CECCHINI, Pier maria
Nacque a Ferrara il 14 maggio 1563. Fu uno dei più eminenti attori di professione del suo tempo. Particolarmente noto per il tipo comico di Fritellino che era il personaggio fisso da lui interpretato nelle commedie all'improvviso, contribuì ad affermare, anche attraverso una serie di scritti, l'onorabilità e la dignità culturale di una professione, quella d'attore, che si presentava alla considerazione pubblica come un fatto nuovo ed ambiguo.
Il C. appartenne a quella che potremmo chiamare la terza generazione della commedia dell'arte, di quei comici, cioè, che in pochi anni imposero al pubblico e alla cultura di tutta Europa non tanto un modo nuovo di far teatro, quanto l'esistenza stessa del teatro come arte e mestiere autonomo. Se la prima generazione fu quella che, alla metà del Cinquecento, creò le compagnie, unì in un'unica impresa comici, ciarlatani, buffoni che fino ad allora avevano lavorato separatamente, e fondò l'uso di far commedie e tragedie per professione; se la seconda generazione (quella dei grandi attori, dei Valerini, dell'Armani, di Isabella e Francesco Andreini, della Piissimi) impose al pubblico e al mondo della cultura un'immagine dell'attore come affascinante compendio di tutte le arti, come vertice dell'espressione e della creatività dell'uomo e (fatto del tutto nuovo e suggestivo) della donna libera di mostrarsi in scena; la terza generazione, quella del C., appunto, di G. B. Andreini, di Niccolò Barbieri fu impegnata a trasformare in conquiste consolidate e regolari gli eccezionali successi dei predecessori, a rivendicare per la professione teatrale non più soltanto un posto fra le arti, ma una stabile funzione nella vita della città. Sono gli anni in cui il nuovo fenomeno da cui trarrà origine la moderna organizzazione e il moderno sistema teatrale sta radicandosi in una diffusa rete di sale teatrali stabili e pubbliche, e individua, così, un mercato al di là delle sovvenzioni e della committenza delle corti. Il processo è però lento e, nella pratica, confuso. Così come appare difficile delineare un'immagine unitaria del comico professionista: verso la stessa professione, nella stessa compagnia convergono persone provenienti da diversi ceti sociali, da aree geografiche lontane le une dalle altre, con diverse esperienze culturali, spinte da motivazioni fra loro non omogenee.
A differenza della maggior parte di quegli attori che si specializzavano in maschere di zanni, di servi, il C. non entrò nella professione di attore partendo dalla condizione di ciarlatano o saltimbanco, ma da quella di giovane appartenente (probabilmente) alla borghesia ferrarese, occasionale interprete di commedie. Non ancora professionista, infatti, nel 1583 recitò a Mantova per il duca Guglielmo Gonzaga. Quell'"accidente" (come il C. scriverà in una lettera del 30 marzo 1622) si convertì poi "in natura", e nel 1584 entrò al servizio del duca di Mantova come comico professionista. Erano gli armi in cui i Gonzaga (il duca Guglielmo e soprattutto il figlio Vincenzo, che gli succederà nel 1587) cercavano di organizzare una compagnia che raccogliesse il meglio dei comici italiani. La corte dei Gonzaga radunava artisti, virtuosi di musica e danza, scrittori e poeti. La compagnia d'attori costituiva un elemento nuovo, qualcosa a metà fra la schiera degli artisti e dei virtuosi tradizionali e la schiera dei saltimbanchi e dei buffoni di corte.
Rifacendosi, forse, ad una tradizione mantovana, il ruolo fisso che il C. assunse fu quello di Fritellino, un primo zanni, il servo furbo, organizzatore di truffe e beffe, e, dal punto di vista drammaturgico, il personaggio che quasi incarna la trama, l'elemento centripeto della commedia all'improvviso. Nella sua commedia L'Amico tradito (Venezia 1633) il C. presenta il personaggio di Fritellino come il "ritratto di tutte le scelleraggini, il compendio di tutte le furberie". Il C. fu forse il primo a trasferire in commedia una maschera che apparteneva alla tradizione buffonesca e carnevalesca, fornendo così di essa una versione "colta" e inserendola in un gioco chiuso e raffinato. Fu questo, d'altra parte, il procedimento comune alle prime generazioni dei comici dell'arte. Che Fritellino fosse un tipo comico appartenente alla tradizione dei buffoni (e quindi, da qui, pronto a passare a quella dei tipi e delle maschere di carnevale), lo attestano una serie di documenti della corte mantovana già sul finire del sec. XV (cfr. D'Ancona, II, p. 367). Ma le notizie del modo in cui questo tipo comico, si configura in palcoscenico sono scarse e quasi inesistenti tanto che alcuni (Amaretti, Paglicci Brozzi) hanno potuto credere che fosse un secondo zanni, un servo sciocco sul tipo di Arlecchino.
Due delle contorte figure che compaiono nella celebre serie di incisioni di Callot I balli di Sfessania (1622) portano l'indicazione "Fritellino" e "Gian Fritella", e vengono spesso indicate come immagini plausibili della maschera portata in scena dal Cecchini. V. Manheimer (Die Balli von Jacques Callot, Potsdam 1921; cfr. anche recensione di B. Croce, in La Critica, XX[1922], 1, pp. 47 ss.) sostiene che Callot fu a Napoli nel 1620, in un periodo in cui vi era anche la compagnia del Cecchini. La notizia, però, non riesce certo a rendere sostenibile l'ipotesi di un rapporto fra l'immagine di Callot e quella scenica del C., sia perché I balli di Sfessania rappresentano un ballo popolare e carnevalesco chiamato anche "della Locia", e non rappresentazioni teatrali dei comici dell'arte, sia perché, come sostiene in maniera molto convincente il Prota Giurleo, il procedimento di Callot dovette consistere nel sovrapporre alle immagini, in una maniera del tutto casuale, nomi tipici delle maschere dei carnevali italiani. Più vicina, forse, al personaggio rappresentato dal C. è un'incisione del sec. XVII riprodotta dal Rasi e dall'Enciclopedia dello Spettacolo (sub voce Cecchini). Deriva, forse, dalla popolarità del C. a Parigi, nei primi anni del Seicento, il personaggio di Fristelin che compare nelle farse di Tabarin.
Negli anni che vanno dal 1584 al 1595 il C. non fu continuativamente in compagnie comiche al servizio del duca di Mantova. Partecipò quasi certamente ad una compagnia del duca di Sabbioneta in cui, nel 1590, viene ricordato uno zanni Fritellino (cfr. A. Solerti, Ferrara e la corte estense nella seconda metà del sec. XVI, Città di Castello 1900, p. CVIII); fu al servizio del granduca di Toscana e degli Estensi di Ferrara, come egli stesso riferisce in una lettera del 14 nov. 1595. Il 6 febbr. 1591 un gruppo di "comici ferraresi" fra cui un "P. M. Chezzini" (che è quasi certamente il C.) viene segnalato fra gli ospiti dell'albergo della Fortuna di Mantova (cfr. A. Bertolotti, Musicialla corte dei Gonzaga in Mantova dal sec. XV al XVIII, Milano 1890, p. 70). Presto, però, il C. metterà su casa a Mantova (ricorda d'essersi da tempo trasferito, "con tanta spesa", da Ferrara a Mantova in una lettera del 17 dic. 1605), e nella compagnia dei Gonzaga, i Comici Accesi, resta stabilmente dal periodo intorno al 1595 in poi (cfr. lettera del 9 giugno 1612, in cui il C. ricorda d'esser stato al servizio dei Gonzaga "diciotto anni continui").
L'attività quotidiana degli Accesi, di cui faceva parte il C., una delle maggiori compagnie del momento, ci è testimoniata soltanto, in questi anni, da una lettera in cui Vincenzo Gonzaga chiede ai rettori della Repubblica di Genova, nell'agosto 1597, dipermettere ai comici da lui protetti di dare spettacoli in quella città "per tre mesi continui" così come han fatto "in altri luochi d'Italia" (cfr. G. Scriba, La Commedia del 500, parte V, in Il Caffaro, 30 dic. 1882).
Anche sugli aspetti privati della vita del C. le notizie sono rare e casuali. In genere si tratta di accenni, contenuti nelle lettere che di lui ci sono giunte, ad una attività di piccolo imprenditore, che gli permetteva di investire parte del denaro guadagnato come comico: in una lettera del 18 maggio 1598 propone al granduca di Toscana di mettere in atto un nuovo ritrovato per la filatura della seta, riservando per sé il 10% dei guadagni; il 17 dic. 1605 scrive d'aver pensato di dedicarsi esclusivamente al commercio della seta in Mantova; il 10 ott. 1609 ricorda al duca Vincenzo certe promesse che questi gli aveva evidentemente fatto in merito al suo commercio e gli comunica d'aver provveduto a far venire a Mantova il più esperto costruttore di filatoi di Bologna; e il 24 dic. 1618, a Napoli, stipula un contratto con Giacomo Galasso, bolognese residente in Napoli, secondo cui questi cede al C. il diritto di far fabbricare in tutta Italia, esclusi gli Stati del re di Spagna, per dieci anni "molini quali macinano senz'acqua e senza vento". Il Galasso permette al C. di sfruttare la sua invenzione (che forse, come suggerisce il Prota Giurleo, pp. 76-78, non è altro che una variante del mulino che funziona per forza animale) a patto che in ogni supplica e contratto il nome del Galasso sia sempre citato prima di quello del C., e che all'inventore venga versato un terzo dei guadagni detratte le spese.
Altre notizie riguardano una ferita all'occhio riportata dal C. all'età di diciannove anni (cfr. l'oroscopo del C. alla Bibl. naz. di Firenze, riprodotto dal Rasi), e, molto più tardi, un omicidio. Il C. uccise, intorno al 1600, un altro comico, Carlo De Vecchi per "honorate cagioni", com'egli scrive nella dedica delle Lettere facete e morali, o - come in termini più espliciti è appuntato nell'oroscopo citato - "uxoris causa", a causa della moglie. Anche quell'omicidio, così, contribuiva a modellare l'immagine del comico C. su quella del gentiluomo geloso del suo onore. E che non fosse delitto ma quasi dovere è quanto il C. dice fra le righe quando ricorda d'esser stato costretto per un breve tempo a cercare nobili protezioni per sfuggire "non so s'iò debba dir lo sdegno o pur il costume della Giustitia". Fu il marchese di Scandiano ad offrirgli protezione: il C. ricorderà l'episodio dedicando al figlio di lui, nel 1622, le Lettere facete e morali, proprio l'opera in cui si mostra nei panni di un gentiluomo ormai vecchio e di buon senso. È legata a questo episodio la supplica con cui, nel giugno 1600, il C. chiede al governatore di Milano un salvacondotto per poter restare tranquillamente in quella città, dato che è stato "bandito in contumacia" da Torino (il documento è stato ritrovato e pubblicato dal Paglicci Brozzi). Quando tutto questo avveniva, il C. era già diventato un attore famoso, la personalità più influente della compagnia degli Accesi.
Il 1600 è l'anno in cui gli Accesi si recano in Francia, prima a Lione e poi a Parigi, in occasione delle nozze di Enrico IV con Maria de' Medici. Il comico più famoso della compagnia è l'Arlecchino, Tristano Martinelli, di sette anni più vecchio del Cecchini. È direttamente a lui, oltre che a Vincenzo Gonzaga, che Enrico IV scrive, nel 1599, per chiedere la presenza dei comici italiani in Francia (cfr. Baschet, p. 106). Dopo esser stati trattenuti a lungo a Torino, gli Accesi giungono a Lione nel dicembre 1600, prendono parte ai festeggiamenti per le nozze regali e seguono la corte a Fontainebleau e a Parigi, dove restano fino all'ottobre del 1601.
Gli spettacoli di corte e gli spettacoli pubblici dati dai comici italiani rivelavano l'esistenza di una terza via oltre quella di un teatro "serio", dignitoso per contenuti e veste letteraria, e quella delle labili rappresentazioni di strada, efficaci e buffonesche presenze che non riuscivano però a crescere in esperienze culturali: la via di un teatro che innestava nell'armonia del gioco scenico, frutto di grande professionalità e quindi di cultura, tutti gli elementi della comicità teatrale, da quelli raffinati e letterari, a quelli considerati tradizionalmente "bassi" e volgari.
Nell'ottobre del 1601 la contessa Marie de Boussu, dama della corte di Bruxelles, scrive al duca di Mantova perché cerchi lui di convincere gli Accesi a non tornare subito in Italia, e a dar rappresentazioni, per due mesi, nelle Fiandre e nel Brabante. Malgrado la fama d'Arlecchino, Marie de Boussu indica gli Accesi come "i compagni di Fritellino". I due zannidella compagnia, il C. e il Martinelli, entrano presto in contrasto, scrivono lettere al duca lamentandosi l'uno dell'altro, tanto che il C., per un certo tempo, è indotto ad allontanarsi dal resto della compagnia (lettera del 3 luglio 1601). Ma il contrasto C.-Martinelli non rivela soltanto gelosia e rivalità di primi attori, un esempio delle divertenti e furibonde miserie dei comici, rivela, invece, due modi opposti di vivere la relativamente nuova condizione di attore di professione.
Il Martinelli, o meglio Arlecchino è il destinatario di lettere che provengono da re e regine, e lui tratta re e regine, duchi e duchesse con una famigliarità, con scherzi e irriverenze che a tutta prima hanno dell'incredibile, ma che in realtà rivelano un modo d'essere attore, uno stile di vita che tende ad identificare l'immagine pubblica dell'attore con quella del suo personaggio e che fa dell'attore una variante del buffone. Lavora accanto al C., ma rappresenta precisamente ciò che il C. rifiuta e con cui teme d'essere identificato. Il primo cerca di affermare la propria presenza nella società agendo sempre, nelle sue lettere, nel suo modo di comportarsi, da Arlecchino; il secondo rivendica la propria dignità umana e culturale indicando la distanza che lo separa dal suo personaggio. Il suo ideale è essere Fritellino in palcoscenico, e nobiluomo nella vita.
Nella compagnia degli Accesi, che rivela alla corte e al pubblico di Parigi il nuovo teatro italiano, c'è un comico di sedici anni più vecchio del C., che acquisterà fama non come attore, ma come autore di scenari: è Flaminio Scala, che nel 1611 pubblicherà l'unica raccolta a stampa di scenari dei comici dell'arte, uno dei più grossi contributi all'affermazione della dignità culturale del teatro dei professionisti. Lo Scala era compagno di attori come Francesco e Isabella Andreini, che erano già celeberrimi negli anni in cui il C. entrava nella professione. Forse per questo viene da alcuni indicato come il maestro del Cecchini.
Le bizzarrie degli eruditi hanno, in seguito, creato altri e più strani legami fra lo Scala e il C.: il Quadrio immaginerà che Orsola, moglie del C., in arte Flaminia, fosse, invece, la moglie dello Scala (forse perché nei famosi scenari di questo una delle due amorose si chiama Flaminia); centocinquant'anni dopo il Valeri cercherà di dare un ordine all'abbaglio del Quadrio e immaginerà un rapporto più logico e altrettanto infondato: Orsola Cecchini sarebbe stata non la moglie, ma la figlia dello Scala. Il C., così, avrebbe sposato la figlia del suo maestro. In realtà, della moglie del C. sappiamo solo il nome (Orsola) e il personaggio abituale (Flaminia). Anch'essa, all'inizio del '600, è già un'attrice celebre, una delle maggiori fra le giovani attrici di professione, spesso al centro di polemiche e di burrascosi pettegolezzi. Si è già detto di come il De Vecchi ci avesse rimesso la vita.
Nel 1608, a Milano, viene pubblicata una Raccolta di varie rime in lode della Sig. Orsola Cecchini nella compagnia degli Accesi detta Flaminia (cfr. Rasi, sub voce Cecchini. Orsola) in cui sono compresi 109 componimenti poetici "di honorati cavalieri e d'altri virtuosi spiriti".
L'anno dopo, a Torino, il Marino scrive, invece, 100 ottave e 40 sonetti satirici che non ci sono pervenuti e che erano tutti invettive e condanne della moglie del C., odiata, pare, da molti "per la sua alterigia e frenesia nell'amor di Cintio", un giovane attore della compagnia degli Accesi. Di queste composizioni del Marino dà notizia Virginia Ramponi, moglie di Giovan Battista Andreini, in una lettera a Vincenzo Gonzaga del 4 agosto 1609, in cui si vanta, fra l'altro, d'aver "gettato a terra ogni trofeo eretto dalla sig.ra Flaminia".
Gli anni fra il 1602 e il 1614 sono tutti segnati dai violenti scontri fra il C. e sua moglie Orsola da una parte e Giovan Battista Andreini e sua moglie Virginia Ramponi dall'altra. L'Andreini è figlio dei famosi Francesco e Isabella, più giovane del C. di una quindicina d'anni, è già il più celebre "innamorato" del momento, possiede una vasta e aggiornata cultura letteraria e dirige la compagnia dei Fedeli, anch'essa al servizio di Vincenzo Gonzaga duca di Mantova. Il contrasto con i giovani non sopisce quello del C. con il vecchio Tristano Martinelli, che continua a far parte degli Accesi. Nel dicembre 1605, per esempio, Martinelli e il C. scrivono lettere di reciproche accuse alla corte di Mantova. È in una di queste lettere che il C. parla del Martinelli come di un buffone. In una lettera dell'11 sett. 1606, spiegando alla corte di Mantova perché non può collaborare con gli Andreini, il C. scrive: "Queste sono persone avezze andar coi comedianti, voglion comandare, gridare, andare et stare, et questo gli piace, ma io che sono costumato con gli primi comici che siano stati al mio tempo, non posso né mi par ch'io debba sopportar certe impertinenze".
Una compagnia di comici era, in realtà, un paradosso vivente: era l'unico esempio di un gruppo di persone, differenti fra loro per estrazione sociale, provenienza geografica, cultura ed età unite in un rapporto stabile di collaborazione e senza una gerarchia precisa.
I rapporti gerarchici che si stabilivano all'interno della compagnia erano in uno stato di perenne fluidità: ogni nuovo venuto poteva rimettere tutto in discussione, ogni posizione consolidata poteva essere presto distrutta dai progressi artistici e dal successo di un altro. Inoltre, anche l'automatico rapporto di subordinazione della donna all'uomo veniva infranto dall'evidente necessità di riconoscere un peso maggiore, nelle decisioni da prendere, a chi, indipendentemente dal suo sesso, maggiormente contribuiva al successo della compagnia. Questo rendeva fluidi, non precedentemente determinabili, i rapporti all'interno dei nuclei famigliari e poteva rendere ancora meno districabile un nodo che derivava dalla presenza stessa delle attrici: l'intrecciarsi e spesso il contraddirsi di un sistema gerarchico e di rapporti basato sull'esercizio della professione, con un sistema gerarchico e di rapporti che risultava dai legami famigliari e parafamigliari all'interno della compagnia.
Un sistema dall'equilibrio così instabile rischiava d'essere del tutto compromesso se veniva intaccato anche l'unico dato certo che, in fondo, garantiva la precaria unità della compagnia: la precisa distinzione dei ruoli scenici. Se due attrici, per esempio, si alternano nel ruolo di prima donna, aprono nel sistema dei ruoli una falla che conduce la fluidità dei rapporti all'interno della compagnia fino al suo estremo, fino all'interno dello spettacolo, creando così una spaccatura in cui si riverseranno tutti i sommovimenti e le tensioni presenti nella compagnia, senza più nessun freno. È quanto in sostanza spiega il C. in una lettera a Vincenzo Gonzaga del 14 ag. 1609, una delle poche lettere di comici che abbandona la cronaca minuta e si solleva quasi a un livello teorico. Forse la causa di questo mutamento di tono sta nel problema che il C. affronta e che è un problema generale: egli deve spiegare al duca di Mantova perché non siano realizzabili in pratica i suoi desideri di riunire in un'unica eccezionale compagnia le due degli Accesi e dei Fedeli. Le compagnie non sono puri e semplici aggregati di attori e attrici più o meno bravi (per cui sarebbe auspicabile formarne una tutta di ottimi, creando la compagnia dall'alto), sono organismi delicati e complessi, "onde sarebbe ottimo consiglio - scrive il C. - che Sua Altezza lasciasse fare e disfare le compagnie ai comedianti".
Vincenzo Gonzaga, finché fu in vita (morì nel 1612) continuò a proteggere il C., che si sentiva da lui stimato più d'ogni altro attore. L'esempio più chiaro di questo atteggiamento del duca lo si ebbe nel 1607-08, quando si trattò di organizzare una seconda presenza degli Accesi in Francia. La regina Maria de' Medici si era ancora una volta indirizzata direttamente all'Arlecchino Tristano Martinelli. Ma il duca di Mantova investirà ufficialmente il C. e sua moglie della direzione della compagnia, che avrà, come secondo zanni, non più Arlecchino, ma Cola, un personaggio napoletano interpretato dal comico Aniello di Mauro.
Gli Accesi giunsero in Francia nel gennaio 1608, dopo esser stati trattenuti a lungo, a Torino alla corte dei Savoia, ed esser stati quindi costretti a compiere il viaggio nel corso di un inverno terribile che mieté più vittime della recente pestilenza (cfr. Baschet, pp. 165 s.). Dopo una serie di spettacoli riservati alla corte, gli Accesi ottengono dai sovrani il permesso di dare spettacoli pubblici e, il 17 febbraio, prendono in affitto l'hôtel de Bourgogne dalla Confrairie de la Passion.
Una lettera alla corte di Mantova dell'ambasciatore Guiscardi (19 marzo 1608) riferisce di un incidente verificatosi fra un nobile francese e l'amministratore degli Accesi, Battistino Austoni, che rischiò addirittura la vita per far rispettare il diritto dei comici ad esser pagati da chi entrava in teatro. Un altro scontro si verificò fra gli Accesi e Fontenoy, "controleur des comédiens", che riteneva d'aver diritto, per la sua carica, ad un palco gratuito. Il Fontenoy, per altro verso, testimonia l'interesse della cultura francese per la commedia dell'arte, dal momento che, nell'anno stesso delle rappresentazioni del C. a Parigi, pubblicò la traduzione francese di un libretto apparso l'anno prima in Italia, le Bravure del Capitano Spavento, di Francesco Andreini.
Eco diretta del successo ottenuto dalla compagnia del C. sono le lettere di Maria de' Medici a Mantova, una lettera del Guiscardi (8 marzo) in cui si dice che gli Accesi, malgrado la quaresima, continuano a dare spettacoli, e una lettera di don Giovanni de' Medici, zio della regina, intenditore d'arte teatrale e protettore di Flaminio Scala, in cui si dice che la causa del successo è da attribuirsi al "valore e alla saggezza di Pier Maria detto Fritellino che, con grande abilità, mantiene l'unione e l'accordo dei diversi membri della compagnia" (cfr. Baschet, pp. 168 s.).
Il C. resta a Parigi fino all'ottobre 1608. È questo il suo più grande successo primadel "trionfo" personale a Vienna nel 1614. Al di là di questi vertici, il tentare di ricostruire l'attività del C. conduce a risultati illusori. Attraverso l'analisi dei documenti possiamo individuare l'una o l'altra maglia (casualmente nota) di una rete di viaggi e di attività che ci resta ignota.
L'8 febbr. 1612 muore Vincenzo Gonzaga. Il nuovo duca è Francesco Gonzaga, da cui, forse, il C. non si aspetta tutto l'appoggio e la protezione che aveva ricevuto da Vincenzo. Il legame quasi personale che univa a questo gli Accesi è casualmente sottolineato in una lettera in cui un Francesco Hondodei, di passaggio da Padova, riferisce di aver visto una compagnia di comici (certamente la compagnia del C. dato che si fa riferimento a Flaminia) alcuni dei quali sono "reliquie del serenissimo signor duca di Mantova" (cfr. G. Saviotti, Lettera di Francesco Hondodei al cugino Camillo, in Giorn. st. d. lett. ital., XLI [1958], pp. 51-54). Il tono delle lettere del C. al duca Francesco è spesso velatamente recriminatorio, ricorda le sue passate benemerenze, la sua fedeltà ai Gonzaga malgrado le vantaggiose proposte ricevute a Venezia e Firenze (dove gli era stata offerta la sovrintendenza ai giochi pubblici), lamenta la concorrenza sleale di Florinda, la Virginia Ramponi moglie di Giovan Battista Andreini, che impedisce agli Accesi di dare spettacoli in Firenze, dove già il C. aveva prenotato uno "stanzone" dove far commedie (cfr. lettere del C. del 30 gennaio e 9 giugno 1612). L'8 dic. 1612 il C. scrive a Francesco Gonzaga confermandosi sempre pronto a servirlo, ma informandolo anche d'aver messo su casa a Venezia. Gli invia, inoltre, la compagnia di Marcantonio Romagnosi, "huomo che per la sua parte di Magnifico è il primo che hoggi reciti", sicuro che il duca ne sarà contento, anche perché il Romagnosi è persona civile, a differenza della "più parte dei comedianti [che] hanno puoco modo di trattar fuori di Comedie". Il C., quasi cinquantenne, si avvia ad essere un comico autorevole, che è in grado di accordare protezione agli altri, che comincia a dare alle stampe opere che testimoniano della sua cultura.
Nel 1614 il C. è a Vienna, chiamato alla corte dell'imperatore Mattia. E qui l'imperatore, il 12 novembre, gli conferisce il titolo di nobile. È, in fondo, il punto di arrivo e il coronamento di una carriera, ma anche la riprova di quel che il C. si era impegnato a dimostrare fin dai primi anni di lavoro: la possibilità, per i comici, d'esser riconosciuti e accettati come onorati uomini di cultura, alla pari d'ogni altro artista. La nobiltà conferita al C. diverrà presto un'arma di difesa in mano ai comici, che la useranno come argomento contro i ricorrenti attacchi alla liceità e all'onorabilità della loro professione.
È del 1614 l'ed. (Vicenza) dell'opera del C. in difesa dei comici (Brevi discorsi...); ed è sintomatico che un letterato accademico romano, il Locatello, autore di una raccolta di scenari oggi famosa, sostenitore della tesi secondo cui solo chi fa teatro per piacere e passatempo è onorato, mentre il professionista è infame, abbia anche composto un discorso (andato perduto) di obiezioni ai Discorsi "di un certo Pier Maria Cecchino, ferrarese, comico acceso e publico histrione".
Fu proprio in quegli anni, infatti, che si giocò una battaglia che vide nel C. un protagonista. È facile comprendere, però, come l'altra faccia della insistente rivendicazione, da parte del C., della propria dignità morale e culturale, potesse essere o apparire alterigia, autoritarismo, disprezzo dei colleghi.
Nel 1621 Silvio Fiorillo (lettera a Mantova dell'11 maggio) lamenta la "tirannia di Fritellino". Qualche anno dopo, in una lettera, sempre indirizzata alla corte di Mantova, il 6 genn. 1627, Francesco Gabrielli scrive che "Fritellino è buono da farsi odiare non solo dai comici, ma da tutto il popolo, e lo vediamo per isperienza, perché se volle compagni bisogna vadi per forza da prencipi, o che li paghi".
Il colpo più gravo alla propria autorità il C. lo ricevette nell'ottobre del 1620. Era in progetto un nuovo viaggio in Francia, erano sorti i soliti contrasti fra i comici più prestigiosi, il C., Orsola, G. B. Andreini, Virginia, il vecchio Martinelli e Francesco Gabrielli. Il C. scrive a Francesco Gonzaga che è disposto a recarsi in Francia solo se è nominato ufficialmente direttore della compagnia, come già era stato fatto dal duca Vincenzo nel 1608. La direzione viene invece affidata a G. B. Andreini, e il C. estromesso. Invece di andare a Parigi va a recitare a Lodi, scrive al duca una lettera amareggiata ("Son 35 anni ch'io vado per il mondo..."), recluta, a Piacenza, una compagnia di comici che, dati i tempi che corrono, andrannocertamente bene anche se "stanno fra il comico e il ciarlatano", e infine riafferma quasi con noncuranza la sua solitaria superiorità: a Piacenza, scrive, "fo stupir questi popoli e cavaglieri, quali veddono a far i pochi quello che non hanno altre volte veduto, far a molti" (lettere del C. a Mantova del 21 ottobre e del 5 dic. 1620). Ma ormai il C. sembra affidare ai libri il compito di costruire la sua immagine pubblica di attore colto e di gentiluomo, e di riaffermare il valore del teatro professionistico. Oltre a due commedie (La Flaminia schiava, Venezia 1612, Milano 1620 e Venezia 1629; L'Amico tradito, Venezia 1633), dà alle stampe una difesa dell'arte dell'attore e della moralità del teatro (Brevi discorsi intorno alle Comedie Comedianti et spettatori, dove si comprendo quali rappresentazioni si possino ascoltare et permettere, Napoli 1616, Venezia 1621), un trattatello sul modo di recitare la commedia all'improvviso (Frutti delle moderne comedie et avvisi a chi le recita, Padova 1628) e una raccolta di Lettere facete e morali (Napoli 1618, Venezia 1622), che sembrano avere il compito di dimostrare la cultura del C., di rappresentarne la saggezza e le doti di onest'uomo anche al di fuori del campo teatrale.
Particolarmente importante è il trattatello Frutti delle moderne comedie. Dopo aver parlato della necessità di non far comparire in teatro situazioni disoneste, della differenza fra i comici dell'Italia meridionale e quelli dell'Italia settentrionale, dell'uso della voce e del gesto in scena, il C. si ferma ad analizzare i principali ruoli della commedia all'improvviso, dando, per ognuno di essi regole pratiche e indicando gli abusi più comuni. Ne emerge un'idea di spettacolo che rifiuta la stravaganza scenica, o quel che è stato chiamato il "surrealismo comico" di alcuni grandi attori dell'arte. Se è vero che la proposta di uno spettacolo verisimile e ben architettato rischierà poi di sboccare nel conformismo (cfr. Apollonio, St. d. teatro ital., III, p. 63), e può far pensare al C. come ad un attore accademico e misurato, in base all'ipotesi - solo apparentemente logica e fondata - di un diretto rispecchiarsi dello stile di recitazione di un attore nei suoi scritti teorici, non bisogna dimenticare che il senso della proposta del C. è all'interno di una più vasta azione per la difesa della professione comica, che non poteva più usare l'arma della bizzarria, dello stupore e del fascino per inserirsi definitivamente fra gli usi e le attività socialmente accettate. Del tutto infondata, invece, l'ipotesi (cfr. Tessari, pp. 80 e 225) di un'anacronistica opposizione fra due diverse concezioni della stessa "improvvisazione" teatrale dell'attore professionista, che per il C. (come invece è per tutti) sarebbe frutto di conoscenze acquisite, letture fatte e citazioni, mentre per altri (sulla base di un'errata interpretazione di due o tre termini usati dallo Scala nel primo prologo al Finto marito) sarebbe invece frutto di spontaneità creativa.
Gli ultimi anni dell'attività del C. sembrano mostrare un indirizzo sempre più chiaro verso l'organizzazione del teatro cittadino, indipendente dalle corti.
Fra le notizie, infatti, che ci tramandano qualche momento del girovagare del C. (1615: Firenze; 1616: Napoli, Milano; 1618: Napoli, con rappresentazione del Pastor Fido e dell'Idropica a palazzo reale; 1619: Roma, Macerata, Firenze; 1620: Napoli, Bologna, Milano, Lodi, Piacenza; 1621: Venezia; 1622: Venezia; 1623: Venezia, Firenze, dove presenta alla corte La Pazzia di Flaminia; 1624: Venezia; 1625: Venezia; 1626: Venezia; 1627: Parma; 1631: Napoli; 1632: Roma), emergono con particolare omogeneità notizie riguardanti Venezia e Napoli. Lo Zorzi e il Mangini hanno recentemente messo in luce un contratto che impegnava la compagnia del C. a dare rappresentazioni al teatro di S. Luca a Venezia per le stagioni teatrali dal 1622-23 al 1624-25. È il più antico contratto riguardante un teatro veneziano. I Vendramin, fondatori del teatro di S. Luca, chiamarono il celebre C. ad inaugurarlo, così come a Napoli, nel 1618, aveva inaugurato un altro teatro che avrà poi una lunga storia, il teatro dei Fiorentini. Due anni prima, sempre a Napoli, era stato scritturato da Natale Consalvo per la "stanza delle commedie" di S. Giorgio de' Genovesi (cfr. Croce, p. 61; Prota Giurleo, pp. 27 e 70 ss.). Gli im presari privati cominciano a sostituire i principi, e il teatro trova un luogo sempre più stabile nel complesso della vita cittadina. Ma l'ultima lettera del C. giunta fino a noi è ancora al duca di Mantova. due anni dopo il saccheggio, la peste, la carestia subita da quella che era stata la patria dei comici. Il C. parla della "iscomposizione" della natura, a Nord come a Sud, e racconta l'eruzione del Vesuvio (1631) da cui era appena scampato (lettera del 6 marzo 1632, da Roma).
Nel 1633 il C. pubblica a Venezia la sua seconda commedia letteraria, L'Amico tradito.
Oltre alle opere a stampa già cit., ci resta, del C., un Discorso sopra l'arte comica con il modo di ben recitare, copia del ms. andato distrutto nell'incendio della Bibl. naz. di Torino, conservata a Roma, Bibl. del Burcardo, ms. Rasi. Parti delle opere del C. sono ripubblicate in: F. Petraccone, La commedia dell'arte: storia, tecnica, scenari, Napoli 1927 (da Frutti delle moderne comedie, pp. 8-18) e in V. Pandolfi, La commedia dell'arte. Storia e testi, III, Firenze 1958 (pp. 354-68: brani da Brevi discorsi intorno allecomedie …, pp. 78-90: Discorso sopra l'arte comica, p. 90: brani da Frutti delle mode e comedie). I tre trattatelli sono ripubbl. In F. Marotti, La profess. del teatro, in via di pubblicazione a Roma.
Degli ultimi dodici anni della sua vita, se è vero quel che dice F. Bartoli, che morì nel 1645, non si hanno notizie.
Fonti e Bibl.: Le lett. del C. e di altri comici qui cit., in Arch. di St. di Mantova, Arch. Gonzaga, Lettere autogr., cass. n. 10, e a Roma, Bibl. del Burcardo, L. Rasi, Cart. di P. M. C. diTorino, Milano e Firenze. Cfr. inoltre F. S. Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, III, 2, Milano 1744, pp. 215, 230, 237; F. Bartoli, Notizie istoriche de' comici italiani dal 1550 fino al 1781, Padova 1782, sub voce; L. Ughi, Diz. stor. degli uomini illustri ferraresi, I, Ferrara 1804, sub voce; A. Baschet, Les Comédiens ital. à la Cour de France sous Charles IX, Henri IV et Louis XIII, Paris 1882, pp.115-22, 161-89; F. Amaretti, Un artista e scrittore drammatico ital. del sec. XVII, in Il Filotecnico, II (1887), 1-2, pp. 23-33; A. Paglicci Brozzi, Contr. alla storia del teatro. Il teatro a Milano nel sec. XVII. Studi e ricerche negli Archivi di Stato lomb., Milano s. a. [ma 1891], pp. 24-27; B. Croce, I teatri di Napoli, Bari 1926, pp. 59-72; A. D'Ancona, Orig. del teatro ital., Torino 1891, II, pp. 366-68, 413, 447. 532; Carletta [A. Valeri], Un palcosc. del Seicento (Lelio e Fritellino), in La Nuova Rass., I(1893), 48, pp. 797-800; E. Bevilacqua, Giambattista Andreini e la compagnia dei Fedeli, Torino 1894; L. Rasi, I comici italiani, Firenze 1897, sub voce; A. Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea dal 1600 al 1637, Firenze 1905, pp. 101, 170; E. Bocchia, Una supplica della compagnia degli Accesi nel 1628, in Aurea Parma, IX (1925), pp. 46 s.; M. Apollonio, Storia della commedia dell'arte, Roma-Milano 1930, pp. 1948, 241 ss.; K. M. Lea, Italian Popular Comedy, Oxford 1934, I, pp. 280-91, 471; E. C. Salzer, La commedia ital. dell'arte alla corte viennese, in Riv. ital. del dramma, II (1938), pp. 181-204; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, III, Firenze 1946, pp. 63-66; I. Sanesi, La Commedia, Milano 1954, pp. 535-537; U. Prota Giurleo, I teatri di Napoli nel '600. La commedia e le maschere, Napoli 1962, pp. 70 ss., 76 ss., 131; R. Tessari, La Commedia dell'arte nel Seicento, Firenze 1969, pp. 80-85, 224 ss.; N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974, pp. 48-50; L. Zorzi, Il teatro e la città, Torino 1977, pp. 253 s.