Pasolini, Pier Paolo
Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna nel 1922 e morì a Roma nel 1975. Dell’esperienza espressiva straordinariamente multiforme di Pasolini, che fu, oltre che scrittore, anche regista cinematografico, ricordiamo qui soltanto: per la poesia i testi in friulano de La meglio gioventù (1954) poi riscritti ne La nuova gioventù (1975), Le ceneri di Gramsci (1957), L’Usignolo della Chiesa Cattolica (1958), La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971); per la narrativa Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1959), Il sogno di una cosa (1962), Teorema (1968), La divina Mimesis (1975) e l’incompiuto Petrolio (pubblicato postumo nel 1992); per gli scritti di critica Passione e ideologia (1960) ed Empirismo eretico (1972); per gli articoli giornalistici le raccolte postume degli Scritti corsari (1975) e delle Lettere luterane (1976). Alla base della ricchissima produzione pasoliniana sta «una volontà poetica ininterrotta e onninclusiva» (Bandini 2003: XV).
Le sue molteplici esperienze di scrittura e di generi paiono muovere tutte da una fondamentale disposizione lirica in cui il soggetto è in perenne dissidio col mondo («e ogni forma dell’esistenza gli è nemica» si legge nella Religione del mio tempo): un conflitto da cui trae, insieme, motivi di dolore e la convinzione del valore assoluto della scrittura poetica, luogo della verità e della coincidenza tra il personale e l’universale. Alla lingua limpida ed esente da ogni vezzo vernacolare degli esordi friulani seguono le poesie in italiano de L’Usignolo della Chiesa Cattolica (costituito da composizioni del 1943-1949): qui l’autore punta a uno stile che, in sintonia con l’«alta lingua romanza / e cristiana radice», si nutre di riferimenti liturgici (gli innari cattolici), scritturali (S. Paolo) e provenzali (Bernart de Ventadorn), risolti però in una scrittura semplice e raffinata, dalla sottile filigrana retorica e dagli effetti luministici quasi smaltati.
Con Le ceneri di Gramsci la lingua poetica pasoliniana muta e trova un primo, provvisorio, assestamento. Il rapporto tra pluralità dei linguaggi, da un lato, e costante lirico-autobiografica, dall’altro (vera forma interna delle raccolte successive) si realizza in un teso equilibrio compositivo in cui la letterarietà delle scelte ha ancora un’incidenza rilevante: l’adozione del poemetto pascoliano in terzine, «l’incredibile ricchezza dell’aggettivazione» (Mengaldo 1991: 214), le scelte lessicali (glauco afrore, lucore terreo, elisie radure), le inversioni e gli iperbati sono fattori formali che non soccombono, ma anzi sostengono (talvolta in un ductus quasi solenne) le opzioni prosastiche di fondo, quali termini comuni o ‘impoetici’ (la Ferro-Beton), il vocabolario astratto della discussione intellettuale (impeto gobettiano) e quello della critica d’arte, attivo (attraverso la mediazione di Longhi) soprattutto nel genere privilegiato della descriptio.
È una compresenza di tensioni che, se da un lato fa segno a un nesso ossimorico di base (e l’➔ossimoro è la figura-chiave dell’intera opera pasoliniana), è dall’altro rinvenibile anche sul piano sintattico, dove s’affrontano movenze argomentative e scatti interiettivi (con l’ecco presentativo che vale da frequente introduttore di sequenze disposte per accumulo o congerie). È però un equilibrio instabile, che i volumi successivi prima mettono in crisi e poi dissolvono. Così in La religione del mio tempo «la furia della confessione» e «la furia della chiarezza» prevalgono sulle altre componenti tematiche e linguistiche proponendo una sempre più intensa e arrovellata analisi di sé: lessico e sintassi, più che mimare i tratti del parlato, si adeguano a ritmi ormai scopertamente saggistici fino a fare talvolta della poesia un genere della critica letteraria con tanto di giudizi espliciti e articolati.
L’io è insieme figura lirica che redige il proprio diario privato e testimone della sua epoca, politica e culturale. La convivenza di queste due funzioni, nel momento in cui assicura nel tempo l’identità convulsa e sofferta del soggetto, provoca però una progressiva espansione di quest’ultimo sui suoi temi e argomenti, violentemente interiorizzati, e una pronuncia sempre più diretta e priva di filtri letterari.
Gli altri due libri poetici di Pasolini (Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar) sono, soprattutto il secondo, romanzi autobiografici di un «poeta dilettante» che – come dice l’autore – «scrive poesie sulla sua esistenza» ostentando noncuranza stilistica e confusa sprezzatura formale; più apprezzabile, nitida e netta nelle sue giunture razionali, è la prosa giornalistica, forse il vertice anche stilistico dell’ultimo Pasolini, raccolta negli Scritti corsari. La convinzione dell’«inutilità della poesia», la varietà delle occasioni (paesi, viaggi, film), i temi dell’attualità sono responsabili, oltre che dello sgretolarsi della forma compositiva del poemetto in terzine, di un ampliamento senza pari della tastiera verbale: terminologia cinematografica, romanesco (generone, pischelli), specialismi della linguistica (fonemi, isoglotte), turpiloquio e linguaggio colloquiale, frasi fatte, locuzioni esotiche (dallo swahili all’amarico), latinismi e in genere forme colte e dantismi in gran copia, citati quasi con trascuratezza, convivono tra loro a esprimere il «magma» in cui l’autore ora si muove («Sono tornato tout court al magma!»). Ma senza attriti o effetti polifonici, tanto forte è la vocazione autorappresentativa di Pasolini, sempre incline al ritratto di sé stesso e alla ricerca del ‘suo’ epiteto, masochistico e sacrificale.
Sintassi e testualità non escono certo indenni da questo disgregato accumularsi di materiali. Se nella raccolta del 1964 il procedere sintattico-semantico appare regolato dal montaggio informale delle sequenze, in Trasumanar e organizzar si registrano l’intervento delle note a sostegno esplicativo del testo, la tendenza alla riscrittura della stessa poesia e (con l’eclisse del punto fermo) la propensione al non finito con versi in sospeso e frasi non compiute: segno grammaticale dell’abdicazione dell’antica centralità della poesia e del suo potere rappresentativo nel mondo contemporaneo.
Della prosa narrativa pasoliniana i casi linguisticamente più rilevanti sono offerti dai due fortunati romanzi d’ambientazione romana e, da ultimo, dall’informe e incompiuto Petrolio. Le componenti dello spartito pasoliniano in Ragazzi di vita e in Una vita violenta sono il romanesco, la morfosintassi parlata e il codice letterario. Mentre nel primo romanzo sussiste ancora, nel contrasto spesso veicolato da intenti ironico-valutativi, una divaricazione tra parola dialettale dei personaggi e parola letteraria del narratore, nel secondo la tensione all’amalgama è più forte e determina un sensibile avvicinamento tra mimesi e diegesi. Si è molto discusso sull’attendibilità dialettale del romanesco qui usato: nonostante «la desultorietà delle indicazioni grafico-fonetiche dialettali» (Serianni 1996: 229) e alcuni (pochi) ‘errori’, la ricostruzione della varietà delle borgate e del loro lessico appare – espressionisticamente rivissuta nel laboratorio dello scrittore – «abbastanza attendibile quanto a diatopia» (ibid.: 203). Impressionante risulta il ricorso ai fenomeni della morfosintassi parlata, rappresentata nei suoi aspetti più antigrammaticali e popolari. Ad apertura di pagina s’incontrano, tanto più rilevanti quanto più concentrati nelle zone dell’indiretto libero o del narratum, anacoluti e concordanze a senso, segmentazioni della frase e pronomi d’interesse o d’affetto, ipotetiche semplificate e casi di ➔ che polivalente, ridondanze pronominali ed esempi di ci attualizzante. Un profluvio di forme che fa dei romanzi pasoliniani (e, in particolare, di Una vita violenta) «uno dei casi in cui il livello della lingua di un romanzo si è più abbassato» (Coletti 1993: 347).
Di particolare originalità il trattamento e le scelte sul piano della lingua letteraria. Forbitezza espressiva, forme auliche e dotte, sovratoni preziosistici sono evitati. Pasolini pare piuttosto puntare o alle radici del codice letterario (le rappresentazioni, di sapore provenzaleggiante, di albe e notturni) o a quella zona – difficilissima da raggiungersi – in cui risuonano le latenti armoniche condivise da orale e scritto. In tal senso parlano gli effetti di musicalità raggiunti per via iterativa (strutture correlative, reduplicazione degli aggettivi, dittologie, coppie e terne, anafore) o per via lirica (rime, assonanze, allitterazioni, paronomasie). Da qui una dimensione ritmica del récit pasoliniano, che si nutre originalmente dei nuclei fondamentali della testualità orale.
A fronte di questi risultati si può misurare il percorso pasoliniano nella prosa narrativa paragonandoli con la lingua dei materiali allestiti per Petrolio, definito dall’autore «una specie di summa di tutte le mie esperienze». Qui, in sintonia con l’evolversi della sua poesia, pare prevalere l’impianto saggistico della lingua a scapito dell’idea narrativa e delle sue forme e strutture. Aperte movenze metatestuali e autoriflessive indirizzano la scrittura verso una destinazione allegorica e simbolica e comportano l’intromissione nel testo di un piano analitico che ha per oggetto l’«ossessione dell’identità». Il «saggio» inclina così verso «una specie di poema» (sono parole di Pasolini) in cui il lirismo ha ancora una volta un’incidenza decisiva ed evidente soprattutto nelle articolatissime e pittoriche descrizioni della luce: ad «una luce matura, dolce, di catastrofe» Pasolini consegna il suo libro-testamento, punto terminale di una inesausta e irripetibile sperimentazione umana e linguistica.
Su «Rinascita» del 26 dicembre 1964 Pasolini pubblicò una conferenza intitolata Nuove questioni linguistiche (ripresa poi in Empirismo eretico). A questo testo consegnò una tesi sull’italiano contemporaneo che suscitò un vasto dibattito, destinato a durare sino al maggio del 1966 e denominato in seguito, dal linguista Oronzo Parlangèli, in un volume del 1971 che raccoglie i vari interventi su di esso, «nuova questione della lingua». Nel suo saggio Pasolini parte dalla constatazione che in Italia non era mai esistita «una vera e propria lingua italiana nazionale» e che c’era stata piuttosto una «santissima dualità» tra italiano parlato, strumentale, e italiano scritto, letterario. Questa divaricazione è interpretata, sulla base di suggestioni gramsciane, come risultato della realtà storica della borghesia italiana, incapace di identificarsi con l’intera società della nazione.
Dopo alcune osservazioni sulla lingua letteraria, distinta in vari comportamenti stilistici a seconda del loro rapporto con la medietà espressiva, Pasolini passa a dare «uno sguardo sociolinguistico al panorama italiano di questi anni». È qui che si collocano la novità e lo ‘scandalo’ della sua tesi: negli ultimi anni è nato finalmente l’italiano come lingua nazionale. È un italiano di stampo tecnologico, in cui la lingua delle aziende si presenta «come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi». Il principio di irradiazione di questa nuova realtà comunicativa è, lungo l’asse Milano-Torino, la tecnocrazia del Nord, primo caso nella storia nazionale di una borghesia egemone in grado d’imporre in maniera omogenea i suoi modelli alle altre classi. Le principali caratteristiche del nuovo italiano sono individuate nei seguenti fenomeni: «una certa propensione alla sequenza progressiva» con un impoverimento di quella varietà di forme concorrenti che era stata fin qui la ricchezza dell’italiano; la fine dell’osmosi con il latino; il prevalere del fine comunicativo sul fine espressivo con conseguente passaggio, in veste di «guida della lingua», dalla letteratura alla tecnica (qui Pasolini risente della lezione di Charles Bally, di cui era stato tradotto l’anno prima, 1963, Linguistique générale et linguistique française).
Sollecitato dal dibattito che si creò intorno alle sue tesi, Pasolini ritornò sull’argomento in altri interventi giornalistici, correggendo e sfumando le sue opinioni. Su «Il Giorno» del 6 gennaio 1965 (Lo ripeto: io sono in piena ricerca) riprende l’analisi della nuova borghesia capitalistica e tecnocratica e precisa che trova «orrendo» un futuro tecnologico in cui la letteratura non conterà più nulla, mentre su un altro articolo apparso il 3 febbraio 1965 sullo stesso quotidiano (Vagisce appena il nuovo italiano nazionale) si sofferma sul carattere «deterministico» del nuovo tipo di lingua: fondato sulla comunicatività pratica, esso giungerà a rendere «inconcepibile l’espressione autonoma di un sentimento “gratuito”» e prepara un futuro in cui si parlerà solo «un linguaggio di alienati». Numerose (e spesso ingenerose) furono le critiche mosse a Pasolini.
Dalla sponda linguistica e storico-linguistica gli si rimproverò (soprattutto da Cesare Segre) un uso troppo disinvolto della terminologia (diacronico, ad es., usato nel senso di «sorpassato») e della coppia terminologica, tratta da Bally, comunicazione / espressione. Si notò poi in particolare che nell’unificazione linguistica in corso il linguaggio tecnologico non aveva il peso ascrittogli da Pasolini e che essa derivava piuttosto dalla «crescente convergenza dell’uso dei parlanti verso l’italiano» (De Mauro 1987: 181) che restava nelle sue strutture quello tradizionale; che era illusorio pensare che nel giro di pochi anni una lingua potesse venire completamente rinnovata e acquisire una nuova grammatica e sintassi; che era meccanicistico stabilire una relazione diretta tra mutamenti socioeconomici e lingua; e che il rapporto che l’italiano stava per instaurare non era con il linguaggio aziendale, ma con le altre lingue europee (come sottolineava ➔ Italo Calvino).
Nonostante i suoi errori e imprecisioni, è però incontrovertibile il fatto che il saggio del 1964 «resta uno dei documenti più straordinari dell’affiorare nella nostra cultura intellettuale della coscienza di un mutamento linguistico di tale portata da investire in profondità la cultura, nel senso più profondo del termine, del nostro paese» (De Mauro 1987: 164).
Pasolini ritornò sui temi linguistici dieci anni più tardi, pochi giorni prima della morte. In Volgar’eloquio, trascrizione postuma di un dibattito con professori e studenti tenuto a Lecce il 21 ottobre 1975, si scagliò contro il consumismo («una forma assolutamente nuova, rivoluzionaria del capitalismo») e contro i suoi effetti linguistici, veicolati dalla tv («l’italiano orrendo della televisione») e «anche dalla scuola negli ultimi tempi». A fronte dell’omologazione edonistica determinata da queste ultime e del «nuovo fascismo» dato dall’«accentramento linguistico e culturale del consumismo», si schierò in difesa dei dialetti (il «volgar’eloquio») vittime di un processo assimilabile a un genocidio: posizione estrema suggerita, più che dalla nostalgia, dal sentimento di trovarsi inesorabilmente schiacciato «fra una cultura che non accettiamo e una cultura che è finita».
Bandini, Ferdinando (2003), Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, in Pasolini, Pier Paolo, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2 voll., vol. 1º, pp. XV-LVIII.
Coletti, Vittorio (1993), Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi.
De Mauro, Tullio (1987), L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1991), La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi.
Serianni, Luca (1996), Appunti sulla lingua di Pasolini prosatore, «Contributi di filologia dell’Italia mediana» 10, pp. 197-229.