GHEZZI, Pier Leone
Nacque a Roma da Giuseppe e Lucia Laraschi il 28 giugno 1674 e venne battezzato il 9 luglio nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini (per i documenti e per la riproduzione delle opere si rimanda, se non altrimenti indicato, alla monografia di A. Lo Bianco del 1985 e al catalogo della mostra P.L. G. Settecento alla moda, curato dalla stessa nel 1999). La famiglia viveva infatti in via Giulia, di fronte alla chiesa di S. Biagio della Pagnotta e vi restò fino al 1694, quando si trasferì in un'altra casa, nella stessa via Giulia, di fronte al collegio Bandinelli e a S. Giovanni dei Fiorentini, dove il G. risiedette fino alla morte (De Marchi, 1999, p. 38).
La prima educazione venne impartita al giovane dal padre Giuseppe, anch'egli pittore, colto rappresentante degli ideali accademici, verso i quali indirizzò il figlio, come indicano le lunghe e puntuali biografie di L. Pascoli e di F. Moücke. Secondo la prassi corrente, la prima formazione fu rivolta soprattutto all'apprendimento del disegno e solo successivamente della pittura, come scrive Pascoli: Giuseppe "nel tempo stesso che andava alle scuole basse gli dava lezion di disegno, e passato all'altre cominciò a fargli maneggiare i pennelli" (p. 654). Un curioso documento di questo periodo può essere costituito dall'Autoritratto a penna in collezione privata inglese (Lo Bianco, 1999, p. 1), in cui l'artista compare all'età di circa quindici anni, seduto in atto di disegnare un busto posato sul tavolo, sullo sfondo di una ricca biblioteca di testi classici. Proprio in questo periodo è probabilmente da collocare la cresima del giovane, che ebbe un padrino d'eccezione, Carlo Maratta, evidentemente scelto dal padre per assecondare il talento del figlio verso una brillante carriera artistica (De Marchi, 1999, p. 45). Tra le frequentazioni del giovane vi è anche l'ambiente colto della Chiesa Nuova, dove il padre era di casa a causa della sua profonda amicizia con padre Sebastiano Resta, famoso collezionista ed erudito. Nel 1689 il G. risulta infatti iscritto nell'elenco degli oratoriani laici, insieme con il fratello Placido Eustachio. Qualche anno più avanti, nel 1695, vinse il primo premio del concorso bandito dall'Accademia di S. Luca, che aveva per tema un'opera sul "Giudizio universale". Al 1698 risale la prima opera nota, firmata e datata nell'iscrizione sul tergo della tela, il Paesaggio con s. Francesco, nella Pinacoteca civica di Montefortino (Ascoli Piceno). Si tratta di una tematica rara nella produzione del G., evidentemente educato ad affrontare i diversi generi pittorici in questa fase ancora formativa della sua attività. Nel 1702 il G. eseguì il primo dei suoi Autoritratti, conservati tutti, a eccezione dell'ultimo, del 1747, presso la Galleria degli Uffizi a Firenze.
Il piccolo esemplare, improntato a un tono di giocosa grazia, è corredato da una lunga iscrizione in versi, di mano del pittore, posta sul verso della tela, perfettamente indicativa dello spirito arguto e disincantato che fu la caratteristica costante della personalità del G.: "Pier Leone son io / di casa Ghezzi che dì 28 giugno / Quando al mille e seicento / Anni settanta quattro ancor / s'aggiunse io nacqui e si congiunse / A questi l'età mia di vent'ott'anni / Ch'ora nel mille settecentoedue / Mi mostra il tempo, e le misure sue / or mentre questo fugge e mai s'arresta / Io mi rido di lui e mi riscatto / Col dar perpetua vita al mio ritratto".
Nel 1705, a poco più di trent'anni, il G. venne accolto nell'Accademia di S. Luca. Come di prassi, eseguì un dipinto da donare all'istituzione, la Allegoria della Gratitudine, ancora oggi conservato in Accademia, in cui espresse tutta la propria riconoscenza per l'avvenuta nomina. La scelta iconografica è ispirata ai precetti della Iconologia di C. Ripa; la realizzazione è derivata dal linguaggio dichiaratamente marattesco del padre, di sicuro gradimento in ambito accademico. L'ingresso nell'ufficialità del giovane artista è accompagnato da altri importanti riconoscimenti ufficiali: la nomina a pittore della Camera apostolica con diritto di succedere a Giuseppe Passeri, nel 1708; la croce di cavaliere conferitagli dal duca di Parma l'11 febbr. 1710, che seguì il titolo di cavaliere, ereditato dal padre e dal nonno Sebastiano, cui era stato conferito dal re del Portogallo. Tutta questa serie di cariche onorifiche consentirono al pittore di inserirsi a pieno titolo nell'ambiente figurativo accademico, iniziando a partecipare alle grandi committenze pubbliche promosse sotto il pontificato di Clemente XI. Tra il pittore e papa Albani si instaurò un rapporto di vera e propria predilezione, in parte motivata dalla comune origine marchigiana, essendo l'Albani di Urbino e il G. di padre ascolano. Ma al di là di questa motivazione è molto probabile che il pontefice, uomo di profonda cultura e di idee aperte, avesse compreso la portata comunicativa della vena narrativa dei dipinti del G., nei quali la grande maniera tradizionale si arricchisce di un nuovo e pulsante sentimento del presente. La prima committenza pubblica affidatagli, nel 1712, era già estremamente importante poiché era destinata alla cappella della famiglia Albani, fatta erigere su disegno di Carlo Fontana, nella chiesa di S. Sebastiano fuori le Mura. Il G. realizzò una grande pala raffigurante la Elezione di s. Fabiano, posta di fronte a quella di Giuseppe Passeri con S. Fabiano che comunica l'imperatore Filippo l'Arabo, alla quale il più giovane artista sembra rifarsi nell'evidente intento di offrire un'interpretazione tradizionale e accademica del quadro religioso. Molto diverso è invece il carattere di un'altra importante committenza papale, la serie di sei grandi quadri celebrativi delle pie occupazioni di Clemente XI, citati in una lettera del 14 giugno 1710 di C. Poerson, direttore dell'Accademia di Francia a Roma (Lo Bianco, 1985, p. 109; 1999, p. 7), concepiti in maniera felicemente narrativa e familiare nonostante abbiano per protagonista il papa.
I dipinti, conservati presso la sede della soprintendenza per i Beni artistici e storici di Urbino, presentano forti scarti qualitativi, che lasciano ipotizzare la presenza di aiuti. V. Casale (Il segno forte di Biagio Puccini, in Scritti in onore di Alessandro Marabottini, Roma 1997, pp. 281-288) ha proposto di attribuire due tele della serie, Clemente XI al capezzale di un moribondo e Clemente XI distribuisce la comunione in S. Giovanni in Laterano a Biagio Puccini, sulla base di ragioni stilistiche.
Grazie alla predilezione manifestata da papa Albani e al ruolo di prestigio che aveva ormai assunto, il G. partecipò da protagonista alle due imprese pubbliche più importanti del periodo, la decorazione della navata della basilica di S. Clemente nel 1715 e di quella della basilica di S. Giovanni in Laterano nel 1718.
Nel primo caso eseguì l'affresco del Martirio di s. Ignazio di Antiochia. Il bozzetto preparatorio dell'affresco del G., già nella romana collezione Lemme, è stato donato nel 1998 dallo stesso Lemme alla Galleria nazionale di arte antica in palazzo Barberini. Per S. Giovanni in Laterano al G. venne affidata l'esecuzione di uno dei dodici ovali raffiguranti Profeti, posti nella parte alta delle navate, a completare il rifacimento borrominiano. Anche in questo caso, come a S. Clemente, oltre al G. che dipinse il Profeta Michea, furono chiamati a partecipare i pittori allora più celebri. La decorazione, che comprende anche dodici statue di Apostoli collocate nelle grandi nicchie marmoree della navata, venne inaugurata per la festività di S. Giovanni del 1718.
Sempre da casa Albani proviene uno dei dipinti più significativi di questa prima fase artistica del G., il Miracolo di s. Andrea Avellino, in collezione privata romana, citato in un elenco di quadri del palazzo Albani di Urbino del 1816.
La tela sembra inaugurare una tipologia nuova del quadro di storia religiosa, tradizionale e celebrativo nell'impostazione, documentario e narrativo nella resa pittorica dei personaggi e dei dettagli. La cerchia degli Albani che il G. e il padre Giuseppe frequentavano e nella quale svolsero un ruolo di primo piano, è caratterizzata da una spiccata sensibilità per le arti liberali e da una attenzione verso le novità culturali di quegli anni, provenienti anche da altri paesi. Tra i più assidui di questo ambiente colto ed erudito molti membri dell'Arcadia, tra cui il padre Giuseppe (De Marchi, 1999, p. 80) e lo stesso G., sebbene non risulti dai documenti del fondo accademico. La notizia si ricava invece da un suo disegno raffigurante il bosco dell'Arcadia, conservato nella Biblioteca Angelica (ms. 2136, f. 164) nella cui didascalia l'autore scrive di essere arcade.
In questo clima di felice apertura intellettuale il G. svolse anche la propria attività di ritrattista, particolarmente apprezzata per la sua vena informale e realistica, che la cordialità dei rapporti rese oltremodo gradita. L'esemplare più significativo del periodo è certamente il ritratto di Clemente XI, del Museo di Roma, firmato, databile intorno al 1710-12, in cui l'intento ufficiale si unisce al sentimento di familiarità. Degli stessi anni sono anche il ritratto di Annibale Albani, in collezione privata a Milano; il ritratto di Carlo Albani, della Staatsgalerie di Stoccarda; il ritratto di Gabriele Filippucci, nella Pinacoteca comunale di Macerata; il ritratto di Ulisse Giuseppe Gozzadini, della Biblioteca universitaria di Bologna; il Ritratto di cardinale, di collezione privata romana; il ritratto di Benedetto Falconcini, dell'Art Museum di Worcester. Stupisce di questo repertorio il carattere veramente fotografico della ripresa, sempre realistica e sintetica, che accentua gli elementi di somiglianza per una maggiore aderenza dell'immagine al personaggio ritratto. Questo stile così personale e inconsueto gli deriva dalla pratica della caricatura alla quale il G. si dedicò parallelamente alla pittura, lungo tutto l'arco della sua carriera, a cominciare dagli anni giovanili.
I primi esemplari noti risalgono infatti al 1693 e 1694 (Bibl. apost. Vaticana, Ottob. lat. 3112, cc. 75 s.), ma è molto probabile che ve ne siano anche di precedenti. Sottolineato da Pascoli, secondo il quale "dilettasi ancora di far ritratti caricati, e veduto che ha una volta sola il soggetto ne forma sì forte, e viva impressione, che nulla più gli bisogna per farli simili" (p. 655), questo repertorio ammonta a migliaia di esemplari, conservati oggi in collezioni pubbliche e private. È impossibile una quantificazione precisa poiché nuovi fogli affiorano costantemente sul mercato antiquario, in parte provenienti da tre volumi oggi smembrati, che appartennero a Carlo di Borbone re di Napoli e Sicilia, poi re di Spagna, e che furono di proprietà dei duchi di Wellington fino al 1971 (Bodart, 1976, p. 24).
Il fondo numericamente più consistente e più famoso è tuttavia quello conservato presso la Biblioteca apostolica Vaticana, denominato dallo stesso autore Mondo nuovo, ovvero otto volumi dei codici Ottoboniani latini, dal 3112 al 3119, contenenti ciascuno un numero oscillante dalle centotrenta alle duecento caricature, ordinate e rilegate dal G. stesso. Quasi tutti gli esemplari sono datati e firmati poiché corredati di una didascalia di pugno dell'artista con annotazioni varie sul personaggio ritratto, in una sintesi inscindibile di immagini e dati, che dà origine a una vera e propria cronaca della società settecentesca. Sono raffigurati infatti aristocratici, prelati, letterati, musicisti, viaggiatori stranieri, artisti, in una galleria unica e irripetibile. Altre caricature si trovano presso l'Istituto centrale per la grafica a Roma, il Gabinetto dei disegni e delle stampe del Museo di Roma, la Biblioteca Angelica, l'Albertina di Vienna, la Biblioteca nazionale della Valletta a Malta, la Biblioteca Passionei di Fossombrone (Pesaro), il Museo Puškin di Mosca e il British Museum a Londra. Questo ingente numero di fogli documenta il ruolo svolto dalla caricatura nell'attività del G., che può dirsi a buon diritto il vero iniziatore moderno di questo genere, praticato non più episodicamente, ma con assiduità professionale, essendo i disegni destinati a esser venduti a un numero crescente di acquirenti. È il caso di segnalare come alla morte del G., nel 1755, il direttore dell'Accademia di Francia a Roma, C.-J. Natoire, non riuscisse ad acquistare i volumi di caricature relative ad artisti francesi perché divenuti troppo costosi (M.N. Benisovich, G. and the French artists in Rome, in Apollo, 1967, pp. 340-347).
Nel 1719, dopo le grandi imprese pubbliche per papa Albani, il G. scrisse a Cosimo III de' Medici per offrire il proprio Autoritratto che venne accettato con gratitudine e che si conserva tuttora agli Uffizi. Sempre agli Uffizi è presente anche il terzo Autoritratto, risalente al 1725, firmato e datato sul retro, giunto nel museo solo nel 1768, proveniente dalla collezione Pazzi.
Nel 1721, a breve distanza, morirono il padre Giuseppe (10 novembre) e Clemente XI (19 marzo), le due figure fondamentali per la formazione e la carriera dell'artista, ormai pienamente affermato sulla scena romana.
Nel 1724 con l'elezione al soglio pontificio di Vincenzo Maria Orsini, Benedetto XIII, il G. rinnovò un felice rapporto di stima e di committenza anche se non si ripropose l'affettuosa predilezione di papa Albani. Per l'entourage papale il pittore eseguì uno dei suoi quadri più famosi, il Concilio Lateranense, ora a Raleigh, nel North Carolina Museum of art.
L'opera fu commissionata da Niccolò Maria Lercari, maestro di camera di Benedetto XIII, per documentare la prestigiosa circostanza del concilio provinciale promosso dal papa, tenutosi nella basilica dal 15 al 29 maggio dell'anno giubilare 1725. Ricordato da Pascoli, come "un capo d'opera", il dipinto del G. si svolge in maniera grandiosa e narrativa insieme, con un fitto brulicare di personaggi riccamente abbigliati, sullo sfondo scenografico e puntuale dell'interno della basilica lateranense. È evidente l'attenzione che il G. riservò in questo caso al repertorio di G. van Wittel e di P. Pannini, pittori da lui molto apprezzati. Per accompagnare l'opera Lercari fece eseguire altre quattro tele, di cui oggi si conosce solo Benedetto XIII consacra S. Giovanni in Laterano, di Giovanni Odazzi, sempre al North Carolina Museum of art.
Sempre per papa Orsini, come ricorda Moücke, il G. dipinse una curiosa scena di miracolo, conservata presso gli oratoriani della Chiesa Nuova, il Miracolo di s. Filippo a Vincenzo Maria Orsini futuro Benedetto XIII, che commemora il prodigioso evento grazie al quale il prelato, allora arcivescovo di Benevento, si salvò dal crollo provocato dal terremoto.
La stessa scena venne poi ripresa, in formato quadrato e con dimensioni più grandi, nella chiesa di S. Filippo a Matelica, vicino a Macerata, su probabile commissione di Filippo Piersanti, originario di Matelica, maestro di cerimonie del pontefice.
Pressappoco coeva è la decorazione della cappella di S. Clemente, nella sacrestia di S. Pietro, composta di tre grandi tele, raffiguranti la Morte di s. Clemente, e S. Clemente e l'Agnello, già poste nei laterali, oggi conservate nella Pinacoteca Vaticana, e una sull'altare centrale, descritta nel 1762 da J.-P. Chattard come "il Santo con penna in mano in atto di scrivere" (Lo Bianco, 1999, p. 135), purtroppo dispersa.
Nel primo dei tre, anche il più drammatico, il G. inserì, in maniera curiosa e imprevedibile, un proprio autoritratto, in abiti alla moda e con cappello piumato. È questo un periodo di intensa attività al quale risalgono molti dipinti di vario soggetto, concepiti tutti secondo questa vena narrativa e documentaria, piacevolmente alla moda.
Intorno a questi anni il G. realizzò Venere dona le armi a Enea dell'Art Gallery and Museum di Glasgow; il Ritorno del figliol prodigo al Minneapolis Institute of art; Giaele e Sisara in collezione privata inglese; le due grandi scene raffiguranti Innocenzo X conferisce il cappello cardinalizio a Fabio Chigi, futuro papa Alessandro VII, e Clemente XI conferisce il cappello cardinalizio a Giulio Albertoni, recentemente acquistate dal Museo di Roma (1995), dal complesso significato storico (D. Garstand, Master paintings 1350-1800, catal. Colnaghi, Londra, inverno 1989-90, pp. 84-121) e, infine, tra i dipinti di soggetto religioso, il Beato Antonio della Torre soccorre un moribondo, eseguito per la chiesa di S. Agostino dell'Aquila, ora conservato presso il Museo nazionale d'Abruzzo, a L'Aquila; il Battesimo di s. Savina in S. Maria in Via Lata, a Roma; S. Pietro presenta alla Vergine Assunta i ss. Domenico, Nicola da Bari, Francesco, Chiara, Filippo Neri, Felice da Cantalice e Francesco di Paola, di cui non si conosce la storia, dal 1963 nella sala di lettura dell'Archivio segreto Vaticano, proveniente dagli appartamenti pontifici del palazzo Lateranense. A questi stessi anni risale anche una grande tela condotta in collaborazione con A. Masucci, che rappresenta la cerimonia del Battesimo del principe Charles Edward Stuart, avvenuta a Roma nel 1720, conservata già a Mentmore, nella collezione Northesk, ma oggi di ubicazione sconosciuta. In parallelo, il G. proseguì anche l'attività ritrattistica; tra gli esemplari di questo periodo, improntati a un più sobrio naturalismo rispetto all'accentuato realismo del repertorio giovanile vanno annoverati: il Ritratto di monaca agostiniana (Toledo, OH, Museum of art), di cui è recentemente comparsa una replica autografa in collezione privata a Padova, il Ritratto di gentiluomo e il Ritratto di una principessa della famiglia Altieri, entrambi in collezione Lemme a Roma.
Già attorno agli anni Venti il G. strinse un serrato legame di committenza e di familiarità con Alessandro Falconieri, presidente della Camera apostolica dal 1697, governatore di Roma dal 1717, eletto cardinale nel 1724. Per celebrare questo suo nuovo status, il prelato affidò al G. la decorazione delle sue dimore di villeggiatura, il castello di Torrimpietra e la villa Falconieri a Frascati, per le quali l'artista realizzò una tipologia ornamentale veramente innovativa, scenografica e illusionistica insieme, in cui sono ritratti i personaggi della stessa famiglia Falconieri, protagonisti della committenza.
Nel 1725 il G. dipinse a Torrimpietra l'intero salone che ha per motivo conduttore la visita di papa Benedetto XIII e della sua corte al castello, avvenuta proprio quell'anno: nelle lunette sulle pareti brevi sono dipinte rispettivamente la Leggenda di Pagliaccetto e la Benedizione di Benedetto XIII, secondo quello stile fotografico e celebrativo che contraddistingue il G., nonché, nella parte inferiore, la scena, ugualmente documentaria e realistica, dell'Arrivo del papa a Torrimpietra; sulle pareti lunghe si trovano sfondi di paesaggio eseguiti dallo specialista francese François Simonot, detto Monsù Francesco e, nella parte superiore, lunette dalle quali si affacciano gruppi di abati, immaginari spettatori delle scene. Nelle sale contigue la decorazione prosegue con lo stesso tono giocoso e informale come dimostra la Passeggiata Falconieri in cui sono ritratti piccoli personaggi, rappresentanti della famiglia Falconieri, nei piacevoli ozi estivi. La descrizione precisa di tutti gli interventi è fornita dallo stesso G. che, nominato maestro di camera di Alessandro Falconieri il 22 marzo 1731, eseguì una stima di tutte le pitture (G. Michel - O. Michel, La décoration du palais Ruspoli en 1715 et la rédecouverte de "Monsù Borgognone", in Mélanges de l'École Française de Rome, Moyen Âge - Temps modernes, LXXXIX [1977], pp. 265-340). Dai documenti emerge anche l'intervento nella chiesa del castello, in cui il G. dipinse i due affreschi di S. Antonio abate e del Crocefisso con i ss. Antonio, Isidoro, Giuliana e Alessio.
Al 1727 risale la decorazione del salone di villa Falconieri a Frascati, come documenta la firma e la data posta dall'artista nell'iscrizione in latino sotto il proprio autoritratto, dipinto, a grandezza naturale e a figura intera, nel grande salone. In esso gli affreschi si svolgono lungo tutte le pareti su uno sfondo di cieli aperti e prospettive architettoniche, rispettivamente riferibili a Monsù Francesco, di cui si è detto, e a Domenico Villani, secondo la stima dello stesso autore (ibid., p. 332). Inquadrate da questi spazi illusori, che creano una continuità ideale con il paesaggio all'esterno, sono rappresentate scene di conversazione in cui figurano, ritratti al naturale, personaggi di casa Falconieri e altri ospiti, tra cui si riconosce l'abate Placido Eustachio Ghezzi, fratello dell'artista. Gli interventi nella villa comprendevano anche l'ornamentazione del salone di ingresso, in parte cancellata alla fine dell'Ottocento, risalente al 1724 come risulta dall'iscrizione sulla porta (ne resta testimonianza nel disegno raffigurante Le quattro parti del mondo: Asia e Europa: Roma, Istituto nazionale per la grafica, vol. 2606, f. 98); della cosiddetta stanza della ringhiera, 1727; della cappella e anticappella, collocabili tra il 1727 e il 1733 (oggi restano solo le pitture della cappella, pressoché illeggibili), e infine le scene agresti dell'appartamento del primo piano, in pessimo stato di leggibilità.
Per Alessandro Falconieri, nel 1725, il G. dipinse anche un quadro destinato alla cappella di famiglia nella chiesa di S. Marcello a Roma: S. Giuliana Falconieri e s. Alessio presentati alla Vergine da s. Filippo Benizi. L'iconografia della santa era particolarmente cara al cardinale poiché gli consentiva di celebrare con essa il proprio casato che da quella discendeva. La stessa tematica ricorre infatti negli affreschi di Torrimpietra (cappella contigua al salone e chiesa), nel dipinto della Immacolata Concezione col Bambino, s. Giuliana e il beato Alessio della chiesa di S. Maria in Castagnola di Chiaravalle (Ancona), terminato il 15 genn. 1732, come ricorda lo stesso G. nelle sue Memorie, solo recentemente individuato da V. Casale (in P.L. G. Settecento alla moda, p. 43) e, infine la Vestizione di s. Giuliana Falconieri, nella chiesa romana di S. Maria dell'Orazione e Morte, firmato e datato 1737, successivo quindi alla morte del Falconieri, avvenuta il 26 genn. 1734, ed evidentemente affidato al G. dalla famiglia.
Come sottolineano le sue biografie, in parallelo alla pittura e alla caricatura, il G. coltivava svariati interessi: "Né nella sola pittura si ristrigne il suo valore; perché tornisce, ed intaglia in rame, e in pietre dure. Ha studiato medicina, notomia sotto la direzione del Petrioli, e del Lancisi avendo tagliati molti cadaveri, e disegnati gli aggiunti all'Eustachi dall'ultimo. Intende anche d'architettura, e cel ha appieno mostrato in diverse operazioni, e singolarmente in quella del superbo fuoco artifiziale, che inventò nelle solenni feste, che faceva il cardinal di Polignac per la nascita del Delfino" (Pascoli, p. 655). L'incarico di realizzare per la nascita del delfino di Francia la macchina dei fuochi d'artificio in piazza Navona con "gran colonna istoriata a guisa dell'Antonina e della Trajana" è ricordato dal Diario ordinario del 3 dic. 1729; la stessa fonte, il 24 dicembre informa che il committente, il cardinale Melchior de Polignac, ambasciatore di Francia a Roma, donò al G. un diamante del valore di oltre 200 doppie, in segno di piena soddisfazione. Per lo stesso Polignac, con il quale strinse uno stretto rapporto non solo di committenza ma di familiarità e frequentazione, il G. esercitò anche l'attività di disegnatore antiquariale, passione che coltivava con interesse e dedizione crescente.
Lo testimoniano i moltissimi esemplari conservati nei codici Ottoboniani latini della Biblioteca apostolica Vaticana e in varie biblioteche, ai quali è dedicato lo studio di L. Guerrini e i più recenti contributi di G. Fusconi e A. Moltedo. Su commissione del cardinale francese il G. eseguì infatti i disegni di uno dei monumenti romani più importanti rinvenuto tra il 1725 e il 1726, le camere sepolcrali dei liberti di Livia, pubblicati nel 1731 nel volume intitolato proprio Camere sepolcrali de' liberti e liberte di Livia Augusta e d'altri Cesari, edito da Filippo De Rossi. Gli esemplari, di cui si ignora il nome dell'incisore, denunciano tutta l'esperienza maturata in campo archeologico dal G., che accompagnava nei sopralluoghi i suoi mecenati e i dotti esponenti di questa disciplina. Tra questi si ricordano Alessandro Albani, Francesco Ficoroni, e molti altri che lo stesso G. ritrasse in una famosa caricatura dei codici Ottoboniani latini (3116, c. 192: replica anche all'Albertina di Vienna), datata 1728 e intitolata proprio Congresso di antiquari, in cui compaiono tutti i rappresentanti di questo mondo erudito nonché l'autoritratto dell'artista. Il nucleo più consistente di disegni dall'antico è quello della Biblioteca Vaticana (Ottob. lat. 3100-3109), che risale agli anni 1724-40 circa (Fusconi, 1994). Altri esemplari si trovano presso l'Istituto centrale per la grafica (ms. F.N. 2606), la Biblioteca Angelica (ms. 2136) e il British Museum di Londra (vol. 197, d 4-5).
Nel 1731 il G. iniziò a scrivere un diario, purtroppo limitato a soli quattro anni, dal gennaio 1731 al luglio 1734, intitolato Memorie del cavalier Leone Ghezzi… (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 3765), pubblicato da Mancini per la sola annata 1731.
Si tratta di una fonte di prima mano estremamente importante perché in queste pagine il G. annota notizie di ogni genere, non solo relative alla propria vita e all'attività artistica, ma a tutti i protagonisti della società romana di quei tempi, con una ricchezza di dati biografici, storici, naturalistici, ancora oggi utilissimi per la ricostruzione di un clima culturale oltreché per quella della personalità del Ghezzi. Tra i personaggi ricorrenti compare il barone austriaco Philipp von Stosch, ritratto in varie caricature tra cui quella del Congresso di antiquari, e in un noto dipinto, firmato in latino e in greco, nel quale si raffigura lo stesso artista, Alessandro e Diogene, di collezione privata romana.
Dalle Memorie emergono anche dati per la ricostruzione più puntuale del repertorio del pittore. Il 5 ott. 1731 fa infatti collocare nella chiesa della nazione marchigiana, S. Salvatore in Lauro, la tela dei Ss. Gioachino Anna e Giuseppe, posta nella cappella di famiglia; mentre il 9 dicembre dello stesso anno dona per propria devozione la grande pala di S. Emidio e altri santi marchigiani, oggi spostata in sacrestia. Sempre dalle Memorie si evidenziano anche le molteplici attività dell'eclettico G., esperto d'arte, mediatore, stimatore, ma anche supervisore e organizzatore come nel caso del rapporto con il cardinale Troiano Acquaviva d'Aragona da cui ricevette l'incarico di "accomodare" il palazzo Altemps, in cui il prelato risiederà dal 1733 (Lo Bianco, 1985, p. 60). Stando alle notizie del biografo Moücke, lo stesso Acquaviva, a nome di Filippo V di Spagna, aveva invitato il G. ad assumere la carica di direttore della nuova Accademia di belle arti che doveva fondarsi presso la corte di Madrid. Non vi è traccia invece nel diario della partecipazione dell'artista alla commissione per la valutazione e la scelta dei modelli e dei disegni preparatori per la facciata di S. Giovanni in Laterano, avvenuta proprio nel 1732 (Lo Bianco, 1985, p. 74), in cui votò per il progetto di A. Galilei, risultato poi vincitore.
Nel 1736, a sessantadue anni, l'artista sposò Maria Caterina Peroni, sorella di quei Giuseppe e Nicola spesso nominati nelle Memorie. La notizia (De Gregori), ricavata dal testamento della Peroni, reso noto da S. Corradini (Giuseppe e P.L. G., 1990, pp. 111-131), non è riferita da altre fonti documentarie.
Tra le molteplici attività collaterali alla pittura, in questi stessi anni, vanno annoverati gli apparati per la canonizzazione di s. Giuliana Falconieri, eseguiti nel 1738, l'anno successivo alla realizzazione della pala destinata alla chiesa romana di S. Maria dell'Orazione e Morte, e quindi in prossimità del palazzo della famiglia Falconieri, committente dell'opera.
A partire da questo periodo il G. andò progressivamente diradando la propria attività pittorica in favore dei suoi molteplici interessi, che coltivò con crescente impegno. Al 1741 risale l'ultimo quadro noto di soggetto religioso, la Sacra Famiglia, del Musée des beaux-arts di Nantes, firmata e datata, densa di nuove implicazioni culturali.
L'opera rivela infatti l'assimilazione da parte del G. della cultura figurativa francese, ravvisabile già negli anni Trenta nel rapporto con il Polignac e l'Accademia di Francia, e divenuta poi formalmente tangibile nella attenzione ai modi del più giovane Pierre Subleyras. La scena si rifà infatti a un noto dipinto dell'artista francese, con S. Giuseppe e Gesù Bambino, del Musée des Augustins di Tolosa, eseguito in quello stesso 1741.
Proseguì parallelamente la produzione ritrattistica, anche se con una certa flessione rispetto alla fase giovanile. Al 1732 risalgono il ritratto di Paolo De Matteis, di collezione privata, che appare quasi una caricatura in pittura e il ritratto dello scultore Edme Bouchardon, degli Uffizi, che ribadisce i legami dell'autore con la realtà figurativa francese coeva. Di poco successivi il Ritratto femminile del Musée des beaux-arts di Nantes, di un realismo ricomposto e documentario che ci offre del G. un momento di felice maturità e il Ritratto virile, di collocazione sconosciuta. Al 1747 è datato il quarto e ultimo Autoritratto eseguito dal pittore per l'Accademia di S. Luca dove tuttora si trova. A differenza degli esemplari precedenti si tratta di un dipinto pienamente celebrativo, eseguito al termine di una lunga e prestigiosa carriera, arricchitasi poco prima di un altro incarico di grande rilievo: quello di soprintendente alle Fabbriche dei mosaici della basilica di S. Pietro, resosi vacante il 23 febbr. 1743 per la morte di Pietro Paolo Cristofari. Sempre nel 1747 il G. realizzò la decorazione con vedute paesistiche della galleria del palazzo pontificio di Castelgandolfo, commissionatagli dal futuro cardinale Marcantonio Colonna, promaggiordomo del papa Benedetto XIV, come ricordano i documenti. La tematica paesistica, inconsueta nel repertorio del G., rientra nella gamma articolata delle sue svariate capacità e trova un precedente nei disegni di paesaggio e di vedute da lui delineati, citati negli inventari testamentari della moglie e in parte pubblicati da D. Graf. E nello stesso anno, il 24 aprile fu proprio Benedetto XIV ad acquistare la raccolta di grafica dell'artista, ovvero i sedici volumi che vanno a completare il fondo Ottoboni della Biblioteca apostolica Vaticana (dal 3109 al 3125).
Rilegati dal G. e corredati anche di indice, per la parte delle caricature, secondo una moderna visione funzionale e didascalica, i volumi contengono solo in parte caricature (dal 3112 al 3119) di cui si è detto; gli altri "conservano disegni di reperti antichi (dal 3109 al 3110), una raccolta di varie bellissime stampe (il 3111), disegni di monete papali e senatorie (dal 3120 al 3125)" (M. Cipriani, in P.L. G. Settecento alla moda, p. 168).
L'attività grafica del G. proseguì con la realizzazione nel 1751 dei disegni per le incisioni pubblicate nel libro di M. Guarnacci, Vitae et res gestae pontificum Romanorum et S.R.E. cardinalium a Clemente X usque ad Clementem XIII. A questo tipo di repertorio, da illustratore, il G. si era dedicato in tutte le fasi della sua produzione e in varie riprese: nel 1712 per le Sei omelie di nostro signore papa Clemente undicesimo, esposte in versi da Alessandro Guidi; negli anni 1722, 1723, 1725, rispettivamente, per le Homiliae in Evangelia, per il Bullarium e per Epistolae et brevia selectioria di Clemente XI; nel 1726 per il Pontificale romano e per la Vita di Clemente XI; nel 1727 per la Brevis enarratio sacrorum rituum; nel 1736 per le Comoediae di Terenzio, pubblicate a Urbino per iniziativa del cardinal Annibale Albani; nel 1739 per la Sulamitide, boschereccia sagra di Neralco; nel 1740 per il Corso anatomico o sia Universal commento delle tavole del celebre Bartolomeo Eustachio di Gaetano Petrioli.
Il G. fu anche disegnatore di soggetti storici e religiosi, come è emerso dagli studi di Loisel Legrand che ha pubblicato numerosi fogli conservati nel Département des arts graphiques del Louvre.
Il G. trascorse gli ultimi anni di vita dedicandosi ai suoi molteplici interessi, già indicati da Pascoli, il quale aggiunge anche una serie di annotazioni sul personaggio: "Canta, e suona diversi strumenti, e si è in gioventù divertito col ballo, colla cavallerizza, e colla scherma. Discorre modestamente, non gli mancano erudizioni, ed è eccellente conoscitore delle maniere pittoresche antiche, e moderne. Non è perciò da maravigliarsi, se tratti famigliarmente con molti personaggi, e se da questi sia tenuto in gran conto, e ben sovente, qualora non vi va, mandato a chiamare" (p. 655). Tra i personaggi che l'artista frequenta in questo periodo va ricordato Domenico Passionei, di Fossombrone, con cui aveva condiviso il clima fervido del pontificato Albani e che, dopo un lungo periodo di nunziature e di missioni diplomatiche all'estero, nel 1738 era rientrato definitivamente a Roma. Lo stretto legame che si viene a stabilire tra il pittore e lo spregiudicato uomo di cultura non si manifesta in incarichi o committenze, ma si alimenta nelle frequentazioni colte, nella discussione, nella vita di relazione condotta nella dimora estiva di Passionei, il Romitorio di Camaldoli presso Frascati, meta di intellettuali e eruditi provenienti da tutta Europa. Molti di questi sono immortalati nelle caricature del G. conservate, tra l'altro, nella Biblioteca Passionei di Fossombrone.
Il G. morì a Roma, al culmine della fama, il 6 marzo 1755 e venne sepolto nella tomba di famiglia nella chiesa di S. Salvatore in Lauro. Quando, nel 1762, morì anche la moglie Caterina Peroni, fu compreso nel testamento di questa l'inventario dei beni di famiglia che dimostra come nella casa di via Giulia tutto fosse rimasto invariato, non solo la ricca collezione di dipinti, disegni e volumi, ma anche la spinetta con cui egli suonava, e tutti gli strumenti del mestiere come i pennelli e le tele, conservati evidentemente in una sorta di culto celebrativo.
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