PIATTO (fr. assiette, plat; sp. plato; ted. Teller; ingl. plate, dish)
Comunemente è il vaso dove si mangiano le pietanze (nella forma plurale la voce comprende anche la scodella, più propria per la minestra, il vassoio, ecc.). Se ne ha di legno, di peltro e stagno, di metalli nobili, di ceramica. A sagoma circolare (quando ovale si dice vassoio e in certi luoghi anche fiamminga), formata da un disco piatto di fondo (negli esemplari ornamentali anche con umbone), al cui orlo sono saldate una o più successive corone circolari della stessa materia, strette e di varia concavità e inclinazione ("cavetto", "tesa"), sì da risultarne un basso recipiente atto a contenere il commestibile o altro che vi si ponga.
I Romani lo dissero patina, differenziandolo dalla lanx, che è men profonda e che, appesa a una sospensione e messa in bilico con un'altra diede origine alla bilancia. Essi ebbero piatti di più sorta e dimensioni, di uso comune e rituale (grandis cum sigillis ac simulacris Deorum, Cicerone, I err., 6), distinti, però, dalla patera o tazza, di uso religioso, in diminutivo patella (v. patera).
Giovenale (Sat., IV, 132) deride Vitellio, consigliandolo a farsi seguire anche in campo dai figuli, perché possano fabbricare sul posto le enormi stoviglie richieste dalla sua voracità (un piatto colossale per un enorme pesce gli sarebbe costato un milione di sesterzî). Ma altri esempî si hanno, anche in privati, di siffatte grandigie: così del trageda Esopo, amico di Cicerone, si ricorda un simile oggetto del valore di centomila sesterzî; e già segno di gran ricchezza negli eredi di Aristotele era parso il rinvenimento di settanta piatti nella di lui successione.
Ma la forma e la natura del piatto dovevano essersi già costituite da più secoli per la relativa semplicità di lavoro che esse richiedono alla ruota del vasaio. Cipro, Creta, lo stile geometrico attico ce ne dànno esemplari fin dal sec. VIII a. C.; del successivo sono i caratteristici piatti rodioti, decorati a zone parallele anziché a sistema raggiato; e l'oggetto si è perpetuato nelle ulteriori manifestazioni (talora con evidenti richiami a prototipi metallici) della ceramica etrusca (cfr., ad es., i grandi piatti di terracotta rossa) e della ceramica italiota con ornati dipinti e anche in rilievo, come nel genere detto "caleno" e in quelli dello "stile di Gnazia".
Il Medioevo ebbe spesso piatti di legno.
Più copiosa, insieme con altre forme di stoviglie, dové essere la produzione dei piatti di peltro e di stagno; produzione che, specie in Francia, durò fino a metà del Settecento, cioè fino al generalizzarsi dell'uso dei servizî di porcellana e, più tardi, di terraglia. La fabbricazione in siffatte materie si connette per il lato ornamentale all'arte degli orefici e degl'incisori di metallo (v. briot). Le opere, però, divennero rare con la destinazione di quel metallo ad altri usi. Da noi questo tipo fu abbandonato più presto che altrove. Già lo nota il Montaigne nei ricordi del suo viaggio in Italia (1380-81), lodando le nostre stoviglie di terra in confronto con quelle francesi di stagno, anche perché, come confermava Ulisse Aldrovandi settant'anni dopo "più gustevoli per lo mangiare".
A metà del Cinquecento, il nostro trattatista dell'arte del vasaio, Cipriano Piccolpasso ci espone i nomi delle varie fogge e dimensioni del piatto di maiolica del suo tempo. L'uso si era imposto da noi dappertutto, anche nelle grandi case.
Il nuovo costume trovò conforto anche nelle statuizioni suntuarie. Pio V, ad es., nel 1566, emanando ordini contro il lusso dei prelati, fra l'altro dispose che non dovessero più mangiare in argento, ma in piatti di maiolica. Due anni più tardi il duca di Urbino Guidobaldo II donò al medesimo pontefice "una bellissima credenza de piati de majolica historiati con figure, de' quali Sua Santità si vuol servire più che delli argenti" (Bibl. Vat., Cod. Urb. lat., 1040, c. 487 v.). Le "credenze" furono allora riccamente composte (vedi, per es., il servizio ducale dello stesso Guidobaldo, in parte al Museo nazionale di Firenze) e il piatto vi ebbe parte dominante, sia nella specie del tagliere (piano, per tagliarvi le vivande), sia del tondino (con cavetto un po' fondo atto a tener la scodella) o nella forma più vasta del piatto "da carne", ecc. Nel Settecento l'adozione della "chicchera" fece sì che il piattello venisse talora foggiato anche con un profondo cavetto, in cui quasi s'incassava la parte inferiore dello snello e alto recipiente.
Accanto al piatto di uso vero e proprio vi fu quello "da pompa", destinato ad essere appeso alla parete in confronto con altre opere di pittura, di cui si venivano adornando i nuovi "gabinetti", di curiosità e di arte: ce ne fanno fede le grandi cornici intagliate dove furono racchiusi e i due fori praticati a crudo nella "chierica", o zona in piccolo rilievo al verso del piatto, per passarvi la funicella di sospensione.
L'imitazione dei prototipi metallici fece dare il nome di bronzi alle ceramiche "abborchiate", ossia con ornamenti in rilievo, fra cui i grandi piatti stemmati dei secoli XVII e XVIII.
Quanto alla decorazione, nelle prime fasi di produzione fin verso il Cinquecento, si può notare una netta distinzione tra il fondo e la tesa (canone faentino): quello, destinato alla composizione; questa, all'ornato "a grottesche", poi a "raffaellesche", (v. maiolica), però con una sorta di equilibrio cromatico e tonale fra le due parti. Quando il genere "ad istoriato" prese voga, l'obbedienza a questo canone fu spesso trascurata e la composizione si distese su tutta la superficie del piatto, orlo compreso (canone urbinate), senza che il pittore si preoccupasse di deformare l'espressione lineare e prospettica della figurazione.