BELLI, Pierino
Figlio del nobile Pietro Antonio e della nobile Benentina, nacque ad Alba il 20 marzo 1502.
Secondo le notizie del Vernazza, suo primo biografo, probabili ascendenti del B. abitarono già nei secoli precedenti la città. Il Rondolino ha poi mostrato come al principio del sec. XVI la sua famiglia era ben radicata nella vita albese, negli interessi dei marchesi di Monferrato cui Alba appartenne sino alla morte, nel 1533, del marchese Giangiorgio Paleologo, e negli interessi imperiali, essendo il marchesato terra d'Impero. Molto vive furono le lotte sostenute particolarmente dai fratelli del B., primo fra i quali Bartolomeo, in difesa dei signori monferrini contro le ambizioni saluzzesi già prima del 1533 e poi perché Alba rimanesse nell'ambito imperiale. L'opposizione dei Belli ai Saluzzesi, e poi ai Francesi operanti in Piemonte e nei paesi vicini dal 1536 anche talvolta contro il Monferrato, fu costante. Il B. partecipò di quei clima, e ne conservò sempre memoria.
Per altri versi tuttavia la formazione del B. aveva differito assai da quella dei fratelli, e in particolare egli non si illustrò mai in imprese militari come Bartolomeo. Uomo di legge, era stato alla scuola di giureconsulti perugini sebbene non si conosca il luogo ove si addottorò, e a partire dal 1533 servì gli interessi monferrini e imperiali sul terreno che gli era più accetto. E così, dopo essersi trasferito con i suoi, alla morte del Paleologo, ad Asti, sabauda dal 1531, egli non tornò ad Alba con loro quando Carlo V avocò al proprio giudizio la sorte del marchesato e intanto mandò il de Leyva a governare quelle terre; adoprò invece le sue già notevoli capacità legali a contrastare positivamente le mire saluzzesi su Alba - di ciò richiesto dalla vedova del Paleologo -, tenne in Asti l'ufficio di vicario della pretoria e di patrocinatore delle cause del Comune e nel 1543, per i meriti così acquisiti, fu accolto fra i cittadini astigiani; e già quando era insorta la guerra tra Francesi e Imperiali in Piemonte egli era stato nominato negli eserciti cesarei uditore di guerra. Lo teneva caro il duca di Mantova, Federico II Gonzaga, e ne riceveva i consigli per meglio sostenere presso Carlo V le proprie ragioni alla successione del Paleologo; e dopo che l'imperatore sentenziò in favore del Gonzaga fu al B. che il nuovo marchese fece consegnare il castello di Alba, e il B. lo diede a custodire ai fratelli. Da Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, governatore di Milano e comandante generale delle forze imperiali in Piemonte, il B. fu creato nel 1541 giudice ordinario delle questioni che sarebbero sorte nell'Astigiano, in Piemonte, nel Monferrato e nelle Langhe in conseguenza dei dazi cesarei imposti in quei paesi; in seguito, ma prima del 1546, fu costituito uditore generale del campo.
Dell'opera del B. al servizio imperiale si hanno altri numerosi ricordi. Nel 1545 ad Alba egli tentò di sedare certi tumulti insorti per via di angherie di Spagnoli; nello stesso anno a Busca, e nel 1555 a proposito di Vignale, si trattò di vertenze in materia di tregue militari: la caduta di Valfenera in mano francese provocò il suo intervento per giudicare casi di fellonia; altra volta addirittura si trattò di un progetto del B. per una tregua parziale tra Francesi e Imperiali, e poi della sua azione in un contrasto insorto tra il Figueroa succeduto al Gonzaga nel comando dell'esercito e il marcehse di Masserano alleato dei Francesi, al quale il primo aveva concesso senza poi rispettarlo un salvacondotto; infine, nel 1557, fra le azioni di guerra consigliate dal B. ebbero ottima riuscita la liberazione che il marchese di Pescara compì di Cuneo e il successivo ritorno di lui ad Asti attraverso le insidie francesi. Particolarmente, per altro, il B. si affermò dovunque occorressero esperienza legale e politiche, qualità di equilibrio e di fedeltà ad una parte.
Per tale via egli continuò a progredire anche dopo che il del Vasto mori; e in special modo ebbe aiuto allora dal figlio di lui, marchese di Pescara, e più ancora da Ferrante Gonzaga, succeduto al del Vasto nel governo di Milano e nella condotta degli Imperiali in Piemonte, e che apparteneva a quella casa che aveva già potuto apprezzare il B. nella questione monferrina. L'appoggio che diedero al B. il marchese di Pescara, Ferrante e altri dei Gonzaga, poi anche il cardinal Madruzzo governatore di Milano, un appoggio che si realizzò anche presso Carlo V e presso Filippo II, valse a caratterizzare ulteriormente la figura dell'uomo, che andava svolgendo la propria dottrina e il proprio pratico lavoro entro una ben definita concezione, morale e politica insieme, cattolico-imperiale, aristocratica, ostile al tempo stesso alle vecchie forme di vita feudale di un marchesato di Saluzzo e alle monarchiche forme di vita della Francia di Francesco I e di Enrico II, tutto rivolto invece a sostenere l'esistenza di un mondo principesco nel quale si mantenessero la libertà della sua piccola patria - che restava sempre Alba -, la libera collaborazione di uomini come lui al lavoro dei maggiori governanti, secondo un ordine non rigido e tale da permettere meglio l'azione di una personalità come la sua. Il B. era capace di "molta fede et devotione", come riconobbe il Gonzaga nel 1552, era "geloso et ardente" al servizio del re di Spagna, come ricordò nel 1559 il duca di Sessa, ma era capace anche di scrivere al duca d'Alba, sollecitando stipendi non pagati e compensi per i danni sofferti nei suoi beni dai Francesi e cariche maggiori, che, non provvedendosi a suo favore in quelle cose, egli sebbene a malincuore chiedeva allora "licentia di poter accomodar le cose sue", cioè di ritirarsi dal servizio del re.
An che la vita privata del B. si muoveva in quell'ambito, e dopo anni di relazione con una Maria De Bonardis cittadina di Asti, dalla quale ebbe due figli, nel 1541 egli sposò Giulia del fu Francesco Damiani dei signori di Priocca e vedova di Alessandro de Veraxiis; nel 1543 ebbe da Giovanni Antonio Falletti signore di Benevello il castello con la signoria di Bonvicino, nelle Langhe, e nel 1546 comprò insieme ai fratelli la metà di Grinzane. Non importa qui seguire le vicende di tali sue proprietà, che in gran parte i Francesi gli confiscarono e che egli riebbe alla fine del conflitto franco-asburgico. Importa invece avvertire come la sua ascesa sociale facesse tutt'uno con le sue affermazioni politiche.
Sino a che durarono le lotte francoasburgiche il B. agì sempre con la parte imperiale; e come nel 1552 Ferrante Gonzaga aveva proposto a Filippo, figlio di Carlo V, che lo nominasse senatore nel Senato di Milano, così nel 1558 il Madruzzo gli concedette sui redditi dello Stato milanese, e Filippo II confermò da Bruxelles, una pensione annua di quattrocento scudi. Nello stesso 1558 il B. mise a punto il suo maggior lavoro, il De re militari et bello tractatus, dedicandolo al re di Spagna. L'opera venne poi pubblicata a Venezia nel 1563 da Francesco Portonariis da Trino ed ebbe allora un notevole successo.
Dopo la pace di Cateau Cambrésis il B. rimase ancora per poco nel servizio asburgico, né passò a quello di Guglielmo Gonzaga che aveva avuto il Monferrato: del nuovo marchese, e pur riconoscendosi suo vassallo, egli non accettò le non buone proposte finanziarie per il lavoro che avrebbe svolto presso di lui. Accolse invece l'invito di Emanuele Filiberto, che doveva averlo conosciuto quando entrambi agivano nell'ambito degli interessi imperiali e che lo sollecitò, fin dall'agosto 1559, a dargli "liberamente et senza rispetto". il suo parere nell'opera di ricostituzione del governo dello Stato sabaudo e in particolare di riassetto delle travagliatissime condizioni della giustizia di quello.
Non sapremmo vedere una soluzione di continuità fra il lavoro passato e il nuovo. Era piuttosto normale, per tutto il suo modo di essere uomo politico e di diritto, che il B. accettasse di lavorare per un principe già illustre come Emanuele Filiberto ma che ricercava il suo aiuto. Non poteva bastargli il ben minore ruolo che avrebbe giocato presso il marchese di Monferrato, né gli sfuggivano i monarchici assolutistici spiriti di Filippo II che avrebbero troppo contrastato le sue esigenze di libero servizio, di un servizio come fedele ma libera collaborazione. Largo campo gli si offriva invece in uno Stato in cui tutto praticamente era da rifare o da fare ma dove, al tempo stesso, trovavano conferma e sicura accoglienza i caratteri generali dell'orientamento che egli aveva maturato nei suoi lunghi anni precedenti.
Emanuele Filiberto non intendeva far limitare nulla, del proprio potere dalle comunità del suo ducato, e perciò molto presto, dal 1560, avrebbe posto grosse difficoltà all'opera delle assemblee degli Stati, poiché in esse certe comunità erano poco disposte a subire le realizzazioni del suo orientamento. Egli trovava invece appoggio, per la stessa volontà di distacco dalle comunità, nei nobili, in particolare nei nobili del Piemonte già rimasti fedeli alla sua casa e a lui nel tempo del conflitto franco-asburgico. E quindi il B. non gli scriveva cosa discara, nel settembre 1559, raccomandandogli di essere nella scelta dei suoi consiglieri "circospetto et consideratissimo", e di "sempre anteporre... i suoi a gli strani, gl'antichi servitori a nuovi, i richi a poveri, i nobili a plebei, et ancho i più nobili a manco nobili". Non si fermava per altro a quel punto, non trascurava di raccomandare al duca di volere pur sempre "anteporre il bene pubblico a queste private affetioni", e di esser perciò ben disposto., occorrendo, ad allontanare tutti dai loro posti per ricostituire ex novo l'"amministratione et manegia" dello Stato. Ma per quella ricostituzíone il principe chiamasse allora "i suoi baroni, i suoi principali vassalli et valenthuomini, et col parere loro facesse una nuova scelta et elettione d'huomini". Con il loro parere, con il loro sostegno. In quel vecchio mondo sociale e politico il B. si ritrovava meglio che in ogni altro; solo di là intendeva si potesse ricostituire la forza di un governo. Solo di là, avvertiva, Emanuele Filiberto avrebbe potuto trarre i senatori dei Senati di Savoia e di Piemonte. Apprezzava assai il Senato milanese: "Havea quel senato, et ha forse anchora di presente, benché sia molto scemato quell'antico valore et grandezza, molta autorità; moderava, confermava, togliea via gli ordini del duca, conoscea de le lettere, de doni, de le indulgenze, de le gratie, de privilegi et di tutte le concessioni ducali, le moderava le restringeva secondo che credea convenirsi al bene publico et a quello del duca et havea molte altre prerogative notabili, le quali non crederci essere male se s'imitassero". Né il duca, intento a raccogliere con il suo gIa altri pareri del Gazino vescovo di Aosta e del Ferrero vescovo di Vercelli e del Capris vescovo di Asti, di Giovan Francesco ed Ottaviano Cacherano d'Osasco, di Emiliano Sandigliano, di Cassiano Dalpozzo, appariva principe alieno da una tale libera collaborazione; e poiché la ricercava fra i suoi, non fra gli "strani", e fra gli antichi "servitori" suoi e magari già del padre Carlo II, anche in ciò consentiva col Belli.
Nel novembre 1560 il B. divenne perciò presso Emanuele Filiberto consigliere di Stato. Continuò per altro ad esser vassallo del marchese di Monferrato, per via dei feudi di Bonvicino e di Grinzane che possedeva in quella regione e per via della fedeltà connaturata in lui alle origini sue e della sua famiglia. Il consenso del duca sabaudo non lo distolse mai da quella memoria fondamentale, egli lavorò con Emanuele Fibberto come aveva. lavorato con gli Imperiali di Carlo V e poi con Filippo II: con uguale indipendenza.
Presto, il duca lo impiegò in grfosse questioni. Fra il 1561 e il 1562 lo delegò con il Dalpozzo e altri a discutere con i plenipotenziari francesi a Lione sulle richieste del re di Francia, che ambiva Nizza e molti altri luoghi sabaudi, e che intanto manteneva in proprio possesso Torino, Chieri, Pinerolo, Chivasso e Villanova d'Asti. L'opera del B. fu intensa e dotta; il contrasto era però troppo forte per esser risolto in una volta sola, ed è noto che si dovette giungere al 1574 perché anche le ultime delle cinque piazze tornassero ad Emanuele Filiberto. Nel 1564 il duca richiese anche al B. un parere circa l'invito, che gli aveva fatto Solimano II, di allearsi con lui per la conquista di Cipro; sull'isola i Savoia avevano antiche ambizioni, ricordavano antichi diritti. Il B. fu tra i pochi a sconsigliare il principe da un'impresa allettante ma pericolosa, anche perché contrario ad alleanze con infedeli se non per combattere altri infedeli, e in quel caso invece si sarebbero combattuti i Veneziani. Il duca gli diede ragione. Due anni più tardi Emanuele Filiberto costituì lui e il Della. Rovere arcivescovo di Torino, il Langosco gran cancelliere, il Dalpozzo primo presidente del Senato di Piemonte, come membri di un tribunale che doveva sovrintendere, , a, che giovasse nel modo migliore allo Stato. al lavoro allora nascente in Piemonte delle arti dei panni, della seta, delle lane, dell'oro, delle armi e dei cuoi. E l'anno seguente lo nominò suo delegato in una questione assai complessa e grave di confini, dibattentesi da lunghissimo tempo fra la comunità di Barga in Toscana e quelle di Pievepelago e di Roccapélago nell'Appennino modenese e per esse fra i duchi di Firenze e di Ferrara, i quali avevano finito per rimettersi all'arbitrato di Emanuele Filiberto. L'opera del B., che in molte trattative ed anche per l'età che ormai lo gravava associò a sé il figlio Francesco, fu oltremodo faticosa e gli valse pure difficoltà presso Emanuele Filiberto, per via di certe insinuazioni contro il suo operato fatte dal duca di Ferrara; nondimeno finì per concludersi, nel 1568 e poi meglio nel 1572 dopo aver superato alcuni strascichi eccitati dal ferrarese, e si concluse con il successo del giudizio cui il B. era giunto.
Varia fu inoltre l'attività legale del B. in questioni anche private di proprietà, di confini, ed essa lo portò più volte a contatto o a contrasto con i maggiori giureconsulti di Torino e di Ferrara quali Aimone Cravetta, Marco Antonio Natta, Ottaviano Cacherano d'Osasco, Gio. Battista Laderchi, il Panciroli, il Trotti. Ma in primo piano continuò ad essere per il B. il suo più congeniale lavoro di collaborazione con l'opera politica di Emanuele Filiberto, e quella collaborazione ebbe un ultimo atto quando, nella seconda metà del 1575, il B. riuscì ad ottenere dal governatore di Milano l'effettiva e non facile restituzione al duca sabaudo di Santhià e di Asti, che gli Spagnoli tenevano dal, tempo di Cateau Cambrésis ed alle quali Filippo II aveva finalmente rinunciato fra la primavera e l'estate del 1575. Poco dopo, a Torino, il 31 dic. 1575, il B. morì.
Il B., nell'opera a cui soprattutto è legata la sua fama di giurista, il De re militari et bello tractatus, non solo raccoglieva i frutti della lunga esperienza di "auditore di guerra", maturata negli anni del servizio imperiale e spagnolo, ma aveva anche modo di svolgere con ampiezza i suoi interessi e la sua preparazione di giurista. Accolta con favore tra i contemporanei giuristi piemontesi, l'opera si trova sovente richiamata negli scritti di Ottaviano Cacherano d'Osasco, di Aimone Cravetta, di B. Taeggio, di G. Borgogni e d'altri; di essa parla il Menocchio (In omnes praecipuas recuperandae possessionis constitutiones commentaria, Monteregali 1655), di cui il B. fu allievo a Perugia, a quanto testimonia A. Gentili nelle sue Laudes Academiae Perusinae et Oxoniensis, Hanoviae 1605. Dopo l'edizione veneziana il Tractatus venne inserito nella grande raccolta dei Tractatus universi iuris.
Il De re militari et bello, che può dirsi una delle prime opere organiche di diritto internazionale, malgrado questa iniziale fortuna non sembra tuttavia aver occupato, proprio rispetto agli sviluppi della scienza internazionalistica negli ultimi decenni del sec. XVI e i primi del seguente, quel posto che ci si aspetterebbe. Nella seconda metà del sec. XIX, quando quest'opera venne riscoperta dagli studiosi della disciplina, e tra questi P. S. Mancini che ne parlò come del "primo trattato giuridico sulla materia del diritto de le genti" (Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti [1859], in Prelezioni di diritto internazionale, Napoli 1873, p. 13), non si esitò invece avedere il B. come uno dei precursori di Alberico Gentili e del Grozio. Il fatto che questi ultimi nelle loro opere non. ne facessero menzione (A. Gentili cita il trattato del B. nelle Hispanicae advocationes, Hanoviae 1613, pp. 7, 21, ma non nel De iure belli) e gli preferissero il trattato di Giovanni da Legnano ("non habent libri illi de hoc iure, non alii ulli qui extent... equidem praeter Lignani paucula tractatus, et aliorum nonnulla alia sparsim, legi nihil", afferma il Gentile nella prefazione al De iure belli libri tres, Hannoviae 1598) è sembrato una malevola dimenticanza, che tuttavia non lascerebbe dubbi sul contributo arrecato dal B. alla elaborazione del pensiero di questo autore. Manca in realtà tuttora (v. F. Calasso in Encicl. del diritto...), una valutazione storica esauriente dell'opera del B. che tenga conto dei nuovi orientamenti della storiografia giuridica, che hanno di molto modificato la prospettiva attraverso cui guardare alla scienza del diritto internazionale del sec. XVI. Ciò fa sì che ancor oggi si continui a collocare il B. in una del tutto astratta categoria di "precursori" del Grozio secondo una tradizione che va dal trattato di E. Nys (Le droit international, I, Bruxelles 1912, p. 235), all'opera classica di L. Oppenheim (International law. A Treatise, I, London 1953, p. 86).
Nel più esauriente studio critico sul B., l'introduzione di A. Cavaglieri all'edizione oxoniense del De re militari et bello (Oxford 1936, I, con riproduzione fotostatica dell'edizione del 1563; II, con traduzione inglese a cura di H. C. Nutting), troviamo la spiegazione di tale impostazione. Il Cavaglieri, così come la maggior parte degli studiosi che l'hanno preceduto occupandosi del B., appartiene a quella corrente di internazionalisti che considerava la pace di Westfalia del 1648 come il momento costitutivo della moderna comunità internazionale fondata su presupposti paritari (cfr. A. Cavaglieri, Trattato di diritto internazionale, Napoli 1926, p. 10). Questa valutazione si trasferiva nella interpretazione della scienza internazionalistica del sec. XVI-XVII, con conferire all'opera di Grozio la stessa funzione discriniffiante che veniva fatta assumere alla pace di Westfalia rispetto all'ordinamento giuridico internazionale. Di qui la discussione sui "precursori" condotta, come abbiamo accennato per il B., non con metodo storico, ma sulla base di un'analisi tipicamente comparativistica. L'attenzione si è così fermata sugli aspetti più maturi della tecnica giuridica del B.; come già affermava il Mancini, "alcune... quistioni proposte nel corso del libro si veggono risolute dall'autore con una coscienziosa ed anche ardita libertà di principi che... fa splendido contrasto, con la paurosa servilità di molti celebri scrittori dei secoli seguenti" (p. 15). Valga d'esempio, in tema di arbitrato, l'affermazione del principio della obbligatorietà della composizione pacifica ("si is cui belluin indicitur, offerat se paratum super querimonia stare iuri, et iudicio arbitrorum, bellum est abstinendum, quis belluin debet esse necessitatis", I, V, p. 5), principio che, come ha notato di recente K. von Schuschnigg (International law. An introduction to the law of Peace, New York 1955, p. 23) "quattrocento anni dopo doveva venir fatto proprio dal Protocollo di Ginevra del 1924, dal Trattato di Locarno e dalla Carta dell'ONU".
Se dunque l'analisi comparativistica dell'opera del B. ne ha messo in luce alcuni pregi tecnico-giuridici, è invece mancata completamente sul piano della valutazione storica, fermandosi ad una serie di accostamenti del tutto estrinseci. Ciò indubbiamente si rivela nella interpretazione del tema centrale del De re militari et bello, quello del iustum bellum; è stata messa in luce l'analogia di alcuni passi del Tractatus con il principio groziano che "causa iusta belli suscipiendi nulla esse alia potest, nisi iniura" (Deiure belli ac. pacis, II, 1, 1) a questo proposito il Cavaglieri ha sottolineato l'affermazione del B. "natura quippe ipsa docemus vini vi et arma armis repellere" (II, 1, p. 28), quasi fosse l'applicazione del principio moderno del diritto naturale. È opportuno forse soffermarsi sui riferimenti testuali che il B. accompagna a questo passo: D. I, 1, 3; Decretum C. XXIII, q. II, c. 1, ove si parla di quella "cognationem quandam", stabilita tra gli uomini per "natura", assunta dal Grozio come momento elementare di coesistenza tra essere animati, di per sé solo non produttivo di diritto, senza quella facoltà naturale "sciendi agendique, secundum generalia praecepta" (Prokgomena, 7), che è la vera ratio naturalis. IlB. rivela qui in realtà i suoi legami, a cui già accennò lo Speranza, con la tradizione giuridica italiana dei commentatori in tema di diritto naturale e di equità. Un altro esempio indicativo lo abbiamo in materia di restitutio in integrum come effetto del trattato di pace, in cui si discute se la restitutio da parte del principe possa comprendere anche i beni in possesso di terzi nel caso che a questi sia stata già trasferita la proprietà. Secondo il diritto positivo in questo caso sarebbe possibile solo il risarcimento del prezzo da parte del fisco che abbia venduto i beni in questione, ma, argomenta il B., il principe può qui attenuare il rigor iuris, sulla base del diritto naturale (X, II, 21, pp. 282 s.). Questa tipica applicazione del concetto medievale dell'aequitas e del diritto naturale, è alla base di tutto il Tractatus del B.; non vale lamentare, quindi, come è stato fatto, un difetto di asistematicità e di ascientificità, poiché esso è riflesso, come abbiamo visto, non tanto dai singoli aspetti tecnico-giuridici, quanto piuttosto dalla concezione etico-giuridica che presiede al disegno dell'opera. Sono opportuni ancora alcuni accenni a questo proposito; affrontando il tema di "qui possint bellum indicere" (I, V) il B., dopo aver passato in rassegna tesi perloppiù di giuristi italiani del '300 e '400, afferma: "ego vero simplicius puto populorum quem libet, ac gentem qui suis vivat legibus, atque arbitrio, aut etiam regem, aut alium. principem sui omnino iuris posse cum libeat et causa subsit, bellum indicere" (p. 4). Questo passo, la cui prima parte sembra riecheggiare la giustificazione baldiana della potestas statuendidegli ordinamenti particolari, non è portata coerentemente a tutte le sue conseguenze: manca in realtà al B. la capacità di risolvere la vecchia tematica del superiorem non recognoscens, così come invece doveva avvenire nell'opera del Grozio attraverso la rigorosa distinzione tra bellum publicum, privatum e mixtum.
È dunque necessario, nell'analisi di quest'opera del B., tornare a confrontarla con l'ambiente giuridico in cui nacque, con i problemi a cui fu legata l'esperienza politica del B. come "auditore di guerra"; già il Mulas sottolineò come essa possa "considerarsi un vero manuale teorico-pratico.
Gli intenti dell'opera espressi dal B. nella dedica a Filippo II sembrano confermare l'ipotesi della funzione pratica e non teorica a cui era destinata. Il B. si rivolge ai principi per indicare loro "quid possint, quid liceat, quidque etiam eos deceat in bellis indicendis, quid etiam in foederibus aut concludendis, aut observandis, quid in eis possint ipsi exercituum ductores aut quid cis sit interdictum...". Un ostacolo a tale indagine è certamente la scarsezza di ricerche sulla scienza giuridica del tempo e in particolare sull'ambiente giuridico piemontese a cui il B. è Iegato. Per questa via troverebbero, tuttavia, la loro spiegazione storica tutti quegli elementi che sono stati considerati negativamente dagli studiosi di diritto internazionale, come già la accennata mancanza di scientificità dell'opera del B., il suo fermarsi su istituzioni che appartengono più al diritto pubblico dei singoli Stati che all'ordinamento internazionale. Gioverebbe a questo proposito una valutazione della minore produzione giuridica del B., di cui troviamo ricordato un discorso raccolto nei Responsa diversorum iureconsultorum ad causam Marchiae Salutiarum, n. IX, ff. 85 ss., pubblicato a Torino, postumo, nel 1589, oltre, e vari Consilia nella raccolta di Iacopo Mandelli che porta questo titolo, Venezia 1591 (i consigli del B. si trovano a nn. 171, 177, 464, 762, 790) e altri scritti di cui troviamo indicazione nelle opere di Marcantonio Natta e di O. Cacherano d'Osasco.
Furono dunque probabilmente gli aspetti conservatori dell'opera del B. a far sì che essa non venisse ricordata dal Gentili e dal Grozio; e non tanto per il suo legame con la tradizione del mos italicus, quanto per la sua rigida professione di fede cattolica per cui invano si cercherebbe nel suo trattato il principio enunciato dal Gentili "nec bellum causa religionis" (De iure belli, I, IX).Non che il B. fosse di principio opposto, dal momento che, come abbiamo accennato, egli riteneva la guerra procedere esclusivamente "ob iniura... sive inferenda, sive propulsanda". Mancava però l'attenzione a questi problemi di guerra di religione che tanta parte invece, per vie diverse, vengono ad avere nella formazione del Gentili e del Grozio. Così il B., per cui i cristiani "sunt fratres et non hostes" e quindi "non efficiuntur servi capientium" (IV, I, p. 53), d'altra parte si ferma a considerare nella rubrica "Quae sint militibus a iure prohibita", come il soldato "non quem libet potest haeredeni relinquere, sed quos quod lex non in specie prohibet:... prohibet vero hereticum".
Pur in questi liniiti caratteristici, il De re militari et bello rimaneun documento di primaria importanza per chi voglia affrontare uno studio delle relazioni diplomatiche e del diritto internazionale dell'Italia del Cinquecento.
Bibl.: G. Vernazza di Freney, Vita di P. B. di Alba signore di Grinzane, e di Bonvicino, consiglier di Stato di Emanuel Filiberto, Torino 1783; F. Rondolino, P. B. Sua vita e suoi scritti. Nuove ricerche, in Miscell. di st. ital., XXVIII(1890), pp. 513-576; G. Chialvo, Nuove ricerche intorno a P. B., in Bollett. stor-bibl. subalpino, XII(1907), pp. 293-319; XVI (1911), pp. 1-15; L. Marini, Governanti e governati nello stato sabaudo: un'interpretazione del rapporto nel suo tempo più ricco, in Studi urbinati, XXXVII(n. s. B, n. 1, 1963), pp. 15-45.