Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il tema della concordia universalis è molto caro a Pico, ed è in correlazione a tale questione che meglio si comprendono i suoi studi cabalistici. Nelle sue opere Pico affronta la teoresi su Dio, consegnata alle pagine del De ente et uno; la teoresi sul mondo, divulgata dall’Heptaplus; e la teoresi sull’uomo, proposta nell’Oratio de hominis dignitate. Il processo intentato contro Pico si conclude con una condanna decretata contro le Conclusiones e l’Apologia.
Figlio di Gian Francesco Pico (conte di Mirandola e Concordia) e di Giulia Boiardo (zia del poeta), Giovanni Pico della Mirandola si forma in diverse città italiane e non. A Bologna egli compie (senza vero interesse) studi giuridici, conseguendo nel 1477 il dottorato in diritto canonico. Nel 1479 Pico si reca allo Studio di Ferrara, dove, accostatosi alla retorica, alla poesia, alla filosofia e alla teologia, frequenta Ludovico Carbone, Rodolfo Agricola, Niccolò Leoniceno, Battista Guarini e conosce Ludovico Bigo Pittori, Girolamo Savonarola e Tito Vespasiano Strozzi. Fra 1479 e 1480 si sposta poi a Firenze, attratto da alcuni dei più noti rappresentanti della cultura umanista: Ficino, Poliziano e Gerolamo Benivieni. Fra 1480 e 1482 Pico è allo Studio di Padova, dove inizia lo studio dell’aristotelismo scolastico e dell’averroismo, sotto la guida di Nicoletto Vernia, Agostino Nifo ed Ermolao Barbaro. Condivide inoltre gli studi e l’esercizio del poetare con alcuni allievi del Vernia, come Girolamo Ramusio, Girolamo Donato e Tommaso Medio. In questi anni tra le persone che maggiormente conquistano la fiducia di Pico figura certamente il medico Elia del Medigo, che, oltre a tenergli corsi privati sul pensiero di Averroè, lo inizia anche alla conoscenza dell’ebraico e della cabala. Tra il 1482 e il 1483 Pico frequenta lo Studio di Pavia, seguendo corsi di retorica, interessandosi alla tradizione delle calculationes e perfezionando lo studio del greco. Alla fine del 1485 si trasferisce a Parigi, dove frequenta corsi di teologia in Sorbona.
Ispirato a una nuova immagine della sapientia, il progetto speculativo di Pico è volto a trovare la chiave di accesso alla verità unica, che si svela e insieme si nasconde nelle sue infinite espressioni. Matura così l’idea della “filosofia della concordia”. Numerosi pensatori sono chiamati a tesserne la difficile trama, al fine di promuovere la pace fra gli uomini e la concordia religiosa, e una visione della ricerca filosofica che, pacificando le divergenze, possa coordinare, integrandoli, i pensieri di Platone e di Aristotele, di Averroè e di Avicenna, di san Tommaso e di Duns Scoto.
A coronamento di questo disegno di una sapienza universale figura il ricorso all’esperienza cabalistica. Forte dello studio della lingua ebraica e caldaica, con l’aiuto dell’ebreo convertito Flavio Mitridate (fl.seconda metà del XV sec.), Pico si cimenta con entusiasmo nella lettura dei testi cabalistici, che considera suprema chiave di interpretazione della Scrittura e del mondo. Con la sua segreta esegesi, la cabala recupera tutte le forme del sapere alla sua unità prima ed essenziale. Contiene infatti l’altra rivelazione, quella misteriosa e segreta per gli iniziati, attraverso la quale si sarebbe scoperta la chiave di lettura della realtà e trovato il metodo per ridurre a unità tutte le fedi, tutte le dottrine e tutti i linguaggi. La cabala è perciò intesa come la forma più alta e più pura di gnosi, la sola vera sapienza segreta, il supremo punto di incontro tra la sapienza cristiana e la rivelazione, tra le dottrine dei filosofi e l’assoluta manifestazione della verità eterna e immutabile.
Un primo fulcro della speculazione di Pico è la teoresi su Dio, approfondita nel De ente et uno (redatto fra il 1490 e il 1491 e pubblicato postumo), a partire dalla ricostruzione di una delle più spinose controversie della metafisica occidentale, quella della preminenza dell’ente sull’uno. Dedicato ad Angelo Poliziano e occasione di un’animata discussione polemica con il peripatetico Antonio Cittadini , questo scritto mira a conciliare le tesi dei platonici a favore della preminenza dell’uno sull’ente e le argomentazioni aristoteliche a sostegno della piena convergenza ente-uno. Al fine di dimostrare la consonanza delle due prospettive, Pico sviluppa un’accurata trattazione del concetto di ente, inteso non soltanto come ciò che è opposto al nulla, ma come ciò che partecipa all’essere. Secondo Pico, infatti, l’ens è un concreto, vale a dire ciò che è tale per partecipazione all’astratto, mentre l’esse è un astratto, vale a dire ciò che è tale di per sé, un assoluto-subsistens-transcendens che, partecipato dall’ente, lo fonda e lo trascende. Queste riflessioni ontologiche hanno immediati riscontri di natura teologica.
Precisando quanto aveva già sostenuto in opere precedenti (la trascendenza ineffabile di Dio del Commento alla canzone d’amore di G. Benivieni) e anticipando alcuni spunti di opere successive (il concetto del super-intelligere divino dell’Heptaplus), Pico spiega che Dio, in quanto Ipsum Esse , trascende l’ ens e in quanto Ipsum Esse subsistens è uno. Ne deriva, di conseguenza, la tesi che l’uno trascende l’ente. Si può infatti comprendere l’essenza di Dio solo pensandola in termini di assoluta unità, al di là del molteplice e del concetto stesso di ente: se Dio è al di là di ogni realtà definita e definibile, in un certo senso, è dunque un non ente, un super ens. La conoscenza di Dio così acquisita, evidentemente, non ne esaurisce il mistero. Questa teologia negativa è infatti anche una theologia eminentiae, dove l’impotenza dell’intelletto a conoscere Dio è però compensata dalla potenza dell’adesione che può unire l’uomo alla sua causa originante.
Giovanni Pico della Mirandola
Dio è l’uno superiore all’ente
De ente et uno
L’ente ha l’aspetto di un nome concreto; si dice infatti nello stesso modo l’essere e l’ente, il cui astratto appare questo termine di essere, in modo che si dice ente quello che è partecipe appunto dell’essere, come si dice lucente quel che partecipa della luce e veggente quel che ha la capacità di vedere. Se dunque consideriamo questo preciso significato dell’ente, negheremo che quell’essere appartenga non solo a ciò che non è o che è niente, ma a ciò che è a tal punto, che è lo stesso essere, che è da sé e per sé, per la cui partecipazione sono tutte le cose, a quel modo che non diremo esser caldo non solo quel che è privo di calore, ma lo stesso calore. Tale è Dio, che è la pienezza di tutto l’essere, che solo è da sé e dal quale soltanto, senza intermediari, tutte le cose vennero all’essere. Per questa ragione, dunque, diremo veramente che Dio non è, ma è sopra a ciò che è e qualcosa di superiore all’essere, onde, avendo Dio l’appellativo di uno, confesseremo anche esser l’uno superiore all’ente.
Pico della Mirandola, Scritti vari, a cura di E. Garin , Firenze, Vallecchi, 1942
Il rapporto fra l’Esse e gli entia è discusso nell’Heptaplus de septiformi sex dierum Geneseos enarratione (1496). Dedicata alla teoresi sul mondo, quest’opera offre un’esposizione allegorica del racconto mosaico della creazione, il cui senso riposto sarebbe svelato dalla cosmologia filosofica.
Creato da Dio (che è uno e unico), il mondo è anch’esso uno, ma è l’uno del e nel molteplice (uno di un’unità statica e dinamica insieme). Al mondo intellettuale o angelico (realtà spirituali) si affiancano quello celeste (corpi sopralunari) e quello sublunare. Ogni mondo possiede in grado potenziato o depotenziato quel che si trova negli altri: si può dunque parlare di una mundorum mutua continentia, di una totale armonia tra cielo e terra e di quella sympathia rerum che è oggetto di studio della magia naturale. Questa scienza, osannata per la sua efficacia nella prima fase della produzione pichiana, viene poi pesantemente criticata, insieme all’astrologia, nelle Disputationes adversus astrologiam divinatricem.
Un quarto mondo coincide con l’uomo, quel medium mundi di cui Pico discorre sia nella Oratio de hominis dignitate sia nell’Heptaplus, esaltandolo come magnum miraculum . Nell’Oratio la grandezza dell’uomo dipende dalla sua libertà. L’essere umano si differenzia dagli astri (pur intelligenti) e dagli angeli (pur superiori) poiché viene costituito arbitro del proprio destino. Nell’Heptaplus l’uomo è dipinto come signore del creato empirico: assemblando in sé la natura sensibile, quella intellettuale e lo spirito, è sintesi riassuntrice di tutti gli stadi del creato. Termine del mondo angelico e principio di quello elementare, immagine dell’indefinita-infinita natura divina, l’uomo è un vivente dalla natura mutevole, indeterminato e capace di autodeterminarsi: è dunque libero proprio perché posto nelle condizioni di autoaffermarsi e di trasformare la propria indeterminazione in autodeterminazione. Correttamente intesa, la dignitas hominis non deriva primariamente dalla centralità dell’uomo nel mondo, non dipende soltanto dal suo dominio sulla creazione e neppure dalla sua libertà come tale. Consiste certo nella libertà, ma in una libertà che può e deve attuarsi in una tensione verticale verso una meta non creaturale. Le vie per arrivare a Dio sono plurali: differenti nel contenuto, ma isomorfe nella struttura tripartita e accomunate dal fine (P. C. Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, 2000). La grandezza dell’uomo risiede pertanto nella capacità di portare a compimento un itinerario che dal disciplinamento morale, attraverso l’esercizio della contemplazione e nella logica dell’amore, conduca all’identità col divino e alla somma felicità. Quest’ascesa sapienziale, che si attua attraverso la dialettica, la filosofia naturale e la teologia, deve garantire il raggiungimento della pace universale. La dignità umana è dunque una scelta consapevole di riavvicinamento all’ordine dell’amore universale; è una partecipazione autentica al Sommo Bene di cui la felicità naturale, offuscata dal peccato, non è che ombra.
Giovanni Pico della Mirandola
La perfezione e l’imperfezione dell’uomo
Heptaplus, Expositio V, cap. VI
Noi invece cerchiamo nell’uomo una nota che gli sia peculiare, con cui si spieghi la dignità che gli è propria e l’immagine della sostanza divina che non è comune a nessuna altra creatura. E che altro può essere se non il fatto che la sostanza dell’uomo (come affermano anche alcuni Greci) accoglie in sé, per propria essenza, le sostanze di tutte le nature e il complesso di tutto l’universo? […]. E questo non possiamo dire di nessun’altra creatura, angelica, celeste e sensibile. C’è poi, tra Dio e l’uomo, questa differenza: che Dio contiene in sé tutto, come principio di tutte le cose, mentre l’uomo contiene in sé tutto come termine medio di tutte le cose, d’onde deriva che in Dio tutte le cose sono con una perfezione più elevata che non in se stesse; mentre nell’uomo esistono con una perfezione maggiore le cose inferiori e subiscono invece una diminuzione le cose superiori a lui.
Pico della Mirandola, Scritti vari, a cura di E. Garin , , Firenze, Vallecchi, 1942
Le Conclusiones: la disputa romana, il processo e la condanna
La pace tra gli uomini come condizione della sinfonia del cosmo, nell’unità che di tutti gli spiriti faccia una cosa sola, è uno dei temi più frequentemente discussi nella produzione di Pico. Disponendosi all’incessante ricerca della verità unica, nel teorizzare la sua idea di filosofia della concordia, Pico non si limita a vestire i panni dell’ explorator , ma aspira a presentarsi anche come un disputator.
Celebrativa del valore assoluto della libertà umana, l’Oratio de hominis dignitate, non a caso, è concepita come prolusione alla disputa romana: un convegno di dotti che, nelle intenzioni di Pico, avrebbe dovuto riunirsi a Roma per discutere il suo progetto di concordia universale, teorizzato nelle Novecento Tesi (o Conclusiones).
Stampato presso la tipografia del Silber il 7 dicembre del 1486, l’opuscolo si divide in due parti: la prima, composta da 400 tesi (di fatto 402), divise in sette gruppi, sottopone alla discussione le dottrine delle varie correnti filosofiche e teologiche rappresentate negli studia, nei libri e nelle dispute del tempo; la seconda serie, di 500 (di fatto 497) tesi, divise in 11 gruppi, espone la personale posizione teorica o esegetica di Pico.
Sul progetto filosofico di Pico aleggia un forte sospetto. Nemmeno la discussione sulle sue tesi, inizialmente incoraggiata dalle autorità ecclesiastiche, riesce ad arginare la diffusa ostilità nei confronti del conte. Le Conclusiones vengono quindi rinviate all’esame di una commissione d’inchiesta, formata da sei vescovi, due generali di Ordini religiosi e otto esperti fra teologi e canonisti. Il breve Cum ex iniuncto officio (20 febbraio 1487), emanato da papa Innocenzo VIII, specifica le modalità di intervento sulle tesi di Pico in questi termini: le proposizioni che, per effetto della loro formulazione, sembrano dissonanti dalla fede cattolica e avere sapore di eresia devono essere esaminate, alla presenza del conte, rispettando rigorosamente le formalità del diritto canonico; le proposizioni dubbie ed equivoche devono essere chiarite in modo da non poter più essere intese in senso erroneo e contrario alla fede; quelle che, per inaudita novità di termini e capzioso cumulo di parole, sembrano avvolgere, in oscurità e vanità, non si sa quali significati, devono essere riformulate con parole semplici. Nella prima decade del mese di marzo la commissione invita Pico a rimettere in discussione le sue affermazioni, ma, giudicando insufficienti le spiegazioni da lui fornite, procede alla condanna di sette tesi e dichiara di dubbia ortodossia altre sei tesi. Le 13 proposizioni vengono tutte condannate con motivazioni che ne attestano la maggiore o minore gravità: opposte alla tradizione filosofica o teologica, pericolose, scandalose, offensive delle pie orecchie, aventi sapore di eresia, eretiche, proclivi agli errori dei filosofi pagani, favorevoli alla pertinacia dei giudei, inclini ad arti e pratiche pericolose, estranee o nemiche della fede cristiana (G. Di Napoli, Giovanni Pico della Mirandola e la problematica dottrinale del suo tempo, 1965).
Il 5 giugno 1487, accusato di aver disatteso alla sentenza del papa, di aver aggiunto nuovi scritti e di essersi valso dell’appoggio di teologi imprudenti, Pico viene processato per eresia. Col breve Superioribus mensibus del 6 giugno papa Innocenzo VIII istituisce un tribunale di Inquisizione, mentre Pico giura di sottostare all’eventuale giudizio di condanna che venga espresso. Con la bolla Et si iniuncto nobis (4 agosto 1487) il papa emana l’ordine di arresto immediato di Pico e proibisce sotto pena di scomunica la stampa e la lettura delle Conclusiones e dell’Apologia, intimando a chi le possieda di bruciarle entro 30 giorni. La bolla papale viene però promulgata soltanto il 15 dicembre 1487. Arrestato a Lione il 6 gennaio 1488 e venuto a sapere della bolla pontificia dell’agosto dell’anno prima, Pico provvede a bruciare subito tutti i libri e le carte che potrebbero comprometterlo.
Dettata dal tentativo di rispondere alle accuse mossegli circa l’inopportunità delle dispute, la sua giovane età, il numero enorme delle tesi, il fatto di meritarsi castighi, il fatto di essere mago e nuovo eresiarca della Chiesa di Cristo, la pubblicazione dell’Apologia (maggio 1487) da parte di Pico è un grave errore tattico. Il papa vi intravede infatti il segno dell’insubordinazione dell’autore e trasmette il dossier a un tribunale dell’Inquisizione. A dispetto della clausola finale della prefazione, dove sostiene di non volere altro che un esame più ampio e più sereno delle proprie dottrine, Pico denuncia la ruditas dei suoi giudici, la loro incapacità di comprendere le sue teorie, la loro mancanza di argomentazioni, la loro ignoranza delle regole della logica, la loro ostilità di principio, il loro uso abusivo di argomenti d’autorità (come gli articoli censurati da Tempier nel 1277). Di fronte a questa aperta contestazione, è indispensabile dimostrare che la sentenza papale non è frutto di ignoranza e di parzialità ma di una determinatio magistralis nel senso tecnico del termine, quindi di una decisione dottrinale che risolve in modo definitivo le questioni filosofiche e teologiche sollevate in modo temerario da un giovane tanto brillante quanto presuntuoso. La stesura della replica all’Apologia di Pico è opera di Pedro Garsias, già membro della commissione d’inchiesta, che redige le Determinationes magistrales contra conclusiones apologeticas Ioannis Pici (marzo 1489). Questo testo non conferma la tesi, largamente diffusa, secondo cui Pico fu vittima dei nominalisti, che si suppone regnassero all’Università di Parigi e alla curia romana. Non è infatti attestabile alcun rapporto stretto tra il nominalismo e Garsias, nel quale l’uso di alcuni strumenti concettuali propri della tradizione terminista si affianca al debito nei confronti della Summa de ecclesia di Giovanni da Torquemada, nemico dichiarato della teologia e dell’ecclesiologia occamista (L. Bianchi, Pierre Garsias, adversaire de Jean Pic de la Mirandole, entre nominalisme et via communis, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge, 74 (2007), pp. 85-108).
Succeduto a Innocenzo VIII il 26 luglio 1492, papa Alessandro VI istituisce una commissione d’inchiesta su tutto l’affare e ne documenta le tappe più significative con il breve Omnium catholicorum. Divisa in tre parti, questa bolla contiene una serie di disposizioni volte ad estinguere la causa: l’assoluzione del conte di Mirandola risale al 18 giugno 1493.