenze inflazionistiche.
Conseguenze ancor più durature sui meccanismi del mercato ha avuto la politica di sovvenzioni largamente praticata dai governi delle repubbliche che, per paura della crescente disoccupazione, hanno aiutato e aiutano tutte le imprese afflitte da difficoltà economiche.
Le imprese iugoslave continuano a impiegare un gran numero di lavoratori superflui, mentre sono del tutto insufficienti gli investimenti idonei a determinare un progresso tecnologico che consenta un risparmio di forza lavoro. Allo stesso tempo, le cause principali della disoccupazione iugoslava sono: scarsa quantità d'investimenti destinati all'ampliamento della produzione, con i quali si potrebbero creare nuovi posti di lavoro, e insufficiente progresso tecnico, che permetterebbe invece alla produzione iugoslava di diventare più competitiva e di rendere di più, determinando anche in questo modo un aumento del reddito pro capite dei capitali da investire.
Le cause dell'insufficiente sviluppo degli investimenti, sia sul piano quantitativo che qualitativo, vanno ricercate nei due difetti del sistema, apparentemente opposti e già menzionati: a) troppo poca pianificazione e troppo poco controllo nella ripartizione funzionale dei redditi (divisione tra salari, utili e forme di redistribuzione, dai quali traggono origine i redditi finali di consumo e di investimento); b) troppo poca pressione sulle imprese da parte del mercato e della concorrenza.
In Iugoslavia, quindi, si consuma troppo in rapporto alle reali capacità produttive, così che le risorse effettive non bastano per realizzare maggiori investimenti. Questi vengono incrementati nominalmente, in modo artificiale, attingendo a un eccessivo volume di crediti (che porta solo ad accelerare l'inflazione), mentre in realtà sono inadeguati per creare quei nuovi posti di lavoro che sarebbero effettivamente necessari (v. Dietz e altri, 1984, p. 263). Per un altro verso gli organi burocratici dello Stato portano avanti grandi progetti d'investimento, dispendiosi ma poco efficienti, spesso eccessivi e non abbastanza ponderati, che non fruttano profitti adeguati e che, di conseguenza, alimentano anch'essi l'inflazione (v. Dobias, 1969, p. 100). L'attività imprenditoriale privata, che avrebbe certamente portato a uno sviluppo più efficace degli investimenti e della produzione, è invece frenata o resa impraticabile per motivi ideologici.
Pertanto le difficoltà si presentano sotto due aspetti. Da un lato si ha uno sviluppo troppo limitato o inefficace degli investimenti, che è da attribuire al fatto che la ripartizione autonoma dei redditi nell'ambito delle imprese permette partecipazioni individuali agli utili relativamente troppo elevate (anche perchè è possibile procurarsi i mezzi per gli investimenti in modo troppo facile, ricorrendo all'espansione inflazionistica dei crediti). Dove manca l'interesse capitalistico al profitto come contropartita agli interessi unilaterali per i salari e dove, di conseguenza, lo sviluppo degli investimenti diventa troppo lento rispetto allo sviluppo dei consumi, là dovrebbe intervenire una regolazione pianificata della crescita dei salari (politica dei redditi) per assicurare per via indiretta i capitali necessari per lo sviluppo degli investimenti. Nello stesso tempo per questa via si potrebbe, per mezzo della politica dei redditi, della politica creditizia e della politica monetaria, limitare l'eccedenza della domanda, cioè del cosiddetto ‛mercato dei venditori', e aumentare la spinta all'efficienza delle imprese.
Dall'altro lato un'introduzione non coerente del meccanismo del mercato determina uno scarso interesse delle imprese per l'efficienza produttiva. Per questo si sarebbe dovuto favorire una maggiore pressione della concorrenza sulle imprese, capace di determinare sviluppi tecnici più efficaci. Questo però richiede l'abbandono della politica di sovvenzioni generalizzate, per cui tutte le imprese deboli e arretrate vengono continuamente risanate. In questa prospettiva dovrebbe essere abbandonata anche la protezione dei mercati delle singole repubbliche e si dovrebbero introdurre misure più decise contro le forme di monopolio della produzione e della vendita. Allo stesso tempo, al posto di molte decisioni statali d'investimento, poco sicure in termini d'efficienza, dovrebbe essere incentivata l'attività imprenditoriale privata (come accade per es. in Ungheria). Infine - di pari passo con l'incoraggiamento della concorrenza e anche con la contrazione del mercato dei venditori - si dovrebbe nuovamente incrementare la libera formazione dei prezzi di mercato.
In conclusione, si può dire che la sottovalutazione della pianificazione funzionale della distribuzione, un'eccessiva decentralizzazione delle decisioni economiche, come anche alcune fondamentali incoerenze e mezze misure nell'introduzione del meccanismo di mercato hanno vanificato i potenziali vantaggi del sistema iugoslavo. Malgrado questi difetti di fondo, la riforma iugoslava ha indicato per la prima volta nuove possibilità di sviluppo del sistema economico socialista. Gli errori hanno certo impedito al sistema iugoslavo di diventare un esempio di modello socialista alternativo, ma la reintroduzione del meccanismo di mercato, l'autogestione e l'eliminazione della pianificazione dirigista hanno rappresentato punti di riferimento illuminanti per i tentativi di riforma di molti altri paesi socialisti.
4. Le idee di riforma in Cecoslovacchia
Lo sviluppo delle idee di riforma in Cecoslovacchia è caratterizzato anzitutto da una fase di preparazione teorica molto lunga, anche se la teoria non ha avuto poi modo di verificarsi nella prassi. La preparazione teorica di un nuovo modello economico socialista prese l'avvio, in sostanza, già nel 1958 e fu portata avanti, dal 1963 fino al 1968, attraverso il lavoro di un'apposita commissione di riforma. Anche dopo l'invasione militare della Cecoslovacchia e la conseguente repressione politica delle prime iniziative di riforma, con il ripristino del vecchio sistema di pianificazione dirigista, la teoria riformatrice fu ulteriormente sviluppata dagli economisti cechi emigrati all'estero.
Le idee di riforma cecoslovacche si muovono in parallelo con la riforma iugoslava, nel senso che anch'esse mirano a stabilire un collegamento tra pianificazione e mercato, conservando forme di proprietà prevalentemente socialiste. I riformatori cecoslovacchi hanno tentato però fin dagli inizi di imparare dalle carenze dello sviluppo iugoslavo e di evitare il prodursi di distorsioni connesse al sistema. Bisogna anche aggiungere che l'odierna critica dei difetti del sistema iugoslavo va molto più in profondità di quanto non si potesse andare nel 1968 e che, nel caso di un'attuazione pratica della riforma in Cecoslovacchia nel 1968, con ogni probabilità non si sarebbe riusciti a evitare una parte degli errori della riforma iugoslava. È stato comunque importante lo sforzo reale messo in atto per istituire un sistema aperto e introdurre una democrazia politica pluralista, condizioni che avrebbero facilitato la critica e il superamento degli errori individuati nell'ambito del sistema economico.
Le idee più importanti dei riformatori cecoslovacchi erano e sono tuttora quelle sotto elencate (v. anche Šik, Vergleiche..., 1985).
1. Eliminata la pianificazione dirigista, si deve passare a una pianificazione orientativa, designata anche come ‟pianificazione macroeconomica della distribuzione", che porti a scegliere democraticamente tra alcune opzioni alternative.
2. L'introduzione dei prezzi di mercato non può avvenire dall'oggi al domani, ma deve procedere gradualmente attraverso il ricorso a vari meccanismi di formazione dei prezzi (prezzi imposti dal centro, prezzi controllati, prezzi liberi).
3. Si deve introdurre una forma di concorrenza legata al mercato, adottando coerenti misure antimonopolistiche e approfondendo la trasparenza del mercato stesso.
4. Il commercio estero deve essere gradualmente liberalizzato, con l'obiettivo d'introdurre una valuta convertibile e il libero commercio delle divise.
5. La distribuzione dei redditi e lo sviluppo dei crediti e della massa monetaria devono essere regolati dal centro per evitare inflazione e crisi economiche.
6. Vanno sviluppati organi di autogestione all'interno delle imprese, scelti attraverso un confronto pluralistico e gestiti democraticamente attraverso gruppi di lavoro autonomi.
7. I fondi di partecipazione agli utili per i lavoratori devono essere disciplinati da norme di carattere generale e nelle imprese devono essere istituiti dei centri di gestione degli utili facilmente controllabili.
8. L'attività imprenditoriale privata va stimolata senza restrizioni per quanto riguarda il numero dei lavoratori impiegati, ma con un prelievo degli utili dalle imprese regolato indirettamente e attuato dagli imprenditori stessi.
La novità più importante nella strategia delle riforme è certamente costituita dalla pianificazione della macrodistribuzione, con una distribuzione regolata dei redditi e dello sviluppo creditizio, il cui scopo è anzitutto quello di impedire squilibri macroeconomici e oscillazioni cicliche congiunturali che provocano crisi economiche e disoccupazione di massa (v. Šik, Zur Problematik ..., 1985). Allo stesso tempo, però, si dovrebbe anche dare alla popolazione la possibilità di scegliere democraticamente, tra due o tre piani alternativi, un piano di sviluppo socioeconomico a medio termine. Per far ciò si dovrebbero elaborare diverse ipotesi evolutive dello sviluppo, con combinazioni differenti di obiettivi socioeconomici, quali, per esempio, un accrescimento dei consumi privati, un incremento nel soddisfacimento del fabbisogno pubblico, una certa crescita degli investimenti e della produzione, una riduzione dell'orario di lavoro e una nuova organizzazione del tempo libero, preservazione e miglioramento dell'ambiente, ecc. In quanto promossi e appoggiati da partiti politici diversi, questi progetti dovrebbero essere sottoposti al vaglio popolare in occasione delle elezioni politiche.
La pianificazione della macrodistribuzione avrebbe per le imprese solo un carattere indicativo e potrebbe essere realizzata mediante una politica economica chiara e coordinata: una politica fiscale, dei redditi, creditizia, monetaria e del commercio estero. Il meccanismo del mercato non verrebbe limitato da una politica economica di questo tipo; l'autonomia delle imprese nelle decisioni di investimento e di produzione sarebbe pienamente preservata e un rigoroso sostegno della concorrenza, attraverso opportuni interventi antimonopolistici, renderebbe tale meccanismo ancora più funzionale. Soltanto lo sviluppo dei salari medi, delle partecipazioni dei lavoratori agli utili e delle remunerazioni degli imprenditori (prelievi dagli utili), come pure la ripartizione dei crediti tra investimenti e consumi, sarebbero soggetti a una regolazione pianificata (politica dei redditi e politica creditizia), sempre in conformità del piano di macrodistribuzione democraticamente scelto.
Questo modello di un'economia di mercato democratica, umana e socialista può essere considerato come il risultato teorico dello sviluppo della riforma cecoslovacca: una possibile evoluzione in questa direzione è stata designata anche come ‟terza via". Nel corso di questi ultimi anni sono state portate avanti delle riforme che s'avvicinano agli obiettivi di questo modello o che ne sono in parte influenzate: si tratta in particolare delle iniziative riformatrici avviate in Ungheria e in Cina.
5. Lo sviluppo della riforma in Ungheria
La riforma ungherese tende a realizzare un modello economico simile a quello che perseguivano i riformatori cecoslovacchi fino alla repressione della ‛primavera di Praga'. La differenza più importante sta però nel fatto che in Ungheria, non da ultimo a causa delle esperienze fatte in Cecoslovacchia, non si punta ad attuare cambiamenti essenziali del sistema politico nè a introdurre forme di autogestione. Nel quadro del tradizionale sistema comunista a partito unico vengono realizzati mutamenti abbastanza sostanziali del sistema economico che però, appunto a causa degli ostacoli politici, in molti campi portano a compromessi incoerenti con il precedente sistema a pianificazione dirigista. Proprio alla luce dell'andamento politico si deve valutare la differenza tra gli obiettivi di riforma perseguiti o ufficialmente decisi e la prassi reale, sottoposta costantemente anche all'influsso delle forze burocratiche (v. Friedländer, 1984, pp. 74 ss.).
La pianificazione dirigista della produzione è stata ufficialmente abolita e le imprese devono programmare autonomamente i propri livelli di produzione e di investimento secondo le esigenze del mercato. Lo sviluppo autonomo degli investimenti sulla base dei redditi delle imprese è tuttavia ancora frenato dai prelievi relativamente troppo elevati effettuati dallo Stato; le decisioni statali d'investimento non riguardano solo i servizi sociali, ma anche la produzione per il mercato. Questo è considerato dai riformatori economici come un fenomeno di transizione dovuto al fatto che il sistema dei prezzi riflette in modo ancora insufficiente la realtà del mercato. In questo modo, però, si limita fortemente la responsabilità delle imprese rispetto a uno sviluppo autonomo della produzione orientato secondo le effettive richieste del mercato.
Una notevole indipendenza hanno raggiunto invece le cooperative agricole, che in molti campi sono completamente libere dai vincoli del piano e soprattutto non sono più soggette a rispettare determinati livelli di produzione e di vendita in natura. La produzione agricola e il livello di vita della popolazione delle campagne sono cresciuti in maniera notevole.
Si cerca di attuare un passaggio graduale ai prezzi di mercato utilizzando meccanismi differenziali di formazione dei prezzi (prezzi fissati dallo Stato, prezzi controllati, prezzi liberi): il criterio decisivo per la determinazione dei prezzi da parte dello Stato, che interessa la maggior parte dei casi, è dato dal rapporto con i prezzi praticati sul mercati occidentali. Nel nuovo sistema ‛competitivo' i prezzi sono assai più elastici di quanto non fossero con il vecchio sistema, ma la loro determinazione da parte dello Stato non riesce a riprodurre sufficientemente il reale rapporto tra l'evoluzione della domanda e dell'offerta sul mercato interno; inoltre, a causa della vecchia organizzazione statale monopolistica, solo in parte soppressa, anche la concorrenza sul mercato interno risulta troppo debole (v. Czege, 1984, p. 15; v. Friedländer, 1984, pp. 40 ss.). Le carenze nel campo degli investimenti, della formazione dei prezzi e della concorrenza hanno come conseguenza che i cambiamenti strutturali legati all'evoluzione della domanda, l'attività innovatrice e lo sforzo di efficienza produttiva non si sono ancora sviluppati in modo soddisfacente.
I problemi che esistono negli approvvigionamenti, le perdite di efficienza e soprattutto le difficoltà di esportazione e l'indebitamento estero determinano continue ricadute nei vecchi metodi burocratici di conduzione e di tutela statale e amministrativa delle imprese; tali metodi sono anche espressione degli interessi di potere della burocrazia, che non sono del tutto superati né all'interno dell'apparato statale né all'interno dell'apparato del partito. Nonostante queste difficoltà, le forze riformatrici cercano comunque nuove vie per stimolare la concorrenza, nell'intento soprattutto di aumentare la pressione del mercato per una maggiore efficienza produttiva delle imprese.
Nel campo della politica creditizia e dell'allocazione delle risorse sono state già realizzate, o sono in via di preparazione, importanti novità. Per accrescere la mobilità dei capitali, il sistema bancario è stato modernizzato con la costituzione di banche commerciali indipendenti interessate all'efficienza; sono state costituite società di leasing e anche determinate forme di società per azioni, come ad esempio società per azioni a responsabilità limitata, attraverso le quali si convogliano i risparmi verso lo sviluppo della produzione; il sistema del cambio è stato reso più flessibile. Queste e altre misure contribuiscono al migliore funzionamento del meccanismo di mercato.
Il sostegno all'attività imprenditoriale privata e alle imprese cooperative o a economia mista contribuisce a sviluppare la concorrenza, mentre la cooperazione delle imprese nazionali con quelle straniere si estende con successo; nella misura in cui crescerà la pressione del mercato dovrebbero diminuire parallelamente gli interventi statali. Particolarmente importante sarebbe la diminuzione delle sovvenzioni statali alle imprese in difficoltà, un fenomeno che in Ungheria riveste ancora dimensioni rilevanti. La convinzione fin qui radicata nelle imprese, che in caso di non redditività non saranno abbandonate dallo Stato, ha minato fortemente il loro sforzo di efficienza. Attualmente è però in corso di preparazione una legge che dovrebbe disciplinare i fallimenti e facilitare la chiusura delle imprese non redditizie.
Attraverso programmi a lungo termine e piani a medio termine la pianificazione ungherese tende a determinare alcune grandezze macroeconomiche (incremento del reddito nazionale, del consumo privato e pubblico, degli investimenti, del commercio con l'estero, ecc.) da raggiungere con l'aiuto degli strumenti della politica economica (senza contare le residue misure amministrative). A differenza di quanto avviene in Iugoslavia, in Ungheria si cerca di raggiungere determinati livelli nei consumi e negli investimenti utilizzando regole pianificate dal centro per la ripartizione dei redditi nelle imprese: attraverso un determinato meccanismo di calcolo, la crescita dei salari è legata al rendimento produttivo delle imprese; detratte le imposte, i contributi e le maggiorazioni salariali, i profitti netti possono essere utilizzati dalle imprese stesse per riserve e per investimenti (v. Friedländer, 1984, pp. 24 ss.).
Questo controllo indiretto dello sviluppo degli investimenti attraverso la regolazione della crescita salariale (e con questo, indirettamente, anche dei consumi privati) è uno dei presupposti fondamentali per una conduzione pianificata dell'economia e per la prevenzione delle crisi economiche. In Ungheria rimane problematica tuttavia la mancata distinzione tra salari e partecipazioni agli utili, giacché le quote di utili conteggiate sono direttamente aggiunte ai salari (secondo la formula salariale) e il livello dei salari nelle varie imprese deve, di anno in anno, andare sempre più alla deriva; non si distingue inoltre tra le necessarie differenze salariali tra le diverse professioni o attività e i risultati ottenuti dalle imprese sul mercato. In questo modo viene negato il giusto principio ‛lo stesso salario per lo stesso lavoro', il che può implicare per il futuro grandi difficoltà economiche. Una partecipazione dei lavoratori agli utili chiaramente distinta dal salario base e calcolata anno per anno in rapporto ai guadagni realizzati garantirebbe meglio il necessario interesse dei lavoratori alla maggiore efficienza delle imprese, senza ledere il principio della retribuzione secondo il lavoro.
Tra gli obiettivi dei riformatori ungheresi c'è anche quello di una democratizzazione delle imprese con una partecipazione dei lavoratori alla scelta dei dirigenti e una codeterminazione degli indirizzi aziendali a lungo e medio termine. Infatti, quando i lavoratori sono chiamati a sperimentare direttamente e concretamente, attraverso la partecipazione agli utili, le conseguenze delle scelte fondamentali o delle capacità di gestione dei managers, devono avere anche la possibilità di dire la loro sulla scelta o sull'allontanamento di questi ultimi e sulle decisioni fondamentali in merito allo sviluppo dell'impresa. I riformatori ungheresi sono consapevoli di questa realtà e i primi passi in questa direzione sono già stati fatti con la creazione di consigli d'azienda elettivi e con i diritti di cogestione o, nel caso di imprese fino a 500 lavoratori, di direzioni d'azienda elettive. Tuttavia l'opposizione della vecchia burocrazia ministeriale contro questa evoluzione è particolarmente forte.
Nonostante i persistenti vincoli burocratici, le incoerenze politiche e i molteplici residui dell'antica pianificazione dirigista, il modello di pianificazione socialista ungherese si deve considerare come quello che ha ottenuto il miglior successo. Le difficoltà che deve superare l'economia ungherese nel presente sono notevolmente minori di quelle iugoslave: esse sono causate non tanto dai difetti del sistema scelto, quanto dalle incoerenze già indicate, dalla concorrenza ancora troppo limitata e dalle attuali difficili condizioni sui mercati esteri. I riformatori ungheresi dell'economia, nella teoria e nella prassi, procedono con decisione sulla via intrapresa (v. Direttive..., 1985) e c'è da aspettarsi che saranno in grado se non interverranno contraccolpi politici - di superare molte delle difficoltà sopra menzionate.
6. Altri sviluppi del sistema socialista di pianificazione
Occorre distinguere tra due forme di sviluppo qualitativamente diverse del sistema socialista di pianificazione. Una prima forma in cui si cerca di eliminare l'errore fondamentale della pianificazione dirigista sovietica, cioè la sua incapacità di sostituirsi effettivamente al meccanismo del mercato, attraverso riforme miranti a reintrodurlo. Una seconda forma in cui si tenta, per motivi ideologici e di potere, di conservare la pianificazione dirigista senza il meccanismo del mercato, migliorandola però con piccole correzioni soprattutto di metodo o di carattere organizzativo.
Al primo gruppo appartengono le riforme già descritte, attuate in Iugoslavia e in Ungheria. A queste riforme s'avvicina anche, per quanto concerne alcuni dei suoi obiettivi, lo sviluppo della riforma cinese, che conserva peraltro a questo riguardo parecchi punti poco chiari. Questa riforma non sarà qui esaminata approfonditamente, sebbene rivesta un'immensa importanza politica non solo per la Cina, ma anche per il mondo intero, socialista e non. Essa, tuttavia, ha finora prodotto alcune forme di collegamento tra piano e mercato tali da suscitare il timore che gli eccessivi controlli esercitati sulle imprese per altre vie rendano impossibile un'effettiva affermazione della loro autonomia, guidata soltanto dal mercato.
In Cina si dovrà eliminare gradualmente dalle imprese il carattere dirigista del piano espresso in termini di economia naturale, mentre andrà stimolata la produzione delle merci ai prezzi di mercato (v. Risoluzione del Comitato centrale..., 1984); nello stesso tempo dovrà essere perfezionato il sistema di distribuzione e di controllo dei settori monetario e creditizio, in quanto l'economia finanziaria delle imprese risulta ancora oggi fortemente limitata. Oltre quanto viene prelevato attraverso le imposte, occorre raccogliere dalle imprese anche le quote di accantonamento e il denaro liquido per convogliarli in un nuovo sistema di banche - regionali, locali e d'impresa - e distribuirli sotto forma di crediti in base ai piani centrali e periferici. I piani elaborati non avranno più un carattere vincolante espresso in termini di economia naturale, ma saranno formulati secondo grandezze di valore. In questo modo i criteri d'efficienza, i tempi di recupero dei crediti, l'onere per gli interessi, ecc. potranno influire sull'assegnazione dei crediti stessi (v. Pillath, 1985, pp. 27 ss.).
Analogamente a quanto avviene in Iugoslavia, i piani devono essere rafforzati attraverso un sistema di accordi tra produttori e organi economici in merito alla gestione dell'economia, al commercio, alle banche e all'assetto finanziario; in questo sistema di accordi, tuttavia, gli interessi dei differenti poteri politici - regionali, locali e istituzionali - possono risultare più forti dei criteri di efficienza indicati dal mercato (ibid., pp. 40 ss.). Quando le banche non sono interessate, oltre che alla distribuzione degli utili ai propri collaboratori, anche all'assegnazione dei crediti secondo criteri di efficienza e non operano esse stesse in un regime di concorrenza, c'è il pericolo che la distribuzione dei crediti, e di conseguenza lo sviluppo della produzione, possano di nuovo per vie traverse e attraverso decisioni burocratiche prendere una direzione non conforme alle esigenze del mercato.
A prescindere da questi incerti meccanismi di pianificazione finanziaria, lo sviluppo dei rapporti di mercato in Cina si scontra ancora con forti ostacoli obiettivi (v. Scharping, 1984). In mancanza di una sufficiente ‛tradizione di mercato' le grandi imprese industriali, che si sono formate durante il periodo del socialismo reale, avranno bisogno di molto tempo prima di essere in grado di sviluppare una produzione effettivamente elastica secondo gli orientamenti del mercato. Anche il dispiegamento di una reale concorrenza richiederà tempi assai lunghi dato che le possibilità di trasporto e di comunicazione sono molto limitate e che il peso del commercio estero sul mercato interno è, per il momento, assai ridotto. Per tutte queste ragioni ancora per lungo tempo una quota relativamente importante della produzione dovrà essere assicurata facendo ricorso a rigide scelte di piano e a prezzi fissati dallo Stato.
Molto positiva e capace di stimolare il mercato è l'attività imprenditoriale privata che si sviluppa nell'ambito della produzione minore, dei servizi e del commercio, attività che in Cina sono fortemente sostenute. Questa situazione non contribuisce solo a un migliore approvvigionamento del mercato, ma anche a creare nuovi posti di lavoro. Particolare successo ha avuto poi la soppressione delle comuni agricole e la distribuzione dei terreni tra le singole famiglie contadine perché fossero utilizzati e coltivati secondo le loro autonome decisioni. I contadini devono fornire a prezzo fisso determinate quote di prodotto alle organizzazioni statali di commercio, ma possono utilizzare la produzione eccedente non solo per il consumo personale, bensì anche per venderla a prezzo libero sul mercato agricolo oppure alle organizzazioni commerciali. Ampio spazio è quindi concesso all'iniziativa imprenditoriale dei contadini e allo sviluppo di attività secondarie, il che porta a un rapido aumento dei redditi delle famiglie contadine.
Vale anche per la Cina - e in misura maggiore di quanto non avvenga per i paesi dell'Europa orientale - la constatazione che l'ulteriore sviluppo della riforma non dipenderà solo dai livelli di conoscenza, dal contesto tecnico-economico e dai quadri, ma anzitutto dalla futura evoluzione politica. L'opposizione delle vecchie forze burocratiche non è interamente vinta ed è assai probabile che esse riescano a sfruttare politicamente le inevitabili difficoltà che comporta il passaggio alla produzione per il mercato. Saranno quindi estremamente importanti gli interventi per prevenire le spinte inflazionistiche e l'aumento della disoccupazione senza ricadere però nelle vecchie pastoie burocratiche.
Questo è quanto si può dire a tutt'oggi a proposito delle riforme cinesi. Il loro inserimento tra le riforme del primo gruppo, quelle orientate verso il mercato, rimane ancora piuttosto incerto; perché il loro senso si chiarisca, bisognerà vedere se, in futuro, le imprese potranno prendere decisioni prevalentemente e autonomamente ispirate dalle leggi del mercato e se il mercato, sotto la pressione della concorrenza, diventerà un vero ‛mercato dei compratori'.
7. Tentativi di migliorare il sistema di pianificazione del socialismo reale
Non è possibile al momento dire molto a proposito del secondo gruppo di riforme, con le quali si tenta di migliorare la pianificazione dirigista pur conservandone la sostanza, in quanto i miglioramenti sono ancora molto modesti e non possono eliminare il difetto fondamentale di questo tipo di pianificazione mentre, al contrario, aumentano spesso ulteriormente le contraddizioni del sistema. Questi tentativi di riforma, pur con notevoli differenze, sono applicati in tutti gli altri paesi socialisti non ancora esaminati (URSS, RDT, Polonia, Romania, Bulgaria, ecc.).
La causa principale di tutti questi sforzi per tenere in piedi una scelta di pianificazione che escluda il meccanismo di mercato non è di natura scientifica, poiché in quasi tutti i paesi socialisti è nota e riconosciuta l'insostituibilità di tale meccanismo. Le posizioni di questo tipo, tuttavia, sono continuamente represse in quanto per la burocrazia di partito è in gioco un diretto interesse di potere a conservare il vecchio sistema di pianificazione nella sua sostanza organizzativa e istituzionale. Le carenze del sistema economico, tuttavia, sono talmente gravi che il dominio politico di questa burocrazia risulta sempre più insicuro e si è quindi costretti a realizzare continuamente piccoli cambiamenti nelle metodologie di pianificazione, nei modi d'incentivazione, nell'organizzazione delle imprese, ecc.
In Cecoslovacchia, per esempio, nel 1980 sono stati approvati una serie d'interventi per il miglioramento della pianificazione economica; tuttavia, poiché questi interventi non portarono all'eliminazione dei tradizionali difetti nella pianificazione e nell'attuazione del piano, il partito e il governo, nel 1984, hanno predisposto un altro documento sull'ulteriore sviluppo di quel complesso di interventi (v. Direttive..., 1984). Anche questa riforma però e destinata a non portare alcun cambiamento sostanziale, in quanto anch'essa poggia soltanto su un'enorme quantità di piccole modifiche degli indici del piano e degli incentivi, che non sciolgono i nodi fondamentali del sistema di pianificazione socialista, cioè la carenza di informazioni in cui si trova a operare il centro di pianificazione e l'orientamento non economico che continua a guidare gli interessi delle imprese.
Un primo esempio dell'inefficacia di queste modifiche si ebbe fin dal 1980 quando, con l'introduzione appunto degli interventi per il miglioramento della pianificazione economica, si assunse, al posto del ‛prodotto lordo', come indice principale della crescita della produzione e della produttività, il ‛prodotto netto', indicato come ‛rendimento proprio'. Dato che il prodotto lordo comprende anche il costo dei materiali e gli accantonamenti, le imprese, in passato, per realizzare gli obiettivi sempre più elevati del piano in ordine all'incremento del prodotto lordo (oppure della produttività del lavoro, calcolata sempre in riferimento a esso) preferivano prodotti ad alto costo di materiali, con sprechi sia di materiali che di investimenti. Con il nuovo indice, in cui dal prodotto lordo si detraggono i costi dei materiali e gli accantonamenti, non si favorisce più direttamente lo spreco di materiali, ma non si crea tuttavia nelle imprese alcun interesse diretto per una struttura produttiva adeguata ai bisogni. Le imprese produrranno quindi principalmente quei prodotti nei cui prezzi sono compresi margini di utile più elevati, dal momento che salari e profitti sono parti costitutive del prodotto netto (del nuovo valore creato). Poiché però i prezzi non sono prezzi di mercato e i margini di utile sono differenziati arbitrariamente e non riflettono l'evoluzione della domanda, i produttori continueranno a preferire prodotti che includono nel prezzo margini di utile più elevati e con i quali, quindi, potranno più facilmente corrispondere alle finalità del piano, indipendentemente dal fatto che tali prodotti siano o no utilizzati. Dato che esiste un ‛mercato dei venditori', essi non incontreranno comunque alcuna difficoltà per la vendita dei loro prodotti.
Tutto il problema, oggi come in passato, consiste appunto nel fatto che l'interesse dei consumatori a fronte dell'interesse dei produttori può affermarsi solo nel caso di veri prezzi di mercato. Già nel caso di forti monopoli e oligopoli, nell'economia di mercato occidentale, la capacità di affermazione degli interessi dei produttori nei confronti degli interessi dei consumatori aumenta fortemente. Quando poi esistono le condizioni di assoluto monopolio proprie del socialismo reale, non esistono prezzi di mercato e crescono gli obiettivi del piano, le imprese e le associazioni di imprese monopolistiche continueranno a produrre secondo il loro interesse unilaterale, senza che nei loro confronti si riescano a far valere gli interessi della società. In questo appunto consiste il vero dilemma, che nessuna riforma fino a oggi ha potuto risolvere dato che si è sempre continuato a reprimere il meccanismo del mercato.
Una molteplicità di piccole revisioni dei metodi di pianificazione ha realizzato effettivamente modesti e sporadici miglioramenti, ma questi non potevano impedire i ritardi dell'economia socialista nei confronti dell'economia di mercato sul piano dell'efficienza e del soddisfacimento della domanda. Solo quando attraverso determinate misure parziali è nato un interesse per il mercato e si è fatta sentire la sua pressione, le imprese hanno cominciato a comportarsi in maniera più razionale. Così, ad esempio, nella RDT, la conversione dei redditi in divise per le esportazioni verso l'Occidente e l'attribuzione di quote di divise alle imprese esportatrici, in caso di aumento delle esportazioni (v. Thalheim e altri, 1984, pp. 72 ss.), stanno determinando un certo interesse per il mercato e una produzione a esso rivolta un po' più efficiente; un'altra conseguenza, però, è che si trascura la produzione per il mercato interno in cui il meccanismo di mercato continua a non funzionare mentre sussistono le vecchie carenze in tema di approvvigionamento e di qualità.
Anche quest'ultimo esempio conferma che quando le imprese sono effettivamente condizionate dal mercato il loro interesse coincide con l'interesse della società. Soltanto un meccanismo di mercato molto perfezionato può portare quindi la produzione socialista ad aumentare la propria efficienza e ad adeguarsi ai bisogni; allo stesso tempo, però, una pianificazione-cornice, o pianificazione della distribuzione, con la relativa politica economica, dovrebbe contribuire a evitare le cicliche crisi economiche, la disoccupazione di massa e gli sviluppi inflazionistici che tormentano l'economia capitalistica di mercato. Solo in questo modo anche la pianificazione socialista potrebbe ottenere una giustificazione economica e sociale, e portare a una forma di collegamento moderno tra piano e mercato.
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