PIERLUIGI da Palestrina, Giovanni, detto anche ¿il Palestrina'
PIERLUIGI da Palestrina, Giovanni, detto anche ‘il Palestrina’. – Figlio primogenito di Sante Pierluigi e Palma Veccia, nacque presumibilmente nel 1525-26.
Le date si ricavano dal necrologio scritto da Melchior Major, membro della Cancelleria apostolica («vixit annis LXVIII», Iconografia palestriniana, 1994, p. 307) e dalla dedica a Clemente VIII del libro VII di messe, scritta dal figlio Igino poco meno di un mese prima della morte del padre («septuaginta fere vitae suae annos in Dei laudibus componendis consumens»; Cametti, 1925, p. 351). Il luogo di nascita fu quasi certamente Palestrina, patria dei Pierluigi; un «Santo de Prenestina» è tuttavia registrato nel censimento effettuato a Roma tra novembre 1526 e gennaio 1527 (Bianchi, 1995, p. 7). Se fu Sante Pierluigi, potrebbe aver lasciato Palestrina con la famiglia per trasferirsi nell’Urbe a causa della peste che aveva colpito la città negli ultimi mesi del 1524; in tal caso Giovanni sarebbe nato a Roma. Sante ebbe almeno altri tre figli: Silla, Belardino (Bernardino) e Palma.
Il testamento della madre di Sante, Jacobella Pierluigi, dettato in Roma il 22 ottobre 1527, è il primo documento dell’esistenza di Giovanni, nominato erede di un materasso e di dieci stoviglie (Iconografia palestriniana, 1994, p. 51). Nessuno dei parenti eredi risulta presente alla stesura del documento; se il Sante del censimento fu davvero il padre di Giovanni, si dovrebbe presumere che avesse riportato a Palestrina la famiglia per scamparla dall’arrivo dei lanzichenecchi. Nel 1536 Sante rimase vedovo (Palma fu sepolta il 16 gennaio; ibid., p. 55); intorno al 1540 sposò in seconde nozze Maria Gismondi.
Incerta è la formazione musicale di Giovanni. A Palestrina l’unica notizia certa riguarda la presenza di un organista in cattedrale. In un contratto stipulato il 25 ottobre 1537 tra i rappresentanti della basilica romana di S. Maria Maggiore e il cappellano Giacomo Coppola si nomina tra i «pueri cantantes» un «Ioannem de pelestrina» (Casimiri, 1918-22, p. 8) che egli avrebbe dovuto accudire (di solito si entrava nelle scholae cantorum sui sette-otto anni); intermediario fu forse il cardinale Andrea della Valle, vescovo di Palestrina (1533-34) e arciprete in S. Maria Maggiore. Dal 1537 la basilica ebbe per maestri di cappella Rubino Mallapert, un tal Roberto (talvolta erroneamente identificato con Robert de Févin) e Firmin Le Bel, che dovettero essere i maestri di Giovanni; ma non è nota la durata dell’apprendistato.
Tornato a Palestrina, il 28 ottobre 1544 venne nominato organista nella cattedrale di S. Agapito con il compito di suonare le domeniche e i giorni festivi e di essere presente in coro quotidianamente per la messa, i vespri e la compieta «durante toto tempore vite» (Casimiri, 1924, pp. 43 s.). Doveva inoltre provvedere all’istruzione musicale dei canonici o, in loro assenza, di un numero equivalente di bambini; in tal modo, si mirava forse a introdurre la polifonia in cattedrale, magari su sollecitazione del vescovo cardinale Giovanni Maria Ciocchi dal Monte, nominato l’anno prima. La paga, identica alle prebende dei canonici, gli consentì una certa tranquillità economica. Il 12 giugno 1547 sposò Lucrezia de Goris. Dall’unione nacquero Rodolfo (1549-50) e Angelo (1551 circa).
Morto Paolo III, il 7 febbraio 1550 venne eletto papa il cardinal Ciocchi dal Monte, con il nome di Giulio III. L’evento fu determinante per la carriera del musicista; approfittando delle dimissioni di Mallapert (31 ag. 1551), il pontefice lo mise alla guida della Cappella Giulia, la cappella musicale della basilica di S. Pietro. Il compositore si trovò così, a venticinque-ventisei anni, alla testa della principale istituzione musicale della città di Roma, seconda solo al Collegio dei cantori pontifici, ossia alla cappella privata del papa (più tardi nota come Cappella Sistina). Era un giovane musicista dall’esperienza limitata che non aveva ancora scritto (o perlomeno pubblicato) nulla; eppure, se Mallapert e predecessori erano variamente appellati magister puerorum, magister musicae, magister chori, a Pierluigi già nel 1552 venne riconosciuto il titolo di magister capellae (solitamente riservato al prefetto, un canonico del Capitolo i cui compiti erano per lo più amministrativi).
Fu un atto di autorità, che corrispondeva al disegno di Giulio III (e ancor prima di Paolo III e di Giulio II) di sostituire man mano i musicisti stranieri con italiani; nella Cappella Giulia non verrà più nominato alcun maestro di cappella straniero, e lo stesso avverrà nelle principali cappelle cittadine nei decenni successivi. Pierluigi evidentemente faceva al caso: era noto al papa fin dagli anni di Palestrina, aveva avuto una solida preparazione in Roma, e all’occorrenza sarebbe stato uno strumento docile e riconoscente.
Il musicista cercò di sfruttare al meglio la situazione favorevole, facendosi conoscere come compositore. Nel 1554 pubblicò il primo libro di messe, dedicato al suo protettore.
L’omaggio a Giulio III doveva risaltare in ogni modo: l’edizione, che adotta l’impaginazione a libro corale dei grandi manoscritti quattro-cinquecenteschi, è in grande formato; il frontespizio xilografico, ricavato con le opportune modifiche da quello del Missarum liber secundus di Cristóbal de Morales (1544), mostra il compositore nell’atto di offrire il libro al pontefice; la prima messa, Ecce sacerdos magnus, è composta su tenor a valori lunghi secondo il modello della messa celebrativa, mentre le altre offrono saggi esemplari delle altre due tecniche tipiche dell’epoca e predilette da Giovanni, ovvero l’elaborazione di una composizione polifonica o di un canto gregoriano.
Nel contempo Pierluigi si palesò come autore di madrigali, con una composizione inclusa nel Quarto libro de madrigali a quatro voci a note bianche edito da Antonio Gardano a Venezia (accanto ad autori come Jacques Arcadelt, Domenico Ferrabosco, Giovanni Nasco e Adrian Willaert). In testa alla composizione compare il nome familiare «Giannetto», spesso ricorrente nelle collettanee madrigalistiche.
Gli interventi di Giulio III non erano terminati. Il 13 gennaio 1555, «absque ullo examine» e «absque consensu cantorum» (Iconografia palestriniana, 1994, p. 81), Pierluigi venne nominato cantore nella Cappella pontificia, o «Cappella di Nostro Signore»; il posto in S. Pietro fu affidato a Giovanni Animuccia con lo stesso stipendio. Con un atto arbitrario, il papa contravveniva alle costituzioni dei cantori, risalenti al 1545, e anche al suo stesso motu proprio del 5 agosto 1553, con il quale aveva vietata l’aggregazione di nuovi cantori fino a quando il loro numero non fosse sceso a ventiquattro (e nel 1555 erano ancora trentuno; Sherr, 1994, pp. 623 s.). Il trentenne musicista poteva considerarsi arrivato; ma si trattò di poco più di un momento. Il 23 marzo Giulio III, sofferente da tempo di gotta, morì; gli successe Marcello Cervini, eletto il 9 aprile con il nome di Marcello II. Uomo austero e rigoroso, pronto a mettere in atto la riforma di molti organismi politici e amministrativi dello Stato, era di salute cagionevole, e morì nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio.
Eppure in quei pochi giorni vi fu un evento importante, registrato nel diario del segretario cardinal Angelo Massarelli (Cametti, 1925, pp. 95 s.): il 12 aprile, dopo aver assistito alle funzioni del Venerdì Santo, il pontefice rimproverò i suoi cantori perché la musica non corrispondeva alla gravità e alla mestizia dell’occasione e perché le parole non si capivano, e li invitò a cantare diversamente. L’avvertimento del papa indusse Pierluigi a riflettere sulla necessità di plasmare la polifonia in modi più idonei alla liturgia. Non è certo pensabile che in tale occasione fosse stata scritta una messa a sei voci per Marcello II eseguita a Pasqua, cioè due giorni dopo (Adami, 1711, p. 171); ma possiamo riconoscere in quest’evento lo spunto iniziale di un percorso che cominciò poi alcuni anni dopo e continuò per tutta la vita del compositore. In questo stesso anno Pierluigi, fregiandosi del titolo di «cantore nella Capella di Nostro Signore», pubblicò per l’editore Dorico (lo stesso del libro di messe) la prima raccolta di madrigali a quattro voci, la cui fortuna è comprovata da almeno otto altre edizioni fino al 1605 (due di esse, pubblicate da Claudio Merulo nel 1568 e nel 1574, riportano ancora la suddetta qualifica). Tra i madrigali merita una segnalazione la sestina composta su testo di Francesco Cristiani, tratta dalla collettanea Rime in vita e in morte di Livia Colonna; la nobildonna era stata uccisa l’anno precedente da Pompeo Colonna, condannato a morte da Giulio III e poi militante nelle schiere contrarie a Paolo IV.
Il 23 maggio 1555 venne eletto papa il cardinal Gian Pietro Carafa, Paolo IV. Uomo duro e intransigente, mise subito mano a quel piano di rigorosa riforma che era negli intendimenti di Marcello II, a cominciare dalle istituzioni interne. Chiese così le costituzioni dei cantori (forse su sollecitazioni interne) e ricordò che, secondo la bolla di Leone X, potevano far parte della cappella soltanto sacerdoti; di conseguenza il 30 luglio, con un motu proprio papale, Pierluigi venne espulso dalla cappella insieme a Ferrabosco e Leonardo Barré perché sposati nonché «propter imbecilitatem vocis» (Sherr, 1994, pp. 624 s.). I tre avrebbero comunque percepito vita natural durante la paga mensile di 6 scudi (secondo le costituzioni, la nomina a cantore era «ad vitam»).
Costretto ad abbandonare la cappella papale, non potendo tornare in S. Pietro (dove c’era ancora Animuccia), il 25 settembre Pierluigi chiese al Collegio dei cantori pontifici licenza di assumere l’incarico di maestro di cappella in S. Giovanni in Laterano, già retta da figure come Mallapert (1548-49) e il giovane Orlando di Lasso (1553-54). Anche in questo caso il titolo di magister capellae venne creato apposta per il prenestino, che fu sollevato dall’incarico di istruire i fanciulli. La paga, di 6 scudi mensili (equivalente a quella di Animuccia a S. Pietro e a quella dei cantori papali), era integrata dalla pensione riconosciuta da Paolo IV; a tali introiti dovevano inoltre sommarsi le rendite provenienti da possedimenti in Palestrina e dall’eredità del padre, deceduto quasi certamente nel 1559, comprendente anche terreni e vigneti. Nel 1559 nacque il terzo figlio, chiamato Igino.
In questi anni Pierluigi continuò a pubblicare madrigali, inseriti in collettanee sul cui frontespizio è spesso segnalato il suo nome; è il caso del Secondo libro de madregali a quatro voci di Cipriano de Rore «con una canzon di Giannetto sopra di Pace non trovo con quatordeci stanze» (Venezia, A. Gardano, 1557) e del Secondo libro delle Muse a quattro voci: madrigali ariosi, curato ed edito da Antonio Barré a Roma nel 1558, con «doe canzoni di Giannetto». Altri figurano nel Secondo libro de le Muse a cinque voci (Venezia, A. Gardano, 1559) e nel primo libro di madrigali a cinque voci di Alessandro Striggio (Venezia, due edizioni simultanee di A. Gardano e G. Scotto, 1560).
Tra queste notevoli composizioni si segnala in particolare il ciclo Da fuoco così bel nasce il mio ardore, artificiosamente intessuto dalla senese Virginia Martini de’ Salvi sui quattordici versi del sonetto petrarchesco Pace non trovo, e non ho da far guerra, distribuiti in coda ad altrettante ottave; in esso si rielabora una composizione a quattro voci su quel medesimo sonetto attribuita a un non meglio identificato «Ivo» nel quarto libro di madrigali di Arcadelt del 1539 (Haar, 1966, p. 244).
Nel luglio 1560, approfittando dell’assenza del prefetto Attilio Ceci, favorevole a Pierluigi, i canonici lateranensi decisero di limitare le spese per la cappella musicale, vietando di accrescere le cifre già stabilite per il maestro di cappella e l’istruzione dei fanciulli, e dando ai canonici facoltà di ammettere o licenziare cantori senza sentire il parere del maestro. A queste condizioni, all’inizio di agosto Pierluigi se ne andò con il figlio (probabilmente Rodolfo), seguito il mese successivo dallo stesso Ceci.
Il 1° marzo 1561, dopo alcuni mesi trascorsi senza incarichi professionali, venne eletto maestro di cappella in S. Maria Maggiore per 16 scudi al mese (cifra comprendente anche le spese per l’istruzione e il mantenimento di tre-quattro pueri). In questi anni Pierluigi, mettendo evidentemente a frutto i contatti intessuti fino a quel momento, ebbe un ruolo importante nella discussione sulla musica in seno alla liturgia, divenuto urgente poiché Pio IV, il milanese Giovan Angelo Medici (subentrato a Paolo IV a fine 1559), aveva deciso di riprendere e chiudere rapidamente i lavori conciliari a Trento. Tra dicembre 1561 e gennaio 1562 vi furono scambi di composizioni tra la corte bavarese di Alberto V e una delegazione romana composta dai cardinali Otto Truchsess von Waldburg, Vitellozzo Vitelli e Carlo Borromeo, che continuarono anche dopo il dibattito tridentino avvenuto il 17 settembre 1562 durante la sessione XXII (chiusasi senza alcuna decisione in materia). Il 3 novembre venne inviata da Roma a Monaco «una messa appena composta dal maestro di cappella di S. Maria Maggiore», quasi certamente la messa Benedicta es coelorum regina a sei voci (cod. 46 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco). Poco dopo Pierluigi pubblicò il primo libro di mottetti a quattro voci, con il privilegio di stampa sottoscritto dal tesoriere pontificio cardinal Guido Ascanio Sforza (cui viene tradizionalmente attribuita la fondazione della cappella di S. Maria Maggiore, risalente al 1545).
In quest’opera fortunatissima – almeno dieci edizioni tra il 1563-64 e il 1622 (Filippi, 2003, pp. 3 s.) – il compositore metteva in pratica la sua idea di musica per la liturgia: il volume è ordinato secondo le principali solennità del Temporale e del Santorale (proprio e comune), i testi sono quasi tutti tratti dal Breviario e dal Messale, e nella dedica al cardinale Rodolfo Pio (il «patrone» già nominato nei madrigali del 1555) si addita la bellezza sonora insita nell’arte polifonica come mezzo ideale per lo svolgimento (e la comprensione) del rito sacro.
Andrà collocata in questi stessi anni la composizione della sua messa più famosa fin dai primi anni del Seicento, ovvero la Missa Papae Marcelli, copiata intorno al 1564 nel codice 22 del fondo Cappella Sistina (Biblioteca apostolica Vaticana), che contiene anche la menzionata Missa Benedicta es (senza intitolazione) e la Missa Illumina oculos meos, pure a 6 voci (Brauner, 1982). Forse tali composizioni vennero eseguite il 28 aprile 1565 nella residenza del cardinale Vitellozzi dai cantori pontifici, ivi convocati «ad decantandas aliquot missas et probandum si verba intelligerentur prout Reverendissimis placet».
La messa, poi edita nel 1567 nel II libro di messe (dedicato a Filippo II re di Spagna), ambiva a presentarsi come adempimento di un preciso volere del papa circa l’intelligibilità del testo soprattutto nelle due sezioni fondamentali sotto il profilo dottrinale, Gloria e Credo, senza rinunciare alle risorse della polifonia, ma sfruttando all’occorrenza quelle della composizione bicorale; donde il genitivo nel titolo: messa secondo il volere ‘di’ papa Marcello, non dedicata ‘a’ papa Marcello.
Non sappiamo dove fosse a quell’epoca Pierluigi. L’ultimo documento della sua presenza in S. Maria Maggiore è un atto notarile del 20 gennaio 1565, mentre il nuovo incarico di maestro di cappella nel Seminario Romano è documentato dall’aprile 1566, data di ingresso dei figli Rodolfo e Angelo. Questa nuova istituzione, situata nel palazzo donato dal cardinal Rodolfo Pio (morto il 2 maggio 1564), iniziò l’attività nel febbraio 1565: si potrebbe forse supporre un immediato passaggio al Seminario all’inizio di quell’anno. Il maestro doveva dare lezioni di canto fermo e figurato e far cantare tutte le domeniche e nelle festività importanti. La paga mensile, di 5 scudi, era inferiore a quella percepita in S. Maria Maggiore, ma i due figli maggiori, mantenuti in Seminario, non erano più a carico; vi si aggiungeva la pensione di cantore pontificio, a quanto pare spesso arrotondata a 9 scudi per le composizioni donate alla Cappella pontificia, più le mance annuali. Pare che Pierluigi prendesse casa in via dei Giubbonari, a Campo de’ Fiori, dapprima come affittuario e dal 1570 come proprietario.
A partire dal 1567 resse anche la numerosa cappella privata del cardinal Ippolito II d’Este, che aveva già diretto tra luglio e settembre 1564. Andranno ricollegati a quest’attività i madrigali apparsi in varie collettanee; tra essi vi è il celeberrimo Vestiva i colli (versi di Ippolito Capilupi); edito a cura di Giulio Bonagiunta nel Desiderio: secondo libro de madrigali a cinque voci, ebbe enorme diffusione anche mediante le molte rielaborazioni vocali e strumentali a cui fu sottoposto. Saltuariamente il musicista collaborò con altre istituzioni: per la Settimana Santa 1567 si recò, per es., con alcuni cantori in S. Giovanni in Laterano, nel cui Capitolo era frattanto ritornato Attilio Ceci.
In questi anni Pierluigi cominciava a essere conosciuto fuori Roma anche come compositore di musica da chiesa. Morto il maestro della cappella imperiale Jacobus Vaet (8 gennaio 1567), il conte Prospero d’Arco, per incarico dell’imperatore Massimiliano II, prese contatti con alcuni compositori; a fine agosto furono avviate le trattative con Pierluigi, abbandonate tre mesi dopo per la cifra troppo alta richiesta (400 scudi d’oro). In tal modo il musicista, che non voleva lasciare Roma, ottenne un doppio risultato: non opporre un rifiuto diretto all’imperatore e dimostrare alle istituzioni romane la considerazione di cui godeva. Sempre nel 1567 Guglielmo Gonzaga duca di Mantova, tramite Annibale Cappello (al servizio di Ippolito d’Este), sentì parlare del musicista e, volendo commissionare una messa, mandò a Roma il suo maestro di cappella, Giaches de Wert, per illustrargli la liturgia in vigore nella basilica ducale di S. Barbara. Durato con qualche interruzione fino al 1587, il carteggio tra il duca e il musicista (conservato nell’Archivio di Stato di Mantova) contiene richieste di altre messe, ma anche pareri su lavori dello stesso duca, dilettante di musica, sottoposti alla valutazione del compositore (espressa nei modi e nei termini richiesti dal diverso status sociale, ma sempre direttamente, senza intermediari). Nella prima di queste lettere, datata 2 febbraio 1568, Pierluigi si firma semplicemente ‘il Palestrina’, toponimo con il quale già allora e fino ai giorni nostri viene comunemente chiamato.
Nel 1570 partecipò con alcuni cantori alla processione del Giovedì Santo organizzata dall’arciconfraternita del Ss. Crocefisso in S. Marcello (destinataria di un lascito testamentario della nonna Jacobella); si rinnovava così una collaborazione già documentata in anni precedenti (1552, 1555, 1558; Bianchi, 1995, pp. 40 s., 128). Nello stesso anno pubblicò il terzo libro di messe, dedicato anch’esso a Filippo II; vi trovò posto la Missa L’homme armé a cinque voci, composizione assai complessa che si rifaceva a una tradizione propria del repertorio papale (Haar, 1999).
Alla morte di Animuccia (25 marzo 1571) Pierluigi riprese la guida della Cappella Giulia con il salario di 8,33 scudi; abbandonò allora gli incarichi nel Seminario, sostituito dal fratello Silla, e presso Ippolito. Dovendo accogliere cinque fanciulli della cui educazione era responsabile e riprendere i due figli maggiori al termine degli studi in Seminario, Pierluigi si stabilì in una casa più grande in vicolo dell’Armellino (nella demolita Spina di Borgo); qui tenne per un certo tempo anche il giovane concittadino Giovanni Cesare Veccia, studente d’organo, forse imparentato con la madre. In vista di un possibile impiego professionale per i figli dedicò a Guglielmo Gonzaga il secondo libro di mottetti da cinque a otto voci (Venezia, G. Scotto, 1572), nel quale incluse anche composizioni di Rodolfo, di Angelo e del fratello Silla. Contemporaneamente, Paolo Odescalchi, vescovo di Atri e Penne, fungeva da intermediario con la corte mantovana per l’assunzione di Rodolfo, ma questi moriva all’improvviso il 20 ottobre dello stesso anno, seguito da Silla il 1° gennaio 1573 (entrambi sepolti nella Cappella Nova di S. Pietro). A questi lutti si era aggiunta la morte di Ippolito (2 dicembre 1572) e, più avanti, della cognata Violante de Goris (che lasciò la sorella erede di metà dei suoi beni). In questa temperie luttuosa, Pierluigi compose i celebri Improperia, eseguiti il Venerdì Santo 1573 (autografi; Roma, S. Giovanni in Laterano, archivio musicale, Rari, 59). Il 27 aprile, a Palestrina, Angelo sposò Doralice Uberti; andarono poi a vivere nella casa di Pierluigi. L’anno dopo ripresero i contatti con il duca Guglielmo che gli sottopose una sua messa. Nel 1575 pubblicò il terzo libro di mottetti da cinque a otto voci (Venezia, erede di G. Scotto, prima stampa italiana con composizioni a due cori divisi), dedicato ad Alfonso II d’Este, duca di Ferrara e fratello di Ippolito, e a lui inviato personalmente dall’autore, che però non ebbe mai risposta. Nello stesso anno la basilica di S. Maria Maggiore gli offrì nuovamente la direzione della Cappella Liberiana con la paga di 240 scudi annui; Pierluigi sfruttò la situazione per ottenere l’aumento dello stipendio da 100 a 180 scudi annui. A fine anno fu colpito da un altro evento luttuoso: il 12 dicembre Angelo fu sepolto nella Cappella Nova di S. Pietro, vittima di un’epidemia influenzale; lasciava la figlia Aurelia e la moglie incinta del secondo figlio, nato poi a Palestrina e chiamato Angelo. La vedova si risposò nel 1577 con un nobile romano, e i due figlioletti rimasero in custodia a Pierluigi.
Il 15 agosto 1576 Igino sposò Virginia Guarnacci; il matrimonio fu combinato abbastanza in fretta perché Pierluigi aveva bisogno della dote di Virginia per poter restituire alla vedova di Angelo la sua. Anche questa volta la novella coppia andò a vivere a casa del maestro; nel maggio 1577 nacque Settimia, deceduta il 12 agosto (sepolta anch’essa nella Cappella Nova). In questi anni difficili Pierluigi ricevette due importanti commissioni. Il 25 ottobre 1577, con breve pontificio di Gregorio XIII, ebbe l’incarico, diviso con Annibale Zoilo, di rivedere «Antiphonaria, Gradualia, Psalteria et alios quoscumque cantus quorum in ecclesiis est usu, iuxta ritum Sanctae Romanae ecclesiae» (Cametti, 1925, pp. 196-198).
I due si misero subito al lavoro, ma lo spagnolo Fernando de las Infantas avanzò pesanti dubbi circa la loro capacità e con l’appoggio di Filippo II, la cui forte pressione assunse connotazioni politiche, riuscì a far sospendere il progetto alla fine del 1578 (la revisione del Graduale era già terminata). Nel 1593 i tipografi Fulgenzio Valesio e Leonardo Parasoli chiesero a Pierluigi di concludere anche la revisione dell’Antifonario per 1000 scudi; con la sua morte il progetto passò nelle mani di Igino, ma la questione finì in tribunale e l’opera, confinata al Monte di Pietà, non venne mai stampata.
Nell’ottobre 1578 Guglielmo Gonzaga commissionò altre messe per la liturgia della basilica ducale mantovana; nel giro di pochi mesi (entro l’aprile 1579) il maestro compose almeno dieci messe alternatim con i canti fermi barbarini, rimaste manoscritte e individuate da Knud Jeppesen nel 1954 nella biblioteca del Conservatorio di Milano.
Ancora in questo periodo il Palestrina collaborò con l’arciconfraternita della Ss. Trinità dei Pellegrini, facoltosa istituzione sorta nel 1550 intorno a san Filippo Neri. Pierluigi fu incaricato delle musiche per la Quaresima e la Settimana Santa del 1576; ebbe 88 scudi cumulativi per le due occasioni e 15 per il Giovedì Santo. Per un secondo incarico nella Quaresima e Settimana Santa 1578 avrebbe percepito la cospicua somma di 139 scudi e 75 baiocchi, comprendente anche l’esecuzione di sue Lamentazioni nell’oratorio dell’arciconfraternita (cfr. O’Regan, 1991). Il mese successivo (aprile 1578) partecipò come responsabile della «musica», ovvero della polifonia, a un pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto organizzato dalla Ss. Trinità.
Nel 1580 nacque il terzogenito di Igino, Gregorio, battezzato il 16 giugno (il secondo figlio, Tommaso, era nato due anni prima); ma l’epidemia influenzale che colpì Roma in estate uccise la moglie del maestro, Lucrezia, sepolta nella Cappella Nova il 23 agosto. Il 13 novembre il vedovo ottenne da Gregorio XIII di ricevere gli ordini clericali ed essere poi consacrato sacerdote, e il 7 dicembre ebbe la prima tonsura in S. Silvestro al Quirinale. Nel gennaio 1581 pubblicò a Venezia da Angelo Gardano un volume di madrigali spirituali a cinque voci contenente la petrarchesca canzone alla Vergine e altri due cicli dedicati allo Spirito Santo e a Gesù, su testi di Lorenzo Giustinian; la dedica esprimeva gratitudine a Giacomo Boncompagni, duca di Sora e figlio naturale del papa.
Le motivazioni personali che lo spingevano al sacerdozio saranno state sì profonde, ma non andranno escluse altre considerazioni: avrebbe potuto godere di benefici ecclesiastici (già nel gennaio 1581 ne ebbe uno) e aspirare al ritorno nella Cappella pontificia. Sennonché il 28 marzo sposò Virginia Dormoli, ricca vedova del pellicciaio pontificio Giuliano Guerrazzi, con la quale entrò in società nel commercio delle pellicce. Con il nuovo matrimonio Pierluigi, la cui vita era già economicamente agiata (la paga di maestro di cappella, la pensione di cantore papale, le rendite dei possedimenti in Palestrina continuamente incrementati da nuovi acquisti, gli emolumenti e le mance extra), veniva a godere di ulteriori cospicue entrate. Anche il 1581 recò le sue pene: tra giugno e ottobre morirono i nipoti Gregorio, figlio di Igino, e Angelo e Aurelia, figli del defunto Angelo, tutti sepolti nella Cappella Nova; e la stessa Virginia Dormoli si salvò per miracolo (aveva già fatto testamento). Dal 1582 la situazione migliorò: il Palestrina riprese a pubblicare a ritmi regolari (almeno un libro di musica da chiesa quasi tutti gli anni che gli rimanevano da vivere); ed è impressionante osservare la progressione cronologica dei libri, volti a offrire un repertorio pressoché completo per le solennità dell’anno liturgico e pubblicati per generi: tre libri di mottetti tra il 1583 e il 1584, tra cui il celebre Liber quartus ex Canticis canticorum, le Lamentazioni (2 libri, 1588-89), gli inni (1589), i Magnificat (1591), le Litanie mariane (due libri, 1593), tutte raccolte per l’ufficio, e infine gli Offertori (due libri, 1593) per la messa. In parallelo continuava la serie dei libri di messe polifoniche da quattro a sei voci (IV, 1582; V, 1590; VI e VII, 1594), cui ne va aggiunto uno, segnalato nel catalogo dell’editore Scotto del 1596, di messe a quattro e a otto voci, noto soltanto in una riedizione parziale del 1601 (solo quelle a due cori). Nel contempo le collettanee madrigalistiche continuavano a pubblicare sue composizioni profane (madrigali e canzonette a tre e quattro voci), e alcune canzonette spirituali su testi laudistici. In questi anni madrigali, mottetti e qualche messa compaiono anche in sillogi transalpine nonché in intavolature per liuto e per tastiera.
Nel 1583 Guglielmo Gonzaga voleva sostituire il maestro di cappella Francesco Soriano; scartati Annibale Zoilo e Luca Marenzio (quest’ultimo per via di un giudizio non particolarmente elogiativo del Palestrina, che avrebbe voluto lasciare a Mantova Soriano, già suo allievo), il duca avviò le trattative per arruolare lo stesso compositore, il quale usò la stessa tattica esosa adottata con Massimiliano II. Guglielmo lasciò perdere e si tenne Soriano ancora per un po’. L’ultima lettera inviata al duca con alcuni «pochi canti» tramite il cantore pontificio (e suo inquilino) Stefano Ugeri è del 6 luglio 1587 (Iconografia palestriniana, 1994, p. 258); Guglielmo morì poco più di un mese dopo, e i contatti con Mantova cessarono.
Il Palestrina fu tra i promotori della «Confraternita dei musici di Roma» posta sotto la protezione della Vergine e dei ss. Gregorio e Cecilia, di cui nel giugno 1584 fu proposta l’istituzione; a onta dell’opposizione del Collegio dei cantori pontifici, il nuovo sodalizio mutualistico, denominato Compagnia dei musici di Roma, fu approvato con un breve di Gregorio XIII (1° marzo 1585) e poi con la bolla Rationi congruit del 1° maggio emanata dal successore, Sisto V.
Secondo Giuseppe Baini, il biografo ottocentesco del Palestrina (1828, II, pp. 160 s.), il nuovo pontefice non avrebbe apprezzato la messa Tu es Pastor ovium composta per l’assunzione al soglio, mentre avrebbe gradito la messa Assumpta est Maria in coelum, cantata per l’Assunzione. Sempre Baini (ibid., pp. 166-173) riferisce in forma aneddotica alcuni contrasti che nel 1585, in seno al Collegio dei cantori pontifici, avrebbero indirettamente interessato il Palestrina in vista di un suo possibile ritorno. Di sicuro egli scontò poi gli effetti della bolla con cui il 1° settembre 1586 Sisto V stabiliva che i cantori, ridotti da 24 a 21, dovevano scegliere tra gli anziani del Collegio un maestro pro tempore responsabile del buon funzionamento del coro; Pierluigi dovette abbandonare ogni speranza di rientro e perse la pensione, reintegrata poi da Gregorio XIV (con la bolla Cum nos nuper del 1° ottobre 1591, con effetto retroattivo dal 1° gennaio). Al nuovo papa, che regnò fino a metà ottobre, fece in tempo a dedicare i Magnificat negli otto toni, evidentemente già pronti per la stampa (Roma, Alessandro Gardano; Venezia, Angelo Gardano); alla Cappella pontificia consegnò vari mottetti, tra cui il celebre Stabat Mater a otto voci.
Il 10 settembre 1586 partecipò con i cantori della Cappella Giulia alla solenne cerimonia per l’erezione e la benedizione dell’obelisco al centro di piazza S. Pietro. Nello stesso anno uscì il secondo libro di madrigali a quattro voci dedicati a Giulio Cesare Colonna principe di Palestrina.
In questo, consapevolmente, Pierluigi usa uno stile assai diverso e privo «di quei requisiti determinanti e prioritari che in quel momento connotano il madrigale» (Luisi, intr. a Edizione nazionale, 2005, pp. XXVI s.). Di conseguenza, il libro non ebbe alcuna riedizione, mentre solo un ridottissimo numero di singole composizioni venne incluso in alcuni florilegi, tra i quali si segnala la londinese Musica transalpina del 1588 (con traduzione inglese dei testi).
Nel 1590 la Cappella Giulia venne incaricata dalla Confraternita del Gonfalone di cantare alla processione del Giovedì Santo, e il Palestrina si trovò a collaborare ancora una volta con una delle più importanti (e ricche) confraternite cittadine (cfr. O’Regan, 1994).
Il 15 settembre 1592 Giovanni Matteo Asola, che aveva coordinato un gruppo di autori settentrionali, tutti religiosi, firmò la dedica di una Sacra omnium solemnitatum psalmodia indirizzata «ad celeberrimum et praestantissimum in Arte Musica Coryphaeum D. Io: Petrum Aloysium Praenestinum»; a quanto pare, il musicista li ringraziò con il mottetto a due cori Vos amici mei estis, edito nel florilegio di salmi, Magnificat e altra musica da chiesa curato dal cantore papale Giovanni Luca Conforti (Roma, Coattino, 1592). Il 1° ottobre Lodovico Zacconi, allora musico nella cappella bavarese ancora guidata da Orlando di Lasso, firmava la dedica della prima parte della sua Prattica di musica, specificando nel lungo e articolato titolo che nel trattato «Si dichiara tutta la messa del Palestina titolo Lomè Armè»; in questa summa della teoria e pratica musicale del secolo XVI figura infatti una risoluzione sufficientemente completa della già menzionata Missa L’homme armé. I due eventi possono essere visti come segno della definitiva consacrazione di Pierluigi come autore di musica sacra, e nello stesso tempo come avvio del mito palestriniano.
Nei primi mesi del 1593 il Palestrina decise improvvisamente e incomprensibilmente di abbandonare Roma e ritornare in patria per fare l’organista in S. Agapito al posto del defunto Giovanni Cesare Veccia; il titolo, però, era già stato ‘comprato’ dalla famiglia Veccia per il figlio Rodolfo, allora solo dodicenne, a favore del quale intervenne lo stesso vescovo di Palestrina, il cardinale Marc’Antonio Colonna. Poco dopo, forse in relazione a questo evento, vi fu un ulteriore aumento dello stipendio di Pierluigi quale cantore papale; dal 28 luglio il pagamento dovuto «D. Io: de Palestrina, compositori musicae» venne equiparato a quello dei componenti effettivi, e il compositore partecipò delle mance elargite agli stessi.
Come ultimo, ma intenso sforzo editoriale, ad agosto firmò i due libri di Offertori a cinque voci, in ottobre (probabilmente) uscirono i due libri di Litanie, il 1° dicembre dedicò al cardinale Pietro Aldobrandini il sesto libro di Messe (che sarebbe uscito di lì a poco). Il 2 settembre era nato l’ottavogenito di Igino e Virginia, Francesco, ultimo dei nipoti che il compositore poté vedere. Al 18 novembre, giorno della dedicazione di S. Pietro, risale l’ultimo avvenimento pubblico che vide la partecipazione del Palestrina, ovvero la collocazione della croce in bronzo in cima alla cupola della basilica.
Al 1° gennaio 1594 è datata la lettera dedicatoria a Cristina di Lorena granduchessa di Toscana dell’ultimo libro pubblicato in vita, il meraviglioso secondo libro dei madrigali spirituali a cinque voci che intona il «priego alla B. Vergine» (come lo definisce lo stesso Palestrina nella dedica), ovvero un unico poema in trenta ottave, distribuito in altrettanti madrigali, composto dal canonico ascolano Antonio Migliori e dato alle stampe appena l’anno prima a Roma per i tipi di Guglielmo Facciotti (l’accertamento della fonte poetica si deve a Paolo Cecchi): la commovente preghiera a Maria chiude la serie dei suoi libri.
Ammalatosi a gennaio, Pierluigi si spense la mattina del 2 febbraio, festa della Purificazione. La sera il feretro venne portato in S. Pietro «accompagnato non solo da tutti i musici di Roma, ma anco da una moltitudine de populo», come registra Ippolito Gambocci nel Diario sistino di quel giorno stesso (Iconografia palestriniana, 1994, p. 306); lì i cantori papali, secondo le loro costituzioni, cantarono il responsorio Libera me, Domine. Il Palestrina venne sepolto nella Cappella Nova di S. Pietro. Secondo una testimonianza tardiva, «in una lama di piombo furono intagliate queste parole Ioannes Petrus Aloysius Praenestinus Musicae Princeps» (Torrigio, 1635, p. 166): vero o no, è forse il simbolo più eloquente di ciò che Pierluigi era già diventato. A una settimana dalla morte, il 9 febbraio, Clemente VIII chiese notizie dei suoi manoscritti in vista di un’edizione completa di tutte le opere (edite e inedite), ma la cosa si fermò al VII libro di messe, curato da Igino e dedicato allo stesso pontefice. Fallita l’iniziativa romana, Igino si rivolse a editori veneziani, che nel giro di soli tre anni, dal 1599 al 1601, pubblicarono altri sei libri di messe, dall’ottavo al dodicesimo, oltre la già ricordata riedizione delle messe a otto voci. Molte composizioni rimasero comunque manoscritte negli archivi romani, alcune gravate da problemi di attribuzione tuttora aperti.
A pochi anni dalla morte il Palestrina assurse a simbolo di vari ‘miti’ che ne caratterizzarono la fortuna nei secoli a venire. In primo luogo nacque la leggenda della Missa Papae Marcelli come composizione che avrebbe salvato l’uso della polifonia nelle celebrazioni liturgiche. Agostino Agazzari è il primo a parlarne (1607), anche se in termini piuttosto generici, come se riportasse tradizioni orali raccolte negli ambienti romani (dal 1602 al 1606 era stato a Roma come maestro di cappella nel Collegio Romano), sorte verosimilmente in seguito all’audizione del 1565. Due anni dopo Adriano Banchieri la associava direttamente a papa Marcello II; più avanti venne collegata alle audizioni tridentine del 1562 (anche se Orazio Tigrini, nel 1588, parlando dei rischi corsi dalla polifonia a Trento, si era guardato bene dal menzionare il compositore).
Il Palestrina divenne poi l’emblema di una prassi didattica, quella del contrappunto rigoroso, riconducibile a una ‘scuola’ storicamente e geograficamente determinata, la cui ‘purezza’ e perfezione venne proposta come modello esemplare. E anche nei secoli successivi lo stile osservato, nella classificazione seicentesca degli stili denominato ‘antico’, venne ricondotto, il più delle volte solo idealmente, al suo magistero, tanto che fu poi sempre più spesso indicato come ‘stile alla Palestrina’ a partire già dal secolo XVII (per es., da Marco Scacchi, Breve discorso sopra la moderna musica, Varsavia, 1649, c. [8]v, o da Giovanni Maria Bononcini, Musico Prattico, Bologna, 1673, p. 120).
Una conseguenza macroscopica di tale idealizzazione è consistita nel creare un’immagine spesso monolitica del Palestrina, concentrata sulla produzione liturgica a scapito della sua attività di madrigalista e di artista pienamente radicato nel proprio tempo. Nell’ambito della musica sacra, poi, la visione di uno stile perfetto, levigato, quasi atemporale ha a lungo oscurato le diverse trasformazioni del suo stile, nonché l’importanza che ha progressivamente assunto la scrittura verticale, a blocchi armonici, manifesta nella composizione a due cori ma anche in quella a coro singolo (cfr. Phillips, 1994). Solo a partire dagli anni Settanta del Novecento è invalso un atteggiamento critico più articolato, stimolato anche dai convegni promossi a Palestrina (una rassegna degli studi maggiori è in Cavallini, 1995). Sono stati fatti molti passi avanti nella direzione di un riesame globale del maestro; ma per via delle molte incrostazioni sedimentatesi in passato il percorso da compiere è ancora lungo.
Opere. Per il catalogo completo delle opere cfr. The new Grove dictionary, London-New York 2001, pp. 948-955; Marvin, 2002, pp. 13-69; Della Sciucca, 2009, pp. 339-362. Vi sono due edizioni complete delle opere: Iohannis Petraloysii Praenestini Opera Omnia - Pierluigi da Palestrina’s Werke, I-XXXIII, a cura di Th. de Witt (1-3), F. Espagne (4-8), F. Commer (9), F.X. Haberl (10-33), Leipzig 1862-1907; Le opere complete di Giovanni Pierluigi da Palestrina, I-XXXV, a cura di R. Casimiri (1-14), L. Virgili (16-17), K. Jeppesen (18-19), L. Bianchi (20-34), G. Rostirolla (35), Roma 1939-99. È in corso l’Edizione nazionale delle opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina, a cura di F. Luisi et al. (sono finora usciti: Missarum liber primus, Roma 2002; Il secondo libro de’ madrigali a quattro voci, Roma 2005; Motecta festorum totius anni, Roma 2008; Missarum liber secundus, 2011; Mottetti policorali, Roma 2013). Per l’Edizione anastatica delle fonti palestriniane, a cura di L. Bianchi et al., sono finora usciti: Missarum liber primus, Palestrina 1975; Il primo libro dei madrigali a quattro voci, Palestrina 1989; Il codice 59 dell’Archivio Musicale della Basilica di San Giovanni in Laterano. Autografo di Giovanni Pierluigi da Palestrina, Palestrina 1996.
Fonti e Bibl.: Un’ampia scelta di materiale documentario archivistico, librario e iconografico offre Iconografia palestriniana. G.P. da Palestrina, a cura di L. Bianchi - G. Rostirolla, Lucca 1994. Rassegna parziale, ma ragionata in I. Cavallini, Non solum princeps sed principis memoria. Vent’anni di studi su G.P. da Palestrina, in Acta Musicologica, LXVII (1995), pp. 1-19. Bibliografie pressoché complete: G. Rostirolla, Bibliografia degli scritti su G.P. da Palestrina (1568-1996), Palestrina 1997; C. Marvin, G.P. da Palestrina. A Guide to Research, New York-London 2002, pp. 253-382 (nuova ed. in preparazione); di seguito si indicano le monografie e i saggi principali, i contributi citati nel testo e alcuni importanti lavori specifici apparsi dopo il 2001.
A. Agazzari, Del sonare sopra ’l basso con tutti li stromenti, Siena 1607, p. 11; A. Banchieri, Conclusioni nel suono dell’organo, Bologna 1609, p. 19; F.M. Torrigio, Le sacre grotte vaticane, Roma 1635, p. 166; A. Adami, Osservazioni per ben regolare il coro de i cantori della Cappella Pontificia, Roma 1711, passim; G.O. Pitoni, Notitia de’ contrapuntisti e compositori di musica [1713], a cura di C. Ruini, Firenze 1988, pp. 127-132; G. Baini, Memorie storico-critiche della vita e delle opere di G. P. da Palestrina, I-II, Roma 1828; F.-J. Fétis, Biographie universelle des musiciens, VII, Bruxelles 18672, pp. 428-436; R. Eitner, Quellen-Lexikon der Musiker, VII, Leipzig 1902, pp. 295-299; R. Casimiri, G. P. da Palestrina: nuovi documenti biografici, Roma 1918-22; Id., Il Codice 59 dell’Archivio musicale Lateranense autografo di G. P. da Palestrina, Roma 1919; Id., Memorie musicali prenestine del secolo XVI, in Note d’Archivio, I (1924), pp. 43-47; A. Cametti, Palestrina, Milano 1925; R. Casimiri, I diari sistini. I primi 25 anni (1535-1559), Roma 1939, pp. 301-314; K. Jeppe-sen, The style of Palestrina and the dissonance, Oxford 19462; Id., The recently discovered Mantova masses of Palestrina, in Acta Musicologica, XXII (1950), pp. 36-47, con supplemento in XXV (1953), pp. 132-179; Die Musik in Geschichte und Gegenwart, X, Kassel 1960, coll. 658-706; J. Haar, «Pace non trovo». A study in literary and musical parody, in Musica Disciplina, XX (1966), pp. 144-147 (trad. it. in Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Bologna 1988, pp. 244-247); L. Bianchi - K. G. Fellerer, G. P. da Palestrina, Torino 1971; J. Roche, Palestrina, London 1971; M.P. Brauner, The Parvus manuscripts: a study of Vatican polyphony, ca. 1535 to 1580, diss., Brandeis University 1982, p. 209; Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti. Le biografie, V, Torino 1988, pp. 525-552; N. O’Regan, Palestrina and the Oratory of Santissima Trinità dei Pellegrini, in Atti del 2. convegno internazionale di studi palestriniani, a cura di L. Bianchi - G. Rostirolla, Palestrina 1991, pp. 111-113; E. Simi Bonini, Minima archivalia: G. P. da Palestrina tra la cappella di S. Giovanni in Laterano e la cappella di S. Maria Maggiore, pp. 63-79; M. Heinemann, G. P. da Palestrina und seine Zeit, Laaber 1994; N. O’Regan, Palestrina, a musician and composer in the market-place, in Early Music, XXII (1994), pp. 553, 558; P. Phillips, Reconsidering Palestrina, ibid., pp. 574-585; R. Sherr, Competence and incompetence in the papal choir in the age of Palestrina, ibid., pp. 606-629; L. Bianchi, G. P. da Palestrina nella vita, nelle opere, nel suo tempo, Palestrina 1995; N. O’Regan, Institutional patronage in post-Tridentine Rome: music at SS. Trinità dei Pellegrini 1559-1650, London 1995, ad ind.; J. Haar, Palestrina «historicus»: le due messe «L’homme armé», in La recezione di Palestrina in Europa fino all’Ottocento, a cura di R. Tibaldi, Lucca 1999, pp. 3-21; M. Janitzek [Falletta], Studien zur Editionsgeschichte der Palestrina-Werke vom späten 18. Jahrhundert bis um 1900, Tutzing 2000; R. Schlötterer, Palestrina compositore, Palestrina 2001; The new Grove dictionary of music and musicians, XVIII, London-New York 2001, pp. 937-957; J. Garratt, Palestrina and the German romantic imagination: interpreting historicism in nineteenth-century music, Cambridge 2002; D. Filippi, introduzione a G. Pierluigi da Pale-strina, Motecta festorum totius anni cum communi sanctorum quaternis vocibus, ed. critica, Pisa 2003; W. Witzenmann, Palestrina: lo stile personale in divenire, in «Et facciam dolçi canti». Studi in onore di Agostino Ziino, a cura di B.M. Antolini - T.M. Gialdroni - A. Pugliese, Lucca 2003, pp. 534-554; Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Personenteil, XIII, Kassel 2005, coll. 7-46; Palestrina e l’Europa. Atti del III convegno internazionale di studi, a cura di G. Rostirolla - S. Soldati - E. Zomparelli, Palestrina 2006; V.M. Franke, Palestrina’s imitation masses: a study of compositional procedures, Palestrina 2007; J. Japs, Die Madrigale von G. P. da Palestrina: Genese - Analyse - Rezeption, Augsburg 2008; M. Della Sciucca, G. P. da Palestrina, Palermo 2009; Musica tra storia e filologia: studi in onore di Lino Bianchi, a cura di F. Nardacci, Roma 2010 (in partic. i contributi di J. Herczog, N. O’Regan, R. Tibaldi); M. Di Pasquale, Inventing Palestrina: ideological and historiographical approaches in nineteenth-century Italy, in Schweizer Jahrbuch für Musikwissenschaft, n. s., XXX (2010), pp. 223-266.