GAGLIANO (Galliano, Galliani), Pier Francesco da
Nacque a Firenze il 20 luglio 1484 da Filippo e Alessandra Soderini, abitanti nel "popolo" di S. Maria del Fiore nel quartiere di S. Giovanni.
Dalle scarse notizie sugli anni giovanili del G. emergono quali dati fondamentali per la comprensione stessa della sua futura attività pastorale sia la partecipazione alle discussioni politiche e letterarie del circolo fiorentino degli Orti Oricellari, gravitante attorno a Bernardo e poi al nipote Cosimino Rucellai, al filosofo neoplatonico Francesco Cattani da Diacceto, a Marcello Virgilio Adriani, a Raffaele e Alfonso Pitti, sia l'accesa adesione allo spirito savonaroliano. Nel dicembre 1515 Giovanni, figlio di Bernardo Rucellai, scrivendo al poeta e filologo vicentino Gian Giorgio Trissino, lo informava di aver inviato a Venezia l'amico G. per chiedere alla Signoria la restituzione dei beni del Trissino che gli erano stati confiscati per aver favorito le aspirazioni dell'imperatore su Vicenza. In quello stesso anno, all'indomani della restaurazione medicea, era avvenuto per il G. un incontro carico di significato con il patrizio veneziano Gasparo Contarini, che nella primavera si era recato all'eremo di Camaldoli a incontrare l'amico Paolo Giustiniani e passare di là a Firenze. Contarini, non ancora cardinale, scrivendo al Giustiniani da Ravenna nel maggio 1515, faceva sapere di aver indirizzato una lettera anche a "Messer Pier Francesco da Galgiano [sic] al quale ho grandissima affectione per la sua gentilezza et vostra relation de lui". Alla fine del mese Contarini, ritornato precipitosamente a Venezia per motivi familiari, raccomandava di nuovo al Giustiniani di ricordarlo alla cerchia degli amici fiorentini, tra i quali il G., al quale faceva recapitare un volume tramite Raffaello Pitti, forse un esemplare dell'edizione dell'opera di Lucrezio già promessa al Giustiniani.
Questa situazione ancora molto fluida dal punto di vista culturale si intrecciava col clima spirituale carico di tensioni e aspettative creatosi durante il pontificato di Leone X e di cui la profonda amicizia nata tra Contarini e il G. sono un'ennesima testimonianza. Contarini, reso più sensibile ai problemi di riforma della Chiesa proprio dal suo soggiorno fiorentino a contatto con l'ambiente camaldolese e con gli epigoni del Savonarola, intrattenne col G. un fitto carteggio in gran parte da ricostruire. Pur ricordandolo come il migliore degli amici fiorentini, il patrizio veneziano non ebbe, tuttavia, il coraggio di palesare a chiare lettere al "gentilissimo Gagliano" il suo personale pensiero sul Savonarola, di cui non riteneva giusta la scomunica, né eretica l'opera profetica, ma piuttosto dubbia e inefficace l'idea di una riforma della Chiesa "per prophetia".
Nelle numerose lettere scritte nel 1515 al Contarini il G. si era, invece, dilungato spesso nel tessere le lodi di "fra' Hieronimo" che il movimento piagnone contribuiva a tenere in vita. Le perplessità che soprattutto Giustiniani avrebbe manifestato sull'aspetto profetico dell'opera savonaroliana non inficiò gli stretti legami di reciproca confidenza instaurati con il G., tanto che il Contarini affidò al Giustiniani il compito di sconsigliare il comune amico "a non se intrichar con moglie, benché suo padre a ciò il suadi molto", e nello stesso tempo a convincerlo di rimandare il pacifico viaggio in Terrasanta che il G. aveva progettato di fare insieme al Contarini. Anche questa idea era nata all'insegna delle molteplici istanze che caratterizzavano gli aneliti di riforma della Chiesa maturati a Venezia e Firenze. La piccola delusione per il viaggio non realizzato fu ricompensata dal piacere che il G. riceveva nel trattare con l'amico veneziano, che nelle sue lettere lo esortava "assidue ad studia" e che si dimostrava "vir doctus" non solo di filosofia, ma di teologia, e soprattutto dotato di vera umiltà cristiana.
Tramite il G., Giustiniani a sua volta sollecitò il Contarini a scrivere un "consiglio sopra le cose del Rev.do Padre Fra Hieronimo Savonarola Ferrarese", di cui il G. gli aveva fatto recapitare alcune opere, quali il Compendio di rivelazioni e il Dialogus de veritate prophetica. Il consiglio, datato 18 sett. 1516, costituisce in certo senso l'ultimo documento in cui si ha un esplicito riferimento alla passione savonaroliana del Gagliano.
In data imprecisata il G. sposò Francesca di Bernardino Corsini, che viene menzionata una prima volta nella lettera di congratulazione del 15 febbr. 1538 scritta dal G. a Pier Vettori, successo a Cattani da Diacceto nella cattedra di latino dello Studio fiorentino. Nel 1531 il G. si trovava a Bologna, dove il fratello Antonio gli scriveva da Napoli per interessi legati a questioni ereditarie. Alla nazione fiorentina di Napoli e a rapporti con gli Altoviti si fa cenno nella stessa lettera; dal 1520 Antonio si era, infatti, trasferito nella città partenopea, dove sopravvisse un ramo della famiglia.
Tra il 1536 e il 1537 il G. si era recato a Roma, come testimoniano alcune lettere inviategli in quel periodo dal cardinale Niccolò Gaddi, di cui però resta solo l'indicazione archivistica relativa al cospicuo carteggio del G. conservato nell'Archivio della Curia vescovile di Pistoia. All'uscita dalla vita secolare è, infatti, legata la gran parte delle notizie che lo riguardano. In questo senso l'esperienza del G. ricalcava da vicino quella del senatore fiorentino Roberto Pucci che, rimasto vedovo, successe nel 1542 al nipote cardinale Antonio nel vescovado di Pistoia; dal 10 dic. 1546 il G. fu nominato coadiutore di mons. Roberto e alla morte di questo, avvenuta il 16 genn. 1547, entrò nel pieno possesso della Chiesa pistoiese.
La carriera ecclesiastica del G. tuttavia, s'intrecciò, almeno agli inizi, con la sua vita coniugale, tanto che nel marzo del 1547 G.F. Bini, segretario di papa Paolo III, gli scriveva da Roma per informarlo sull'iter di un breve promessogli perché potesse trascorrere parte della settimana santa, o almeno la Pasqua, con la propria sposa. A tale data il G. aveva già ricevuto dal cardinale Roberto Pucci, eletto contemporaneamente vescovo di Melfi, espressa facoltà di occuparsi "delle cose spirituali et temporali" del vescovado di Pistoia, non sentendosi in grado di tenere contemporaneamente due vescovadi. È probabile che il G. fosse stato nominato vescovo in partibus di Nazanzio; negli atti della visita pastorale pistoiese dell'aprile del 1546, mentre era ancora coadiutore del Pucci, è infatti menzionato come "episcopus Nazianzenus" e come tale è esortato dal duca Cosimo I a occuparsi del governo spirituale della diocesi pistoiese.
L'episcopato del G. si mostrò subito funzionale alle aspettative del principe, dimentico in questo caso del passato savonaroliano del neoeletto e sebbene fosse ancora fresca la dura azione di Cosimo contro i frati domenicani del convento di S. Marco di Firenze, sospettati di trame antimedicee. Un punto decisivo di convergenza di intenti tra il vescovo e Cosimo fu l'azione antiereticale e la riforma di alcuni monasteri femminili di Pistoia e Prato, attraverso la quale il G. mostrò di tradurre fedelmente e non senza intransigenza una parte fondamentale dello spirito più autentico e duraturo dell'insegnamento savonaroliano.
Le visite fatte dal G. alla diocesi pistoiese, che comprendeva nella sua giurisdizione anche molte parrocchie e monasteri della terra di Prato, ebbero fin dai tempi del suo coadiutorato un carattere capillare, anticipando per molti versi le disposizioni emanate solo più tardi nella terza fase del Concilio di Trento sulla delicata materia della clausura, dei confessori dei monasteri femminili, dei benefici curati. A tappeto il G. visitò parrocchie, pievi, oratori, ospedali e monasteri una prima volta dal 17 apr. 1546 al 21 maggio 1550, una seconda dal 23 maggio 1550 al 19 ag. 1554 e una terza dall'agosto 1556 al giugno 1557. Sollecitato dal vescovo di Troia Giannozzo Pandolfini, il G. prese parte alla prima sessione del concilio di Trento, che nel frattempo si era trasferito a Bologna. Durante il soggiorno bolognese il G., che a quel momento aveva conseguito soltanto gli ordini minori, si preoccupò di scegliere soggetti moralmente idonei alla carica di vicario e muniti del titolo di dottore in utroque. In questa fase di organizzazione della curia episcopale al G. si presentarono casi frequenti e delicati di predicazioni di stampo luterano fatte nella cattedrale di S. Zeno, per cui intervennero i Quattro Commissari fiorentini sopra gli affari pistoiesi e in alcune occasioni il padre domenicano Ignazio Manardi di Ferrara, che molto contribuì alla diffusione della dottrina e della devozione del Savonarola. Il caso più clamoroso fu quello del canonico lateranense Girolamo Zanchi da Bergamo, che, una volta sospeso dall'Ordine, divenne un rinomato teologo della Riforma; lo Zanchi predicò nel duomo pistoiese durante la Quaresima del 1548 e subito il G. fece esaminare le sue affermazioni relative al libero arbitrio, alla superiorità della Scrittura rispetto al concilio, alla negazione dei santi e del purgatorio, alla validità del celibato per il clero secolare e regolare.
Tra il 1548 e il 1553 il G. si trovò a fronteggiare nuovi casi di predicatori sospetti di eresia luterana e sui quali aveva preso informazioni da Ambrogio Catarino Politi, dal domenicano fra' Santi Cini e dall'inquisitore di Firenze Raffaello Sanninni dei minori conventuali. Strettamente collegato al suo impegno svolto a tutela dell'ortodossia cattolica fu il favore accordato dal G. alla predicazione di domenicani e francescani dopo gli inconvenienti provocati dai canonici lateranensi; il 19 luglio 1550 scriveva, infatti, a Cosimo I per informarlo sull'effetto benefico prodotto dalle prediche del cappuccino Girolamo Finugi di Pistoia che il duca aveva favorito nel conseguimento di una delle tre borse di studio in teologia riservate ai cittadini pistoiesi presso il Collège des lombards di Parigi. Alle vicende del Collège sono legati anche i primi contatti della Compagnia di Gesù con la diocesi di Pistoia; il padre spagnolo Girolamo Domenech nel 1541 aveva trasferito nella domus italiana di Parigi i giovani adepti della Compagnia, ma in seguito al riaccendersi delle ostilità franco-imperiali, era passato a Bologna, da dove il 24 luglio 1546 scrisse a Ignazio di Loyola per comunicargli di aver ricevuto dal G. un espresso invito a recarsi a Pistoia e fondarvi "una scuola di preti". Per soddisfare la richiesta del vescovo fu inviato al posto del Domenech un altro spagnolo, lo zelante Giovanni Alfonso de Polanco che rimase a Pistoia dal 2 ott. 1546 al marzo 1547; la presenza del Polanco, che predicò con successo in alcuni monasteri, creò tuttavia alcuni problemi a causa delle simpatie che il Polanco aveva dimostrato verso una compagnia pistoiese di laici che, nata con l'assenso del G., mostrava marcate affinità col movimento piagnone legato alla memoria del Savonarola e per questo particolarmente inviso a Cosimo I. Il 28 genn. 1548 Ignazio di Loyola scriveva al G. a proposito dell'apostolato esercitato nella diocesi pistoiese dal padre Girolamo Otello, che il G. avrebbe voluto affiancare a persona di età più matura; la lettera è conservata in un reliquiario nella sacrestia della cattedrale di S. Zeno.
Nell'orbita dell'influsso savonaroliano si colloca la scelta che il G. fece del sacerdote bolognese Leone Bartolini come suo coadiutore e vicario; il Bartolini, direttore spirituale di un gruppo di gentildonne e in stretto contatto col domenicano Vincenzo Arnolfini di Lucca, collaborò col G. dall'ottobre 1556 al febbraio 1559. Dal 5 ag. 1548 al 29 ott. 1559 il G. fu in contatto epistolare con Caterina de' Ricci, monaca nel monastero di S. Vincenzo di Prato; intorno alla figura di Caterina de' Ricci si ricomponevano, così, alcune fila che prendevano le mosse dagli anni della formazione culturale e politica del G. e, in particolare, i contatti con il filosofo Francesco Cattani da Diacceto - padre di Fiammetta, matrigna di Caterina - e il fratello di questo, Angelo, priore del convento di S. Domenico di Prato, dove nel 1536 Caterina aveva fatto la professione.
Tutto il carteggio ruota attorno al pressante problema economico che il monastero di S. Vincenzo viveva in quegli anni e alle esortazioni alla mitezza e alla giustizia che in varie occasioni Caterina rivolse al G., spesso protagonista di episodi di severità e durezza soprattutto nei confronti del suo maestro di casa, il sacerdote lucchese Giovanni Colucci; le intemperanze del vescovo, molto temuto nella diocesi anche per il frequente ricorso che faceva alla pena del carcere, si alternarono alle affettuose attenzioni dimostrate nei confronti della nipote Cassandra, nata dalla figlia Ginevra, moglie di Lorenzo Buondelmonti, e che ancora bambina fu accolta nel monastero di S. Vincenzo.
Già dal 1554 il G. aveva manifestato a Caterina de' Ricci il desiderio di rinunciare al vescovado, mentre nel 1557 fra' Ignazio Manardi e il cardinal Taddeo Gaddi si interessavano alla ricerca di un coadiutore. I segni di stanchezza e i problemi di salute manifestati dal prelato nell'inverno del 1559 indussero i canonici del capitolo della cattedrale di S. Zeno a chiedere, essendo tempo di sede vacante, di poter riservarsi il diritto di eleggere il successore del G. che morì a Pistoia, nel palazzo vescovile, il 21 dicembre di quello stesso anno. Per testamento rogato il 7 dicembre da ser Donato Ippoliti il G. aveva lasciato disposizione che nella chiesa cattedrale di Pistoia si celebrasse ogni anno una messa solenne in suo suffragio.
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