Pickpocket
(Francia 1959, bianco e nero, 74m); regia: Robert Bresson; produzione: Agnès Delahaie; sceneggiatura: Robert Bresson; fotografia: Léonce-Henry Burel; montaggio: Raymond Lamy; scenografia: Pierre Charbonnier.
Alcune frasi del diario di Michel, cancellate, ma in modo che si possano ancora leggere. Una dice: "Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto percorrere per giungere fino a te". Lo strano cammino è quello del furto: Michel, giovane intellettuale parigino senza lavoro, sembra provare una soddisfazione perversa, quasi erotica, a rubare, a sottrarre portafogli e orologi alla folla che si accalca nella metropolitana, all'ippodromo di Longchamp, alla Gare de Lyon. Ogni colpo riuscito lo riempie di soddisfazione, e Michel non si ferma né davanti alle esortazioni dell'amico Jacques (che cerca di trovargli un lavoro) né per i moniti del commissario di polizia che lo tiene d'occhio. Michel si sente quasi un superuomo quando adopera con successo tutta la sua destrezza, solo, o insieme ad altri due complici, che gli insegnano i trucchi più sofisticati. Con tutto ciò, vive miseramente in una stanzetta che è una topaia, e non va quasi mai a trovare sua madre, che trascorre i giorni sola e ammalata (una volta ha derubato anche lei) assistita da una ragazza di nome Jeanne, e che finirà per morire senza poterlo rivedere. La polizia gli tende una trappola, in cui sembra quasi che Michel voglia cadere: a Longchamp deruba un poliziotto e viene arrestato. In prigione, riceve la visita di Jeanne. Ormai, Michel si rende conto di amarla. La sua voce fuori campo ripete la frase che avevamo visto scritta all'inizio sul diario: "Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto percorrere per giungere fino a te".
Come mai Robert Bresson decide, nel 1959 (subito dopo aver concluso Un condamné à mort s'est échappé), di girare un film il cui protagonista è un ladro, uno che sfila i portafogli dalle tasche o dalle borsette della gente che affolla le stazioni del metró o la Gare de Lyon? Di Michel, il ladro, a Bresson interessano soprattutto due cose: da un lato, l'erotismo latente dei 'giochi di mano', dall'altro, la solitudine, il necessario isolamento cui il suo mestiere lo costringe proprio mentre è costretto a mescolarsi alla folla. Benché simile, esteriormente, a migliaia di altri viaggiatori della metropolitana, da loro lo divide una specie di marchio invisibile, lo stigma d'una diversità. Egli si mescola tra loro, rimanendone estraneo, come una specie di alieno ‒ preferisce lavorare da solo, dopo un iniziale tirocinio con due complici. Della sua attività quasi si vanta, anche con il commissario di polizia, cui regala, in segno di sprezzante superiorità, il libro di George Barrington, The prince of pickpockets. Ciò non toglie che lo tormenti la disperata consapevolezza del proprio totale isolamento (piange al funerale della madre), e alla fine forse si salverà, ricevendo il dono insperato della Grazia, sotto forma della ragazza Jeanne che malgrado tutto l'ama, e va a trovarlo in prigione. Nessun soprassalto mistico, tuttavia, benché il diario tenuto da Michel rimandi a Le journal d'un curé de campagne (Diario di un curato di campagna, 1950) di Bernanos. I riferimenti sono semmai a Dostoevskij, se pensiamo a Michel come a un Raskolnikov non assassino.
Il film racconta le imprese di un borsaiolo, e Bresson non sarebbe Bresson se non filmasse con scrupolosa esattezza tutte le fasi delle sue imprese, rappresentate quasi in tempo reale. A causa del particolare tipo di abilità richiesta, qui non è però il piano-sequenza a predominare, tanto meno la macchina fissa e le inquadrature a figura intera, quanto il montaggio, la successione sapiente di dettagli isolati e accostati. Per rendere credibile un borseggio cinematografico, occorre infatti una condizione analoga a ciò che lo rende possibile nella realtà, vale a dire l'elisione dello sguardo (del derubato, dei presenti, al limite del ladro stesso, che finge di guardare altrove, mentre le sue mani lavorano). Isolando i dettagli delle dita che si insinuano nelle borsette delle donne, nelle tasche dei pantaloni e delle giacche, e sfilano i portafogli (o gli orologi) con grazia e leggerezza suprema, la macchina da presa di fatto li rende invisibili a tutti, salvo che agli spettatori, i quali si trovano inconsciamente (o consapevolmente?) a seguire il borseggio con trepidazione, augurandosi che nessun incidente improvviso venga a turbare l'impalpabile scivolamento. Per questo, qualcuno ha fatto riferimento a Jean Genet, al suo Journal du voleur. Si è anche parlato di 'poesia delle mani'. Michel Estève riporta in proposito alcune dichiarazioni di Bresson: "La straordinaria abilità delle mani, la loro intelligenza! Mi sembra di ricordare di aver letto una frase di Pascal che cominciava così: 'L'anima ama la mano'. L'anima di un borsaiolo, la mano di un borsaiolo. C'è qualcosa di meraviglioso in questa destrezza. Non avete mai colto il turbamento che crea nell'aria la presenza di un ladro? È inspiegabile. Ma il cinema è appunto il dominio dell'inesplicabile. […] Vorrei fare un film di mani, di sguardi, di oggetti, eliminando tutto ciò che è teatro". Nella sequenza alla Gare de Lyon, dove Michel agisce sincronicamente insieme a due complici, il furto diventa in effetti arte, balletto, coordinazione millimetrica di movimenti e gesti, virtuosismo di montaggio ‒ ma la solitudine di Michel non viene intaccata, il suo disperato isolamento risalta anche quando è con l'amico Jacques, e specialmente quando torna a casa, nella sua stanzetta dostoevskiana quasi senza mobili (un letto, un buco nel muro, coperto dallo zoccolino, per nascondere la refurtiva). Martin Lassalle, non attore ma 'modello', secondo la tipologia bressoniana, offre a Michel il suo volto chiuso, cupo, impenetrabile, come se di lui, indipendenti da lui, vivessero veramente soltanto le mani.
Interpreti e personaggi: Martin Lassalle (Michel), Marika Green (Jeanne), Pierre Leymarie (Jacques), Jean Pelegri (ispettore), Kassagi (iniziatore), Pierre Etaix (complice), Dolly Scal (madre di Michel), Sophie Saint-Just, César Gattegno.
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