Giovanni Pico della Mirandola
Tesa in un breve arco di tempo, la vicenda di Pico sembra innervata sullo scarto tra l’originaria esaltazione della libertà umana e la tensione religiosa che anima gli scritti più maturi, e che la biografia curata dal nipote irrigidisce in radicale rigetto degli ideali passati. Marginali tanto nella lode di una libertà che rende l’uomo mediatore tra cielo e terra, quanto nella critica di un sapere mondano chiuso all’eterno, gli ideali civili a ben vedere vibrano nel fuoco di una riflessione che insiste sui tratti radicali della vicenda umana e configura originalmente temi consueti dell’Umanesimo fiorentino: dalla concordia tra ragione e scritture al rapporto tra provvidenza e destino.
Giovanni Pico della Mirandola nacque a Mirandola il 24 febbraio 1463. La sua formazione si sviluppò precocemente sul duplice fronte della letteratura e della filosofia: tra il 1477 e il 1478 studiò diritto canonico; nel 1479, a Ferrara, fu avviato agli studi umanistici da Battista Guarini. Un orizzonte di ricerca, questo, che Pico approfondì negli anni successivi a Firenze, dove conobbe Angelo Poliziano, Girolamo Benivieni e, probabilmente, Marsilio Ficino: una lettera composta in questi anni rivela del resto l’interesse di Pico per le tesi che il filosofo fiorentino si accingeva a illustrare nella Theologia platonica.
Il richiamo all’antica sapienza platonica confluì tuttavia in una esperienza di studi e ricerche aperta costantemente a tesi e tradizioni diverse: tra il 1480 e il 1482, guidato da Nicoletto Vernia, approfondì lo studio della filosofia a Padova; qui conobbe anche Girolamo Donà, traduttore di Alessandro di Afrodisia, e l’ebreo cretese Elia del Medigo, che lo avviarono alle dottrine dei commentatori medievali di Aristotele. L’interesse per l’aristotelismo scolastico lo spinse a un breve soggiorno a Parigi e animò, nel 1485, l’epistola indirizzata all’umanista Ermolao Barbaro e tesa in una serrata difesa della filosofia medievale. Rientrato in Italia, approfondì lo studio dell’ebraico sotto la guida di Flavio Mitridate; a Firenze, rinsaldò i legami con Poliziano.
La drammatica conclusione dell’avventura con Margherita de’ Medici – gentildonna sposata con cui Pico aveva tentato una fuga d’amore, a seguito della quale era stato arrestato – lo costrinse a ritirarsi tra Perugia e Fratta. Qui non solo iniziò a lavorare alle novecento tesi che intendeva discutere a Roma di fronte al collegio dei cardinali, ma, prendendo spunto da una Canzona composta dall’amico Benivieni, redasse il Commento alla Canzona d’amore di Girolamo Benivieni. Nel 1486 terminò le Conclusiones nonagintae e compose, come introduzione allo scritto, l’Oratio de hominis dignitate; nel dicembre del medesimo anno si recò a Roma per avviare quel congresso di filosofi e teologi che, secondo i suoi progetti, si sarebbe dovuto svolgere nel gennaio dell’anno successivo. Alcune delle tesi vennero però giudicate eretiche: Innocenzo VIII ne vietò la discussione pubblica e nominò una commissione di teologi per vagliarne l’ortodossia. La strategia difensiva subito avviata da Pico, che nel 1487 stese un’articolata Apologia, non fu sufficiente a evitare la condanna, sancita dal breve papale comminato il 5 agosto 1487. Pico lasciò l’Italia per rifugiarsi in Francia, dove venne però arrestato e trattenuto per breve tempo nel castello di Vincennes. L’intervento di Lorenzo de’ Medici presso Carlo VIII consentì al filosofo di rientrare in Italia. Tornato a Firenze nel 1488, riprese le fila di un programma culturale che intendeva indagare a fondo e illustrare il rapporto di continuità sotteso a tradizioni filosofiche diverse. Assistito da una cerchia di traduttori ebrei approfondì lo studio della cabala e intrecciò relazioni feconde con il filosofo ebreo Yōḥānān Alemanno, sul filo di una riflessione densa di suggestioni millenaristiche e profetiche e animata dalle discussioni con il medico Pierleone da Spoleto, anche lui acuto studioso della tradizione cabalistica e lettore appassionato di testi gioachimiti. Pur con cautela maggiore, Pico si confrontò di nuovo con i nodi teorici presentati nelle Conclusiones: nel 1489 pubblicò l’Heptaplus, commento allegorico al Genesi, dedicato a Lorenzo il Magnifico e teso a segnare la consonanza tra il testo mosaico e il pensiero di Platone e di Aristotele.
A partire dal 1490, la predicazione di Girolamo Savonarola andò a incidere sull’orizzonte di lavoro che Pico aveva definito attraverso studi lunghi e articolati: nel 1491 Pico pubblicò infatti il De ente et uno, nel quale la metafisica del Parmenide è asse di un ragionamento volto a illustrare il nesso che congiunge Platone e Aristotele, ma lavorò anche a un commento dei Salmi, in cui risaltano i caratteri radicali di un’esperienza interiore che trasfigura nel fuoco della tensione ascetica gli ideali di renovatio filosofica e che si riverbera con pari intensità nelle lettere scritte al nipote Giovan Francesco Pico della Mirandola. Da questa crisi discese altresì il progetto delle Disputationes adversus astrologiam divinatricem: un trattato ampio e articolato nel quale la persuasione di un nucleo originario di verità in cui convergevano la rivelazione cristiana e la sapienza ebraica e pagana si risolveva nella polemica intransigente contro il sapere corrotto degli astrologi, nelle cui previsioni Pico coglieva la più radicale negazione della libertà connaturata all’uomo. La morte, sopraggiunta prematuramente il 17 novembre 1494, gli impedì di concludere l’opera, che Giovan Francesco Pico riuscì tuttavia a pubblicare nel 1496, dopo un arduo lavoro sui manoscritti.
Nella Oratio de hominis dignitate Dio si rivolge ad Adamo con queste parole:
Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine (De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, 2004, p. 107).
In questo testo straordinario, destinato a grandissima fortuna, Pico propone un modello di eccellenza che implicitamente rigetta le tesi ficiniane, e la dottrina secondo cui la posizione intermedia dell’anima fonda l’indipendenza dell’uomo dai ritmi immutabili della natura e innerva l’ascesa destinata a culminare nella trasformazione in dio. A Pico, infatti, preme mostrare come la grandezza dell’uomo discenda da una radicale estraneità rispetto alla gerarchia ordinata di enti che scandisce il mondo naturale e definisce una volta per tutte il rapporto di ciascun individuo con l’immutabile essenza divina. Per questo si serve del suggestivo apologo di apertura per argomentare la natura incondizionata dell’uomo, che Dio affida, unico tra gli esseri creati, alla libertà di un arbitrio capace di plasmarne l’essenza. Nell’uomo, «opera di natura indeterminata», Pico coglie così il «grande miracolo» celebrato da Ermete Trismegisto: non solo perché estraneo ai limiti che ontologicamente circoscrivono l’esistenza e le operazioni degli altri enti, ma soprattutto perché nei molteplici destini aperti all’arbitrio umano è contenuta ugualmente la possibilità di farsi ‘vincolo’ e conciliatore del mondo. Ma questo, come segnala esplicitamente l’Oratio, significa che la vicenda dell’uomo si definisce nel rapporto con il mutamento:
Chi dunque non ammirerà l’uomo? Che non a torto nell’antico e nel nuovo Testamento vien chiamato ora col nome di ogni essere di carne, ora con quello di ogni creatura, poiché foggia, plasma e trasforma la sua persona secondo l’aspetto di ogni essere, il suo ingegno secondo quello di ogni creatura. Perciò il persiano Evante, là dove spiega la teologia Caldea, dice che l’uomo non ha una propria immagine nativa, ma molte estranee ed avventizie. Di qui il detto Caldeo, che l’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante (p. 109).
Introdotti da potenti immagini che assimilano l’uomo al «camaleonte» cangiante e che evocano, a poca distanza, la virtù metamorfica di Proteo e delle divinità acquatiche, i richiami al variare e al trascorrere delle immagini sono tutt’altro che originali: sostengono infatti, da Plotino in poi, il lessico stesso dell’esistenza sensibile. Pico li fa però risuonare in toni nuovi nel vivo di un discorso che proprio nelle molteplici «immagini avventizie» cui l’uomo liberamente si espone radica la metamorfosi decisiva, nella quale convergono, risolvendosi l’una nell’altra, riforma di sé e riforma del mondo. Quasi rovesciando i precisi rapporti insiti nell’ordine di natura, Pico rileva come le esperienze umane esprimano in forme meno compiute le forme superiori, mentre attribuiscono alle forme inferiori dignità e valore: nel ciclo delle metamorfosi avviate dalla libertà, alto e basso, perfetto e imperfetto si congiungono così e si intrecciano, in un equilibrio delicato e mutevole. Il cambiamento non è un perenne trascorrere di perfezione in perfezione, né si dissipa in vanitas indifferente: identifica, all’opposto, la dimensione in cui si dissolvono gerarchie consolidate, unificando, nel processo che indirizza l’uomo a farsi bruto, pianta, «puro contemplante» e «spirito più augusto», livelli dissimili dell’essere. Solo nella vicissitudine delle forme si annida così, per l’uomo, la possibilità di accedere a forme più alte di perfezione e di felicità.
Su questo punto, l’Oratio e le Conclusiones sono in perfetta sintonia: il primato dell’uomo si impone nella stretta relazione tra mutamento e libertà, quando l’uomo – come Pico sottolinea nel richiamo congiunto alla sapienza nel libro di Giobbe e al motto eracliteo – comprende come la pace scaturisca sempre dalla discordia e stringe così facoltà e passioni contrastanti con vincoli sempre più stretti, fino a farsi angelo e simile a Dio. Sul piano filosofico, la concordia del pensiero impone ugualmente di comprendere, e valorizzare, il nesso inscindibile tra sapienza e mutamento: la natura infinita della verità impone infatti, e legittima, una pluralità di vie e di linguaggi.
Dipanando questa linea di riflessione, le Conclusiones accordano posizioni e tradizioni distanti, mostrando come i singoli autori abbiano volta per volta curvato in forme particolarissime l’unica, originaria verità. Su questi temi Pico scava a fondo, e dissolve l’antitesi tradizionale tra Platone e Aristotele, Avicenna e Averroè, Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto per rivelare l’unità sottesa alle differenze: in questa rassegna rigorosa, cade tuttavia la persuasione di una catena unica e ininterrotta di poeti, teologi e filosofi destinati a custodire e trasmettere il vero in forme sostanzialmente omogenee. A questa immagine, cui le opere di Ficino davano ampio risalto, ma che inevitabilmente irrigidiva la vicenda del pensiero nel contrasto insanabile tra pia philosophia e vani cavilli, docta religio e superstizione, Pico contrappone invece il corso tumultuoso di una ricerca fluida, percorsa da tensioni mai perfettamente risolte, ma sorretta, alla radice, da un’ispirazione unitaria.
Incardinando nella libertà dell’uomo il movimento che rovescia una sorte finita nell’immagine della sapienza divina, il ragionamento di Pico tende inevitabilmente a porre in risalto i tratti radicali di una scelta che spinge oltre l’orizzonte mondano: questi temi, che certo l’Oratio modula in un contesto teorico saldo e organico, sono tuttavia presenti dall’inizio alla fine e accomunano testi diversi per natura e ispirazione. Risuonano infatti nei toni di maniera con cui si snodano i sonetti composti da Pico in gioventù e successivamente gettati alle fiamme per zelo religioso (G.F. Pico della Mirandola, Ioannis Pici Mirandulae viri omni disciplinarum genere consumatissimi vita [1496], a cura di T. Sorbelli, 1963, p. 42); in particolare, si definiscono in forme icastiche nel sonetto XIII, quando una meditazione poco originale sugli inganni della Fortuna e sulla mutevolezza che regna «sotto la luna» si schiude a commenti fulminei:
felice è chi de vita è spento in cuna. / O almanco, mentre el celo è amico a noi, / compire alora la giornata nostra / è meglio che aspetare in sin a sera (Sonetti, a cura di G. Dilemmi, 1994, pp. 27-28).
Scivolando rapido sulla quieta indifferenza di chi ‘attende la sera’, lo sguardo di Pico è attratto, con ogni evidenza, dall’irripetibilità di un momento in cui sembra concentrarsi il destino dell’individuo. Non è dunque sul ritmo eterno della ruota di Fortuna che insiste il sonetto: Pico, piuttosto, appare affascinato dalla possibilità di infrangerne il ritmo, identificando in un unico, decisivo istante, trionfo e morte. Ma una persuasione non diversa vibra a ben vedere nella lettera che Pico indirizza a Ermolao Barbaro, e nella quale la figura autorevole di un sapiente medievale è evocata per confutare la vana pretesa di far coincidere filosofia e retorica: perché la filosofia, a giudizio di Pico, non si valuta dal linguaggio, ed è possibile – come è già accaduto in passato – che nello stile trascurato di testi scabri e incomprensibili sia celato un sapere fecondo. Sono tesi celebri: ma vale la pena di segnalare che la dissimmetria tra ‘forma’ e ‘contenuti’, così come l’insistere su immagini di rozza ineleganza, si iscrive in un ragionamento attento a segnalare come la scarsa attenzione per lo stile dipenda, al fondo, dalla radicalità di una scelta che vincola completamente l’uomo alla verità. Estranee ai codici che regolano la comunicazione e i rapporti sociali, le esperienze dei grandi filosofi si definiscono così in una tensione inesauribile che travolge gli equilibri comuni, e si spinge a esiti radicali:
Se Pitagora avesse potuto vivere senza mangiare, si sarebbe astenuto anche dai legumi; se avesse potuto esprimere i suoi pensieri con l’atteggiamento del volto, o almeno con una fatica minore della parola, non avrebbe parlato affatto, tanto era lungi dalle ricercatezze e dalle eleganze del linguaggio (Epistole, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, 1977, p. 811).
Rifiutando il compromesso, esasperando la contraddizione e rigettando ogni mediazione ispirata a considerazioni di opportunità e buon senso, i filosofi barbari del Medioevo definiscono però, secondo Pico, il corretto rapporto tra civiltà e barbarie e smascherano le insidie di una vita culturale e politica alimentata dall’apparenza. Le armi della retorica sono naturalmente volte all’insidia, trasformano infatti «il nero in bianco, il bianco in nero» senza alcun rispetto per la realtà, e il retore tende a «ingannare, a circuire, a insidiare»: «potete – conclude il filosofo –, con la vostra parola, alzare, abbattere, ingrandire, annullare tutto quel che volete» (p. 809). Fondato sul teatro dell’immaginazione, l’incanto del ben parlare si rivela ben presto il frutto di una società corrotta, percorsa dalla frattura insanabile che contrappone la consumata abilità del retore, da un lato, alla semplice ingenuità dei cittadini, dall’altro. A chi insiste sull’efficacia pedagogica dell’eloquenza, che «dissimula» l’austerità della filosofia, così come «il miele» rende gradevole la medicina «per ingannare l’improvvida fanciullezza», il filosofo barbaro reagisce scavando nelle pieghe della similitudine, e facendo affiorare l’immagine tragica di un «volgo» infante, e del tutto estraneo alla ragione:
Questo forse conveniva che tu, o Lucrezio, facessi, se scrivevi per i bambini, se scrivevi per il volgo; e lo dovevi fare in ogni modo, tu che propinavi non solo assenzio, ma purissimi veleni (p. 815).
All’alleanza perversa che si stringe tra il retore e il volgo, tra «quanti si occupano delle faccende politiche» e la «bilancia» del giudizio popolare si contrappone così il vincolo virtuoso che la filosofia intreccia tra verbo interiore e verbo esteriore, tra ragione e orazione, tra l’orecchio e l’anima:
O uomo di gusti delicati, quando vai dai flautisti e dai citaredi, stai pur tutto orecchi; ma quando vai dai filosofi, ritorna in te, nei penetrali dell’anima, nei recessi della mente (p. 815).
I filosofi medievali disegnati da Pico rifiutano gli strumenti perniciosi che agiscono solo dove si contrappongono su due estremi senza comunicazione «istrioni» e «volgo»; non cercano «grazia dalla mollezza» ma «maestà dalla rudezza», e illuminano dunque la fragilità di una cultura senza presa sulla realtà, che sopravvive soltanto con le «forze quasi magiche dell’eloquenza» (p. 809).
Nello scarto tra barbari e moderni non si gioca dunque la semplice antitesi tra rinascita e decadenza, vita e morte: nella filigrana del testo, la lettera di Pico propone anche un diverso modello di civiltà, una comunità di sapienti sottratta alla cultura dell’apparenza in cui restano invischiati i filosofi-retori. Spunti precisi, questi, ma che si impongono di scorcio e successivamente si attenuano in un contesto teorico che la crisi religiosa di Pico segna in forme sempre più marcate: nell’Heptaplus, in particolare, le forme in cui erano stati modulati i temi del sapere civile sono travolte da una riflessione in cui la felicità razionale garantita dalla filosofia appare funzionale alla perfezione che discende dal rapporto, diretto e immediato, con Dio. Ma un simile modello di perfezione riposa, come suggerisce il serrato ragionamento di Pico, sull’intervento insondabile della grazia. Senza il beneplacito divino, all’uomo non è dato di ricongiungersi a Dio: il ragionamento svolto nell’Oratio si torce dunque in un contesto mutato, che adesso individua in Cristo il solo, reale mediatore tra Dio e il creato. L’incarnazione del Verbo diviene il presupposto perché l’uomo possa a sua volta farsi medio e mediatore tra cielo e terra: circoscrivendo così in forme nette lo spazio riservato all’arbitrio umano, Pico finisce però per definire un modello di perfezione che ancora si risolve in forme aspre e non conciliate. Sono, del resto, le stesse forme che animano le epistole scritte al nipote Giovanni Francesco, nelle quali il richiamo alla riforma religiosa e alla renovatio interiore si svolge attraverso un lessico di ascendenza militare, ugualmente intessuto di rimandi alla lotta: a testimoniare, ancora una volta, il carattere travagliato di una dignitas indisgiungibile dal conflitto.
Nelle Disputationes la critica all’astrologia ha un obiettivo teorico ben preciso, e saldamente definito fin dall’inizio. Attestando l’inconsistenza del sapere astrologico, Pico intende tracciare un discrimine netto fra arti umane e capacità profetiche, mostrando come nessun artificio umano possa dischiudere l’intuizione del futuro. Proiettato su questo sfondo, il discorso di Pico tocca temi cari a Ficino, che proprio nel vaticinium e nel fuoco di un rapporto privilegiato con le grandi forze del cosmo incardinava la civilis sapientia. Ma se Ficino resta persuaso che il sapiente possa comunque inserirsi nel ritmo di una comunicazione che naturalmente si tende tra dei, demoni e uomini, Pico batte invece sul mistero di un dono divino, su cui l’uomo non può esercitare alcun controllo. Non sorprende, dunque, che nel quadro di una violenta critica contro l’astrologia, le Disputationes istituiscano un discrimine netto tra prudenza civile e vaticinio, con un ragionamento che va a colpire il cuore stesso del grandioso modello cosmologico illustrato da Ficino.
In Ficino, destino dell’uomo, vicende della società e condizione dei cieli si rispecchiano l’uno negli altri, secondo un corso regolare che può essere colto e seguito; a dottrine simili, Pico reagisce contrapponendo frontalmente cielo e terra. Una spia lessicale è, a questo riguardo, illuminante:
Quale è mai questo così vario cangiamento, questa incostanza a mo’ di camaleonte, per cui anche in un breve lasso di tempo quei divinissimi corpi non si trovano mai simili a sé, e provvisti delle medesime doti?
[...]
Tutto questo abbiamo dimostrato in base alla perpetua e stabile condizione dei cieli, che sempre eguali a sé non mutano, come costoro credono, a guisa di camaleonti per l’influenza dei luoghi e delle distanze (Disputationes, a cura di E. Garin, 2° vol., 2004, rispett. pp. 19 e 357).
Nel discutere l’errore degli astrologi, che pretendono di ricondurre gli eventi terreni entro l’ordine dei cieli, e innervano dunque mutamento e varietà nelle regioni più alte del cosmo, Pico utilizza due volte la metafora del camaleonte, sviluppandola, nell’uno e nell’altro caso, con connotazioni fortemente negative. È una scelta che colpisce, se si pensa al peso che l’immagine aveva assunto nell’Oratio, e che proprio per questo illumina un nodo teorico centrale. A giudizio di Pico, camaleonte è un termine che appartiene al lessico dell’uomo, non a quello del sapere astronomico; esprime la grandezza e la perfezione dell’individuo, non quella del cielo che non è, né può essere, assimilato a un «camaleonte». E questo, a sua volta, significa che la natura non è specchio dell’uomo, né del mondo che germina dalle azioni umane: quando l’astrologia
mostra da lungi il cielo e i pianeti, sì che facilmente si crede alla possibilità di prevedere tutto con assoluta certezza in uno specchio tanto limpido ed elevato. Ma, se si osserva con più cura, si vede tosto che lo specchio è troppo alto perché le immagini delle cose terrene possano arrivare fin lassù, troppo splendente perché il suo fulgore non accechi la nostra debolezza (Disputationes, cit., 1° vol., p. 43).
Incapaci di cogliere le differenze, gli astrologi confondono i piani dell’essere, senza riconoscere le peculiarità di ciascun livello:
è la frode più pericolosa di tutte, perché è lei […] a indebolire la religione, a generare e rafforzare le superstizioni, a tener viva l’idolatria, a distruggere la prudenza, a insozzare i costumi, a infamare il cielo, a rendere gli uomini meschini, tormentati, inquieti, a farli di liberi servi e a dare esito sfortunato a quasi tutte le loro azioni (p. 45).
Su questa base, Pico riduce il rapporto tra cieli e mondo sublunare a quello tra cause generali e cause prossime, esaltando il ruolo giocato dalla materia nei processi naturali. È infatti dalla varietà del sostrato materiale – e non da una presunta influenza degli astri – che discendono, da un lato, la varietas che segna il mondo naturale con mutamenti, irregolarità imperfezioni e, dall’altro, il dramma di un universo apparentemente governato da una fatalità cieca. Di nuovo, il ragionamento si definisce in voluta tensione con le dottrine diffuse dal neoplatonismo ficiniano. Pico, infatti, è fin dall’inizio consapevole che il fascino delle dottrine astrologiche è inscindibilmente congiunto alle questioni su cui Ficino si era più volte pronunciato, per giustificare, attraverso l’analogia tra il cerchio grande del cielo e il cerchio ristretto delle vicende umane, l’alternarsi delle sorti e delle fortune. A questo, l’astrologia offre una spiegazione in apparenza persuasiva:
Infine è il corso stesso degli eventi umani, su cui soprattutto si esercita la divinazione astrologica, quello che sembra convincere da ogni parte anche i riottosi del potere del cielo e del fato. In esso infatti la varietà stessa è familiare e frequentissima; in esso vediamo accadere molte cose oltre le capacità della nostra natura mortale, molte cose oltre la ragione e il merito, molte oltre l’ordine e gli istituti della condizione umana […]. Questi nasce alla filosofia, quello alla poesia […]. Di dove scaturisce questa varietà d’ingegni? L’uno non conta nulla le ricchezze, l’altro vende l’animo per danaro […]: donde tanta differenza? (p. 187).
Al fondo, l’inganno degli astrologi si radica sulle medesime considerazioni che Ficino aveva declinato ragionando della fortuna; si tratta, in entrambi i casi, di spiegare l’opacità di un mondo in cui non si dà rapporto tra merito e destino:
Chi non attribuirà ancora una volta al fortuito corso degli astri la condanna dell’innocente, il premio del malvagio; la miseria dei molti attivi, solerti, acuti, dotti; la ricchezza degli ignari e dei perfidi? (p. 187).
Rifiutando di percorrere la via di Ficino e degli astrologi, Pico sposta il ragionamento in un’altra direzione: non cerca principi di ordine generale, non tesse vincoli di analogia tra cielo, terra e società, ma si concentra sui gradi più bassi della scala, valorizzando l’originalità irriducibile dei composti. Osserva infatti: «la differenza dell’influsso occulto non dipende dalla stella da cui emana, come crede l’astrologo, ma dalla diversità della materia che lo accoglie» (p. 399). E ancora:
Né sarebbe regola fissa che il sesto giorno uccide con tirannica crudeltà e il settimo guarisce con regia benignità […]. E, se il caso talora si verifica non deve derivarsi dal cielo, dove è situata la causa di quello che avviene con ordine e costantemente, ma piuttosto dalla materia e da qualche peculiarità del malato (p. 349).
«Materia», «peculiarità del malato»: il lessico di Pico concentra il fuoco della riflessione sulla varietas connaturata al mondo terreno, contestando così il metodo sterile degli astrologi, protesi a scrutare i corpi celesti e ciechi di fronte alla vita che pulsa mutevole nei gradi più bassi della scala, nei corpi e nelle materie. Il cielo, infatti, individua l’unità in cui si risolve ogni differenza: non soltanto dunque è incapace di spiegare i problemi connessi alla molteplicità e al variare, ma addirittura, nota Pico, li annulla alla radice:
Non sembra che si possa spiegare la natura del cielo più chiaramente e più brevemente che dicendo che il cielo è l’unità di tutti i corpi; non v’è alcuna molteplicità che non dipenda dalla unità, niente nell’universo che non derivi dall’uno quasi dal suo fonte. E a quel modo che nell’esercito ogni legione si volge al proprio comandante e tutto l’esercito ad un sol capo, così ogni serie di cose che consentono fra loro per l’uguaglianza del genere, ha un proprio principio da cui è dedotta, da cui è sostenuta, guidata, contenuta. Ora essendo molti questi principi, tale quasi molteplice unità viene ricondotta infine alla semplicissima unità del primo principio; a quel modo che ogni numero è in certa guisa nell’unità, tutto lo stato nel re, tutto l’esercito nel capo, così nel proprio principio è contenuta ogni virtù e perfezione del proprio gregge. […] il cielo sarà l’unità di tutti i corpi; di esso possono negarsi tutte le caratteristiche degli altri corpi, e tutte insieme possono affermarsi (p. 393).
Il cielo ha a un tempo tutte le forme e nessuna; non ha senso incardinare su questa unità indifferente le peculiarità di una forma e di un destino. Pico lo conferma energicamente, articolando il ragionamento su due livelli. Insiste infatti sulla sproporzione tra i due estremi:
Ma come in un nero formicaio vi sono alcune formiche superiori alle altre per forza e per grandezza; e vi sono vittorie, guerre, paci, doveri, fatiche, miseria e ricchezza, tutte cose che a noi che guardiamo appaiono esigue e senza differenza, un nulla; così questi nostri corpiccioli, le nostre vicende, i nostri re, le nostre province, le guerre, i patti, le nozze, sono un nulla dinanzi al cielo al cui confronto tutta la terra, di cui gli uomini si contendono una particella col ferro e col fuoco, è un sol punto (pp. 417-19).
«Esigue», «senza differenza», «nulla»: richiamata in un orizzonte teorico simile, la vicenda esemplare di Alessandro Magno risalta così in termini radicalmente mutati rispetto all’uso che ne aveva fatto Ficino. Nelle lettere del canonico fiorentino, Alessandro e Filippo II di Macedonia segnalano il riverberarsi dell’ordine celeste nelle sorti individuali e testimoniano così del vincolo che congiunge vicissitudine mondana e vita dell’uomo; adesso, lo sguardo disincantato di Pico le trasforma in momenti «troppo insignificanti» perché possano trovare riscontro nei cieli. Concentrandosi sul limite – e sulla sproporzione tra l’omogeneità celeste e la varietas mondana – Pico trae dunque strumenti teorici potenti per dimostrare che le vicende umane non possono in alcun modo risolversi entro l’ordine della vicissitudine celeste:
Non è perciò tale la grandezza delle cose terrene da non poter avere altra causa oltre il cielo. Del quale se non sono degne le cose che tra noi son degne, quanto più ne saranno indegne quelle che indegnamente son fatte anche da noi, come l’essere i furfanti innalzati agli onori e Socrate che muore per la condanna di un calunniatore e enormità del genere che in gran numero vediamo e soffriamo ogni giorno (p. 417).
Anche per Pico, al fondo, si tratta dunque di dar conto di un mondo estraneo alla giustizia, nel quale si rovescia il corretto rapporto tra degni e indegni, tra virtù e ricompensa. Sono gli stessi temi – e gli stessi lemmi – presenti in Ficino: disposti però sul filo di una riflessione profondamente mutata.
A Pico, prima di tutto, interessa ribadire come i concetti stessi di degno e indegno perdano senso quando ben si considera lo scarto fra i grandi corpi del cielo e i piccoli corpi dell’uomo. Ma non solo: dall’inizio alla fine, Pico intende mostrare come beni e mali discendano dalla specificità di ciascun individuo, pullulando dalle profondità di un animo che resta, al fondo, indecifrabile. Non stupisce, in questo senso, la violenta polemica con cui le Disputationes attaccano la sterile presunzione degli astrologi che pretendono di circoscrivere le pulsioni molteplici della volontà entro l’ordine delle vicissitudini celesti, e nel flusso speculare degli umori:
È affermazione anche troppo ridicola che, siccome le stelle possono produrre il freddo, il caldo e le altre qualità, possono produrre anche le guerre, le rivoluzioni, possono rovinare le città e mutare gli imperi. […] Infatti dicono che venendo eccitata la bile in corpo ai re ed ai principi, gli animi bollenti diventano più bramosi di recare o restituire le offese. O felice Italia, fiorente di eterna pace, se tu potessi avere dei principi flemmatici! Questo bene sì grande e divino costerebbe ben poco: una piccola oncia di un farmaco ben scelto per sedare la bile, saggiamente distribuita fra i signori più bellicosi, ci renderebbe pacifico tutto il mondo! (Disputationes, cit., 1° vol., pp. 379-81).
A differenza di Ficino, Pico non crede affatto che il destino del tiranno germini dal corpo, nella crescita incontrollata degli umori, e la critica all’astrologia conferma così, a distanza di anni, un dato originario della riflessione di Pico. Nucleo di libertà assoluta, la vicenda dell’uomo non è mai schiacciata e risolta entro i cicli immutabili della natura:
Come se questa fosse la causa prima delle guerre, e non piuttosto l’avidità, l’ira, e non la cupidigia e l’occasione o la speranza di conquista. […] quasichè non suscitasse le guerre e i tumulti talora l’amore stesso della giustizia; quasichè molto spesso a sospingere i re non sia, invece della bile, Dio, che ora prova i buoni nella virtù, ora punisce i malvagi per mezzo dei malvagi che nel mondo Egli tiene come carnefici e quasi demoni visibili (p. 381).
Rivelando l’inconsistenza delle distinzioni generiche cui si attengono gli astrologi, Pico disegna così in toni mossi e drammatici il volgere di una storia in cui violenza e conflitto si danno, a seconda dei casi, come totale dissoluzione del vincolo civile o come strumento di giustizia. Priva di rapporti con la realtà, la scienza astrologica diviene vano esercizio retorico: decostruendone abilmente il lessico, Pico scorge nei precetti dell’arte la maschera della stoltezza umana, e lo strumento privilegiato delle mistificazioni.
Quegli uomini eccellenti, – scrive Pico, ragionando degli astrologi – affannandosi giorno e notte a misurare i movimenti e la grandezza degli astri, non ne ricevevano alcun guadagno dai principi, a cui non importava niente della grandezza degli astri o della velocità con cui si volgevano per il cielo. Accorgendosi di questo, per non trovarsi poveri delle cose di questa terra mentre scrutavano il cielo, escogitavano un gustoso trucco per conquistare gli animi dei principi e renderli amanti della loro arte. […] Si legge in Firmico Materno che i principi, molto ignoranti e curiosi, desiderosissimi delle cose che gli astrologi promettevano, erano tratti facilmente a crederci, a sostenere chi esercitava quegli studi e promuovere sempre più intensamente i medesimi con premi (p. 63).
Agiscono qui le strategie teoriche già dispiegate nella lettera a Ermolao Barbaro, per suggerire come l’alleanza perversa tra retori e volgo si riverberi ugualmente nella benevolenza con cui i principi ignoranti accolgono le lusinghe degli astrologi:
aggiungi i desideri dei principi, pronti a creder tutto per ignoranza, e a sperare tutto per brama soverchia. Quando ad essi veniva preannunciata la felicità del cielo (e sempre veniva annunciata felicità), volevano così poco che venisse distrutta l’astrologia quanto quella medesima fortuna (Disputationes, cit., 2° vol., p. 521).
Al pari della retorica anche l’astrologia corrompe dunque il vivere civile; ma la crisi introdotta dagli astrologi appare ben più radicale, poiché sovverte alle radici i principi della vita morale:
E quando fosse penetrato profondo nelle vene, avrebbe prima tolto fiducia nella religione, bene sommo per gli uomini, quasi che dal cielo pendesse sugli uomini una fatale necessità, quasi fossero nulli i miracoli, quasi non sussistesse alcuna divina profezia del futuro, ma tutto derivasse dalla forza delle stelle; ai vizi in noi discendenti dal cielo, fu trovato quasi un celeste patrocinio, laddove son buone tutte le cose che vengono da natura (p. 523).
La forza delle stelle diviene quindi pretesto per giustificare comportamenti aberranti, accusando il cielo per gli errori umani:
E proprio in esse, secondo Firmico Materno, si mostrerebbe specialmente il fato e la necessità del decreto del cielo. Ma io vorrei domandare a lui e agli altri astrologi, perché siano così bramosi di attribuire alle stelle i nostri errori, e di accusare il cielo delle nostre colpe. Come se fosse strano che noi, sempre bassi e malvagi, pecchiamo; come se fosse possibile che possano qualche volta sbagliare quei corpi celesti che sempre obbediscono al volere di un Dio di bontà con immutabile ordine. Ma – essi rispondono – si condannano gli innocenti, si premiano i furfanti. Ora io domando, sono i principi giusti o quelli ingiusti che fanno ciò? Se sono i giusti, non basta il cielo a spiegare un fatto simile; se gli ingiusti, che bisogno c’è del cielo, quando la malvagità è abbastanza spregiatrice del cielo? (Disputationes, cit., 1° vol., pp. 417-19).
La società diventa così campo di forze in cui si dispiegano i multiformi effetti di volontà imprevedibili: per questo, le Disputationes insistono sulla trama di rapporti che vincola i singoli individui all’interno della civitas, accomunando i singoli destini in una rete di relazioni e vicende impossibili da ricondurre entro un ordine rigoroso:
Così, pur non essendovi nulla di male, gli uomini dipendono vicendevolmente gli uni dagli altri in modo tale che è impossibile che la fortuna dell’uno non giovi e non danneggi l’altro. Un figlio felice avrà, per l’infelicità del padre, una sorte infelice, ed una felice invece per il felice fato paterno. Il servo sfortunato nella sua nascita, dividerà la felicità del padrone fortunato; la sorte del soldato dipende da quella del generale; la fortuna del malato dal medico e, a sua volta, quella del medico dal malato, e così via in vari modi (Disputationes, cit., 1° vol., p. 139).
L’astrologia pretende dunque di isolare e ricondurre ad archetipi astratti una vicenda umana che fin dall’inizio è molteplice e varia: incalzato dalla necessità, l’uomo si confronta infatti con individui e circostanze cangianti, aprendo in questo modo, nel continuo incrociarsi di affetti e passioni, itinerari dissimili. Le disuguaglianze di sorti, scelte, esiti non discendono da un’astratta fortuna, ma si radicano nell’infinita libertà dell’uomo, dalla cui potenza scaturiscono, in pari misura, virtù e vizi:
Ha una grande influenza nella scelta delle arti e delle professioni il tipo del paese in cui ci si trovi a nascere, sì che si darà alla mercatura o alla navigazione chi si trovi in un paese marittimo, alle lettere se è vicina un’accademia, alla milizia se i vicini sono pericolosi, o se vi siano lotte intestine. Vi sono quelli che la fertilità e l’abbondanza rendon pigri e dediti al piacere, ed invece laboriosi, industriosi e diligenti la povertà e la sterilità (p. 293).
Il grande tema dell’Oratio si curva così in una prospettiva civile: nel cuore delle Disputationes, alla potenza del saggio che plasma se stesso fa da contrappunto la potenza della legge che trasforma e modella il popolo:
restano le leggi civili, cioè le norme e i giudizi dei Cesari e dei saggi, il cui fine più alto è di provvedere a quelle istituzioni per cui la vita umana si svolge buona e gradevole [«bene beateque transigatur»] (p. 97).
I tempi lunghi della legge plasmano i popoli, liberandoli dai caratteri imposti da clima, natura e temperamento:
Si aggiungano le leggi che sui caratteri del genere hanno una grande importanza, tanto che possono con somma facilità, se sono osservate, rendere estremamente miti popoli feroci, e, se sono cattive, sfibrare e corrompere genti fortissime; di qui anzi si dimostra con piena evidenza contro ogni necessità naturale il libero arbitrio. I Galli erano una volta infami per gli amori dei giovinetti, se dobbiamo credere a Tolomeo e ad Aristotele, ed ora, per i benefici della legge cristiana e del santo re Luigi, hanno in tale orrore quel delitto, che non v’è popolo che più lo aborra sulla faccia della terra (p. 293).
Ficino, si è visto, costruisce una trama di analogie che va dal cielo alla terra e trasforma la vicissitudine degli astri e degli elementi nello specchio in cui l’uomo può spiare i ritmi dei mutamenti nelle vicende degli individui e delle società. Pico istituisce di contro una cesura netta fra i due piani, impedendo che possano rispecchiarsi l’uno nell’altro. Diventa pertanto impossibile intendere il corso delle vicende umane nei termini di una cieca vicissitudine governata dalla fortuna:
Infatti, benché in molte cose molto possa la fortuna e moltissimo, anzi tutto in tutto, la determinazione della volontà divina, è necessario tuttavia che una retta guisa di vita abbia in queste cose una grande
importanza, se non vorremo ammettere che Dio ci abbia dato inutilmente questo compito. Onde giustamente fu detto che dove è saggezza, nessun nume è lontano, mentre siamo noi che facciamo della fortuna una dea e la collochiamo nel cielo. Perciò Platone nella lettera ai Siracusani, avendo ricordato il detto omerico – gli Dei gli tolsero la mente – dice che furono piuttosto gli uomini a togliersi la mente loro affidata; il che conferma colla sentenza di Euripide, che disse la sorte figlia dell’anima. Saggiamente dunque ordinando la nostra vita secondo la ragione naturale, procacciandoci la divina benevolenza con pia religiosità, evitiamo ogni vana superstizione (p. 457).
Nel testo di Pico è incastonata la stessa citazione di Marco Manilio con cui Ficino aveva voluto definire l’opera maligna della fortuna in un mondo abbandonato dalla sapienza. Uno spunto noto, su cui i due autori gettano luce diversa, in vista di obiettivi teorici diversi. In Ficino i versi definiscono l’esilio dell’anima nell’orizzonte della vicissitudine. In Pico la citazione è criptica, depotenziata: senza richiamarsi ad alcuna auctoritas serve a definire la crisi che nasce quando l’uomo cede agli artifici magici della retorica, facendosi schiavo delle proprie illusioni. La civitas umana non è più, dunque, il luogo in cui fortuna e provvidenza si confrontano costantemente spogliando la vicenda umana di ogni senso e valore: all’opposto, è la dimensione in cui agiscono, e si impongono, la specifica natura e le scelte di ogni singolo individuo. Allo stesso modo, il processo che porta a ripristinare la serenità e la pace non è dono indifferente del fato astrale sulla base di semplici corrispondenze e scansioni temporali, ma nasce dall’intreccio fecondo delle azioni umane, e germina da una libertà che nessuna previsione può, al fondo, decifrare. Bene e male, guerra e pace, giusto e ingiusto si rivelano così inscindibilmente congiunti, e si generano gli uni dagli altri:
Un re dichiara guerra ai confinanti; forse ne è causa in parte la natura del re, bellicosa, cupida, inquieta; forse non viene trascinato tanto dalla passione quanto dalla ragione o dal diritto di rivendicare ciò che è suo o di rispondere a un’offesa o da altri motivi (p. 441).
I destini molteplici discendono dal segreto pulsare delle passioni, secondo un movimento che non assume mai termini fissi: nella lettura di Pico, guerra e pace scaturiscono, indifferentemente, dall’avidità o dalla sete di giustizia, così come dal calcolo avveduto di chi si propone di vendicare le offese ricevute, o rivendicare i propri diritti. Ma accanto al continuo e inesauribile incrociarsi di fati e destini, Pico, al pari di Ficino, pone altresì l’opera insondabile della provvidenza: «molto spesso a sospingere i re», rileva Pico, si pone l’azione di un «Dio, che ora prova i buoni nella virtù, ora punisce i malvagi per mezzo dei malvagi che nel mondo Egli tiene come carnefici e quasi demoni visibili» (p. 381). E, ancora:
Può, oltre tutto questo, intervenire uno speciale decreto di Dio, sempre giusto, sempre ragionevole, benché non sempre sia chiara a tutti la sua giustizia o la sua ragione (p. 441).
È la stessa convinzione di Ficino: posta però in toni più tragici. Nel mondo contingente della natura Pico innesta dunque l’intervento divino: accanto alle leggi, strumenti naturali che definiscono le strutture del consorzio umano e fondano una vita «buona» e «beata», si esplica infatti l’azione di Dio, che modella il cuore dei sovrani, indirizza la storia e risolve nel dispiegarsi del suo potere le illusioni stesse degli astrologi, cui talvolta consente di cogliere una verità altrimenti inattingibile. Di una simile azione il sapiente non può tuttavia cogliere le tracce, e il male che appare radicato nella società e che Dio tollera rimane al fondo senza spiegazione. Vibrano così nelle Disputationes i toni drammatici del libro di Giobbe, che segnano il limite insuperabile di una sapienza mondana inevitabilmente estranea alla verità profetica:
Né ci turbi il fatto che ci sembra talora che operino cose indegne e ingiuste, sì da farci ricorrere perciò più volentieri a cause agenti, non per disegno ma per necessità naturale; sarebbero infatti ben ridicoli i più vili schiavi di una città se presumessero di giudicare le decisioni dei principi. […] Noi omunculi, anzi pipistrelli, talpe, asini, bovi, piegati a terra, giudicheremo tutto ciò, chiamando in esame Dio stesso? […] Invece tutte le volte che vedrai sorger guerre e stragi e saccheggi di città e distruzioni di regni, non penserai con codesti ciarlatani che ne è causa l’incontro di due raggi o la luce interrotta nel suo corso naturale fra il Sole e la Luna, ma il disegno di Dio che punisce i malvagi e mette alla prova i buoni (pp. 445-47).
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