TARLATI, Pier Saccone (Piero). – Nacque verso il 1275, ad Arezzo o in uno dei castelli della famiglia, da Angelo di Tarlato, terzogenito (ma secondo maschio, dopo il futuro vescovo Guido, v. la voce in questo Dizionario) di sei figli; stando a Matteo Villani (Cronica..., a cura di G. Porta, 1995)
, sua madre sarebbe stata una Frescobaldi di Firenze.
Il suo nome è, secondo la tradizione, composto dal nome Piero (il solo attestato nelle fonti ufficiali) e dal soprannome Saccone, originato dalla sua conformazione fisica, massiccia e poco aggraziata. Apparteneva a una casata di tradizione signorile e ‘castellana’, inurbatasi nel XII secolo e affermatasi nella politica cittadina nel secolo successivo.
Mentre il fratello Guido fu avviato alla carriera ecclesiastica, Pier Saccone dovette preferire quella militare, che pure non era l’unica opzione disponibile. In ogni caso poche sono le notizie che riguardano la sua vita prima dei successi del fratello Guido, del quale almeno in un primo tempo sembra vissuto un po’ all’ombra. Probabilmente le sue doti militari furono utili alla famiglia, quando nel 1308 fu espulsa dalla città e – arroccata nei suoi castelli del contado – dovette difendersi dall’offensiva comunale; ma per via diplomatica essa riuscì a conseguire il rientro ad Arezzo l’anno dopo, grazie anche all’appoggio pisano.
Nel 1311 Pier Saccone fu nominato vicario imperiale nel vicino castello di Castiglione Aretino (oggi Castiglion Fiorentino), centro tradizionalmente legato al regnum (per quanto parte del contado aretino), ma sul quale i Tarlati avevano già iniziato a costruire una signoria. La conferma per l’anno successivo e poi la morte di Enrico VII nel 1313 permisero a Tarlati di tenere indefinitamente la carica e procedere così nel suo progetto signorile ‘rurale’ alternativo, benché venisse ammonito da una lettera dell’imperatore che gli raccomandò di confermare ai castiglionesi i loro privilegi, già concessi dai vicari imperiali.
L’esercizio della rettoria del castello non impedì comunque a Tarlati di essere presente in città in quegli anni a più riprese. Nel 1318 per esempio fu incaricato da due famiglie aretine di stabilire la dote della futura sposa per un matrimonio che si andava a celebrare, segno evidente di un certo prestigio. Tuttavia, nonostante la (o forse proprio a motivo della) prolificità della famiglia, la leadership politica era tenuta da un solo membro per generazione, e per Tarlati quel momento non era ancora venuto. Finché fu vivo, infatti, il padre Angelo fu il capo indiscusso della casata e Pier Saccone perciò figura in subordine al padre (insieme con i fratelli) nella pace fra Tarlati e Bostoli conclusa nel 1311: pace che, nota con il nome di pace di Civitella, si sarebbe poi estesa a tutte le principali famiglie delle fazioni aretine. È comunque significativo che l’anno successivo il padre lo nominasse suo procuratore per far da fideiussore per conto di Manfredo da Chiusi, della famiglia nota per la sua amicizia con s. Francesco.
Con la morte di Angelo (prima del 1318) il ruolo di leader fu assunto da Guido, vescovo e dal 1321 sino alla morte (1327) signore di Arezzo. Non stupisce dunque che in questi anni le notizie su Tarlati siano ancora poche, se si eccettua una sua presenza in Umbria nel 1319-20, a Spoleto, prima come capitano degli aretini e poi della città stessa; si deve tuttavia supporre una sua attiva collaborazione con il fratello vescovo, soprattutto nelle molte imprese militari di quest’ultimo. Sembra infatti che tra i due si stabilisse una cooperazione, che riservava al vescovo la politica e al fratello minore le azioni belliche, pur con la partecipazione dell’ultimo fratello, Tarlato (v. la voce in questo Dizionario).
Nel 1324 comunque Pier Saccone intervenne (stando agli Annali aretini) negli accordi che portarono alla resa del castello di Caprese (oggi Caprese Michelangelo), dopo un lungo assedio. Certamente il suo ruolo fu fondamentale anche nella conquista di Città di Castello, avvenuta l’anno prima, anche se gli Annali fanno generico riferimento alla vicenda come condotta dai Tarlati.
La discesa in Italia di Ludovico il Bavaro nel 1327 fu un momento di grandi esaltazione e speranze per tutti i ghibellini della penisola, e i Tarlati si mobilitarono immediatamente. Pier Saccone si recò a Milano con il fratello Guido, il quale incoronò l’imperatore in luogo del pontefice che si rifiutava di farlo. Al seguito di Ludovico i Tarlati si recarono a Pisa per porvi l’assedio, ma una moria falcidiò l’esercito imperiale, il vescovo Guido morì poco dopo, in Maremma, durante il ritorno ad Arezzo. Da allora la signoria sulla città passò a Pier Saccone che riuscì a far formalizzare il suo dominio con un vicariato imperiale (mentre negli anni precedenti il controllo era assicurato alla famiglia dalla carica di defensores civitatis, che due dei Tarlati esercitavano a turno).
Grazie a fonti ora molto più abbondanti possiamo dire che questo e i successivi anni furono molto impegnativi per il nuovo signore, il quale come prima mossa pose mano agli statuti cittadini, forse già riformati dal fratello vescovo, che vennero rinnovati e pubblicati a poca distanza di tempo. Si tratta del primo statuto completo di Arezzo giuntoci per intero.
Nel 1328 il Bavaro si recò a Roma per una nuova incoronazione e Pier Saccone lo seguì con il fratello Tarlato: nell’occasione entrambi furono fatti cavalieri dall’imperatore, che successivamente tornò verso Pisa, fermandosi ad Arezzo dove fu ospitato dal signore della città testé gratificato. Dopo la partenza del Bavaro, Pier Saccone si affrettò a porre l’assedio a Sansepolcro (allora Borgo San Sepolcro), in forza di recenti investiture imperiali che confermavano vecchi privilegi restati lettera morta, e la conquistò.
L’anno successivo Tarlati si sposò con Marietta Spinola di Genova, dalla quale ebbe numerosa discendenza (ma ebbe anche molti figli illegittimi). Nello stesso anno il signore della città si preoccupò di fornire Arezzo di un vescovo di suo gradimento, facendo eleggere un frate minore, Mansueto (di nome e di fatto).
Costui resse l’episcopato in luogo di Boso Ubertini, che il papa aveva destinato alla sede già da qualche anno avendo deposto Guido ancora in vita, ma che per lungo tempo non poté prendere possesso della cattedra di S. Donato, amministrando solo quella parte di diocesi in mano ai nemici di Tarlati.
Seguendo la direttrice di espansione tradizionale della città verso est – una scelta che presentava il doppio vantaggio di collimare con gli interessi familiari dei Tarlati e di scontrarsi con nemici meno potenti rispetto a senesi e fiorentini presenti a ovest e a nord della città (come già aveva intuito Guido) – Tarlati negli anni successivi fu assai impegnato in campagne militari in Valtiberina e nella Massa Trabaria (comune montano di amministrazione teoricamente pontificia). Le sue fortune furono peraltro alterne, tanto per l’intervento dei perugini quanto per l’opposizione dei discendenti di Uguccione della Faggiuola, e in particolare del figlio Neri che, pur militando nello stesso partito ghibellino, avevano sviluppato un’inimicizia familiare con i Tarlati.
Questo stato di cose, insieme con il venir meno del supporto imperiale, convinsero Tarlati – consapevole del rischio di perdere completamente il potere – a cambiare strategia. Cominciarono così le trattative con la Curia avignonese per ottenere la revoca dell’interdetto sulla città, frutto recente di una disobbedienza continuata alla chiesa romana che datava fin dai tempi di Guido.
Il primo a piegarsi fu l’antivescovo di Arezzo, già nel 1330, mentre l’anno dopo furono gli stessi Tarlati insieme con il Comune di Sansepolcro a riconoscere le proprie colpe (scaricate però in buona parte su Ludovico il Bavaro) e a chiedere perdono; nella stessa occasione si fece da parte anche Bartolomeo Tarlati, arciprete della cattedrale aretina che già Guido aveva insediato sulla cattedra di Città di Castello.
Gli accordi con il pontefice furono lunghi e laboriosi, anche per la presenza in Curia di una fazione avversa ai Tarlati, che pur potevano contare sull’appoggio di qualche cardinale. Intanto però, accortamente, Pier Saccone proseguì nel proprio intento di diminuire il numero dei nemici raggiungendo nel 1333 una pace con Firenze.
L’intensa attività politica e militare comunque non impedì a Tarlati, sul piano interno, di reggere il potere con mano ferma, soprattutto nei confronti dei fuoriusciti: nel 1333 infatti locò a un cittadino aretino le case confiscate agli esuli Bostoli, capofila della fazione guelfa sconfitta. L’anno dopo il camerario dell’episcopato, patrimonialmente ancora controllato dalla famiglia, affittò dei beni rurali a un altro aretino. Negli stessi anni la città fu interessata da un’intensa attività urbanistica: a questo periodo risale il palazzo dei priori e probabilmente la cittadella (oggi scomparsa).
Gli accordi presi con molti dei suoi ex nemici (nello stesso 1334 si ebbe una pace con i conti Guidi di Romena), lasciarono a Pier Saccone mano libera per riprendere l’offensiva nella Massa Trabaria contro i Faggiolani, nonostante un tentativo di accordo matrimoniale (una figlia di Pier Saccone, Francesca, aveva sposato nel 1331 Francesco di Ranieri della Faggiuola). Ma furono proprio i rapporti con i Faggiolani, come qualche anno prima lui stesso aveva temuto, a mettere la parola fine all’aggressività militare di Tarlati.
Ranieri della Faggiuola, pur sconfitto a più riprese sugli Appennini, nel 1335 riuscì infatti con l’aiuto perugino a impadronirsi di Sansepolcro. Dopo pochi mesi, con lo stesso ausilio, Ranieri strappò a Pier Saccone anche Città di Castello.
Nonostante qualche ultimo successo contro i Perugini, il signore di Arezzo si ritrovò sempre più stretto nella morsa dei nemici, con il contado che si ribellava paese per paese e una tentata sommossa in città, dato che anche i fiorentini avevano ripreso la guerra in Valdarno giungendo vicino alla città. La riunione dei due eserciti alle porte di Arezzo convinse Pier Saccone a giocare l’ultima carta, proponendo ai fiorentini la cessione della città. In un paio di mesi all’inizio del 1337 l’accordo fu preso, fra proposte e controproposte.
Tale accordo, per non scontentare i perugini, riservò qualche cessione anche a loro, ma fu in generale piuttosto favorevole a Tarlati, che rimaneva in città come privato, ma conservava nel contado tutta la potenza signorile della famiglia intatta e possibilmente anche accresciuta: il testo finale infatti contiene l’elenco dei castelli riconosciuti alla famiglia, che impressiona per il numero, soprattutto se confrontato con la modesta dotazione iniziale di neanche un cinquantennio prima. È però evidente che un tale accordo non poteva durare. Infatti i fiorentini, non volendo signoreggiare una città priva di contado, da un lato s’impadronirono di numerosi castelli, e dall’altro, non sicuri del regime moderato di Arezzo, fecero prendere il potere ai guelfi.
Pertanto, temendo qualche reazione della grande casata ghibellina, il podestà mandato dalla città gigliata nel 1341 incarcerò Tarlati e i suoi familiari. Portato a Firenze, Pier Saccone vi rimase fino all’anno successivo, quando Gualtieri di Brienne, duca di Atene, lo rimise in libertà e gli fece avere alcuni dei suoi beni già confiscati. Pochi mesi dopo Firenze, cacciato il duca, sciolse il Comune di Arezzo dalla sottomissione.
Da quel momento Tarlati si dovette rifugiare nei castelli che gli erano rimasti, e non riuscì più a intromettersi nella politica di Arezzo. Ancora durante la sua prigionia, infatti, il fratello Tarlato aveva guidato un tentativo di rientro in armi in città, ma senza successo. Certamente la famiglia aveva ancora un suo peso e Pier Saccone figura in molti dei trattati di pace fra aretini, fiorentini, senesi e perugini degli anni successivi, ma sempre in secondo piano. Ugualmente alcune clausole dell’importante pace di Sarzana del 1353, che poneva un primo termine alle guerre per il predominio nell’Italia centrale (nelle quali erano entrati di prepotenza i Visconti di Milano), riguardano i Tarlati e Pier Saccone, ma si trattava ormai di una tenace difesa di quanto rimasto alla famiglia.
Secondo Villani (Cronica..., cit.) Pier Saccone morì nel suo castello di Bibbiena nel 1356 (centenario stando al cronista, ma probabilmente ottantenne). Sempre la stessa fonte precisa che alla notizia della sua morte gli aretini si affrettarono a tentare di riprendere i tre castelli rimasti al Tarlati, cosa che non avevano osato fare durante la sua vita.
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