PIER LUIGI Farnese, duca di Parma e di Piacenza
PIER LUIGI Farnese, duca di Parma e di Piacenza. – Nacque a Roma il 19 novembre 1503 dal cardinale diacono Alessandro Farnese (appartenente a una famiglia nobile insediata nel Lazio settentrionale sin dal XIII secolo) e dalla sua stabile convivente Silvia Ruffini, vedova di Giovanni Battista Crispi. Al pari del fratello Paolo, attraverso le bolle pontificie dell’8 e del 13 luglio 1505 fu legittimato e autorizzato a ereditare dal padre i beni aviti.
Mentre Paolo morì presto, Pier Luigi crebbe dapprima a Valentano, piccolo centro a ovest del lago di Bolsena, e poi a Roma; la sua educazione fu affidata a due umanisti emiliani: Baldassarre Molossi e suo nipote Stefano Negri da Casalmaggiore. I patti per la sua unione matrimoniale con Girolama Orsini, figlia di Ludovico conte di Pitigliano, furono stipulati già il 26 marzo 1513. Il successivo 23 giugno una bolla di Leone X rinnovava l’autorizzazione a Pier Luigi a godere dell’amplissima facultas testandi concessa al padre. Le nozze furono celebrate soltanto nel 1519. La figlia Vittoria nacque probabilmente nello stesso anno e il primo maschio (Alessandro) il 27 settembre 1520. Con bolla dell’8 luglio 1521, Pier Luigi ricevette, insieme con il fratello Ranuccio, la terra di Caprarola in vicariato apostolico.
Nello stesso luglio 1521, egli intraprese la carriera militare, come capitano di cavalleggeri nel contingente fiorentino inviato in appoggio all’esercito imperiale-pontificio diretto contro i francesi nello Stato di Milano. Fece le sue prime prove durante l’assedio di Parma, in agosto. Nel gennaio 1522, gli Otto di Pratica fiorentini lo richiamarono verso il Centro Italia: dopo la morte di Leone X (il 1° dicembre 1521), infatti, Perugia era stata conquistata dai fuorusciti Malatesta e Orazio Baglioni e Siena, alleata di Firenze, appariva seriamente minacciata. Pier Luigi partecipò ai combattimenti, correndo il rischio di cadere prigioniero presso Sinalunga. Quando poi il conflitto per Perugia trovò una momentanea conclusione (il 19 aprile 1522), a Pierluigi fu ordinato di porsi a presidio della Val di Chiana. Continuò almeno fino alla successiva estate a servire negli ordinamenti militari fiorentini; quindi, rientrò nel Patrimonio di S. Pietro. Il 9 ottobre 1524 nacque il suo secondogenito Ottavio.
Alla fine di dicembre 1524, Pier Luigi si offrì di militare per la Serenissima. Fu invece suo fratello Ranuccio a entrare nell’esercito veneziano. Tra il 1525 e il 1526, egli si avvicinò dapprima ai filoimperiali Colonna e poi iniziò a chiedere esplicitamente l’arruolamento nell’armata del Regno di Napoli. Tuttavia, nel marzo 1527, quando Clemente VII e Carlo V erano ormai in guerra, le sue offerte non erano ancora state accettate.
A sciogliere le riserve furono i fatti, poco tempo dopo. Discesi i lanzichenecchi in Italia, Pier Luigi si presentò al conestabile Charles de Bourbon sul confine fra Toscana e Stato della Chiesa, si dichiarò fedele all’imperatore e ricevette una patente con autorità sia di arruolare soldati sia di acquistare città, borghi e castelli a nome dell’imperatore (30 aprile 1527). Quindi, il 6 maggio 1527, partecipò con i Colonna e con le truppe di Carlo V alla conquista e al sacco di Roma, mentre suo fratello Ranuccio seguiva le sorti di Clemente VII, fuggito in Castel S. Angelo. Nell’occasione, Pier Luigi non dimenticò di impiegare i suoi soldati per proteggere il palazzo di famiglia in Campo dei Fiori, come pure la residenza di Baldassarre Molossi. Il successivo 20 giugno 1527 fu nominato commissario per il trasferimento delle truppe imperiali da Roma a Viterbo. Quindi, con l’aiuto del padre Alessandro, cercò di diventare signore di Castro e di Abbazia al Ponte. La reazione di Clemente VII fu durissima: Pier Luigi fu colpito da scomunica e contro Castro, che aveva occupato, furono inviate due spedizioni militari, culminate in un violento saccheggio della città sul finire dello stesso anno.
Pier Luigi aveva però fatto in tempo ad allontanarsi dal Patrimonio; passò quindi nel Regno di Napoli nell’esercito imperiale che cercava di opporsi all’invasione di francesi e veneziani. Il teatro delle operazioni, nel marzo 1528, era la Puglia. Pier Luigi, con 1500 fanti, presidiò efficacemente Manfredonia; poi si spostò in giugno in Calabria per rientrare in Capitanata in novembre; nell’aprile 1529, combatté presso Vico Bisceglie.
Dopo le paci del 1529, Pier Luigi continuò a servire Carlo V: nella stessa estate, ricevette infatti l’ordine di portarsi in Umbria, fra Spello e Foligno, sotto il comando del principe d’Orange Philibert de Chalon. Gli obiettivi degli eserciti imperiale e pontificio erano Perugia, che si era ribellata al dominio del papa, e Firenze, che Clemente VII era deciso a riportare sotto la signoria dei Medici (espulsi due anni prima). Preso sollecitamente il comando di un contingente di 600 fanti e 100 cavalleggeri, Pier Luigi dovette superare una breve malattia alla fine di luglio; quindi, iniziò il trasferimento verso Nord, saccheggiando pesantemente il territorio. Mancano altri particolari: secondo alcune fonti Pier Luigi fu espulso dall’esercito imperiale; secondo altre, ancora nel dicembre 1529, egli era accampato sotto le mura di Firenze.
Dopo il 1530, comunque, appare ritirato nei suoi feudi. Fra il 1530 e il 1532 nacquero gli ultimi suoi figli Ranuccio e Orazio. Riprese le armi nella prima metà del 1534 contro Giovan Francesco Orsini, erede della contea di Pitigliano, per contrasti di confine.
Il 13 ottobre 1534 il cardinale Alessandro Farnese fu eletto papa prendendo il nome di Paolo III. La posizione di Pier Luigi non mutò in modo repentino: troppo vivi erano i ricordi della sua partecipazione al sacco di Roma, nonostante l’assoluzione dalle censure ecclesiastiche in cui era incorso dopo quei fatti. Così, mentre il suo primogenito Alessandro ebbe la porpora già il 18 dicembre 1534, Pier Luigi ricevette disposizioni di trattenersi ancora nei suoi feudi. Quando si trasferì a Roma, inizialmente non ebbe nemmeno i gradi militari soliti concedersi ai più stretti consanguinei laici del pontefice. Piuttosto, la diplomazia imperiale riteneva possibile che egli prendesse il posto di Francesco Maria Della Rovere (duca di Urbino) nel grado di comandante generale delle forze veneziane, nella cornice di una più stretta intesa fra Paolo III e la Serenissima.
Pier Luigi continuò invece a orientare le sue strategie di avanzamento verso la corte di Carlo V. Nella stessa estate, la segreteria pontificia aveva iniziato a preparare una sua missione presso l’imperatore, reduce dalla presa della Goletta e di Tunisi. Egli doveva invitarlo a Roma, tenendosi comunque pronto a trattare le questioni sul tappeto: la convocazione del Concilio, lo strappo dell’Act of supremacy di Enrico VIII, i conflitti intorno al Ducato di Camerino (devoluto alla S. Sede nel febbraio precedente), la contrastata collazione della diocesi di Jaén al cardinale Alessandro Farnese. Pier Luigi avrebbe dovuto altresì rassicurare l’imperatore sulla neutralità del papa e iniziare a porre le basi per la costruzione delle fortune familiari, sebbene in modo prudente. Alla metà di novembre, egli incontrò a Cosenza l’imperatore che si dimostrò solo genericamente ben disposto. Al quadro politico-diplomatico già molto complicato si aggiunse l’incertezza provocata dalla morte di Francesco II Sforza, duca di Milano. A Pier Luigi fu data istruzione di cercare di capire quali fossero le intenzioni di Carlo V. I suoi successivi sondaggi non ottennero nulla ed egli fu richiamato a Roma.
Il papa apparve irritato per l’esito degli incontri. Pier Luigi, invece, si legò ancora di più alla causa imperiale: alla corte di Carlo V, del resto, gli si facevano promesse di concrete gratifiche. Così, quando il 5 aprile 1536 l’imperatore fece il suo solenne ingresso a Roma, Pier Luigi comparve nel corteo in posizione che rendeva visibile il suo favore. Nei giorni seguenti, gli fu offerta Novara in marchesato, ma il pontefice inizialmente non diede il suo assenso. Pier Luigi forzò la mano quando l’imperatore raggiunse il Piemonte (teatro di una nuova guerra con i francesi): inviò ad Asti Pier Antonio Torelli e tentò di ottenere la formale investitura della città. La mossa non piacque al papa; ancor meno fu tollerato a Roma un colpo di mano per sottrarre il castrum di Farnese a Isabella dell’Anguillara, vedova del consanguineo Galeazzo. Pier Luigi dovette moderarsi e ridimensionare le sue ambizioni: il papa lo ricompensò con un primo incarico negli ordinamenti militari pontifici: capitano di 100 cavalleggeri dal 1º agosto 1536.
Alla fine di ottobre 1536, fu inviato a Genova, dove l’imperatore era arrivato dopo una deludente campagna in Provenza. La missione aveva diversi obiettivi: favorire il ritorno alla pace, protestare ancora contro Enrico VIII d’Inghilterra, porre sul tavolo la questione del presidio della legazione pontificia Cispadana, violata dai belligeranti e turbata da un colpo di mano di Ludovico Rangoni contro Roccabianca (presso Piacenza) nel maggio 1536. Non mancavano anche istruzioni su questioni di interesse personale e familiare. Tuttavia, ancora una volta, il 12 novembre Pier Luigi ripartì per Roma senza aver colto alcun successo visibile.
Il suo coinvolgimento negli ordinamenti militari pontifici si fece più consistente: il 2 febbraio 1537, con solenne cerimonia, fu nominato gonfaloniere di santa Chiesa, con 12.000 scudi d’oro all’anno di stipendio. Raggiunse quasi nel contempo il titolo ducale: nel concistoro segreto del 15 marzo 1537 fu ratificata la permuta di Frascati – acquistata da Pier Luigi da Lucrezia della Rovere Colonna – con Castro e Grotte di San Lorenzo. Poté così essere creato, dopo un lungo periodo di acquisizioni nel Lazio settentrionale, il ducato di Castro (comprendente anche la contea di Ronciglione), infeudato a Pier Luigi con bolla Coelestis altitudinis del 20 ottobre 1537.
Si profilavano nuovi impegni in campo militare. A differenza dell’attività diplomatica, su questo terreno egli colse buoni risultati. Iniziò con un’ispezione generale delle fortificazioni costiere, a causa del pericolo turco, e ne approfittò per spegnere alcuni focolai di disordine interno. Partì alla fine di aprile 1537 con un nutrito contingente: risolse contrasti fra Spoleto e Cascia, rafforzò il presidio di Ancona, toccò Fano, Rimini e Bologna ed entrò in Emilia; mosse contro Roccabianca all’inizio di giugno, riprendendone il possesso; pochi giorni dopo, si spinse fino a Piacenza per pacificare i rapporti con i Rangoni. In agosto, fu richiamato dal papa a Roma, allo scopo di verificare quali punti del litorale tirrenico fossero meno difesi e in settembre riportò l’ordine a Fermo, turbata da contrasti con una comunità limitrofa (Monte San Pietrangeli). Carlo V – ancora non informato della sconfitta degli esuli fiorentini a Montemurlo (nei primi giorni dello stesso agosto 1537) – ne fu impensierito, temendo che Pier Luigi si unisse agli oppositori di casa Medici. Del resto, dopo l’assassinio del duca Alessandro, si erano sparse voci secondo le quali egli puntava a impadronirsi della fortezza di Pisa e addirittura a farsi signore dello Stato fiorentino. Erano timori infondati: in quel frangente, Pier Luigi intendeva stringere vieppiù i rapporti con l’imperatore, allo scopo di ottenere l’infeudazione di Novara.
Durante la citata missione nelle province settentrionali dello Stato della Chiesa, intorno al 27 maggio 1537, egli si rese protagonista di un gravissimo atto di violenza sessuale ai danni del giovane vescovo di Fano Cosimo Gheri, morto pochi mesi dopo. Parte della storiografia, sin dal XVIII secolo, ha ritenuto tale stupro del tutto inverosimile, nonostante ne parlassero i contemporanei, anche oltralpe, con orrore o per dileggio. Allo stato degli studi, alcuni commenti a ridosso del fatto di uomini molto vicini ai Farnese (come Pietro Bembo e Ludovico Beccadelli), lo fanno giudicare realmente accaduto.
L’ascesa di Pier Luigi procedeva nondimeno speditamente: il 17 febbraio 1538, ricevette da Carlo V l’investitura del marchesato di Novara, dal quale ricavava in entrate fiscali più di 14.000 lire imperiali all’anno. Tra aprile e maggio, quindi, si recò a Nizza, dove erano previsti incontri di pace fra Paolo III, Carlo V e Francesco I. Il 12 ottobre 1538 furono siglati i patti nuziali tra suo figlio Ottavio e Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore e vedova di Alessandro de’ Medici. Pier Luigi l’accompagnò da Siena a Roma nelle settimane successive.
Era intanto scomparso il duca d’Urbino Francesco Maria I Della Rovere, che – dopo aver sposato Giulia Varano – teneva occupata Camerino. Paolo III decise di rientrarne in possesso con un’azione militare: alla fine di novembre, a Pier Luigi furono date disposizioni di iniziare gli arruolamenti. Bastò solo questo per piegare la resistenza di Guidobaldo, il figlio del defunto duca, che lasciò la città marchigiana all’inizio del 1539.
Pier Luigi intraprese allora rilevanti riforme per il governo del Ducato di Castro. Ne riformò la fiscalità e avviò la risistemazione urbanistica del capoluogo, affidandone la progettazione ad Antonio da Sangallo, impiegato anche a Nepi. Una nuova impresa gli fu affidata nel maggio 1540, quando il papa decise di reprimere duramente la rivolta di Perugia contro la tassa sul sale. Pier Luigi fu posto al comando di un nutrito esercito che mosse in due tronconi. Non fu necessario un vero e proprio confronto militare: dopo le prime scaramucce, i perugini – guidati da Rodolfo Baglioni – chiesero di venire a patti. Pier Luigi entrò in città il 5 giugno, riuscendo a evitarne il saccheggio. Smobilitò parte delle truppe arruolate e, su ordine del papa, ne inviò una parte a presidio di Ancona (contro la quale si temeva un attacco dei pirati). Con mille uomini, fu quindi impegnato nel recupero degli armamenti presenti nel capoluogo umbro. Dopo un breve viaggio a Roma, tornò a Perugia, allo scopo di impiantarvi una nuova fortezza, progettata da Antonio da Sangallo.
Nell’estate 1540, ancora una volta, Pier Luigi cercò di influenzare il pontefice affinché stringesse i legami con Carlo V mediante il matrimonio di sua figlia Vittoria con un personaggio gradito all’imperatore. Non ebbe però alcun successo (Vittoria si sarebbe sposata solo nel 1547, con il duca d’Urbino Guidobaldo II Della Rovere).
Nuovi impegni militari allontanarono Pier Luigi da Roma. Come Perugia, anche il feudatario Ascanio Colonna si era ribellato alle misure fiscali volute da papa Farnese. Dopo alcuni monitori pontifici e fiacche trattative per la soluzione del conflitto, Paolo III era ricorso alle armi affidando al figlio l’invasione dei feudi colonnesi nel Lazio meridionale.
Le operazioni iniziarono alla metà di marzo 1541: Pier Luigi concentrò il grosso degli sforzi contro Paliano. Caduto malato, non riuscì però né a stringere completamente il forte sito, né a impedire che Ascanio Colonna agli inizi di aprile lasciasse il suo feudo assediato preparandosi a combattere in territorio pontificio. Il pagamento dell’esercito del papa, tutt’altro che regolare, raffreddava peraltro le iniziative offensive: solo dopo la metà di maggio le truppe di Pier Luigi riuscirono a entrare in Paliano per ridurre i feudi colonnesi all’obbedienza.
Nel successivo luglio cadde nuovamente malato e si temette per la sua vita: non partecipò dunque alla spedizione di Carlo V contro Algeri, nonostante possedesse una flotta di quattro galere (la Vittoria, la Capitana e la Patrona fatte costruire a Venezia nel 1540; la S. Caterina armata a Civitavecchia nel 1541). Nell’estate del 1542 intraprese una nuova ispezione generale delle fortificazioni marittime dello Stato della Chiesa e, dopo un breve soggiorno a Roma, tornò agli incarichi diplomatici: il 22 maggio 1543, per volere del papa, incontrò Carlo V a Genova e lo invitò a un colloquio con Paolo III a Busseto. Vide anche il marchese del Vasto, per intavolare trattative circa la cessione dello Stato di Milano a suo figlio Ottavio: a questo proposito – forse per iniziativa sua, forse del cardinale Alessandro – parlò di una contropartita ingentissima (2 milioni di scudi). La proposta trovò inizialmente il favore sia di Alfonso d’Avalos, sia dell’imperatore. Ma Paolo III limitò poi l’offerta a un milione e l’ipotesi cadde.
Fra luglio e settembre 1543, Pier Luigi ispezionò il suo Ducato di Castro e Ronciglione e, alla fine del successivo novembre, fu di nuovo a Civitavecchia; cadde quindi gravemente malato. Superata la crisi, appariva molto cambiato. Secondo il cardinale Ercole Gonzaga, pregava e ascoltava prediche quotidianamente, si faceva leggere le Lettere di S. Paolo e dava segni esteriori di volere cambiare vita. Non è facile misurare la portata di questa svolta. L’accenno alla Lettere di S. Paolo lascia pensare a contatti più stretti con il gruppo dei cosiddetti spirituali, possibili del resto anche di persona, in quanto il cardinale Reginald Pole e il gruppo che lo seguiva più da vicino, in quei mesi, si trovavano a Roma. In ogni caso, Paolo III mostrò di apprezzare molto il nuovo contegno di Pier Luigi, che divenne uno dei più suoi assidui interlocutori.
Rotta la tregua di Nizza e ripresa la guerra tra Carlo V e Francesco I, i Farnese azzardarono una strategia particolarmente spregiudicata. Il papa, dopo la vittoria francese di Ceresole Alba (14 aprile 1544), si era molto avvicinato a Francesco I. Poco dopo, la spedizione tentata dal filofrancese Piero Strozzi in Piemonte e addirittura in territorio lombardo lasciava immaginare il rovesciamento delle posizioni di forza nello scacchiere settentrionale italiano e forse l’insediamento della famiglia Farnese sul trono ducale di Milano. Così, in primavera, Pier Luigi fu inviato nella Legazione Cispadana con un nutrito contingente. Durante il viaggio passò per Perugia e Ancona, curandone i presidi. Giunto a Piacenza il 25 maggio, di concerto con il cardinal legato Giovanni Grimani, fornì assistenza logistica alle truppe di Strozzi, in ritirata dopo le sconfitte subite. Nel contempo, inviò Annibal Caro presso Carlo V per giustificare la condotta tenuta. Non bastò: gli ambigui giochi di Pier Luigi e del pontefice erano apertamente denunciati come sleali dagli uomini più vicini a Carlo V.
La posizione di Pier Luigi, che sul finire della stessa estate procedeva a una verifica delle dotazioni militari di Parma e di Piacenza, non ne fu tuttavia troppo danneggiata. Alla fine di novembre dello stesso anno, quando i rapporti tra Carlo V e Paolo III erano di nuovo migliorati, il cancelliere Nicolas Perrenot de Granvelle gli fece sapere che si contava sempre sul suo appoggio.
L’anno successivo, Pier Luigi seppe cogliere il frutto migliore delle sue strategie. In maggio, nei colloqui a Worms tra il cardinale Alessandro Farnese, Carlo V e Granvelle, si era ventilata l’infeudazione di Parma e Piacenza ai Farnese; in luglio l’obiettivo sembrava a portata di mano, ma subito erano sorte difficoltà circa l’alta sovranità delle due città, rivendicata da Carlo V; Pier Luigi nel frattempo si era recato a Piacenza, per restarvi l’intera estate. Con l’aiuto del cardinale Alessandro Farnese e soprattutto del suo segretario Apollonio Filareto (che riferì di un decisivo colloquio con il papa il 2 agosto) egli riuscì a raggiungere l’obiettivo di ottenere il titolo dal papa: dopo due movimentate riunioni del concistoro cardinalizio (il 12 e il 17 agosto 1545), il 19 agosto fu creato duca di Piacenza e di Parma. A nulla valse l’avvertimento dato a Paolo III dall’emissario imperiale Jean d’Andelot il 15 luglio secondo cui l’imperatore avrebbe acconsentito alla cessione delle due città soltanto a vantaggio di Ottavio Farnese. Pier Luigi tentò di rimediare inviando subito alla corte imperiale Paolo Pietro Guidi, ma senza risultati.
Nemmeno le trattative con la corte pontificia circa le quote di autonomia garantite furono coronate da successo. Pier Luigi puntava a marcare la sua sovranità: non pagare nessun censo alla S. Sede, mantenere poteri giurisdizionali amplissimi, ottenere licenza di produrre sale, senza essere costretto a importare quello della Camera apostolica. Paolo III invece pretendeva 9000 ducati d’oro di Camera come censo annuo e, quanto alla giustizia, ribadiva che le corti romane avrebbero dato i giudizi di ultima istanza. Ci vollero molte settimane per giungere a un accordo: la bolla di infeudazione In supereminenti fu stesa in settembre, retrodatata al 26 agosto 1545.
Il censo fu effettivamente stabilito nell’ingente somma indicata. Contestualmente, furono stabilite alcune permute che, almeno nella forma, dovevano rendere meno evidente il danno apportato ai domini pontifici: Nepi e Camerino passarono dai Farnese alla S. Sede; Ottavio (duca di Camerino dal 5 novembre 1540) fu risarcito mediante il titolo di duca di Castro e con la successione per sé e per i suoi eredi maschi al nuovo titolo.
Il breve pontificio che dava facoltà a Pier Luigi di prendere possesso dei suoi nuovi feudi fu emanato il 16 settembre 1545. Salvatore Pacino e il vescovo di Casale (Bernardino della Barba Castellari) presero possesso di Parma. Lo stesso Pier Luigi ricevette l’investitura per Piacenza una settimana dopo, nella cittadella viscontea (eletta a sua residenza).
Nel nuovo Ducato gli uffici centrali di governo furono sensibilmente innovati. Pier Luigi prese a modello le istituzioni del Ducato di Milano, studiate da Caro e da Anton Francesco Raineri: costituì una segreteria, un Consiglio ducale segreto, un magistrato dei Maestri delle entrate, un Consiglio supremo di giustizia e grazia.
La guida della segreteria fu affidata ad Apollonio Filareto; Caro curò specialmente i rapporti con il Consiglio supremo di giustizia e grazia.
Quest’organo, formato da sei consiglieri più il presidente Claudio Tolomei, fu istituito con atto del 27 settembre 1545. Aveva estese competenze: conosceva in ultima istanza i procedimenti civili, penali e misti. Agiva innanzi tutto per sua iniziativa, ma poteva essere adito dalle parti in causa per mezzo di suppliche.
Anche il governo delle due città conobbe significativi mutamenti: a Parma e a Piacenza, infatti, a capo dell’amministrazione il duca insediò due governatori di sua nomina, al posto degli antichi podestà nominati dai due Consigli generali. A essi rimandava altresì la ‘confirmatione ducale del decreto del maggior magistrato’, emanata il 1° aprile 1546. L’atto, che rinnovava disposizioni di età viscontea, intendeva correggere sia i feudatari sia gli ufficiali di governo nei rapporti con i sudditi. Allo scopo, veniva disposto che tutti i procedimenti fossero giudicati in ultima istanza dal maggior magistrato, cioè appunto dai governatori di Piacenza o di Parma.
Questa norma contribuiva a una vera e propria politica di contenimento della feudalità del Ducato. Manifestazioni eclatanti di questo indirizzo si susseguirono sin dalle prime settimane di governo. Pier Luigi avocò al suo tribunale un importante conflitto giurisdizionale con i conti Dal Verme signori di Romagnese, che risaliva al periodo della legazione pontificia. I Dal Verme sostenevano che i loro feudi fossero in toto separati da Piacenza: Pier Luigi fece condannare Giovanni Dal Verme per ribellione e il suo feudo fu occupato; nell’ottobre 1545 vi fu insediato un commissario ducale. Sentenze di condanna e incameramenti costituirono l’esito anche di altri confronti: Cortemaggiore fu confiscata a Gerolamo Pallavicino, Poviglio fu sottratta a Rodolfo Gonzaga. Altre disposizioni confermate colpivano i ceti aristocratici, come l’obbligo dei nobili di risiedere in città almeno per sei mesi, di contribuire al restauro delle fortificazioni, di non esportare cereali senza averne avuto licenza: tuttavia, Pier Luigi concesse anche, non di rado, esenzioni e privilegi personali e formò una corte per dare alla nobiltà l’occasione di esibirsi.
Non si costituì, tuttavia, fra i nobili di Parma e Piacenza, un vero e proprio gruppo di governo. Pier Luigi preferiva piuttosto intervenire in prima persona. Fra il 1545 e il 1546, a Parma e a Piacenza furono varate operazioni di perequazione fiscale (i cosiddetti ‘compartiti’, con nuovi estimi degli immobili posseduti e delle rendite godute). Alcune importanti imposte, la ‘tassa diritta’ a Parma e la tassa ‘sui cavalli morti’ a Piacenza, fino al 1545 riscosse a vantaggio delle rispettive comunità, dal 1546 passarono alla Camera ducale. Pier Luigi volle altresì il censimento generale della popolazione, che risultò ascendere al numero di 266.640 abitanti; circa 12.000 uomini furono arruolati in un corpo di milizie territoriali non professionali.
Altre iniziative riguardarono l’ambito delle attività economiche, sia nel campo della produzione sia del commercio. Pier Luigi istituì altresì la commissione Politica e ornamento, preposta ai progetti di revisione urbanistica per la città di Piacenza (17 gennaio 1547). Obiettivo eminente del duca in questo campo era lo sviluppo di un nuovo tracciato viario, soprattutto a nord-est della città. In questo quadrante egli immaginava l’edificazione di una nuova fortezza.
Alcuni progetti erano stati vagliati da Pier Luigi sin nella primavera del 1545, quando ancora la città faceva parte della Legazione pontificia Cispadana. Il successivo 10 ottobre egli aveva emanato un editto affinché fossero liberati gli spazi antistanti un miglio dalle mura cittadine. Nel contempo, aveva promosso la redazione di un primo progetto, di cui presero visione sia Michelangelo Buonarroti sia Antonio da Sangallo nel novembre 1545. I propositi di iniziare i lavori all’avvio, inizialmente, erano falliti per il rifiuto di Paolo III di finanziare l’opera; solo nella primavera 1547 il papa diede il suo assenso: il nuovo progetto, in forma pentagonale, fu opera di Sangallo, mentre Domenico Giannelli assunse la direzione dei lavori. Restava il problema del finanziamento: essendo le finanze ducali ordinarie assolutamente insufficienti e protestando il papa di non poter esporsi per i molti fronti di spesa sui quali era impegnato (peraltro, a Trento era aperto il Concilio), Pier Luigi diede prova di essere abile nel rastrellare fondi, anche da membri della corte papale. Le giornate di lavoro degli operai (tra 1500 e 2000) e gli impieghi di bestie da soma furono invece pagati dalla comunità piacentina e dalla Camera ducale, provocando malumori.
I lavori iniziarono nell’aprile 1547: il monastero di S. Benedetto dovette essere demolito; la prima pietra fu posta il 23 maggio. Tutte le successive fasi di realizzazione ebbero un ritmo serrato, sia per la cortina, sia per i baluardi, ma Pier Luigi non poté vedere la conclusione di tanti sforzi. Contro di lui, infatti, si preparava una congiura.
Il governatore dello Stato di Milano, Ferrante Gonzaga, era convinto che i ducati farnesiani rappresentassero una minaccia per i domini di Carlo V nel Nord Italia. Una nuova conferma fu offerta dal fallito colpo di Stato di Gian Luigi Fieschi a Genova (2 gennaio 1547): Pier Luigi era stato infatti a conoscenza dell’azione programmata e aveva venduto le sue galere al conte Fieschi. A nulla valsero le giustificazioni offerte da Salvatore Pacino, inviato presso l’imperatore. Convinto da Gonzaga, Carlo V decise di riacquistare Piacenza e Parma con la forza, o nella futura sede vacante o in altra occasione. Il governatore milanese allora iniziò a elaborare piani per un colpo di mano delle sue truppe, ma Carlo V, all’inizio di marzo 1547, diede disposizioni di non procedere oltre a causa del contesto interstatuale intricato. Prevalse allora l’ipotesi di una congiura interna (ideata da Giovanni Anguissola insieme con altri nobili piacentini: Agostino Landi, Alessandro e Camillo Pallavicino, Luigi Confalonieri); Ferrante Gonzaga, il 13 giugno, chiese l’autorizzazione all’imperatore perché fosse posta in atto e l’imperatore acconsentì un mese più tardi. I congiurati, a loro volta, avevano steso un testo in 21 capitoli a garanzia del futuro assetto istituzionale dell’ex Ducato e delle loro sorti personali: esso fu siglato dall’imperatore entro la fine di luglio 1547. Per compiere l’omicidio, fu però necessario attendere che Ottavio Farnese lasciasse Piacenza, dove soggiornò alla fine dell’estate. Si trattò di un’azione singolarmente facile, considerato che molti osservatori, e Caro in modo esplicito con lettera da Milano del 17 luglio, avevano mandato informazioni sul pericolo imminente. Nel primo pomeriggio di sabato 10 settembre 1547, mentre si trovava nella cittadella viscontea, i congiurati se ne impadronirono di sorpresa. Pier Luigi fu assassinato dal conte Giovanni Anguissola e due suoi sgherri.
Dopo l’assassinio, intorno alla cittadella si raccolse una folla tumultuante; arrivò anche un forte contingente guidato da Alessandro Tomassoni da Terni, mastro di campo generale del defunto duca. Furono sparati colpi contro le mura, finché Anguissola non fece penzolare il cadavere di Pier Luigi fuori dalla finestra disperdendo la folla; anche Tomassoni si allontanò verso Parma rimasta fedele ai Farnese. Il governo municipale piacentino, inizialmente, si proclamò favorevole al papa; poi però, già l’11 settembre 1547, accettò di accogliere entro le mura Ferrante Gonzaga e il suo esercito. Quest’ultimo, appena entrato, si recò in S. Maria degli Speroni (l’attuale chiesa di S. Fermo), dove si trovavano le spoglie di Pier Luigi: esse vennero meglio composte e trasferite nella chiesa della Madonna di Campagna, dove furono profanate per due volte.
Un anno più tardi, la vedova Girolama Orsini chiese di poter seppellire Pier Luigi nei feudi laziali. La salma fu trasferita all’inizio di luglio 1548. Celebrate esequie solenni in Parma (di cui però non sono pervenuti resoconti), essa fu portata nell’Isola Bisentina del Lago di Bolsena, per essere tumulata nella chiesa dei Ss. Giacomo e Cristoforo accanto agli antichi sepolcri dei Farnese. Il monumento funebre di Pier Luigi fu violato in data imprecisata e se ne è persa traccia.
Paolo III fece avviare un’inchiesta dal tribunale del Governatore di Roma sull’omicidio del figlio, che durò dal 20 maggio 1548 al 3 agosto 1549. Quindi, il 20 settembre 1549 emanò un breve con cui chiedeva la punizione degli assassini, che convocò a Roma. I nobili piacentini non riconobbero però la competenza giurisdizionale di quella corte e rimasero sotto la protezione di Ferrante Gonzaga. Gli Asburgo avrebbero mantenuto il dominio su Piacenza fino al 1556.
Nonostante l’assidua frequentazione con molti letterati (che volle coinvolgere nelle istituzioni di governo), Pier Luigi non si impegnò particolarmente nella committenza artistica. Si ricorda pressoché soltanto quella a Caro per Gli straccioni, commedia di ambiente romano scritta nel 1543. Nondimeno, sono noti alcuni suoi progetti di dotare la corte piacentina di una cappella musicale.
Esistono diversi suoi ritratti. Nel Museo nazionale di Capodimonte è conservato il ritratto di Tiziano con Pier Luigi in armatura da gonfaloniere della Chiesa (con un soldato vessillifero alla sua destra); un altro attribuito a Francesco De Rossi, detto Cecchino Salviati, con Pier Luigi in vestito broccato d’argento e con un cappello nero con piuma bianca è nel Museo di Palazzo Reale a Napoli. Una copia di quest’ultimo, attribuita a scuola veneziana, è nel Castel Sant’Angelo di Roma. Gli inventari del Palazzo del Giardino di Parma, inoltre, mostravano una testa di Pier Luigi da giovane con manto rosso di Raffaello (purtroppo perduta) e una replica del noto ritratto di Tiziano (con una variante: la bandiera portata dal soldato vicino a lui era gialla e non rossa). Il volto fu ripreso da Girolamo Mazzola Bedoli in un ritratto quasi a figura intera la cui copia è nella Galleria nazionale di Parma.
Nella letteratura dell’Ottocento italiano, la figura di Pier Luigi fu rappresentata come quella di un tiranno vizioso. Si segnala, dopo l’eponima tragedia in versi in cinque atti di Braccio Bracci (1855), il dramma lirico in quattro atti Pier Luigi Farnese, composto tra il 1875 e il 1891 da Arrigo Boito (con musica di Costantino Palumbo).
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