Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’impresa diventa nelle moderne economie monetarie di produzione una sorta di organismo autonomo dal patrimonio e dal potere arbitrario del suo fondatore. Le sue dimensioni e l’efficienza dipendono dalla grandezza del mercato di sbocco per le sue produzioni, dalle capacità e dalle dimensioni dei mercati finanziari e dalle norme che regolano il mercato del lavoro. Nasce progressivamente una spinta all’espansione dimensionale delle imprese che si proiettano sui mercati esteri e fordismo e taylorismo diventano definizioni che evocano la dimensione degli apparati produttivi come tratto dominante della modernità industriale. La flessibilità diventa la regola e la dematerializzazione delle organizzazioni e delle relazioni interindustriali diventa il paradigma dominante.
La rivoluzione tecnologia che consolida lo sviluppo economico europeo, tra il 1700 e il 1800, si manifesta in un contesto di estrema frammentazione degli Stati nazionali. L’ambiente economico e il regime di regole che disciplinano i mercati si presentano eterogenei e segmentati. Ma la circolazione delle idee e dei capitali, che si è imposta nei due secoli precedenti, bilanciano e compensano le forze che potrebbero rallentare la nascita di imprese come entità autonome dalla persona fisica del loro fondatore. La dimensione di un’impresa dipende dalle dimensioni del mercato in cui essa opera, secondo un principio enunciato da Adam Smith osservando i tratti e i caratteri della divisione del lavoro che dava luogo alla sostituzione delle organizzazioni artigianali, in cui il singolo lavoratore governa e controlla i propri strumenti di produzione, con l’industria manifatturiera moderna, in cui l’impresa diventa un’organizzazione complessa. Un’organizzazione che appare dotata di un patrimonio finanziario proprio e distinto da quello dei soci, ma anche di puntuali capacità e competenze e di un insieme di attività reali – i mezzi di produzione – che rappresentano la base materiale dei processi produttivi.
A questo insieme di risorse finanziarie, umane e materiali si deve aggiungere un sistema di regole gerarchiche, che disciplinano la combinazione tra quei mezzi di produzione e le risorse umane che lavorano per l’impresa. L’impresa moderna, in opposizione alla dimensione artigianale dei processi lavorativi, deve, insomma, essere considerata come un insieme complesso, nel quale si ritrovano: un fascio di contratti tra attori, titolari di interessi eterogenei e per certi versi conflittuali; un regime di governo, che assegna ad alcuni il compito di coordinare e dirigere il lavoro di altri; una netta separazione tra il patrimonio dei finanziatori e quello proprio dell’impresa stessa. L’impresa, insomma, diventa, nelle moderne economie monetarie di produzione, quelle in cui convive la dimensione tecnologica dell’industria con un regime di scambi generalizzati e una diffusa presenza di intermediari finanziari, una sorta di organismo autonomo dal patrimonio e dal potere arbitrario del suo fondatore.
In questa nuova prospettiva le dimensioni e l’efficienza dell’impresa dipendono dalle dimensioni del mercato di sbocco per le sue produzioni, dalle capacità e dalle dimensioni dei mercati finanziari e dalle norme che regolano il mercato del lavoro. Agli inizi del XX secolo gli Stati Uniti si dotano, per primi, anche di un’autorità, indipendente dall’ordinamento statale, che disciplini il regime della competizione nel vasto mercato interno di cui dispone il Paese. La presenza di una entità che debba difendere il regime di competizione tra le imprese, una autorità antitrust, che si oppone al potere dei monopoli, deve realizzare due finalità di interesse pubblico: il controllo delle dimensioni dell’impresa che risultino rilevanti in relazione a quelle del mercato ovvero all’abuso nell’esercizio dei poteri che derivano da quella dimensione significativa. Nasce, in questo modo, una spinta oggettiva all’espansione dimensionale delle imprese americane, che si proiettano sui mercati esteri per evitare di essere sanzionate dalla disciplina antitrust sul mercato interno.
Altre forze convergono verso l’espansione delle imprese americane in direzione di un’organizzazione multinazionale, capace di coprire contemporaneamente mercati collocati nell’ambito della intera scena economica mondiale. Da una parte le tecnologie diventano sempre più complesse e impongono un’elevata dimensione degli investimenti fissi, cioè indipendenti dalla scala di produzione della singola impresa. D’altra parte la dimensione di quegli investimenti spinge a un’estensione della scala di produzione realizzata attraverso la frammentazione estrema del ciclo di lavorazione e la ripetizione ricorrente, per ogni lavoratore, di piccole e parcellizzate operazioni che si collocano in un processo del quale il singolo individuo non riesce a percepire e a condividere la razionalità complessiva. Questa nuova organizzazione del lavoro viene indicata con il nome di taylorismo dal nome, Taylor, di uno dei suoi massimi ideatori e promotori nel campo degli studi di gestione aziendale. Al nome di Taylor, e a questa organizzazione in cui la dimensione del capitale sottomette e comprime i comportamenti dei singoli individui, ci si riferisce spesso anche utilizzando un aggettivo che discende dal nome di un grande industriale americano degli anni Trenta: Henry Ford. Fordismo e taylorismo sono definizioni che evocano la dimensione degli apparati produttivi come tratto dominante della modernità industriale. Ne deriva una strana conclusione: un’impresa piccola, confusa con la persona e il patrimonio del suo proprietario, fondata sulla elasticità e la versatilità delle capacità dei suoi collaboratori, viene considerata per molti decenni come una sorta di citazione filologica del passato remoto, uno stadio intermedio che deve necessariamente evolvere verso le modalità organizzative e finanziarie della grande impresa fordista. Nel 1973 Ernst Friedrich Schumacher, uno studioso tedesco, ribalta per la prima volta questo punto di vista e afferma in un libro dal titolo elequente che small is beautiful, “piccolo è bello”. In effetti, e per un lungo periodo, dagli anni Trenta agli anni Settanta del XX secolo, la rigidità delle moderne tecnologie mette in secondo piano il valore potenziale della flessibilità organizzativa.
Con l’attenuarsi di quella rigidità, prima, e con la successiva esplosione, poi, della terza rivoluzione industriale, quella delle telecomunicazioni e delle tecnologie dell’informazione, la flessibilità diventa la regola, e la dematerializzazione delle organizzazioni e delle relazioni interindustriali diventa il paradigma dominante. Il gigantismo industriale rappresenta, tuttavia, la forma dominante sia nell’economia americana che in quella sovietica nella prima metà del Novecento. Entrambe quelle economie, pur nel diverso approccio alla politica economica, orientata a una pianificazione di Stato in Russia e al regime di mercato negli Stati Uniti, devono accentrare il controllo di complessi sistemi industriali, la cui dimensione risulta necessaria per conseguire la scala di produzione che sia capace, sostenendo il costo dell’ammortamento degli ingenti investimenti fissi, di rendere efficiente la dimensione dei costi unitari per le singole merci prodotte.
Le grandi industrie delle nazioni europee si adeguano al modello fordista ma, a differenza di quelle d’oltreoceano, non dispongono né di mercati finanziari così sviluppati né di autorità per la disciplina della competizione. Banchieri e industriali controllano i mercati europei molto più pervasivamente di quanto avvenga nel mercato internazionale e sul grande mercato domestico degli Stati Uniti. L’Europa dovrà fare i conti con la disciplina della competizione e i mercati finanziari solo dopo la seconda metà del secolo scorso.
Le imprese europee, di conseguenza, crescono durante il XX secolo alimentandosi di capitali finanziari grazie alla cointeressenza di interessi tra le grandi famiglie, che ne detengono il controllo, e le banche nazionali. Esse si fondano spesso sulle commesse che vengono dall’espansione della spesa delle pubbliche amministrazioni domestiche piuttosto che sulle esportazioni verso mercati esterni al perimetro dello Stato di appartenenza. Questo diverso regime di contesto crea, nella struttura industriale delle economie europee una forte polarizzazione, che in alcuni casi assume dimensioni davvero estreme, come nell’economia italiana, tra poche grandi imprese e una moltitudine di piccole imprese familiari la cui dimensione, patrimoniale e organizzativa, si confonde spesso con quella della famiglia proprietaria.
Istituzioni imprenditoriali, come le grandi imprese, e mercati finanziari non sono necessariamente i catalizzatori della crescita nella dinamica imprenditoriale del vecchio continente durante il XX secolo. Almeno fino a quando, con la fine della guerra fredda, non prenderà corpo una progressiva integrazione delle economie europee nel più ampio mercato unico globale. Questa singolarità spinge l’economia industriale europea anche verso un’analisi puntuale del contesto territoriale, in cui si realizza la crescita dell’impresa, e non solo verso la strategia settoriale di espansione dell’apparato produttivo.
Un importante punto di riferimento per questo approccio è stato certamente il lavoro di un economista italiano, Giacomo Becattini, e la sua reinterpretazione del distretto industriale: una categoria descrittiva della dinamica della manifattura nel Regno Unito che si deve al lavoro di Alfred Marshall. Riconsiderare questa possibile radice analitica delle politiche per lo sviluppo locale è molto interessante, anche perché, di fronte al rallentamento della capacità espansiva dell’industria italiana negli ultimi dieci anni, si è sviluppato un serrato confronto sulla possibile compatibilità tra queste forme di organizzazione distrettuale della produzione, l’intensità e la fenomenologia della competizione alla scala del mercato mondiale. Secondo Becattini “l’idea di Marshall è questa: data – ma non definita rigorosamente – l’area di diffusione (a district) di un certo settore, l’aumento della domanda consente una maggiore articolazione in fasi produttive, ognuna delle quali può essere svolta con un massimo di economicità in un piccolo stabilimento. In questa visione a ‘ogni aumento di produzione’ – durevole naturalmente – corrisponde, come pretende Sraffa, ‘una maggiore localizzazione dell’industria’ nel senso che più unità vengono a insistere su una stessa area. Quale che sia l’utilizzabilità di questa spiegazione dei rendimenti crescenti nel quadro della teoria del valore in regime di concorrenza perfetta […] questa rielaborazione del principio smithiano secondo cui la divisione del lavoro è limitata dall’ampiezza del mercato, ci appare come una brillante anticipazione del noto saggio di Allyn Young nonché di una parte consistente della più recente letteratura sullo sviluppo economico”.
Becattini rivisita la contiguità, e le economie esterne che essa determina per le imprese che si trovano in quella condizione, come un fattore di vantaggio competitivo perché consente una tempestiva e poco costosa trasformazione della scala della produzione in presenza di un aumento durevole della domanda. Lo switch tra le due scale di produzione, grazie alla contiguità tra un certo numero, variabile, di piccole imprese, elimina i costi di irreversibilità dovuti alla trasformazione di costi variabili in costi fissi, che si determinerebbe quando il ricorso a subfornitori dovesse essere sostituito da un allargamento dell’impresa principale.
L’elasticità gestionale, implicita nel “distretto industriale”, cioè nella fidelizzazione di relazioni di fornitura reciproca e di integrazione tra imprese contigue sotto il profilo della destinazione territoriale e della natura della produzione, si traduce in un vantaggio competitivo e impatta sia sulla teoria dello sviluppo che sull’analisi del regime di competizione vigente sui mercati.
Nel trapasso al XXI secolo la ICT (Information and Communication Technology) ridimensiona la esclusiva valenza della contiguità territoriale come fattore capace di restituire elasticità alla gestione industriale mentre la globalizzazione, integrando i mercati domestici, alza la soglia necessaria per adeguare le dimensioni dell’industria leader a quelle del mercato.
Dal punto di vista della politica economica la logica territoriale del distretto è venuta assumendo un carattere singolare, che trascende anche la originaria dimensione della economia industriale in cui Marshall ne aveva individuato i caratteri di un’esternalità positiva e possibile della produzione. La politica economica ha progressivamente individuato nella creazione intenzionale di simili esternalità, del distretto o della filiera produttiva, una misura capace di allargare la dimensione competitiva delle imprese locali e di favorirne la crescita e l’affermazione sui mercati, rafforzando il nucleo produttivo di un territorio, il sistema delle imprese, e creando le premesse di una dilatazione del reddito pro capite e del benessere locale rispetto ad altre aree di più tradizionale e antica industrializzazione nell’ambito delle economie europee. Se questa politica regionale di sviluppo produce capitale fisso sociale, e induce la diffusione di conoscenze che rafforzano la produzione locale di capitale umano, allora realizza contestualmente i traguardi della coesione e della competizione perché genera sia una riduzione dei divari interni alle regioni europee che un rafforzamento della capacità competitiva per le aree deboli promuovendone, nel lungo periodo, anche la ulteriore capacità endogena di espandersi. Sono evidenti le relazioni logiche che legano politiche di sviluppo, dal carattere regionale, a una percezione dell’industria locale come un “distretto”. In pratica le politiche regionali di sviluppo ritengono di potere creare le esternalità positive che daranno luogo a una morfologia organizzativa, di tipo cooperativo e reciprocamente contrattuale, all’industria locale piuttosto che a una configurazione ordinata a criteri di carattere gerarchico.
Una politica di sviluppo, fondata sulla creazione di condizioni che consentano l’espansione della dimensione unitaria dell’impresa come chiave di volta della creazione di industrie competitive, utilizza, al contrario, strumenti affatto diversi. Essa richiede un regime di dazi protettivi, o di diffusi incentivi finanziari di carattere automatico, e non esclude forme esplicite di partnership tra finanza pubblica e fondi privati per dare vita a imprese emblematiche (campioni nazionali) da proporre al nuovo teatro competitivo della globalizzazione.
Nel primo caso – le politiche regionali – si ritiene di dovere supportare la coesione sociale per favorire l’emergere di una nuova classe dirigente capace di gestire la produzione di esternalità che rappresenteranno incentivi reali diffusi capaci di restituire capacità di competere all’industria localizzata nel territorio. Nel secondo caso, con le strategie nazionali per le imprese e la creazione di grandi infrastrutture alla scala nazionale, si ritiene di creare le condizioni, di carattere fiscale, e di sostituire la partnership diretta dello Stato allo screening dei mercati finanziari per dare luogo a imprese nazionali di dimensioni adeguate rispetto alla scala dei mercati mondiali di riferimento. Queste grandi imprese nazionali, supportate da una dote altrettanto nazionale di realizzazioni infrastrutturali, riceverebbero una ulteriore dote di incentivi reali che si cumulerebbe con quella rappresentata dagli incentivi fiscali e finanziari ricevuti.
Se si osservano queste due politiche da una prospettiva mutuata, come accade sovente oggi negli studi di economia e finanza, dal linguaggio della termodinamica, si deve concludere che, nel primo caso, la comunità locale, con la sua dote di capitale fisso sociale e di capitale umano, viene a essere considerata una nicchia ambientale dal basso livello di entropia, ovvero come un contenitore di fenomeni economici chiuso nel quale si può ridurre, introducendo informazione, il livello di entropia. Nel secondo caso, le politiche per una strategia nazionale dell’industria, sono le stesse imprese a essere considerate nicchie dal basso contenuto entropico, grazie alla protezione fiscale e infrastrutturale che esse ricevono dall’intervento pubblico.
Le due opzioni di politica industriale scontano, entrambe, un’evidente sottovalutazione della relazione tra mercati finanziari, imprese e tassi potenziali di crescita. Entrambe sembrano accusare il medesimo limite operativo: assumere la dimensione del mercato unico europeo come quella di un mercato autoreferente e immunizzato dai traumi esogeni derivanti dalla crescita di nuovi competitori all’esterno del mercato europeo e dall’impatto del clima di competizione che essi alimentano alla scala globale. Entrambe, infine, sembrano trascurare gli effetti fiscali redistributivi del surplus prodotto dagli eventuali incrementi di efficienza maturati nell’ambito dei sistemi di impresa: sia che quegli effetti debbano essere ottenuti mediante politiche di carattere regionale che grazie all’applicazione di politiche dal carattere strategico e nazionale.
Alla politica regionale, che privilegia il territorio, potrebbe essere addebitata, infine, una debole attenzione verso i mercati finanziari, il rilievo oggettivo delle capacità imprenditoriali e la sottovalutazione dei processi di integrazione economica in corso alla scala mondiale. La politica di carattere strategico nazionale presenta limiti analoghi e, per certi versi simili: la sovrastima degli effetti generati da operazioni di cooperazione-collusione tra interessi pubblici e interessi privati; la sottovalutazione della implicita forza competitiva dei new comer sulla scena internazionale; la sottovalutazione degli effetti sanzionatori che i mercati finanziari internazionali possono porre in essere nei confronti di Stati nazionali che colludano troppo esplicitamente con disegni e politiche di carattere dichiaratamente protezionistico.
Un punto di equilibrio tra la scala e gli strumenti dell’intervento, di conseguenza, dovrebbe essere ricercato anche tenendo conto dell’impatto della globalizzazione sulle economie regionali e del ruolo, che nella dimensione domestica come in quella internazionale, ricoprono i mercati e gli intermediari finanziari.